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Autore: Annabeth16    08/04/2021    0 recensioni
«Ma la cosa assurda è che non amo solo la parte migliore di te, amo anche la parte peggiore di te, anche i tuoi difetti più colossali, amo ogni singola parte di te. Quindi, credo di poterti dire che ti amo. Più di ogni altra cosa Emily. Più della mia stessa vita, TI AMO».
Emily è una giovane ragazza di diciotto anni, che finalmente si trasferirà a causa del college e vivrà in casa da sola. Ma la sua vita verrà sconvolta da un ragazzo bellissimo con cui avrà una relazione che darà una svolta alla sua vita.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Capitolo 1
INIZIO
 
 
 
 
 
 
La mente non è un vaso da riempire,
ma un fuoco da accendere - Plutarco
 
 
La sveglia trillò svegliandomi dal mio torpore leggero. Saltai sul letto con il cuore che batteva all’impazzata. Presi due bei respiri profondi per calmarmi. Okay, calma, è solo un maledetto primo giorno di scuola, niente di più. Oh, cavolo, adesso ero ancor più agitata di prima.
D’accordo, stiamo calmi. Ho tutto il tempo che mi serve per prepararmi, niente mi coglierà di sorpresa.
Ma è il primo giorno del terzo anno di liceo!
Spensi la vocina dell’ansia nella mia testa e lasciai spazio solo a quella della calma.
Se riusciva a parlare. Spegnila.
Mi alzai di scatto. Scesi con un balzo dal letto e mi fiondai in bagno. Mi sciacquai il viso: non avevo bisogno di una doccia, l’avevo fatta ieri sera prima di dormire.
Sbattei le palpebre un po’ di volte per verificare che i miei occhi non fossero ancora impiastricciati. Quello per me era un anno molto importante. Il sedici ottobre avrei finalmente compiuto diciotto anni. Questo significava che non avrei più dovuto farmi accompagnare tutte le mattine a scuola da mio papà. Sarei andata a vivere da sola nella città dove c’era il mio liceo e finalmente sarei andata a vivere da sola. Mi sarebbero mancati certo, i miei genitori e tutta la mia famiglia, ma adesso potevo respirare aria di libertà, di indipendenza. Perciò quello era il mio giorno speciale. E non vedevo l’ora di affrontarlo. Però avevo anche molta ansia.
Cercai di ravvivare un po’ i miei capelli, ma senza successo. Mi dovevo rassegnare: i miei capelli sarebbero sempre stati dei brutti, inutili spaghetti lisci come l’olio.
Fui indecisa se mettermi un po’ di profumo, ma alla fine optai per il no.
Mi spostai in camera per decidere cosa indossare. Cercai a fondo nell’armadio, fino a trovare una camicetta bordeaux a cui abbinai i miei jeans preferiti. Mi guardai allo specchio e alla fine decisi che poteva andare.
Il mio stomaco brontolò e così scesi in cucina a fare colazione con la mia famiglia.
“Ecco la nostra bimba grande!”, mi accolse la mamma abbracciandomi. Odiavo che mi chiamassero bimba.
Io sorrisi ricambiando l’abbraccio.
Mi sedetti al bianco tavolo tondo della cucina. Mia madre mi mise davanti un Estathè al limone e un pancake con sciroppo d’acero e lamponi. Io la guardai stupita. Lei sorrise.
“Abbiamo pensato che per un giorno così speciale gradissi una colazione speciale”, mi disse, orgogliosa di sé.
“Grazie mille! Come cominciare al meglio la giornata!”, ringraziai, addentando un pezzo di pancake.
Lo assaporai dimenticandomi per un attimo tutta la mia ansia da primo giorno di scuola. Sorseggiai lentamente il mio tè freddo al limone e finii il pancake. Ringraziai nuovamente e corsi in camera per recuperare lo zaino. Lo trovai per terra accanto alla porta. Quanto adoravo il mio zaino verde! Me lo misi in spalla e tornai di sotto quasi volando.
“Sono pronta!”, annunciai.
I miei erano già lì che mi aspettavano sulla porta di casa.
“Sei bellissima”, mi informò papà.
“Mi sa che mi toccherà venire con il lanciafiamme”, aggiunse ridendo.
Io lo fulminai con lo sguardo: “Papà!”
Salutai il mio fratellino coccolandolo un po’ tra le mie braccia. Lui mi abbracciò e mi diede un bacino sulla guancia.
Rivolsi un “Ciao!” a mia sorella e fui pronta per la scuola.
La vocina dell’ansia tornò a farsi sentire.
E se tutto andasse male? Se facessi delle gran figure di…
Zitta! Ti ordino di tacere!
Stai tranquilla, andrà tutto bene, in fondo ci sei già stata in questo liceo, hai due migliori amiche fantastiche, non c’è niente che possa andare storto!
La voce della calma e della positività sorse in me e riuscì nel suo intento. O quasi.
Mi diedi una pacca sulla fronte. Avevo dimenticato la valigia!
Te l’avevo detto che sarebbe andato tutto male!
Una cosa sola non è tutto male! Tranquilla tesoro!
Le mie due voci interiori continuavano a litigare silenziosamente tra loro e io avrei tanto desiderato poter spegnere il cervello anche solo per pochi minuti.
“Aspettate! Ho dimenticato la valigia!”
“Sbrigati! Altrimenti arriveremo in ritardo!”, mi disse mia mamma.
“Faccio in un minuto!”, promisi, e intanto ero già a metà scala.
Aprii nuovamente la porta di camera mia e guardai le mie cose con aria triste. Quella era l’ultima volta che le vedevo, l’ultima volta che sarei stata lì.
Scacciai la tristezza e mi chinai per recuperare la valigia da sotto il letto. Era azzurra stavolta, perché non l’avevo trovata verde. Afferrai quella e il beauty case che issai nell’apposito spazio sopra alla valigia. Uscii con malinconia dalla mia stanza e provai a scendere le scale. Già dal primo passo capii che non ce l’avrei fatta. Chiamai mio papà.
“Papi! Mi vieni ad aiutare?”, urlai dall’alto delle scale.
Mio papà accorse e mi prese la valigia trasportandola al piano di sotto. Io lo seguii saltando gli scalini a due a due. Mi infilai nella vettura che mi aspettava fuori mentre mio papà caricava la valigia nel bagagliaio e si sedeva al posto di guida. Inspirai profondamente. Papà mise in moto l’auto e lasciò il parcheggio. Era fatta. Ora niente mi avrebbe riportata indietro. Avevo un unico, piccolo ma importantissimo legame con la mia città: le mie migliori amiche, Irene e Letizia. Era l’unica cosa che mi portavo dalla mia città a quella nuova e sconosciuta del liceo. Ero molto felice all’idea di averle con me. Ci avevo messo molto a trovarle, ma alla fine avevano gratificato anni di esclusione.
Ora erano la cosa più preziosa che avevo.
Dentro di me avevo la coscienza di sapere che da quell’anno tutto sarebbe stato nelle mie mani. Ogni singola, minuscola scelta sarebbe toccata a me. E solo ora cominciavo a sentirne il peso che gravava sulle mie spalle.
Tuttavia mi ero ripromessa di vivere al meglio la mia vita, soprattutto in quegli anni, e seguendo l’istinto.
I miei avevano acconsentito a farmi andare a vivere da sola soltanto dopo un lungo mese passato a pesare sulla bilancia i pro e i contro. Alla fine gli avevo convinti: sapevo cucinare benissimo, perciò non avrei avuto bisogno di mangiare sempre fuori, e in più così risparmiavano benzina e tempo, senza contare l’orario improponibile a cui ci dovevamo svegliare per essere pronti tutti. Così ora eccomi qui, sull’auto che mi porterà ad un destino che non potevo ancora prevedere, che mi avrebbe reso il cuore pieno di gioia e che sicuramente avrebbe cancellato ogni dubbio dalla mia mente. Ma per adesso ero ancora sull’auto grigia di mio papà.
Per tutto il viaggio guardai fuori dal finestrino osservando i paesaggi dell’autostrada cambiare continuamente forma e colore. Si susseguivano velocemente e sparivano dietro all’auto in pochi secondi. Scorrevano instancabili, quasi invisibili ai miei occhi, che però erano abbastanza vispi da cogliere qualche immagine sfocata o almeno i soggetti principali come ad esempio gli alberi.
Guardavo sempre il finestrino, mi aiutava a pensare, e i miei pensieri prendevano vie inaspettate ma piacevoli. Stavolta però, c’era una ragione particolare per cui fissavo a momenti alterni il finestrino e il vetro anteriore davanti a me. La città in cui si trovava il mio liceo era a pochi chilometri di distanza – ovvio - ci voleva circa mezz’ora, quaranta minuti per arrivarci, ma ciò che divideva le due città erano le montagne. E questo faceva sì che non sapevi mai quale clima ci fosse dall’altra parte, avevi solo la certezza che fosse più freddo. Io spesso mi arrabbiavo con quelle montagne perché bloccavano la neve e infatti da noi non nevicava mai. Ma sapevo che le mie lamentele non sarebbero servite contro la forza incontrastabile della natura.
Il clima dalla nostra parte delle montagne era soleggiato, nonostante l’orario mattutino. A dir la verità stava ancora sorgendo, era quasi spuntato del tutto. Ma già illuminava gran parte del panorama facendo risplendere i colori e le minuscole goccioline di brina sulla poca erba che cresceva ai lati dell’autostrada e su quella che stava fuori, nel bosco quasi selvaggio, rendendola simile a tanti cristalli luccicanti. Finalmente il sole sbucò da dietro le montagne imponenti e cominciò ufficialmente la sua ascesa verso il mezzogiorno.
Spostai lo sguardo sul vetro anteriore e mi accorsi che tra non più di cinquanta metri avrei incontrato le famose montagne. Perciò mi concentrai per non perdermi l’attimo. Memorizzai l’ambiente freddo ma al contempo caldo al di qua delle alture facendo una specie di fotografia mentale. Entrammo nella galleria buia. I miei occhi ebbero un sussulto per l’improvvisa cecità. Sbattei le palpebre per abituare lo sguardo al nero della galleria. Sapevo che sarebbe durata un po’. Guardai i segnalini in vernice catarifrangente ai lati della galleria. Pensai che non facessero molta luce in realtà. Cercai di guardare il soffitto del traforo. Era strano pensare che sopra di me c’era una montagna. Stavamo attraversando un monte. Stavamo passando in mezzo alla terra che un tempo occupava il centro della vetta, che conteneva animaletti non del tutto carini – ad esempio i vermi -, magari deviando in vista di una sorgente sotterranea. Eravamo nel cuore del monte. Assolutamente fantastico. Certo, tutta quella bellezza era sfigurata da quel buio intenso e triste. I monti erano stati il primo ostacolo da affrontare alla costruzione dell’autostrada, perciò i trafori erano stati una grande invenzione, un grande passo avanti. Guardai le pareti grigie e tristi del tunnel e pensai che avrebbero potuto illuminare meglio e darci un po’ di colore per richiamare la bellezza di ciò che stava sotto e sopra di noi. Ma tanto non lo avrebbero mai fatto: era tutta una questione di soldi, solo ed esclusivamente soldi. Come al solito.
A me non importavano tanto. Dai dieci anni in su avevo le paghette – anzi, ce l’ho ancora adesso, ma solo da parte dei nonni – e le usavo per comprarmi le merende al bar quando uscivo con le amiche, per comprare i regali di Natale ai miei parenti e per comprarmi qualche cosina da poco che i miei non mi avrebbero mai acquistato.
Colsi un bagliore di luce in fondo, in mezzo al buio della galleria. I miei occhi si fecero più vispi e attenti, pronti a cogliere l’immagine che mi si sarebbe presentata.
Rievocai nella mente la foto che avevo “scattato” poco fa.
Ero sempre più vicina a quel punto di luce che si allargava a poco a poco.
Tre, due, uno…
Attraversammo sfrecciando la porta della galleria, e la luce, più forte rispetto a quella del traforo, mi inondò gli occhi, costringendo le mie pupille a restringersi improvvisamente e rapidamente.
Feci spaziare il mio sguardo intorno per osservare e godere del panorama circostante.
Un sottile strato di ghiaccio ricopriva ogni cosa, e sembravano proprio i resti della neve che si era ghiacciata durante la notte. Infatti mio padre rallentò e affinò lo sguardo e procedette con cautela sulla strada ghiacciata. Anche le altre auto che ci passavano accanto fecero lo stesso, per non fare un incidente. Ma lo spettacolo non era terminato.
Il sole brillava già più alto nel cielo, risplendendo di luce propria in mezzo al cielo ormai diventato azzurro-grigio con qualche nuvola sparsa qua e là. Il nevischio turbinava dell’aria creando qualche difficoltà alla vista per i guidatori ma anche per i passeggeri che, come me, cercavano di godersi il panorama.
“Menomale che siamo partiti in anticipo”, mormorò mio papà aguzzando la vista.
Mia madre annuì dal sedile anteriore.
“Ci vorrà tanto?”, chiesi, preoccupata di arrivare in ritardo proprio il primo giorno di scuola.
“Circa dieci minuti in più”, m’informò mio padre.
Io mi tranquillizzai: come al solito mio papà era stato previdente. Tornai a rivolgere il mio sguardo verso il finestrino.
Gli alberi erano stati dipinti di bianco dal soffice pennello dell’inverno con la tinta più candida di tutte: la neve.
“Hai freddo?”, mi chiese mio papà.
In effetti non avevo previsto questo cambiamento di clima.
“Un pochino”, risposi.
Prese la sua giacca che aveva appoggiato sulle ginocchia e me la porse. Io gli sorrisi.
“Grazie papi”
“Hai il naso rosso”, m’informò ridendo.
“Non ti ammalare per favore, cerca di non prenderti il raffreddore, almeno quest’anno”, m’implorò mia madre, con un tono serio ma un’espressione divertita.
“Non so se ce la farò, i miei anticorpi lasciano passare di propria volontà i batteri del raffreddore ed io non posso farci niente”, risposi.
Mia madre alzò gli occhi al cielo. Mi misi la giacca sulle spalle e ci entrai dentro. Nonostante il clima era calda. Il mio corpo navigava all’interno dell’enorme giacca, mi faceva un po’ da vestito. Se non altro sarei stata più al caldo.
“Quanto manca?”, chiesi, curiosa.
“Circa dieci minuti, Emy”, mi disse mio papà.
Io mi raggomitolai dentro alla giacca e mi sdraiai sui tre sedili posteriori che quella volta erano tutti per me.
Mia mamma mi accarezzò la schiena. Sospirò.
“La mia bimba…”, disse.
Non importava che avessi ormai diciott’anni, che fossi maggiorenne, che stessi andando a vivere da sola, così come non importava qualsiasi altra misura umana, per lei sarei rimasta per sempre la sua bambina. Ma credi fosse così per ogni mamma del mondo.
“Prometti che chiamerai ogni giorno?”, mi chiese.
“Mammaaaa…”, la rimproverai.
“Prometti”, ribatté risoluta.
“Una volta ogni due giorni?”, proposi.
“No”
“E dai…”
“E va bene, però chiama
“Te lo prometto”
Lei parve soddisfatta e io potei finalmente chiudere gli occhi e rilassarmi un po’. Venni cullata dal suono della strada che correva via sotto alle ruote e dal dolce turbinare del nevischio intorno a noi.
Ma quella pace semicosciente non durò a lungo.
“Mancano due minuti Emy”, annunciò mio padre.
Saltai su come una molla. Sbirciai la mia immagine dallo specchietto sul parasole di mia mamma. Cercai di sistemarmi i capelli con le mani e raggiunsi un risultato decente. Sistemai il maglione dentro ai pantaloni e mi sfilai – a malincuore – l’enorme giacca di mio padre.
“Tieni”, gliela porsi.
“Sei perfetta”, mi disse.
Arrossi.
“Grazie papi”
“Pronta per il tuo primo giorno di scuola da maggiorenne?”
“Quasi pronta”
“Pronta?”, ripeté mio padre. Io sospirai.
“Pronta”
La macchina si fermò nel parcheggio della scuola.
Presi un profondo respiro. Aprii la portiera della macchina trascinandomi dietro lo zaino. Me lo caricai in spalla guardandomi intorno. Era sempre il mio vecchio liceo, lo stesso di sempre. L’edificio antico in muratura con le varie aule all’interno. Offriva un’ampia gamma di materie e il primo step del primo giorno di scuola era passare dalla segreteria per selezionare le materie che si era intenzionati a seguire quell’anno. Mio padre e mia madre scesero dall’auto. Mia madre mi abbracciò forte e sentii le sue lacrime bagnarmi i capelli.
“Mamma, ehi! Non piangere, ti ho promesso che ti chiamerò!”
Lei si asciugò le lacrime con i polpastrelli e mi disse:
“Ti voglio bene”
“Anch’io”, risposi, sincera.
Poi fu il turno di mio padre. Mi strinse forte a sé sollevandomi. Ricambiai l’abbraccio stringendolo con tutta la forza che avevo in me.
“Comportati bene”
“Certo”
Sciolse l’abbraccio.
“Ti voglio bene, te ne ho sempre voluto”
“Lo so, anch’io”, risposi.
Mi riavvolse in un abbraccio.
“Chiamami se qualcuno ti tratta male, vengo con il lanciafiamme”
Scoppiai in una risata.
“Sei sempre il solito”
“Ci deve pur essere qualcuno che fa ridere in una famiglia”, disse.
Ma io sapevo che nelle sue parole precedenti c’era la verità.
“Vi voglio tanto bene”, dissi, prossima alle lacrime.
Mi abbracciarono tutte e due con tutta la forza che avevano in corpo.
Mi asciugai le lacrime con il dorso della mano. Gli salutai con la mano.
“Ciao”
“Ciao”, mi risposero in coro.
“Passo a portarti la valigia a casa, d’accordo?”
Annuii.
Restai in piedi a osservarli prendere un taxi, per poi tornare a casa in treno. Eravamo venuti qui con la mia Panda rossa perché ovviamente mi lì mi sarebbe servita una macchina. Mi dispiaceva, perché in questo modo gli avevo costretti a tornare in treno, a farsela più lunga.
Presi un gran respiro. Ormai le volte che avevo fatto questo gesto erano innumerevoli.
Per la prima volta da quando eravamo arrivati mi voltai osservando il cortile della scuola pieno di ragazzi.
Molti stavano ancora salutando i genitori come avevo fatto io fino a poco fa.
Altri invece erano radunati in piccoli capannelli a parlare fitto fitto. Qualcuno si stava già avviando verso la porta della scuola per non dover aspettare troppo nella fila della segreteria. Fui tentata da quell’opzione – non avevo voglia di aspettare millenni in fila – ma poi prevalse la voglia di aspettare Irene e Letizia.
Così puntai lo sguardo sull’entrata del parcheggio, aspettando le mie amiche.
Pochi minuti dopo nel parcheggio entrò una Ford bianca che riconobbi subito: era l’auto della mamma di Irene.
Mossi la mano in aria, cercando di attirare l’attenzione di sua mamma. Mi vide, e venne a parcheggiare nello stesso posto in cui avevano parcheggiato i mie.
“Ciao Emily”, mi salutò scendendo dalla macchina.
“Ciao Kristen”, ricambiai il suo saluto allegramente.
Dalla portiera opposta uscì Irene.
“Ciao Ire!”
“Ciao Emily!”
Ci abbracciammo.
Mi feci un po’ in disparte per concedere loro un po’ di privacy. Il loro saluto fu più breve del mio, perché lei non sarebbe andata ad abitare da sola. E nemmeno Letizia.
Kristen lasciò il parcheggio con la sua auto.
“Allora come va?”, mi chiese.
“Tutto bene”, risposi.
“Sei eccitata?”
“Molto più di quanto si dovrebbe essere”
“Lo so! Anch’io!”
Aspettammo Letizia, e quando arrivò, dopo i saluti ci avviammo verso l’entrata della scuola.
Varcai la soglia con un brivido. Ero tornata qui. Ero già indissolubilmente legata a quel posto, alla scuola e alla città, ma ancora non sapevo cosa mi ci avrebbe tenuto stretta per l’eternità.
L’anno scolastico stava per ricominciare. Ed ero eccitata, perché sapevo che ogni anno era una storia tutta da vivere ma soprattutto da scrivere. E sapevo anche che l’autrice ero io, ma non avevo mai preso veramente in mano la mia vita. Varcare quella soglia per me era come – in un certo senso – aprire un libro dalle pagine bianche, pronte per essere riempite. Ecco, credo che il libro sia la metafora migliore per descrivere la vita. E la mia storia iniziava con quel passo. Sentivo che avevo già scritto le prime righe già quando mi ero svegliata sta mattina.
Oltrepassammo la porta – i miei pensieri non erano durati più di qualche secondo – e avevo già riacquistato quella mia solita spensieratezza.
Ci accorgemmo con piacere che la fila davanti alla segreteria stava lentamente scemando. Ci mettemmo in coda.
“Quante materie seguite quest’anno?”, chiesi, curiosa come al solito.
“Penso sia obbligatorio seguirne sette”, m’informò Irene.
“Davvero?”
“Sì, ma non sono poi tante rispetto agli anni scorsi”, obiettò Letizia. In effetti non aveva poi tutti i torti dato che i primi due anni ne dovevamo seguire dieci più un corso pomeridiano di un’ora alla settimana.
Discorremmo tranquillamente dell’orario scolastico fino a che, dopo pochi minuti, non fu il nostro turno.
Entrai in segreteria.
“Buongiorno cara, nome?”, mi disse la segretaria Courcy. Era una signora sui sessant’anni che sapeva a memoria i nomi e i cognomi di tutti gli studenti ma che si ostinava a seguire rigidamente il protocollo. Io sospirai sonoramente.
“Emily Glanville”, dissi, rispondendo alla sua domanda.
Lei annotò il mio nome sopra al foglio di carta che avrei dovuto compilare. Mi avvicinai al bancone di marmo e la signora Courcy mi porse la penna.
“Prego cara”
Compilai i soliti campi che richiedevano città di provenienza, numeri di telefono, eccetera. Provai uno strano moto di compiacimento nello scrivere finalmente diciotto sopra ai puntini che occupavano lo spazio direttamente dopo la scritta età. Dopodiché passai in rassegna tutto l’elenco delle materie alla mia sinistra. Sul foglio c’era scritto di scegliere almeno sei materie più educazione fisica. Quindi, in totale, sette materie da seguire. Notai che dal terzo anno – ovvero il mio – potevo decidere di frequentare un corso più specifico di scienze, a scelta tra biologia, chimica e fisica. Ero contenta dell’opzione e mi affrettai a scrivere dietro al numero uno la parola biologia. Mi piaceva tantissimo biologia e non mi sarei fatta scappare quell’opzione.
Compilai gli altri campi con materie d’obbligo, come matematica, inglese, storia, italiano, ginnastica. Mancava ancora una materia. C’era football, baseball, storia dell’arte e matematica avanzata. Scelsi storia dell’arte perché sapevo che il professor Brooker amava molto parlare della storia dei grandi classici letterari e in più faceva vedere molti film. Ridiedi una scorsa al mio elenco e lo consegnai alla segretaria Courcy. Lei timbrò nell’apposito spazio. Era il primo della lunga lista. Tutti gli insegnanti dei corsi che seguivo dovevano timbrare il foglio compresa la segretaria, dato che era lei a gestire gli orari. Ovviamente era una cosa profondamente inutile ma, come ho già detto, la signora Courcy ci teneva a rispettare il protocollo che, a dirla tutta, per la metà apparteneva al secolo scorso. Aspettai che finisse di compilare il mio orario. Rassegnata, infilai il modulo e l’orario nello zaino e uscii. Salutai le mie amiche, tanto sapevo che Irene avrebbe scelto tutte materie linguistiche e che Letizia tutte scientifiche. L’unica ora a cui ci saremmo incontrate sarebbe stata storia, dato che ginnastica veniva svolta a gruppetti e, ovviamente noi non eravamo insieme. La cosa mi dispiaceva molto ma non potevo farci niente. O meglio, qualcosa potevo farci, ma non volevo turbare la tranquilla e ossequente segretaria Courcy. Perciò mi sarei dovuta accontentare. Anche perché di fronte a me avevo tutto l’anno. Infatti i loro genitori di restare a dormire da me qualche volta. Ed io ne ero molo felice, anzi grata direi, perché avevo molta paura di sentirmi sola.
Mi accorsi di stare camminando a vuoto perciò mi fermai. Tirai fuori dalla tasca esterna dello zaino il mio orario e lo guardai. Alla prima ora avevo matematica.
Mi avviai verso l’aula facendo dietro front dopo essermi accorta di aver camminato per tutto il tempo in direzione opposta.
La mattinata trascorse piuttosto tranquilla e i professori non ci caricarono troppo per via del fatto che era il primo giorno di scuola. Gliene fui molto grata.
Mancavano soltanto l’ora di biologia e quella di ginnastica. Perciò uscii dall’aula di inglese e me ne andai a biologia. L’aula era già mezza piena e tutti si erano già accaparrati i posti migliori. Scorsi un posto in terza fila e corsi a sedermi. Terza fila non era poi così male, sempre meglio di quelli che si beccavano la prima.
Guardai l’orologio. Erano le undici. La lezione stava per iniziare, anzi sarebbe iniziata esattamente tra…
“Buongiorno ragazzi! Benvenuti alla vostra primissima lezione di biologia. Io sono il professor Roger Russel, con me faremo molti esperimenti pratici perché per me biologia è esperimenti. Questa mattina cominceremo con lo studio delle cellule e del DNA”, annunciò il professore.
Verso le undici e cinque dalla porta entrarono tre ragazzi. Uno era alto, snello e dai capelli e occhi scuri, un altro era piuttosto basso, i capelli biondi e gli occhi azzurri, mentre il terzo era più o meno alto quanto il primo, robusto e aveva i capelli rossicci e riccioluti.
Conoscevo di vista quei tre: quello basso si chiamava Gabriel e quello dai capelli rossi Diego. Era molto simpatico, era quello che dava spirito alle lezioni.
Il primo, quello dagli occhi scuri, non lo conoscevo bene, ma non appena entrò in classe, il mio cuore accelerò notevolmente i battiti. Rimasi a fissarlo come incantata, per poi distogliere frettolosamente gli occhi quando anche lui posò i suoi di me.
Venne a sedersi accanto a me, ma non spiccò parola. Mi chiesi il perché, dato che c’erano altri tre banchi vuoti.
Il professor Russel intanto aveva cominciato a spiegare la natura del DNA e il lavoro instancabile e onorevole delle nostre cellule, ma io non gli prestavo attenzione. Dopotutto queste cose già le sapevo a memoria. Ma il vero motivo della mia distrazione era quel ragazzo che prima di allora non avevo mai notato, forse perché non eravamo mai stati in classe insieme.
Lui e gli altri due ragazzi entrati in ritardo sembravano un trio di vecchi amici, ed erano tutti piuttosto belli se li si guardava con imparzialità. Pensai che il mio cuore avesse agito come d’impulso alla loro entrata, perché altrimenti non c’era proprio altra spiegazione. Ovviamente, per me il più bello di tutti e tre era lui. Anche se non riuscivo proprio a capire perché si fosse seduto proprio vicino a me. Voglio dire, ero una sconosciuta, e per di più neanche tanto carina.
Forse aveva solo scelto a caso, il primo banco che aveva visto. Sì, pensai che fosse così. Sentivo verso di lui un’attrazione strana, che non riuscivo a spiegarmi. Forse era il suo effetto? Non avrei saputo dirlo.
Per tutta la lezione non disse niente, e nemmeno io. Non parlai non perché non ne avessi voglia, ma solo perché non volevo forzarlo se non voleva. Dimenticai in fretta l’accelerazione improvvisa del mio cuore e mi persi nella lezione.
Dopo ginnastica mi sciacquai il viso con l’acqua gelata anche se avrei voluto farmi una bella doccia fresca. Ma potevamo farci la doccia solo il mercoledì, che era anche il giorno più faticoso.
Quel giorno non avevamo nessuna ora libera perciò mi diressi in mensa con poca fame. All’ingresso incontrai Irene e Letizia che mi stavano aspettando.
“Ho una fame…”, annunciò Letizia. “Credo che prenderò un po’ di pasta al pomodoro”
“Io credo che prenderò il brodo”, disse Irene.
“Io non ho molta fame, penderò solo la mia solita ciotola di lamponi”, dissi.
“Sei sicura che non contengano droga quei lamponi?”, mi chiese Letizia scherzando.
Io alzai gli occhi al cielo scuotendo la testa.
Beh, in effetti non aveva tutti i torti. I lamponi erano il mio frutto preferito e anche se mi creavano un po’ di prurito io continuavo a mangiarne a fiotti.
Entrammo finalmente in mensa e, per la seconda volta nella giornata, ci mettemmo in fila. Quando fu il nostro turno caricammo sul vassoio le nostre pietanze o, nel mio caso, i lamponi. Ci sedemmo ad un tavolo vuoto. Io misi in bocca il primo lampone.
“Com’è andato il primo giorno?”, esordì Irene.
“Mmmm… direi bene, dato che i prof non ci hanno dato compiti”, dissi.
“A me da schifo”, rispose Letizia accalorata. “Quella di francese ha voluto sapere tutti i verbi e per casa ci ha dato una relazione da scrivere sul film che abbiamo visto durante l’estate. Per non parlare poi di quella di tedesco…”
“Sfortunata”, dissi.
“Eh già”, sospirò.
“Stasera volete fermarvi da me?”, chiesi. Avevo voglia di stare con loro il primo giorno. Ingurgitai altri due lamponi.
“Volentieri”, rispose Irene con un sorriso stampato in faccia.
“Ehm… io a dir la verità penso di no. Ho molti compiti da fare, come vi ho detto, e poi mia madre voleva avermi a casa almeno il primo giorno”, rispose Letizia, sinceramente dispiaciuta.
“Oh, non ti preoccupare”, la rassicurai io.
Soprappensiero mangiai velocemente tutti i lamponi che restavano nella ciotola.
Guardai l’orologio e mi accorsi che era già passato molto tempo.
“è molto tardi”, annunciai. “Penso che andrò in classe, quella di italiano di solito arriva presto”
Loro annuirono e si affrettarono a terminare i loro piatti.
Io raccolsi il mio zaino da terra e uscii a passo lento e cadenzato dalla mensa.
 
Parcheggiai la macchina nel parcheggio di fronte a casa mia. Ovviamente ero già stata in quella casa quando l’avevo scelta e poi comprata. Però era stata comunque un’emozione forte entrare in quella casa e parcheggiare nel posteggio di fronte. Tirai fuori dalla tasca posteriore dei jeans le chiavi. Le guardai quasi con rispetto. Le impugnai e mi avviai verso la porta. Inserii le chiavi nella serratura e le girai facendola scattare.
Aprii la porta spalancandola.
Entrai a passo titubante e malgrado per me non fosse una cosa nuova sotto al sole, il mio cuore accelerò i battiti e per un attimo smisi di pensare.
Tutto questo era mio. Non riuscivo ancora a crederci. Mi sembrava così strano…
Trovai la valigia davanti al divano, al centro del salotto. Prima di venire qui mi ero ripromessa di mantenere la casa pulita e in ordine, e di cominciare a organizzare i miei risparmi. Ma prima era necessario sistemare la casa in stile Emily, riempirla con le mie cose.
Perciò andai in camera mia tirandomi dietro la valigia azzurra. La appoggiai sul letto e la aprii.
In poco tempo sistemai tutte le mie cose. Mi venne in mente che dovevo pensare anche a cucinare, perciò prima di cominciare i compiti mi diressi in cucina.
Aprii il frigorifero, praticamente certa di trovarlo vuoto. Invece fui sorpresa di vedere al suo interno tantissimi cibi di tutti i tipi. Riconobbi in tutto quello lo zampino di mio padre. Alzai gli occhi al cielo anche se lui non mi poteva vedere. Almeno mi avrebbe risparmiato la fatica di andare a fare la spesa. Scorsi un pezzo di carta in fondo al frigorifero e, mentre lo stavo per gettare nel cestino, mi accorsi che era scritto con la grafia ordinata ed elegante di mia madre.
 
Ciao Emily,
so che tu sai cucinare molto bene,
ma ti ho voluto dare lo stesso il mi ricettario.
P.S.: in forno c’è il tuo dolce preferito.
Ti voglio bene,
                                Mamma
 
 Dato che Irene sarebbe venuta a cena decisi di preparare una bella focaccia prosciutto e mozzarella, la sua preferita. Perciò presi farina, acqua e sale e impastai. Ero di nuovo soprappensiero. Riflettevo più che altro su quello che era accaduto a lezione. Credo che fossi stata attratta soprattutto dalla sua bellezza, però avevo notato che le altre avevano notato soprattutto Gabriel e Diego. Dopo qualche minuto di riflessione decisi di lasciar perdere. Finito di impastare, sciacquai le mani sotto al lavandino e coprii l’impasto con la pellicola. Mi diressi in salotto per accendere il fuoco. Mi accorsi con stupore che era già acceso. Non l’avevo notato quando ero entrata in casa. Anche qui, riconobbi la firma di mio papà. Non era proprio in grado di lasciarmi a me stessa. Tuttavia, apprezzai quel gesto. Trovai un biglietto sul davanzale del caminetto scritto con la sua scrittura quasi illeggibile. Cos’è, avevano giocato a fare gli agenti segreti? Sospirai e cominciai a leggere.
 
Spero tu abbia apprezzato questo mio regalo.
Spero tu sappia accendere un fuoco, in ogni caso basta
Uno squillo. Ti ho creato uno spazio accanto al camino
Per la legna, così non devi fare troppa fatica per portarla
Su. Chiama presto,
                                        Papà
 
 
Alzai gli occhi al cielo e sospirai. Come al solito si preoccupava sempre troppo. Anzi, si preoccupavano sempre troppo.
Presi la ciotola che avevo coperto con la pellicola e la misi accanto al fuoco per facilitare la lievitazione.
Dopodiché me ne andai in camera trascinando i piedi, a fare i compiti.
Aprii il pc che mi ero fatta regalare solo l’anno scorso e lo collegai in fretta alla rete. Aprii una pagina di word e cominciai a scrivere la relazione sul film in francese.
 
 
Ebbi bisogno di qualche aiutino da parte di Wikipedia per terminare la relazione ma, quando ebbi finito, notai con piacere che mancava ancora un’oretta all’arrivo di Irene. Mi aveva detto che sarebbe tornata per le sette perché doveva andare a fare alcune compere in città.
Perciò afferrai l’MP3 e le cuffie dal cassetto della scrivania e le indossai. Caricai la mia playlist numero dieci: Relax. Avevo suddiviso tutti i miei brani preferiti in undici playlist diverse per ogni occasione ed emozioni.
In quel momento avevo solo voglia di un po’ di relax per distrarmi da tutto il resto. Perciò la playlist numero dieci mi sembrava quella più adatta. Lentamente chiusi gli occhi e mi lasciai andare ad un sonno ristoratore.
Quando mi risvegliai non sentivo più la musica nelle orecchie, quindi significava che la playlist doveva essere finita. Saltai su e la prima cosa che notai fu che il sole era sparito dietro l’orizzonte e un buio cupo s’insinuava in ciò che restava del giorno.
Controllai l’orologio: erano le sei e cinquantacinque.
Fui grata al mio liquido cefalorachidiano e ai miei neurotrasmettitori per avermi svegliata. Corsi in salotto e cominciai ad apparecchiare la tavola di legno. Pochi minuti dopo suonò il campanello. Andai ad aprire la porta.
“Ciao Ire”, la salutai.
“Ciao Emy”, ricambiò.
Entrò e appese la giacca all’attaccapanni all’ingresso.
“Grazie per avermi invitato a cena”
“Era il minimo che potessi fare”, risposi. Ed era la verità, anche se c’era di base un cinque per cento di egoismo, dato che non volevo rimanere da sola.
“Ti ho preparato la focaccia prosciutto cotto e mozzarella”, le dissi.
Lei sorrise.
“Grazie mille”
“A dir la verità dovrai aspettare ancora qualche minuto perché mi sono addormentata perciò devo ancora infornare”, ammisi.
“Non ti preoccupare, tanto è ancora presto”, mi disse. Era sempre così gentile…
“Intanto se vuoi siediti pure, ho già apparecchiato”
“Ma no, ti aiuto a finire la focaccia”, mi disse.
Avrei voluto rifiutare la sua offerta, ma sapevo che sarebbe stato completamente inutile.
Andammo al bancone della cucina dove avevo già steso l’impasto.
“Cosa posso fare?”, mi chiese, ansiosa di rendersi utile.
“Potresti prepararmi la mozzarella?”
“Certo, è in frigo giusto?”
“Sì”
Io misi in forno la focaccia e preparai il prosciutto cotto.
Sospirai.
“Tu non avevi compiti?”, chiesi.
“A dir la verità ho matematica, ma pensavo di farla stasera con te, dato che non ci capisco niente”, disse e arrossì.
“Perfetto, cos’è?”, domandai.
“Problemi di geometria”
Erano la parte che mi riusciva più facile di tutta la matematica, perciò non sarebbe stato un grande sforzo.
Risi.
“Sono a tua disposizione”
“Grazie”
Intanto la focaccia cuoceva e la tirai fuori dal forno. La tirai fuori e con estrema delicatezza la tagliai a metà. Irene mise la mozzarella ed io il prosciutto. La richiusi e la rimisi in forno.
Ci sedemmo a tavola. Mi versai un bicchiere d’acqua e lo portai alla bocca.
“Hai notato oggi quei tre?”, mi chiese, come se facesse fatica a parlare. Trangugiò rumorosamente la saliva.
“Chi?”, domandai, ma sapevo esattamente di chi parlava.
“Oh, andiamo, quello biondo, il rosso e quello scuro”, mi disse, come se anche lei non si capacitasse del fatto che io non gli avessi notati.
“Ah sì, quelli”, dissi con noncuranza. Cercavo di non mostrare particolare attenzione nei loro confronti per non tradire il mio interesse d’attrazione profonda.
“Beh…”, cominciò, ed era evidente che era molto imbarazzata. Da un lato volevo aiutarla, ma dall’altra desideravo che fosse in grado di esprimere i suoi sentimenti.
“Ecco… io credo… credo di essermi innamorata di quello biondo”, riuscì a dire infine.
Cercai di prenderla alla leggera.
“Chi? Gabriel?”, dissi ridendo.
“Gabriel…. Suona bene”, disse trasognata.
Io risi e lei si distolse dai suoi pensieri frettolosamente.
“Ehm, e tu hai notato qualcuno?”, disse. Non mi aspettavo quella domanda.
“No, non credo”, risposi. Sì, ho notato qualcuno verso cui provo un’attrazione che non ho mai provato prima.
Questa sarebbe stata la risposta giusta, ma non sapevo come spiegarla, perciò mentii. Tuttavia mi fece piacere sapere che anche a qualcun altro era capitato quello che oserei definire un colpo di fulmine.
Il timer del forno squillò ed io mi alzai dal tavolo per tirare fuori la focaccia dal forno. Mi misi il guanto da cucina e la estrassi. Scossi le braccia per creare un po’ di aria fresca in modo da farla raffreddare. La tagliai a metà col coltello e ne diedi metà a Irene e metà me la misi sul mio piatto.
Tagliai un pezzetto e lo misi in bocca masticando piano. Gli argomenti di cui parlare erano finiti, perciò presi tempo. La cena proseguì con discorsi innocenti sparsi qua e là e non accennammo più all’argomento ragazzi.
Dopocena sparecchiai e lavai i piatti con l’aiuto di Irene che non si volle risparmiare. La aiutai a fare i compiti di matematica e poi guardammo un film. Mi addormentai istantaneamente.
   
 
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