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Autore: Talitha_    10/04/2021    4 recensioni
Da quando lei ed Adrien hanno scoperto le rispettive identità, Marinette ha sempre negato, con ostinazione, ogni possibilità di un futuro insieme. ⁣
Sarebbe sbagliato, pericoloso. ⁣
Tuttavia, dopo ancora quattro anni, i suoi sentimenti per lui e gli errori del passato continuano a tormentarla. ⁣
È davvero esclusa in partenza ogni possibilità di trovare un lieto fine?⁣

« Perché c’è di peggio che non conoscere mai l’amore: trovarlo in un tempo della propria vita che lo rende impossibile. »⁣
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Adrien Agreste/Chat Noir, Marinette Dupain-Cheng/Ladybug
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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IV. Lettre 

 

 

1. 

 

‘Non siate annoiati, ma di notizie assetati! Buongiorno, Parigi! Qui Nadja Chamack. Eccoci tornati dalla pubblicità con una delle notizie più sconvolgenti negli ultimi giorni: il suicidio del noto stilista Gabriel Agreste. A soli quarantadue anni ci lascia uno dei talenti più fenomenali della moda francese ed internazionale di questo periodo. Le circostanze della morte sono inequivocabili. È indubbio, infatti, che lo stilista sia morto suicida dopo essersi gettato da un comunissimo palazzo nel centro di Londra. Sconosciute sono ancora le cause che lo avrebbero spinto a questo atto estremo: il figlio e la segretaria, apparentemente le persone a lui più vicine, non ci hanno ancora concesso alcuna dichiarazione. Anche la polizia ha preferito tenere segrete le proprie indagini. Che forse il signor Agreste non sia mai riuscito a dimenticare la scomparsa altrettanto tragica dell’amatissima moglie? Lo ritengo molto probabile, eppure non ne abbiamo ancora la conferma. Tutto è ancora avvolto da un’aura di mistero. Qui è tutto dallo studio, la parola alla nostra inviata Clara in diretta da Londra. Clara, ci sei?’

 

 

2. 

 

Caro Adrien, 

Così iniziava la lettera di suo padre.

Adrien non aveva ancora trovato il coraggio di andare avanti, di spostare lo sguardo oltre quelle due singole parole, scritte in una calligrafia corsiva rigida e… disciplinata. 

Proprio come lui, pensò. 

Aveva dispiegato la lettera circa un’ora prima, con le mani tremanti e le lacrime agli occhi. Era passata già una settimana da quando suo padre era morto, e finalmente gli avevano consegnato quello che lui gli aveva lasciato scritto.

Quando aveva preso la lettera tra le mani, Adrien aveva avvertito l’irrefrenabile impulso di stracciare la busta che la conteneva e divorare ogni singola parola al suo interno. 

Voleva sapere. Doveva

Poi, però, quando aveva fatto per aprirla, e aveva pensato che solo pochi giorni prima suo padre - suo padre, che ora non c’era più! - l’aveva pensata, scritta e tenuta in mano, si era fermato. Quindi era rimasto a fissarla per più di un’ora, perché strappare quella busta, per quanto delicatamente, gli dava l’impressione di profanare in qualche modo la sua memoria. 

Allora aveva passato un’ora a piangere, sudare, mordicchiarsi le unghie, disperarsi e ancora piangere. Poi si era fatto una doccia. In effetti, aveva sudato davvero tanto; e i suoi nervi erano talmente tesi che neanche un potente getto di acqua bollente era servito a rilassarli. 

E quando finalmente aveva trovato il coraggio di aprirla… si era bloccato alla prima riga. E di nuovo era cominciata tutta la processione di lacrime, sudore e… insomma, abbiamo capito. Adrien sentiva di star impazzendo. 

Caro Adrien Caro Adrien Caro Adrien. 

Aveva appreso della morte di suo padre da Nathalie, dopo un solo giorno dal litigio con Marinette, proprio quando gli sembrava che le cose nella sua vita non potessero andare peggio. 

Ed invece, eccola. Un’altra disgrazia. 

D’altronde doveva pur esserci un motivo, pensò Adrien, se Maestro Fu lo aveva scelto come il portatore del Miraculous del Gatto Nero. 

La sfortuna lo perseguitava

Aveva appreso la notizia della morte di suo padre, e la sua prima emozione era stata un senso di… ovattamento. 

Sì, si era sentito prigioniero come di una bolla ovattata, da cui tutto il resto del mondo pareva lontano anni luce, irraggiungibile. Era impossibile per lui tornare a vivere come una persona normale, sorridere giocare ridere scherzare come una qualunque persona di quel mondo distante e inaccessibile. 

Sì, ancora adesso si sentiva in quella bolla ovattata, chiusa in un buco nero e buio, lontano da tutto e da tutti. 

Tuttavia, adesso che Adrien - suo malgrado - aveva una certa esperienza in materia di lutti familiari, sapeva che in realtà il momento peggiore non è quello in cui si viene a conoscenza della morte di una persona cara. Certo, quell’istante, traumatico e indimenticabile, resterà scolpito per sempre nella memoria di chi lo vive, e tornerà molte volte, in futuro, a tormentarlo e perseguitarlo, come se provasse piacere a farlo soffrire. 

Ma no, il peggio era iniziato dopo

Giorni dopo, Adrien quando si era accorto della sua assenza in casa. Sebbene suo padre non fosse mai stato una persona particolarmente partecipativa alla vita familiare, aleggiava in quell’enorme villa la mancanza di qualcosa. L’assenza di qualcuno. 

Mai casa sua era stata tanto vuota e silenziosa. L’unico rumore che risuonava era quello dei singhiozzi di Adrien, che rimbombavano giorno e notte, e sembravano non esaurirsi mai. Perché ogni giorno sembrava sempre peggio, e quando pensava di aver toccato il fondo, ecco che subito un’altra enorme voragine gli si apriva sotto i piedi e lui continuava a sprofondare giù giù giù. 

Suo padre era stato un pessimo genitore, questo Adrien lo sapeva. Ma sapeva anche che era l’unica persona che gli era rimasta, e adesso che lui non c’era più aveva sentito per la prima volta l’orribile sensazione di averne bisogno. Avrebbe dato tutto quello che aveva per vederlo un’ultimo istante, per abbracciarlo ed imprimere nella mente i lineamenti spigolosi della sua figura austera. Di salutarlo, e di digli che, nonostante tutto, gli voleva bene. 

Che, nonostante tutto, lui rimaneva sempre suo padre. 

E per quanto fosse stato assente, severo, freddo, distante, Adrien non poteva fare a meno di volergli bene, e di volerlo lì con lui in quel momento difficile. 

Immaginò di averlo di fronte, di abbracciarlo e di percepire in quell’abbraccio il calore del suo corpo. 

Il calore del suo corpo. 

Impossibile. 

D’improvviso l’idea di morire gli parve così bella, invitante. Ma Adrien l’abbandonò subito con disgusto, perché non si sarebbe mai comportato in maniera così vigliacca, come aveva fatto suo padre. Adrien avrebbe vissuto, perché forse sperava che la vita avesse ancora qualcosa da offrirgli. E poi, lui rimaneva pur sempre Chat Noir, e sebbene volesse tanto odiare Marinette - con ogni fibra del suo essere - non poteva abbandonare Ladybug e la loro missione di sconfiggere Papillon. 

Caro Adrien,

Rilesse. E ancora e ancora. Tanto che ogni singolo tratto, curva o linea di quelle due parole gli si impresse nella mente in maniera così indelebile che Adrien era pronto a giurare di riuscire a riprodurle alla perfezione. Sarebbero parse scritte dalla mano stessa di Gabriel, con quella sua calligrafia rigida e composta. 

Adrien non aveva mai fatto caso alla calligrafia di suo padre, forse perché lui aveva una segretaria che faceva tutto al posto suo, o semplicemente perché non aveva mai scritto niente che potesse pensare di condividere con suo figlio. 

Ora che era morto, Adrien non avrebbe più potuto vederlo scrivere. Non avrebbe potuto più fare tantissime altre cose. Neanche odiarlo, pensò. Neanche urlargli contro la sua rabbia, il suo dolore. 

Neanche dirgli che gli voleva bene. Nonostante tutto. 

Sentì il cuore invaso da un infido senso di colpa. Adrien non aveva mai cercato di fare caso alla calligrafia di suo padre prima, e, anche se questa poteva sembrare una cosa stupida, c’erano così tante altre cose a cui poteva non aver pensato mai, e anche se non ancora le sapeva tutte - ed era convinto che giorno dopo giorno gli si sarebbero rivelate e lo avrebbero tormentato all’infinito - si sentiva in colpa, perché non aveva mai avuto l’esigenza di scoprirle.

Forse, dopotutto, non era solo Gabriel ad essere stato un pessimo genitore. 

Anche lui era stato un pessimo figlio. 

Ma adesso non aveva importanza, pensò Adrien, perché lui non era più il figlio di nessuno, ormai. Era solo uno sventurato ragazzo rimasto orfano a ventuno anni, e tutti avrebbero provato pietà quando lo avessero incrociato per strada. 

Senza che se ne rendesse conto, il suo pensiero andò a Marinette. Era inevitabile, non poteva impedirselo. Pensava a lei sempre, anche in un momento come quello. Cercò di pensare a come lo avrebbe consolato, ai consigli che gli avrebbe dato. AL modo in gli sarebbe stata vicino in un momento come quello. Avrebbe asciugato le sue lacrime con le sue mani bianche e affusolate? Lo avrebbe stretto forte forte tra le braccia, soffocando i suoi singhiozzi a suon baci?

Baci. 

Loro si erano scambiati un unico bacio - che lui potesse ricordare - e quel ricordo gli parve al contempo lontanissimo e vivido nella sua mente. Adrien pensò che se in quel momento Marinette gli avesse regalato un altro bacio lui si sarebbe sentito un poco meglio. Un poco, sì. Ma comunque meglio. 

Caro Adrien Caro Adrien Caro Adrien. 

Guardandola da fuori, la sua vita gli sembrò così patetica. Davvero patetica. 

Adrien continuò a rigirarsi la lettera tra le mani. Era piuttosto lunga, quattro fogli avanti e retro, dalla scrittura fitta e ordinata. In quel momento l’aveva richiusa a metà, perché improvvisamente quel Caro Adrien, gli sembrava una presa in giro. 

Se veramente era stato caro a suo padre, perché lo aveva lasciato solo? 

Perché perché perché. 

Forse la risposta era in quella lettera. 

Adrien si passò le mani sui capelli, in un gesto di disperazione. Non sapeva più cosa fare, come agire. Voleva solo starsene chiuso nel suo dolore, libero di piangere e urlare, e non avrebbe mai più dato fastidio a nessuno. 

Cosa gli avrebbe detto Marinette, se fosse stata lì con lui? Adrien sentì l’impellente bisogno fisico di stringerla tra le braccia. Lanciò un grido di frustrazione, mentre continuava a stringersi i palmi contro le tempie, nell’invano tentativo di sopprimere i suoi pensieri. 

Caro Adrien Caro Adrien Caro Adrien.

Con uno scatto, Adrien riprese la lettera in mano e la dispiegò per bene con i polpastrelli. Finalmente, riuscì a sorpassare quelle due orribili parole, e…

E scoprì tutta la verità. 

Oh, sì. Proprio tutta

 

 

2. 

 

Marinette sentiva il bisogno di starnutire. Anche di piangere, in realtà, ma a quello cercava di non fare caso. 

Stava sbattendo l’impasto del pane con talmente tanta forza sul tagliere in legno della pasticceria che alcuni sbuffi di farina le erano arrivati fino al naso. Con il dorso della mano si pulì frettolosamente il volto. Aveva paura che se si fosse distratta dal suo lavoro anche un solo secondo di troppo avrebbe finito per pensare ad Adrien e…

Ed eccola che ci ricascava. 

Il problema era che non riusciva ad impedire alla sua mente di pensare a lui. Per quanto il suo ricordo la facesse star male, Adrien era diventato talmente importante per lei che le risultava impossibile fare finta che lui non esistesse. 

Marinette pensava sempre ad Adrien, nonostante tutto. Se lo immaginava in quel momento, carico di una sofferenza senza pari. Senza lei a consolarlo e a cercare di alleviare il suo dolore. 

Sciocca Marinette, ti rendi conto di non avere alcuna prerogativa su di lui? Su quali basi fondi le tue pretese di riuscire a consolarlo, quando sei proprio tu la causa di parte della sua infelicità? 

Marinette si sentiva duplicemente in colpa, perché era a causa sua se adesso Adrien non voleva più vederla. Era causa sua se adesso non solo lui si ritrovava a soffrire per la morte del padre, ma anche per gli esiti piuttosto… bruschi del loro ultimo incontro. 

Scosse la testa con forza, cercando di concentrare tutte le sue energie e i suoi pensieri su quel povero impasto, che stava stritolando e spingendo con forza contro il tavolo, quasi fosse l’incarnazione di quei problemi di cui tanto voleva liberarsi. 

Strizzò con forza gli occhi quando li avvertì farsi umidi, perché davvero non voleva piangere, in quel momento. Non voleva piangere più. In quei giorni aveva versato talmente tante lacrime che si chiedeva come fosse possibile averne ancora un’infinita riserva. Perché le lacrime erano sempre così pronte ad uscire, mentre la felicità era così restia a mostrarsi? Perché non poteva esistere anche una scorta inesauribile di felicità? Chiedeva forse troppo?

Da quasi due settimane Marinette viveva con un logorante senso di colpa e la voglia di piangere ad ogni ora del giorno e della notte. 

Fortunatamente per lei e per le persone che aveva intorno, aveva sviluppato una certa abilità nel trattenersi. Lavorando, ad esempio. Si era buttata a capofitto nel lavoro in pasticceria, e aveva addirittura proposto ai genitori di prendersi qualche giorno di pausa dal lavoro, ché avrebbe pensato a tutto lei. 

“Sicura, tesoro?”, le aveva chiesto sua madre guardandola con preoccupazione. 

Marinette si era costretta a mostrarsi il più convincente possibile. “Certo, mamma” aveva esclamato con un tono quasi normale, anche se non le riuscì di sorridere. “State tranquilli e godetevi un paio di giorni di meritato riposo. Sono sicura di farcela”.

Tom l’aveva guardata scettico, anche lui pieno d’apprensione. “E… e con l’università? Non devi studiare?”

Marinette aveva scosso la testa. “Ho tutto organizzato, davvero. Mi farebbe molto piacere occuparmi qualche giorno della pasticceria”.

A quel punto Tom e Sabine si erano guardati negli occhi, ancora non troppo convinti. Ma, se era quello che voleva Marinette, loro non avrebbero certo detto di no. 

Alla fine, avevano acconsentito, ma le avevano promesso che comunque non sarebbero andati da nessuna parte. Sarebbero stati lì, se lei ne avesse avuto bisogno, e Marinette ne fu inconsciamente molto sollevata. Perlomeno, se avesse combinato qualche pasticcio…

No, anche in quel caso se la sarebbe cavata da sola. Era o no Ladybug? Era sopravvissuta a cose molto peggiori. 

Oh, molto peggiori. 

Tutto sommato, il lavoro in pasticceria non si stava rivelando niente male. La teneva occupata, cosa di cui non poteva essere più grata, e le permetteva anche di dedicarsi ad una delle attività che le erano sempre piaciute di più. 

Tra l’altro, scoprì che una delle occupazioni che si rivelò particolarmente liberatoria era proprio impastare. La aiutava tantissimo sfogarsi con un’attività manuale, e le piaceva la sensazione di creare con le proprie mani qualcosa di buonissimo che altrimenti non sarebbe mai esistito. 

In effetti, in quei giorni aveva impastato un po' troppo, tanto che le vetrine della pasticceria brulicavano delle più disparate tipologie di pane, ognuno con forma, farina o semi differenti. 

Marinette continuava a impastare e infornare, a servire clienti e a decorare dolcetti. Il tempo le scivolava tra le mani senza che se ne rendesse conto, anche se si sentiva terribilmente stanca, e sapeva che una volta tornata a casa si sarebbe buttata sul letto e avrebbe dormito tutta la notte. 

Forse non avrebbe neanche sognato. E non ci sarebbero stati incubi. 

Le venne quasi da sorridere al pensiero. Poi si morse un labbro, perché sapeva fosse piuttosto improbabile dormire sogni tranquilli come quando era ragazza. 

Quando non ancora conosceva Adrien né Maestro Fu, e la sua vita era così facile - seppur tremendamente vuota, questo doveva ammetterlo - che il peggior incubo partorito dal suo inconscio riguardava un semplicissimo brutto voto a scuola. 

Tsk. Un brutto voto a scuola. 

Da quando era diventata Ladybug aveva iniziato a prenderne molti, soprattutto nel primo periodo, in cui la sua doppia vita era ancora una novità e non sapeva come comportarsi per riuscire a conciliare tutto. 

Solamente negli ultimi tempi - e, per fortuna, con l’inizio dell’università - gli attacchi di Papillon si erano diradati, e Marinette era tornata ad avere più tempo da dedicare allo studio e a se stessa. 

Ma… avrebbe volentieri scambiato quel poco di libertà in più con delle scuse per vedere Chat Noir, nonostante sapesse perfettamente che vederlo non avrebbe fatto bene a lei, né a lui. 

Comunque, adesso non aveva più importanza, perché Papillon non sembrava una minaccia incombente e tra loro due le cose non sarebbero potute andare peggio. 

Con un brusco tonfo, l’impasto sbatté sul bancone, ancora e ancora. 

Marinette sentiva le braccia dolere a furia di modellare quella materia morbida e compatta. 

Era talmente concentrata nel suo lavoro che per poco non le venne un accidente quando sentì una voce dal negozio chiamare il suo nome con insistenza. O meglio, chiamare qualcuno che venisse a servirla. 

Marinette storse leggermente il naso quando udì quella voce con più chiarezza. Le parve stranamente familiare. Tuttavia, non le riusciva proprio di collegarla ad un volto in particolare, forse perché era stanca morta, o perché non le importava più di tanto, visto che in pochi secondi ne avrebbe scoperto il proprietario. 

Tuttavia, quando uscì dalla cucina della pasticceria, si sorprese quando si trovò davanti Chloé. 

Chloé

Proprio la stessa Chloé che non vedeva da quanto… sei mesi? Marinette era sicura che Alya l’avesse invitata alla festa al loro appartamento, un paio di settimane prima. Da come le era parso di capire, non era potuta venire perché fuori città. Ad esser sincera, Marinette non aveva indagato oltre, perché, come sappiamo, quella sera alla festa aveva avuto ben altro a cui pensare. 

“Ah, Dupain-Cheng”, si lasciò sfuggire Chloé, apparentemente sorpresa quanto lei. “Non sapevo lavorassi qui” aggiunse dopo qualche secondo passato ad osservarla. Marinette corrugò leggermente la fronte, rendendosi conto del motivo per cui non aveva subito riconosciuto la sua voce. Aveva un’intonazione… diversa. Più gentile e calda. 

Chloé inarcò un sopracciglio, in attesa di una sua risposta. 

Marinette sbatté le palpebre come per destarsi da un sogno, poi sorrise debolmente, e scuotendo piano le mani in avanti disse: “Ciao, Chloé… ehm… Oh, no, non lavoro qui. Ogni tanto aiuto i mei genitori.”

Chloé la squadrò da capo a piedi, e non potè fare a meno di notare - oltre al grembiule sporco di farina e i capelli scompigliati - quanto Marinette apparisse dimagrita, debole e fragile. Era piuttosto pallida, e le guance un poco scarne. Gli occhi non le brillavano, e anche le labbra sembravano aver perso il loro abituale sorriso. 

Chloé corrugò le sopracciglia. “Tutto bene, Dupain-Cheng?”, le chiese, quasi preoccupata, notò stupita Marinette. 

Arrossì di vergogna. Non sapeva cosa rispondere. Si morse un labbro, e cercò di mettersi più dritta sulle gambe. “S-sì, tutto bene. E tu come stai? È passato tantissimo tempo dall’ultima volta che ci siamo viste”.

Chloé non si lasciò sfuggire il modo impacciato con cui Marinette aveva cambiato argomento. Tuttavia, fece finta di niente. E con un sorriso che fece dubitare Marinette di avere davanti la Chloé che aveva sempre conosciuto, rispose: “Io sto bene. Molto bene, in effetti”.

Marinette la guardò con occhioni azzurri spalancati. Certo, sapeva che nell’ultimo periodo Chloé era notevolmente migliorata. Era stato un percorso lungo e tortuoso, ma alla fine era riuscita a liberarsi dei traumi della sua infanzia. 

Ma… adesso era diversa, felice. I capelli biondi le ricadevano lucenti sulle spalle, e si sorprese ad osservare lo stile casual dei suoi abiti. Normalissimi vestiti, certo sempre nel suo stile, ma finalmente qualcosa che avesse l’aria di essere comodo e di non costare una fortuna. 

Chloé rise divertita. “Dupain-Cheng, mi guardi come fossi un alieno. Luka mi fa sempre notare quanto io sia migliorata, ma non credevo fino al punto di non farmi riconoscere da te”.

“Luka?”, chiese Marinette a fior di labbra. Cosa c’entrava lui, adesso?

“Ma come, Alya non ti ha detto niente? Ero convinta di sì”, le rispose sorpresa, avvicinandosi di più al bancone. Solo allora Marinette notò le sue scarpe da ginnastica colorate da macchie di colore sgargianti e dalle forme più disparate. Aveva visto bene. Scarpe da ginnastica colorate.

“Dirmi cosa?”

Chloé alzò le sopracciglia. “Ah, Dupain-Cheng. Sai che anch’io fatico a riconoscerti? Che fine ha fatto la dolce, gioiosa Marinette, perennemente col sorriso sulle labbra e sempre pronta ad aiutare gli altri?”

Marinette sorrise amaramente. “Me lo chiedo anch’io” rispose prima di rendersene conto. Strabuzzò gli occhi sentendo le proprie parole.

Patetica, si disse. 

Chloè scosse la testa schioccando la lingua.  “Dupain-Cheng, così non ci siamo. Affatto. Non riesco a credere che adesso sia tu ad aver bisogno di me”, disse con una punta d’orgoglio che la rese quasi irritante. 

“Io non ho bisogno di te” ribatté Marinette, incrociando le braccia. 

“Oh, certo che ne hai bisogno. Sembri un relitto vivente”, le rispose con tono secco, in cui Marinette riconobbe una pallida ombra della vecchia Chloé.

Strinse i pugni. “Senti, Chloé. Sono molto contenta di vederti così cambiata e…” la guardò negli occhi “sì, felice. Ma non ho proprio bisogno che anche tu mi faccia la paternale, perché…”

Una risata cristallina la interruppe. “Mi hai fraintesa, Dupain-Cheng. L’ultima cosa che voglio è farti una paternale”. Si sporse un poco più in avanti, dietro la vetrina dei dolci. “Solo”, disse con voce improvvisamente gentile “mi farebbe piacere ascoltarti, e ricambiare almeno uno dei tanti favori che mi hai fatto in passato. È anche grazie a te se oggi sono una persona migliore”. 

Marinette era sempre più stupita da quell’incontro e dalla loro conversazione. Mai si sarebbe aspettata un’offerta simile da una come Chloé. Si sentì punta nel vivo, perché mentre la sua amica aveva fatto passi da gigante lei era regredita in maniera spaventosa. 

Ancora una volta, si ritrovò senza niente da dire. “G-grazie, io…”

Chloé sventolò la mano in aria. “Oh, non c’è bisogno che mi ringrazi. E neanche che tu mi parli adesso. Tieni”, le disse, porgendole un bigliettino appena estratto dalla borsa, “questo è il mio numero. Chiamami quando vuoi. Mi piacerebbe prendere un caffè insieme”.

Marinette raccolse tra le dita fredde e sporche di farina quel foglietto. Continuava a fissare Chloé e poi il bigliettino estremamente confusa, le labbra schiuse e gli occhi azzurri pieni di sorpresa. 

Chloé rise. E non in modo irritante o derisorio. Assolutamente. “Non montarti troppo la testa, Dupain-Cheng. So ancora essere cattiva, se voglio.”

E prima che Marinette potesse trovare le parole per risponderle, Chloé si era già richiusa la porta del negozio alle spalle. E le uniche prove che lei fosse stata lì erano il tintinnio del campanello all’ingresso e il bigliettino di carta che teneva tra le mani. 

Soltanto quella sera, al caldo sotto le coperte, si rese conto del motivo per cui quella visita le era sembrata tanto strana. 

Chloé non aveva comprato niente. 

 

***

 

Uscita dalla pasticceria di Marinette, Chloé tirò un profondo respiro. Alya l’aveva avvertita sulle condizioni della sua amica, e nonostante questo, Chloé era rimasta profondamente scioccata dallo stato in cui aveva trovato Marinette. L’aveva vista spenta, vuota. La luce che la illuminava di solito… scomparsa. 

Uno degli idoli che avevano sempre ispirato il suo cambiamento, adesso non era altro che un fiore appassito. 

Si avviò lungo Rue Gotlib, attraversò Place des Vosges e riemerse sulla Place du Châtelet. Proprio lì, appoggiato con nonchalance alla fontana, si trovava Luka. Chloé sorrise, mentre sentiva il cuore battere forte mano a mano che si avvicinava a lui. D’improvviso, ogni pensiero cupo scemò via dalla sua mente. Senza che se ne rendesse conto, si ritrovava già tra le sue braccia, respirando con forza il suo profumo. 

“Com’è andata?”, le chiese lui tra i capelli biondi. “Sta davvero così male? Vuoi che vada io? Lo sapevo che dovevo andare, ma tu sei cocc…”

“Sai benissimo che se fossi venuto con me non avremmo risolto niente. Anzi, avresti peggiorato la situazione”, lo interruppe Chloé, ancora appoggiata con la guancia al suo petto. Strinse con più forza le dita dietro la sua schiena, anche se aveva avvertito la spallina della borsa scivolarle sul braccio. 

“Non è vero, io…”

Chloé alzò lo sguardo su di lui. Gli stampò un leggero bacio sul naso, e sorrise dolcemente. “Sì che è vero. L’avresti messa in imbarazzo, e sicuramente mostrarle quanto siamo felici insieme non l’avrebbe aiutata.”

Luka le regalò un sorrisino adorabile. “Quanto siamo felici insieme?”, le chiese spavaldo, migliorando la presa delle sue mani sulla vita di lei. 

“Scemo”, lo rimproverò Chloé alzando gli occhi al cielo. Luka la trovò adorabile, tanto che avvertì il bisogno di stamparle un bacio sulla guancia. E poi un altro sul naso, e un altro ancora su quelle invitanti labbra corrucciate. 

Chloé rise.  Gli premette una mano sulla bocca: “Ecco perché non volevo che venissi anche tu. Marinette si sarebbe sentita ancora più miserabile.”

“Miserabile?”, le chiese lui con aria preoccupata. “Davvero l’hai trovata in stato miserabile?”

Chloé strinse le labbra. “Potrei essere gelosa, sai? Tu che ti preoccupi così tanto per un’altra ragazza”.

Lui le portò il viso contro il collo. “Sai che non provo niente per Marinette. Non più, almeno. Adesso è soltanto una cara amica” le sussurrò sulla pelle. Aveva un odore buonissimo, di miele e cannella. Pungente, proprio come lei.  

Chloè sorrise, perché il respiro di Luka contro il collo le faceva solletico, e perché sapeva che Luka stava dicendo la verità. Non era gelosa, non di Marinette. Lo prendeva in giro soltanto perché la divertiva immensamente stuzzicarlo. 

“Lo so”, gli rispose con un sorriso, alzando la spalla per fargli alzare la testa. Guardandolo dritto negli occhi azzurri, aggiunse con voce improvvisamente triste: “Tornando al discorso di prima, forse “stato miserabile” è un po' esagerato. Ma insomma, praticamente siamo lì”. 

Luka le scrutò gli occhi. “Davvero?”, le chiese a fior di labbra. 

Chloé annuì sconsolata. 

“P-posso vederla?”

“Oh, tesoro. Se la vedessi, ne rimarresti impressionato. Credo sia meglio di no, per te ed anche per lei. Aveva ragione Alya quando mi ha detto che bisogna farla reagire con un atteggiamento più fermo e deciso. Con qualcuno che la punga sul vivo e la sproni a darsi una mossa. Tu sei troppo dolce e sensibile” concluse con un sorriso malizioso.

Luka la guardò divertito. “Disdegni a tal punto la mia dolcezza e sensibilità?”

Chloé fu colpita da una scia di brividi quando le mani di Luka presero ad accarezzarle sapientemente la schiena. Si morse un labbro. “Forse”, disse con voce rauca. 

Dannazione, perché lui aveva su di lei sempre quell’effetto così… così… destabilizzante?

“Forse?”, la riprese lui, in un tono che le mozzò il fiato. 

“Mmh”, mugolò lei in risposta. Luka era così vicino, adesso, e la guardava con occhi luccicanti e pieni di desiderio, come ogni volta prima di baciarla. Chloé conosceva bene quell’espressione, l’aveva addirittura soprannominata “sguardo da bacio”. 

Ecco, era proprio uno ““sguardo da bacio” quello che lui le stava rivolgendo in quel momento. Uno famelico ed eccitato. 

Indubbiamente, il suo preferito. 

 

3. 

 

“Per tutto questo tempo, tu sapevi la verità - la sapevi” sibilò rabbioso Adrien, le lacrime che gli offuscavano la vista “e non hai fatto niente?! E non contenta, lo hai anche aiutato?!”

“Adrien”, la risposta di Nathalie suonò come un sussurro incrinato.  “N-non è così, io…”, la voce le si bloccò in gola. 

“Tu cosa?”, le chiese Adrien, lo sguardo perso nel vuoto. Aveva appena finito di leggere la lettera di suo padre. Tutta la lettera. 

E, semplicemente, aveva scoperto la verità. 

Tutta la verità. 

L’identità di suo padre, i suoni piani loschi, la vera storia dietro la morte della madre. La presunta morte della madre, la collaborazione di Nathalie. Tutto quanto. Era strano pensare come si fosse bloccato per più di due ore su quelle prime due parole - Caro Adrien - mentre il resto della lettera gli aveva richiesto solo pochi minuti di lettura.  Dopodiché, con una rabbia in petto che lo avrebbe spaventato se fosse stato nella piena coscienza di sé, si era diretto subito da Nathalie. Aveva spalancato le porte della sua camera, e l’aveva trovata seduta sul letto, per la prima volta con i capelli sciolti sulle spalle e senza un tailleur perfettamente stirato indosso. 

Sembrava così piccola, indifesa, sofferente. Non contento, Adrien le aveva urlato addosso parole terribili. 

Era sconvolto. Più di quanto lo fosse mai stato in vita sua. Improvvisamente, gli pareva di non conoscere più se stesso, né niente avesse mai fatto parte della sua esistenza. Suo padre, Papillon. Nathalie, Mayura. Sua madre… viva? Marinette… oh, Marinette

Adrien aveva urlato contro Nathalie parole che, se non fosse stato talmente scioccato, sconvolto, inorridito e terrorizzato, non si sarebbe mai azzardato a pronunciare. Neanche a pensare. 

Ma in quel momento, Adrien non era Adrien. Negli occhi gli brillava una luce minacciosa mista a lacrime, le labbra tremavano convulsamente, così come il resto del corpo. 

“Adrien”, mormorò debolmente Nathalie. Così piano, che il respiro pesante di Adrien quasi era in grado di coprire la sua voce. 

Nathalie piangeva. Piangeva silenziosamente, così come ogni cosa che faceva. Nel cuore sentiva un dolore tale da squarciarle il petto, da impedirle di respirare, parlare, pensare. 

“Vi rendete conto di cosa avete fatto?”, chiese Adrien, la voce incrinata. Bassa. Non urlava più, gli faceva male la gola. Le corde vocali chiedevano pietà. 

Anche lui chiedeva pietà, tregua. Cosa aveva fatto di male per meritare tutto quello? Il dolore, l’angoscia e la disperazione. 

Nathalie alzò lo sguardo su di lui. Mai Adrien aveva visto occhi così sofferenti. Erano tristi, lucidi, piegati all’ingiù. Non sapeva come, ma erano proprio piegati all’ingiù. Vi traspariva tutto il suo strazio, quasi fossero in grado di parlare da soli. Nonostante la stanza fosse immersa in un buio totale e spettrale - con la debole luce del sole che filtrava a tratti dalle persiane chiuse - Adrien riuscì a vedere perfettamente gli occhi di Nathalie. 

“Mi dispiace, Adrien”, mormorò ancora lei. Era seduta sul letto, e reggeva il corpo puntando i palmi sul materasso. D’un tratto, le braccia le cedettero e lei si ripiegò su se stessa, il petto lungo le cosce e le mani ripiegate intorno al corpo.

Adrien accorse subito da lei. Le lacrime gli ricoprivano il viso, le sentiva da tutte le parti. Sulle labbra, sul mento, lungo la gola. Sulle guance, gli zigomi, tra le ciglia. Se le asciugò in fretta, perché gli offuscavano la vista e lo facevano sentire debole. Si sedette accanto a Nathalie, e la prese per le spalle. Lei si voltò a guardarlo, e Adrien fece fatica a riconoscerla. “Nathalie, tutto bene?”, le chiese. Era veramente preoccupato per lei. Adesso si pentiva di tutte le parole che le aveva sputato addosso, perché lei era l’unica persona che gli era rimasta. L’unica che gli fosse sempre stato vicino, perlomeno. 

Nathalie rifuggì il suo sguardo. “Dovresti essere arrabbiato con me, Adrien. Continua ad urlarmi contro, per favore. Me lo merito”. 

“Nathalie”, sussurrò Adrien. Calde lacrime ripresero a scorrergli lungo le guance. Si rannicchiò vicino a lei, e la abbracciò. In quel momento avevano entrambi bisogno l’uno dell’altra, e quel bisogno superava ogni risentimento. 

Si cullarono a vicenda, e Adrien si sorprese di trovare in Nathalie un conforto simile a quello di una madre. 

Una madre. 

La sua c’era ancora. O comunque, non era morta. Voleva… voleva…

“Voglio vederla, Nathalie”, le chiese, dopo minuti interminabili in cui l’unico suono era quello dei flebili spasmi che scuotono il corpo dopo tanto tempo trascorso a piangere. Il suono di quei leggeri singulti parve molto dolce ad Adrien, forse perché rappresentava una sorta di calma dopo la tempesta. Il tempo di smetterla di commiserarsi e iniziare ad agire. 

Nathalie lo guardò con un misto di affetto e tristezza. Sapeva che un giorno sarebbe dovuto arrivare quel momento, solo, sperava che almeno Adrien avrebbe potuto stringere Émilie tra le sue braccia, viva. Non vederla addormentata in una bara di vetro. 

Gli accarezzò una guancia secca di lacrime col pollice, in un gesto dolce e tenero. 

Si alzò in piedi, e subito lui le offrì il braccio quando la vide vacillare sulle gambe. “Vieni”, gli disse in un sussurro, e Adrien la seguì. 

 

[continue…]

 

 

Convenevoli finali:

Ufff, che parto è stato scrivere questo capitolo!! Davvero, non ero mai soddisfatta di niente, e ci sono state parti che ho riscritto tantissime volte perché mi sembravano troppo vuote e confusionarie. Non sono ancora completamente convinta del risultato finale, ma credo che se avessi continuato a rimuginarci su non avrei mai più aggiornato questa storia, quindi alla fine mi sono decisa xD

E niente, spero tanto che questo capitolo vi sia piaciuto, e se così non fosse non preoccupatevi, perché neanche a me fa impazzire ahah

 

A presto, 

Talitha <33

 

 

 

   
 
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