Ossequi
a voi, cari lettori! Io sono Ethan, e come mi piace
dire, sono uno scrittore a tempo perso e un perditempo a tempo pieno.
Sono un
fan di Bones fin da quando ero un piccolo, sadico bambino, ma
recentemente ho
ricominciato a guardarla con l’obiettivo di vederla tutta, e
come era
prevedibile il mio eterno amore per Hodgins e Angela si è
riacceso all’istante.
Una volta arrivato alla fatidica stagione 11, fra il mio stupore e la
comprensibile depressione del povero Jack non ho potuto fare a meno di
pensare
a questa scena, che mi sembra anche molto coerente con i suoi problemi di gestione della rabbia.
Avverto
chi non è ancora arrivato a scoprire il motivo
del tracollo emotivo del nostro amico (11x10) di non proseguire con la
lettura,
e ci tengo anche a precisare che c’è anche uno spoiler
enorme su Lance
Sweets (10x01). Se lo sapete lo sapete, altrimenti fermatevi
qui, io vi ho
avvertiti.
Inoltre,
dato che Hodgins è un chimico e io chiaramente no,
tutti i bellissimi termini scientifici che ho inserito provengono quasi
esclusivamente da Google e dalle poche conoscenze che ancora conservo
dal
liceo, perciò se ci sono dei chimici all’ascolto
vi chiedo umilmente scusa, non
me ne vogliate. Per il resto questa è una storia molto
triste e probabilmente
un possibile trigger emotivo per chi ha problemi di
autolesionismo. Ovviamente
questa è solo la mia visione di scrittore, non sono
assolutamente un
professionista, perciò consideratela solo come
ciò che è: una storia di
fantasia.
Detto
questo, buona lettura e ci rivediamo alla prossima!
-Ethan
The
scientist in the shower.
L’acqua
calda gli scorreva addosso, scendendo scrosciante
dal soffione della doccia e appannando il vetro, la finestra e lo
specchio.
Jack Hodgins la sentiva picchiettargli addosso, avvertiva il rumore e
il calore
e il vapore nell’aria pregna d’umidità
che respirava, ed era perfettamente
conscio del microscopico strato di calcare e sali minerali che si
stavano
depositando su tutte le superfici fredde della stanza, sulle quali quel
vapore
poteva ricondensare. Sentiva la pressione dello smalto inorganico
vetroso sulla
superficie delle mattonelle, lisce e calde contro la schiena, e il
fastidio dei
suoi riccioli fradici appiccicati alla fronte.
Jack
sentiva tutto sulla parte superiore del suo corpo, ma
passato l’osso sacro tutte le sensazioni scomparivano nel
nulla.
Osservò
con odio e frustrazione la sedia a rotelle
abbandonata davanti all’entrata della doccia e le sue gambe,
appoggiate inerti
in una strana posizione contorta, ridicolmente magre per
l’atrofia muscolare
dovuta alla paralisi. Di solito Angela lo aiutava, quando voleva
lavarsi.
Faceva la doccia con lui oppure lo aiutava a sedersi sul gradino di
muratura e
a tornare sulla sedia a rotelle una volta finito.
Jack
ancora non aveva capito come riuscire a farlo da solo:
riusciva a spostarsi dalla sedia al gradino, ma poi aveva comunque
bisogno di
Angela per mettere la sedia fuori dalla doccia. Non essere
più autosufficiente
era forse la cosa che più lo faceva infuriare. Il fatto poi
che la sua mente
brillante, tanto acculturata e ingegnosa quando si trattava di
escogitare esperimenti
in laboratorio, non riusciva nemmeno a concepire un modo per
permettergli di
lavarsi senza aver bisogno di aiuto non faceva che aumentare il suo
astio verso
sé stesso e la sua condizione.
Ma
questa volta, seduto a terra, in diagonale sul pavimento
della doccia e con il suo rasoio a mano libera stretto fra le dita
della mano
sinistra, così forte da farsi sbiancare le nocche, aveva
fatto tutto da solo.
Ne andava quasi orgoglioso, in un qualche strano e sadico modo. Si
lasciò
persino scappare uno sbuffo divertito mentre si immaginava a dirlo ad
Angela. “Sai Angie, sono entrato
nella doccia da
solo oggi. Non ti ho chiesto aiuto perché pensavo di
tagliarmi i polsi, ma hey,
è sempre un progresso no?”
Scosse
la testa. Era riuscito a fare qualcosa da solo, ma
non poteva dirlo ad Angela. Era come se l’universo gli
ridesse in faccia,
sbeffeggiandolo.
Allentò
un po’ la presa sul rasoio, e i suoi polpastrelli lo
ringraziarono. Osservò lo strumento, con la sua solita
immortale curiosità e
con la scrupolosità che la carriera di scienziato gli aveva
impartito. Il
manico di ebano era sigillato e lucidato così bene che il
legno nero non
cambiava minimamente colore da bagnato, e la lama di acciaio di Damasco
era
eternamente segnata dalle striature del processo di ripiegatura del
metallo,
caratteristico della forgiatura giapponese. La sua mente
formulò all’istante
un’immagine incredibilmente precisa del profilo
spettroscopico che avrebbe
ottenuto se avesse effettuato una spettroscopia di massa su
quell’acciaio, di
tutti i dati che avrebbe ricavato analizzandolo se quella lama affilata
fosse
stata l’arma di uno dei loro soliti machiavellici delitti.
Aveva
acquistato quel rasoio per una cifra ridicola da un
vecchio artigiano di katane di una cittadina poco a nord di Nagoya,
quando da
ragazzo, subito dopo il college, era andato in Giappone coi suoi amici.
Ricordava ancora le loro facce esterrefatte quando, col suo solito
sorriso
sornione, dopo quasi tre ore di trattative aveva consegnato a quel
vecchio
maestro con la barbetta da capra una busta ingiallita gonfia di Yen
fino a
scoppiare in cambio di una misera scatoletta di ottone e mogano
laccato. Trovò
ironico che un oggetto con una storia così curiosa,
così famoso nella sua
compagnia di amici, alla fine lo avrebbe ucciso. Chissà
dov’era finito
quell’artigiano, o se era ancora vivo. Chissà se
avrebbe mai saputo di aver
venduto a quel ragazzino brillante e cocciuto lo strumento con cui un
giorno si
sarebbe tolto la vita.
Si
fissò i polsi. Numerose vene, morbide e verdastre,
sporgevano
gonfie sotto la pelle arrossata dall’acqua calda, ma era
sicuro che quelle
fossero vene e non arterie. Tagliare quelle gli avrebbe solo procurato
una
bella gita al pronto soccorso e un paio di cicatrici.
Gli
sfuggì un altro sbuffo al pensiero delle sue tre lauree
e dei suoi tre dottorati, ora completamente inutili. Se avesse studiato
medicina come gli aveva detto suo padre ora avrebbe saputo dove tagliare. “Se avessi studiato medicina ora non
sarei
qui.” si disse, ripensando a quel cadavere pieno di
vermi in quell’aiuola
al lato della strada, alle urla di Aubrey quando aveva visto i fili
della
bomba.
La
Brennan non avrebbe avuto dubbi. Ridacchiò di nuovo
immaginando cosa avrebbe risposto se le avesse chiesto aiuto, “…solo a scopo puramente
scientifico,
ovviamente, Dottoressa.”. Probabilmente gli sarebbe
bastato assicurarle che
era una solo un’innocente curiosità personale per
convincerla a spiegargli nel
dettaglio dove si trovava l’arteria radiale e come
raggiungerla. Cam, invece,
per una domanda simile lo avrebbe come minimo fatto internare nel
miglior
reparto psichiatrico del paese.
Si
chiese che cosa sarebbe stato peggio per Angela,
organizzargli il funerale o sopportarlo sapendo che aveva provato a
suicidarsi
e non ci era riuscito. Si sentì uno stronzo al pensiero che
l’avrebbe costretta
a pulire il suo sangue dal pavimento.
Forse
i suoi dottorati non erano del tutto inutili,
dopotutto. Scartò quasi all’istante
l’idea di farsi pungere da un insetto: la
mosca tse-tse causava una raccapricciante febbre emorragica, il
calabrone
giapponese e il ragno violino portavano a una morte lenta e dolorosa
per
necrosi tissutale e la vedova nera aveva un veleno neurotossico che
causava
orrendi spasmi simili a quelli del tetano.
Anche
buona parte delle piante velenose a cui riusciva a
pensare, come l’aconito o l’oleandro, causavano
svariati, dolorosi minuti di
vomito e crampi prima di portare alla morte, ma poteva sempre puntare
su veleni
alcaloidi come la cicuta o le bacche di tasso, che lo avrebbero fatto
semplicemente
addormentare.
Seneca
si era suicidato bevendo cicuta. “Seneca
si è anche tagliato le vene.”
pensò, distrattamente. Si
ricordò del suo professore di latino al college, mentre
spiegava alla classe
orripilata come quel povero vecchio bastardo si fosse avvelenato
perché dalle
sue vene rattrappite non usciva abbastanza sangue e di come il veleno
fosse comunque
sgorgato fuori prima di poter fare effetto… e di Isabelle
Gagnòn, che era corsa
fuori dalla classe in preda ai conati vomito. Ripensò al
bronzo del Seneca
Morente, al Louvre di Parigi, quando quella stessa storia
l’aveva raccontata
ridendo ad Angela.
Seneca
gli ricordò Alan, un ragazzino tetraplegico di
Seattle conosciuto la settimana prima sulla chat del sito di un gruppo
di
sostegno, che studiava letteratura antica e filosofia ad Harvard. Gli
sfuggì
un’altra risata al pensiero che se non avesse avuto
l’uso delle braccia non
avrebbe nemmeno potuto uccidersi senza dover chiedere aiuto. “Ma quanto sono
fortunato…” pensò,
amaramente ironico.
Tornò
a guardarsi gli avambracci, la pelle chiara e morbida,
umida d’acqua. I suoi polpastrelli si stavano raggrinzendo
per l’umidità, le
dita ancora strette attorno al manico del rasoio.
Si
chiese che cosa avrebbe detto Sweets se l’avesse visto
così, che cosa avrebbe pensato dei suoi istinti suicidi e
del motivo recondito
della sua apparente incapacità di portarli a termine. Forse
non voleva davvero
farlo o forse non ne era capace. La verità era che lui non
ci aveva mai capito
un emerito cazzo di psicologia, e a dir la verità non capiva
nemmeno più nulla
della sua stessa mente. Sweets avrebbe saputo esattamente cosa dirgli,
come
aiutarlo a districare quella massa incolta senza capo né
coda che era diventato
il suo cervello… avrebbe
saputo come
fargli cambiare idea. Quel ragazzino sapeva sempre tutto di queste
cose. Jack
avrebbe dato quasi qualsiasi cosa per poter andare a parlargli, nel suo
ordinato e asettico ufficio all’FBI, ma non poteva. Sweets
era morto.
Gli
balenò nella mente l’immagine del suo corpo,
giovane e
snello, sdraiato nudo all’interno di un sacco per cadaveri
sul tavolo di
acciaio inossidabile della sala autopsie del Jeffersonian. Ricordava
ancora
perfettamente il suo viso delicato mentre Cam eseguiva
l’autopsia, perché per
tutto il tempo che ci era voluto lui era rimasto lì in
piedi, come paralizzato,
a fissare i suoi occhi scuri spalancati in quell’etereo
pallore che solo la
morte sa dare a un viso umano. Ricordava l’incisione a Y che
l’autopsia aveva
lasciato per sempre impressa sul suo torace, le sue labbra spaccate e
il rivolo
di nero sangue secco che gli scendeva dall’angolo della
bocca. Ricordava i
singhiozzi disperati di Daisy e gli occhi colmi di lacrime di Booth.
Quella era
stata l’unica volta che aveva visto Booth piangere. Jack lo
ricordava
perfettamente, nonostante tutti i suoi sforzi per dimenticarlo.
“È così che
finirò io? Sdraiato nudo su
un tavolo d’acciaio? Angela sarà davvero
perseguitata dall’immagine della
faccia pallida del mio cadavere per il resto della sua vita?”
Il
suo stomaco sprofondò sottoterra al ricordo del rumore
straziante e insopportabile del pianto di Daisy, e il suo cuore
mancò un
battito quando per un orrendo istante immaginò Angela
piangere allo stesso
modo.
Il
volto senza vita di Sweets venne sostituito da quello di
Angela, vivo e sorridente. I lineamenti graziosi e la pelle vagamente
olivastra, i suoi capelli morbidi mossi dal vento in cima alla Torre
Eiffel, i
suoi occhi scuri pieni di meraviglia nella calda penombra della
cattedrale di
Notre Dame, i meravigliosi, coloratissimi dipinti che spargeva ovunque,
a casa
loro, in quella di Booth e Brennan, nel suo ufficio al Jeffersonian.
All’improvviso
realizzò che da circa un anno i dipinti di
Angela erano quasi tutti in bianco e nero. Una lacrima colpevole
andò a
mischiarsi all’acqua calda sulla sua guancia mentre si
rendeva conto che era
colpa sua.
Ripensò
alle foto che le aveva fatto sulla Quai de
Montebello, il lungofiume sulla Senna nel quartiere della Sorbonne, la
maestosa
cattedrale come sfondo, con un fiore d’oleandro bianco fra i
capelli e quel
vestito giallo canarino che lo faceva impazzire, mentre lei gli
spiegava
ridendo come usare la sua macchina fotografica e lui riusciva solo a
pensare
che era bella da togliere il fiato.
Ripensò
alla prima volta che aveva preso in braccio Michael
Vincent, i suoi occhioni brillanti che lo fissavano da sopra le sue
adorabili guanciotte
paffute. Pensò a quel bambino, quel povero, meraviglioso,
incredibile bambino,
il suo bambino, che sarebbe rimasto
senza un padre.
All’improvviso
scagliò lontano il rasoio, come se scottasse,
tornando in sé. “Ma che
cazzo sto
facendo?”
Si
allungò verso l’alto per chiudere
l’acqua e si trascinò
fuori dalla doccia, spingendo di lato la sedia a rotelle terrorizzato e
nauseato dal pensiero di essere andato così vicino al
togliersi la vita. Prese
il rasoio e lo scrollò un po’ per asciugarlo,
dopodiché lo ripose nella vecchia
scatoletta di mogano e lo ficcò bene in fondo al suo
cassetto, sotto il
lavandino.
Si
rese conto con una punta d’orgoglio di essere arrivato
dall’altra parte del bagno tutto da solo, e fu quasi
sollevato di ricordare che
non aveva preso un asciugamano con sé dato che gli dava un
ottimo pretesto per
chiamare Angela.
-Angie!
Angie puoi venire un attimo?- chiamò a gran voce.
Sentì
dei rumori ovattati e uno scalpiccio agitato.
-Jack!
Jack, tesoro, dove sei?- chiamò spaventata, non
trovandolo in camera.
-Bagno!-
Fece appena in tempo a dirlo che la porta scorrevole
si spalancò.
-Oddio
tesoro, stai bene? Sei caduto? Cos’è successo?- Si
inginocchiò di fronte a lui, coperta di vernice dalla testa
ai piedi, un lungo
pennello ancora stretto nella mano destra, e lo stritolò in
un abbraccio non
appena ebbe constatato che respirava ancora.
-Nulla,
sto bene, io… Io non arrivo agli asciugamani.-
mormorò.
-Tesoro
hai… Hai fatto la doccia da solo?- gli chiese,
estasiata.
-Beh,
ci ho provato, ma poteva andare meglio…- sbuffò,
mentre lei lo avvolgeva in un morbido asciugamano bianco.
-Oh
no, non dire così, sei stato fantastico tesoro! Ci
riuscirai vedrai, sono così orgogliosa di te.- gli disse,
stringendolo e
cullandolo. -Sei stato bravissimo…-
Lui si abbandonò contro il suo petto, bagnando la sua camicia grigiastra con i suoi riccioli fradici e beandosi del suo profumo dolce, mentre le mani di Angela inavvertitamente gli sporcavano di nuovo i capelli di vernice che, dopo mesi di grigio, era finalmente tornata di un bellissimo giallo limone.