Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: PerseoeAndromeda    07/04/2021    1 recensioni
[Fanfic scritta per la challenge ADVENT EASTER CALENDAR 2021 del gruppo facebook Hurt/Comfort Italia - Fanart and Fanfiction - GRUPPO NUOVO]
«Ti scalderò io… non ti farò prendere freddo».
Gli occhi di Armin erano colmi di gratitudine e commozione, in essi vi era la richiesta di una conferma, una speranza alla quale si stava aggrappando.
«Eren…».
Il compagno annuì:
«Sì, Armin. Andiamo al mare».
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Armin Arlart, Eren Jaeger, Hanji Zoe, Jean Kirshtein, Mikasa Ackerman
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Autore: Perseo e Andromeda; Heather-chan
Fandom: Attack on Titan
Prompt: Epidemia
Titolo: Solo nostro
Personaggi: Armin, Mikasa, Jean, Eren, comparsa di Hanji. Lievi hint Jearmin ed Eremin
Genere: hurt/comfort, angst
Rating: giallo
 
SOLO NOSTRO
 
«Come sta?».
«La febbre non accenna a scendere, non riprende coscienza e continua a delirare, non capisco perché non riesca a guarire».
Mikasa sospirò e abbassò il capo: erano le parole che meno avrebbe voluto sentire.
Il fisico di Armin era da sempre più fragile di quello della maggior parte di tutti loro, ma se almeno il potere rigenerativo dei titani fosse servito a qualcosa in quel caso ...
Non era dunque garantita anche la protezione dalle malattie nel corso dei tredici anni di vita concessi ai mutaforma?
Non aveva voluto pensarci davvero, ma il timore che Armin rischiasse la vita sul serio si riaffacciò prepotente.
“Non esiste” protestò in cuor suo. “Ha ancora dodici anni, non accetto una simile beffa da parte di questo inferno in cui dobbiamo vivere!”.
Era passato un anno dalla grande battaglia di Shiganshina e la conseguente riconquista del Wall Maria, un anno intenso, ricco di scoperte, un anno durante il quale si era preparata la tanto attesa spedizione verso l’esterno.
E verso la realizzazione del sogno…
Quel sogno del quale Armin si era nutrito da quando era nato.
E adesso, dopo aver finalmente potuto specchiare l’azzurro dei suoi occhi in quello dell’oceano, doveva morire a causa di una stupida epidemia di febbre?
Il contagio era dilagato tra i soldati da qualche settimana e ancora lasciava strascichi, anche se la maggior parte dei malati si era ristabilita più o meno senza conseguenze.
Armin, che fin da piccolo si era rivelato poco resistente ad ogni tipo di malanno, non era sfuggito ovviamente a un attacco così feroce e la sua costituzione delicata non lo aiutava nella ripresa.
Il titano colossale…
Certo…
Tra tutti proprio a lui era capitata una simile eredità.
Il destino sapeva mostrarsi beffardo.
«Perché è l’unico che non guarisce?».
Forse cercava una risposta dalla bocca di Hanji che le fornisse una spiegazione accettabile, ma la donna si strinse nelle spalle e le rivolse una triste occhiata:
«Non so cosa dire e mi dispiace per lui».
Loro due non si erano ammalate.
Anche Eren, Jean e Sasha erano stati risparmiati.
Connie se l’era cavata con qualche giorno di febbre alta, ma ormai stava bene.
«Nessuno ha tenuto la temperatura così alta tanto a lungo come lui… escluso Levi».
Già, Levi.
Anche lui era stato parecchio male e aveva destato qualche preoccupazione.
«Come sta adesso?».
«Sono venuta a controllare Armin, ma ora torno da lui prima che tenti di nuovo la fuga. Sta meglio e tra poco dovrò legarlo al letto perché non si stanchi troppo prima del tempo».
Mikasa avrebbe sorriso se non fosse stata così in ansia.
«Armin è da solo?».
«Sta troppo male per essere lasciato solo. Adesso c’è Jean. Non si allontana quasi mai a dire il vero».
Mikasa annuì, ma corrugò le sopracciglia: in realtà aveva sperato in un’altra risposta.
Perché non c’era Eren accanto ad Armin?
Eren non c’era quasi mai, era sempre a fare qualcos’altro, o comunque altrove, da solo, a pensare a chissà cosa ed erano troppe le domande che quell’atteggiamento destava, da tempo, in tutti loro.
Lei ed Armin ne avevano parlato, si erano tranquillizzati a vicenda, ma non riuscivano mai a smettere del tutto di pensarci.
«Vado da lui».
Mentre oltrepassava la figura di Hanji, questa le sfiorò la spalla con una mano:
«Stategli vicini voi, dato che chi lo dovrebbe fare sta facendo la testa di cazzo più del solito. Io vado a controllare che l’altra testa di cazzo non tenti l’evasione».
Questa volta Mikasa non riuscì a trattenere un ghignetto. Dopotutto, Eren e il capitano Levi avevano un dono comune: tiravano fuori la parte più agguerrita di Hanji.
Entrò nell’infermeria, dove trovò Jean seduto accanto al letto.
La schiena curva, il gomito puntellato sulla coscia, la mano a sorreggere il viso.
Sembrava assopito.
Mikasa gli posò una mano sulla spalla e lui sobbalzò.
«Vai a riposare, ti do il cambio».
Jean si stropicciò gli occhi con due dita e sbadigliò, poi scrollò le spalle:
«Non sono così stanco».
«Come no» sorrise Mikasa e si sedette sul bordo del letto, rivolgendo le proprie attenzioni al malato.
Un nuovo sospiro la scosse.
Il ragazzo non appariva del tutto addormentato.
Attraverso le palpebre, quasi del tutto abbassate, si intravvedeva l’azzurro dei suoi occhi, reso lucido e quasi liquido come acqua dalla febbre di cui era preda.
Anche le labbra erano socchiuse e il respiro usciva affannoso e roco, in un rantolo che faceva paura.
Jean prelevò la pezza posata sulla sua fronte, la bagnò di nuovo e, prima di rimetterla dov’era, gliela passò con delicatezza sulle guance, sulle tempie, sul collo.
«È ancora bollente» borbottò. «Sta in questo stato da giorni ormai».
Mikasa prese una mano di Armin tra le proprie e si morse le labbra:
«La fronte è bollente, ma tutto il resto è gelato»
Gli massaggiò la mano strofinando con vigore. Quel contatto inatteso strappò ad Armin un lamento più acuto, che sembrava volersi tramutare in parola. Mikasa sollevò di nuovo lo sguardo verso il suo viso, proprio nel momento in cui gli occhi del ragazzo si serrarono con forza e la testa si ripiegò all’indietro, una smorfia di dolore gli contrasse i lineamenti delicati.
Una lacrima scivolò sulla guancia, il rossore causato dalla febbre spiccava in maniera violenta sul candore della pelle.
Senza pensarci, Jean raccolse la lacrima con un dito, unendo il gesto ad una carezza. Mikasa si chiese se si rendesse conto di quanta tenerezza avesse infuso in quel gesto.
Forse no… o così, alla luce del sole, davanti ad altri occhi, l’avrebbe probabilmente trattenuto.
«Chissà cosa sogna» disse Jean, più a se stesso in realtà, ignaro dei pensieri dell’amica.
Lei non seppe come altro rispondere se non con un ennesimo sospiro e si perse ad osservare il dito di Jean che si era spostato sul naso di Armin e si attardava sulla curva che gli conferiva una forma un po’ schiacciata, un po’ buffa.
Tutti lo avevano notato e tutti avevano pensato quanto fosse buffo.
Poi era sempre un po’ arrossato, quasi convivesse con un costante raffreddore.
«Ha il naso più rosso del solito» osservò Jean cogliendola di sorpresa.
Entrambi si erano soffermati su quel particolare nello stesso istante.
Sotto al dito di Jean il naso si arricciò e Mikasa sorrise, nonostante tutto.
Non riuscì a trattenersi: sollevò la mano di Armin e se la portò alle labbra, posandovi un bacio. Poi tornò a massaggiarla.
«Se solo riuscissi a riscaldarlo un po’… vorrei che smettesse almeno di tremare così».
«Aspetta» intervenne Jean. «Forse…».
Si alzò ed andò ad aprire un armadio, poi emise un’esclamazione di trionfo trovando una coperta nel ripiano più alto.
«Ne abbiamo un’altra. Aiutami».
Mikasa sollevò Armin e se lo fece appoggiare addosso, mentre anche Jean si sedeva sul letto. Raccolsero tutte le coperte e gliele avvolsero intorno, tanto da renderlo simile ad un bozzolo da cui usciva solo la testa e ogni parte del suo corpo, smagrito da giorni di digiuno e debolezza, scomparve sotto tutti quegli strati pesanti.
Mikasa lo sentì abbandonarsi completamente tra le sue braccia, la fronte ricadde sulla sua spalla. Tra un movimento e l’altro per coprirlo il più possibile, i due compagni lo racchiusero tra loro.
La ragazza lo abbracciò più stretto e tentò di trasmettere ancor più calore con energici massaggi, mentre Jean gli posò una mano sulla testa, affondando le dita nella chioma dorata, un altro gesto di tenerezza che lei finse di ignorare, per non metterlo in imbarazzo e perché non smettesse di concederli al povero Armin: era sicura di quanto bisogno avesse di quelle attenzioni il loro emotivo compagno.
«Poverino» borbottò Jean.
Gli occhi di Mikasa si chiusero e le sue labbra sussurrarono parole di conforto, sperando che giungessero ai sensi confusi del malato.
Le rispose un lamento che, di nuovo, somigliava a una parola, ma incomprensibile.
«Cosa hai detto, Armin?».
Il ragazzo si agitò, le mani si aggrapparono a lei, alla probabile ricerca di un appiglio o era forse un inconscio supplicare aiuto. Il viso scivolò lungo la spalla di Mikasa, che si affrettò a sostenerlo, attirandolo contro il proprio petto.
Quando la voce sottile e sofferente del ragazzo si fece di nuovo udire, il nome che ne risultò fu riconoscibile, anche se incrinato dalla fatica e dall’agonia del respiro:
«E… ren…».
Mikasa spalancò gli occhi.
Rivolse lo sguardo a Jean e lo trovò imbronciato, l’espressione fremente di chi tendeva ad una rabbia che faticava a controllare.
Si alzò con un ringhio e si allontanò con passo nervoso.
«Dove stai andando?» volle sapere Mikasa, sentendo sorgere in sé una sottile preoccupazione.
«A cercare quel cretino!» Jean si bloccò solo per un attimo, poi il cammino riprese più deciso, i pugni stretti e tesi lungo le cosce. «Lo trascinerò qui a costo di legarlo!».
Sulla soglia fu costretto a fare un balzo indietro, appena in tempo per evitare la colluttazione con colui che gli si stagliò davanti all’improvviso.
«Eren!».
Quasi l’esclamazione di Mikasa avesse risvegliato un barlume di coscienza nella nebbia provocata dalla febbre, Armin tentò di muoversi, con un gemito che parve quasi un richiamo, ma ricadde subito tra le braccia dell’amica.
Jean ed Eren rimasero immobili l’uno di fronte all’altro, silenziosi e seri.
L’espressione di Eren non lasciava trasparire assolutamente nulla e, dopo qualche istante, sul viso di Jean si delineò una smorfia, un po’ di disappunto, un po’ di indignazione.
«Credevo ti fossi dimenticato di lui».
Negli occhi verdi di Eren ci fu un’ombra fugace.
Anziché rispondere alla ben poco velata accusa di Jean gli passò accanto e si fece strada all’interno della stanza.
A pochi passi dal letto si rivolse a Mikasa:
«Come sta?».
Gli occhi della ragazza non avevano più cessato di scrutarlo, con un misto di sollievo e ansia, dal momento in cui il giovane si era materializzato davanti alla sua visuale.
«La febbre non scende e non torna lucido».
Qualcosa nell’espressione di Eren mutò, mise un ginocchio a terra e rivolse le proprie attenzioni al malato.
«Armin» sussurrò ed era impossibile non notare quanto il suo tono si fosse fatto gentile, risvegliando in Mikasa ricordi di un’infanzia che forse era stata un sogno lontano.
Le palpebre di Armin tremarono, lasciarono intravvedere il languore febbricitante dei suoi occhi che tuttavia, nel loro confuso smarrimento, davano l’idea di cercare qualcuno. Dopo un po’ si posarono su Eren, il respiro si fece, se possibile, più affannoso.
Eppure, in quell’apparente sconvolgimento, le labbra si piegarono nella parvenza di un sorriso.
La mano di Eren gli sfiorò la fronte:
«Shh, non ti agitare…».
Nel sentirlo parlare così, con quel tono e quella tenerezza, Mikasa avrebbe voluto piangere. Si trattava di un evento tanto comune un tempo e ormai sempre più raro, man mano che pensieri sempre più distanti e silenziosi sembravano stendere un’ombra nel cuore e negli atteggiamenti di Eren.
Armin mosse un braccio, sollevò la mano tremante che brancolò nel vuoto, in una richiesta accompagnata da un lieve piagnucolio, simile ad un richiamo.
Eren si affrettò a prenderla e a stringerla forte.
«Sono qui» mormorò.
Il sorriso di Armin, prima appena accennato, divenne più intenso, i suoi occhi si accesero di consapevolezza. Finalmente, dopo tanto, sembrò connettersi con il mondo che lo circondava.
Senza lasciargli la mano Eren si alzò, per sistemarsi sul bordo del letto, occupando lo spazio dove poco prima stava seduto Jean.
Istintivamente Mikasa allentò la stretta su Armin, come se in quel modo volesse passarlo in consegna all’amico. Questi, colta l’intenzione, si affrettò ad attirarlo verso di sé.
Gli occhi di Armin, intanto, non avevano smesso un solo istante di seguire i movimenti di Eren e, quando percepì le sue braccia intorno a sé, la mano libera dalla stretta spuntò dalla coperta, per aggrapparsi alla camicia del coetaneo.
Solo a quel punto gli occhi si richiusero ma adesso, sul suo viso, vi era un’espressione di sollievo.
Il modo in cui Eren lo guardava era sempre più dolce, ma non solo, pensava Mikasa: in quello sguardo c’era qualcos’altro, c’era una sorta di tristezza, che sembrò accentuarsi nel momento in cui prese ad accarezzargli i capelli.
«Scusatemi» disse poi, senza sollevare lo sguardo dal volto di Armin. «Adesso resto io con lui».
Anche la voce era morbida, addirittura contrita e a Mikasa strappò un sorriso.
Jean invece storse il naso:
«A me non pesa affatto stare con lui».
Calcò sulle parole, per lasciar bene intendere cosa intendesse dire.
Il viso del compagno si sollevò, gli occhi verdi si posarono su Jean, senza ostilità alcuna, anzi, Mikasa fu certa che la tristezza di quegli occhi si fosse fatta ancora più profonda.
«Neanche a me Jean… credimi».
La giovane lasciò un’ultima carezza sulla testa di Armin, poi si alzò, camminò fino a portarsi al fianco di Jean e gli strinse il braccio.
«Andiamo».
Jean accentuò per un istante la propria espressione di disappunto, ma non controbatté nulla, si strinse nelle spalle e girò sui tacchi, non prima di aver rivolto un’ultima ansiosa occhiata al compagno febbricitante.
 
 
***
 
Si sentiva meglio.
Era come risvegliarsi da un lungo incubo e li conosceva fin troppo bene i lunghi incubi, non c’era stato un momento della sua vita in cui non lo avessero tormentato.
Da quando non era più completamente se stesso, però, gli incubi si erano fatti ancora più lunghi, ancora più confusi e sempre meno distinguibili dalla realtà.
Non sapeva più cosa fosse reale, cosa fosse sogno, chi fosse lui e chi fosse quell’essere nuovo che si era impadronito del suo cuore e del suo corpo.
Quanti erano lì dentro?
Non lo sapeva più.
Anche Eren si sentiva così quindi?
Da quando aveva divorato suo padre…
“Se io mi sento così… come deve sentirsi lui?”.
In qualche modo, quello che era accaduto avrebbe dovuto renderli ancora più vicini, la loro comprensione reciproca avrebbe dovuto rivelarsi ancora più concreta.
E invece sognava sempre più spesso quella frattura, una linea invalicabile che li divideva senza possibilità di incontro: per quanto lui tendesse le mani, Eren provava sempre meno ad assecondare quella richiesta di contatto.
Era stanco, sempre più stanco.
Avrebbe dovuto lottare, fare tutto il possibile per non far rimpiangere a chi lo circondava la scelta tremenda di quel giorno che aveva segnato la sua vita per sempre, ma non sapeva come fare. A volte la sua debolezza diventava una nemica così prepotente che farvi fronte si rivelava una pretesa proibitiva da imporre a se stesso.
Ma adesso Eren era lì.
La sua presenza, la sua voce, il suo abbraccio erano sufficienti a risvegliare in lui, in qualche modo, la volontà di vivere e di andare avanti.
«Armin… ascolta…».
Riaprì gli occhi, li specchiò in quelli di smeraldo fissi su di lui, si nutrì della loro dolcezza, ma soprattutto della loro volontà, del potere e dell’influenza che avevano sulla sua coscienza e sulla sua capacità di reagire.
«E… ren…».
Non riusciva a dire altro, la debolezza era troppa, il respiro troppo faticoso e far uscire la voce si rivelava un’impresa titanica tanto era bloccata e chiusa la sua gola.
Eren lo accarezzò. Era tenero, ma in quel gesto e nel suo sguardo vi era anche qualcos’altro, un’imposizione, una sorta di dominio al quale il ragazzo non era in grado di sottrarsi.
«Lo so che sei stanco».
Armin strinse le labbra e le palpebre, nel tentativo di trattenere le lacrime che quella semplice frase richiamò.
«Lo capisco, davvero, come capisco che è per questo che non riesci a guarire».
Chiuse gli occhi e questa volta una lacrima uscì suo malgrado, gli attraversò la guancia sulla quale la mano di Eren si posò. Asciugò la lacrima con il pollice, mentre Armin si lasciava andare contro il palmo caldo del compagno, ad accentuare la carezza che gli era stata concessa.
«Però non puoi permettertelo… ne sei consapevole, sono certo anche di questo».
Le parole sembravano severe, ma non cancellarono la tenerezza e la comprensione con cui vennero pronunciate.
Le palpebre di Armin si serrarono con maggior forza, attraverso le labbra chiuse un lieve lamento si mutò in singhiozzo.
La carezza sulla guancia ebbe un’esitazione, la mano di Eren fu scossa da un tremito e i suoi occhi si chiusero qualche istante, per poi riaprirsi e puntare altrove, non più sul viso di Armin, quasi non ne avessero il coraggio.
«Io lo so… è colpa mia».
Armin avrebbe voluto negare, non permettergli di dire cose che non credeva, avrebbe voluto dirgli che nessuno di loro sapeva nulla, che l’istinto dell’amicizia e dell’amore era ciò che aveva mosso ogni decisione eppure, non comprendeva se fosse a causa della febbre o dei dubbi che lui stesso nutriva, riuscì ad emettere solo qualche suono senza senso attirando di nuovo su di sé lo sguardo dell’amico.
«Ti ho condannato… non è stato per affetto che ho lottato per la tua vita quel giorno, ma per egoismo».
Gli occhi di Armin si fecero più grandi, le labbra tremarono, la sua mano cercò quella di Eren posata sulla guancia e la raggiunse.
«Mi dispiace così tanto, Armin». La voce del giovane Jeager si incrinò, gli occhi si chiusero ancora e alcune lacrime comparvero tra le ciglia lunghissime. «Non so neanche io perché parlo così, certo che è stato affetto, eppure non posso fare a meno di credere che neanche per un istante, in tutta la mia vita, ho pensato al tuo bene».
«Eren… basta!».
In quell’impeto di energia ritrovata, anche le dita di Armin si fecero più forti, si chiusero con vigore sulla mano di Eren e, di colpo, la sua mano parve più ferma e decisa.
Gli occhi di Eren si aprirono sui suoi, ad Armin sembrarono, all’improvviso, indifesi e sconfitti, più confusi di quanto mai fossero stati i suoi.
Stava ancora tanto male, ma sorrise, perché se lo era ripromesso più volte: non sarebbe mai stato un peso… sarebbe morto piuttosto che essere un peso.
Eren aveva ragione, non se lo poteva permettere.
Il sorriso si fece più convinto, la stretta sulla mano di Eren anche.
«Sto… sto meglio, sai?».
«Armin…».
«Guarirò e farò il mio dovere… non sarò… un peso».
I lineamenti di Eren si contrassero, serrò i denti, ma non riuscì a trattenere una nuova ondata di lacrime.
Da quanto Armin non gliene vedeva piangere così tante e così sincere?
In quell’istante rivide il ragazzino tutto passione, emozioni e istinto che non tratteneva nulla dentro di sé ed Armin non poté fare altro che aggrapparsi a lui ancor di più, circondandogli il busto in un abbraccio tanto forte quanto la debolezza del corpo gli permetteva.
«Non stancarti» gli giunse la voce incrinata di Eren e lui scosse il capo contro il suo petto.
«Mi porti al mare?» sentì se stesso chiedere, le parole comparse sulle labbra senza che potesse prevederle.
«Quando guarirai ci andremo».
«No… intendevo adesso».
Le mani sulle spalle, Eren lo scostò da sé, per guardarlo attentamente negli occhi.
«Nelle tue condizioni? Sei matto?».
Armin reclinò la testa su una spalla, riuscì ancora a sorridere:
«Non mi farà male. Anzi… sento che… è quello di cui ho bisogno».
«Con tutta questa fretta?».
«Ho bisogno di farlo adesso… con te… solo con te».
Le sopracciglia di Eren si aggrondarono. L’espressione di Armin si fece più timida, non smise di sorridere, ma distolse gli occhi:
«Era… una cosa nostra. Ne abbiamo parlato insieme tante volte noi due, era… il nostro sogno comune».
«Armin…».
Non volle aggiungere che sembrava che Eren lo avesse dimenticato, che non gli era mai parso felice di aver visto finalmente il mare, che, anzi, da quel giorno era cambiato in modo da risultare doloroso per lui e per Mikasa.
Ma il tono con cui l’amico pronunciò il suo nome gli suggerì che, probabilmente, conosceva i suoi pensieri.
«Dico solo… che mi piacerebbe che per una volta… anche una volta soltanto… il mare fosse davvero solo nostro».
Le mani di Eren furono sul suo viso, lo sollevarono, fecero in modo che i loro occhi si incontrassero ancora. Poi Eren si abbassò e mise le loro fronti a contatto:
«Sei ancora così caldo… potresti prendere freddo… potrebbe risalirti la febbre, ma…».
Gli sistemò i due strati di coperte in modo che nessuna parte del suo corpo rimanesse senza difese poi, un braccio intorno alle spalle e uno sotto alle ginocchia, lo sollevò con delicatezza e si alzò con il suo fardello.
«Ti scalderò io… non ti farò prendere freddo».
Gli occhi di Armin erano colmi di gratitudine e commozione, in essi vi era la richiesta di una conferma, una speranza alla quale si stava aggrappando.
«Eren…».
Il compagno annuì:
«Sì, Armin. Andiamo al mare».
 
***
 
Le onde accarezzavano i piedi nudi di Eren e il loro sciabordio era l’unico suono che cullava il loro silenzio, interrotto ogni tanto dallo stridio di un gabbiano e dal respiro ancora un po’ rantolante di Armin.
Il giovane Arlert, tuttavia, sembrava stare meglio davvero, avvolto dalle coperte e dalle braccia dell’amico che lo stringevano forte.
A Eren sembrava più piccolo e magro del solito, debilitato da lunghi giorni di febbre e debolezza, quasi scompariva nel suo abbraccio.
Tuttavia, adesso era certo che sarebbe stato bene.
Anche lui stava bene in quel momento, ma era un benessere che aveva in sé le radici del dolore, della consapevolezza e della rassegnazione.
Gli occhi di Armin guardavano il mare e non si rendeva conto, il ragazzo, quanto il loro azzurro, a quell’oceano sconfinato, a quel cielo terso senza nubi, non avesse nulla da invidiare.
Questo pensava Eren che, invece, guardava quegli occhi e, come Armin voleva perdersi nel mare, lui avrebbe tanto desiderato smarrirsi in quello sguardo, in quel sogno che non si spegneva mai.
«Oggi… è davvero solo nostro» mormorò la voce dolce, ancora tanto debole.
Eren lottò contro il groppo che aveva nella gola e annuì:
«Solo nostro… sì».
E forse sarebbe stato l’ultimo giorno che li avrebbe visti ancora così, ancora illusi di avere un sogno comune che li rendeva tanto vicini, uniti e, anche se per poco, distanti dall’inferno che li attendeva dall’altra parte.
 
 
 
 
   
 
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