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Autore: Sweet Pink    10/04/2021    4 recensioni
Impero Britannico, 1730.
Saffie Lynwood e Arthur Worthington non si potrebbero dire più diversi di così: freddo quanto implacabile giovane Ammiraglio della Royal Navy lui, allegra e irriverente ragazza aristocratica lei. Dire che fra i due non scorre buon sangue è dire poco, soprattutto da quando sono stati costretti a diventare marito e moglie contro la loro stessa volontà e inclinazione!
Entrambi si giurano infatti odio reciproco, in barba non solo al fatto di essere i discendenti di due delle più ricche e antiche famiglie dell'Impero, ma pure alla vita che sono sfortunatamente costretti a condividere.
Eppure, il destino non è un giocatore tanto prevedibile quanto ci si potrebbe aspettare, poiché sono innumerevoli i segreti che li tengono incatenati l'uno all'altra; segreti, che risalgono il passato dei Worthington e dei Lynwood.
E se, con il tempo, i due nemici si scoprissero più simili di quanto avrebbero mai immaginato, quale tremendo desiderio ne potrebbe mai derivare?
Genere: Romantico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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Avvertenze: Sì, questo è proprio un romance storico (praticamente la mia ossessione da quando ho conosciuto Mr. Darcy -.-'), ed è il classico enemies to lovers. Per quanto la coppia è una slow built (non si salteranno addosso dopo le prime quattro righe, chiedo scudo :D), è probabile che verranno delle scene con tematiche sensibili...nel qual caso, metterò una dovuta avvertenza.
Spero possiate dare una possibilità a questa storia, grazie :)

PROLOGO

Ciò che la tragedia divide




Marzo 1730

L'orizzonte si perdeva lontano tanto quanto un sogno, ammantato com'era nella nebbia bianca del primo mattino. Il sole aveva cominciato a fare timidamente la sua comparsa solamente da una mezz'ora, tinteggiando di tenui riflessi aranciati la superficie calma di un mare che – anch'esso – sembrava estendersi all'infinito. Acqua e cielo si incontravano chissà dove più avanti e, proprio come se si fosse trattato di un’attraente visione, l’osservatore non poteva che sentirsi attirato verso quell’ignoto.

“…verso l’avventura!”

Con un’improvvisa morsa nello stomaco, la spettatrice di quell’alba così stupefacente non riuscì a trattenersi dall’abbassare lo sguardo scuro sulla punta delle sue scarpette chiare; poiché all’improvviso il paesaggio marittimo non sembrava essere poi così importante: in quell’ultimo anno, sua sorella le aveva letteralmente riempito la testa con entusiasmanti e poco credibili racconti inerenti eroiche attraversate marittime, tenaci capitani e terribili pirati in cerca di ricchezza.

“Se penso a tutte le storie che ho dovuto leggere per te!” pensò allora la ragazza, con uno strano senso di smarrimento che, da quattro mesi a quella parte, non voleva saperne di lasciarla in pace e spuntava ogni qual volta i suoi pensieri viravano verso la figura sorridente e bionda dell’amata sorella minore. Un senso di vuoto che, in poche parole, l’accompagnava in tutti i momenti della giornata.

Perché tu non sei più qui.

La morsa alle sue viscere si fece più stretta, soffocante, mentre la vista sulle scarpe piccole ed eleganti cominciava a sfumarsi e farsi confusa. No, non poteva permettersi di piangere; gliel’aveva promesso: le aveva preso quelle piccole e bianche dita tremanti fra le sue e le aveva giurato che non avrebbe più pianto per lei. Mai più.

Quello che quindi fece la giovane Saffie Lynwood fu concentrarsi al massimo delle forze nell’osservare come effettivamente il legno scuro della superficie su cui era ritta in piedi fosse sì pregiato, ma anche incredibilmente vecchio. Il contrasto con le sue calzature color crema, poi, lo rendevano ancora più evidente.

Sorrise leggermente, con sé stessa: ventisette anni da poco compiuti e ancora doveva ricorrere a questi trucchetti per non scoppiare in scandalosi singhiozzi, proprio come la bambina che le avevano insegnato a non essere. Almeno, si disse sollevata, il senso di doloroso vuoto stava finalmente abbandonando il campo di battaglia.

Ora, forse, poteva godersi nuovamente ciò che come per magia si estendeva di fronte a lei: in fondo, era la prima volta che vedeva il mare. “Avevi ragione” pensò ancora, smarrendosi in quel blu incredibile con gli occhi spalancati “È proprio bello come nelle nostre storie”.

“Olio di gomito, scansafatiche!”

Con un piccolo sussulto spaventato, la ragazza si voltò di scatto verso la fonte della voce tonante che aveva pronunciato – o meglio sbraitato – quelle parole: la figura bassa e tozza del nostromo si trovava effettivamente a pochi metri da lei e, come se non si fosse accorto della sua presenza così vicina, continuava imperterrito a vomitare parole ingiuriose nei confronti di un giovane quanto terrorizzato mozzo la cui colpa pareva stare solamente nell’aver goffamente rovesciato a terra un secchio d’acqua.

Ovviamente, il ragazzo non poteva in alcun modo rispondere alla cascata di parole che gli stava quasi letteralmente piombando addosso e, chinando la testa biondiccia verso la pezza consunta che stringeva fra le mani rovinate, mormorò fra le labbra un mi dispiace che non sfiorò minimamente l’interessato.

Saffie sollevò lo sguardo scuro dall’edificante scena in svolgimento a due passi da lei ed osservò, con irritazione crescente, come nessuno dei presenti si fosse sognato di intervenire o, almeno, avesse osato alzare la testa in direzione delle urla: un microcosmo di indaffarate formiche brulicava da una parte all’altra del ponte dell’Atlantic Stinger, nave gioiello della Regia Marina Britannica e rinomata cacciatrice dei nemici dell’Impero su cui il sole non tramonta mai.

L’imponente vascello era salpato da Bristol appena tre giorni prima e già la ragazza aveva trovato il modo di comprendere quanto non ci fosse mai un momento di vera pace, nella vita di coloro che lavoravano a bordo. Da prua a poppa, dalla stiva ombrosa fino ai pennoni che sorreggevano le vele, ognuno di quei cinquecento uomini aveva un ruolo ben preciso; un ruolo da cui non si distaccavano mai e che non pareva concedere molti attimi di riposo, poiché le punizioni promesse dagli ufficiali in caso di inettitudine e inerzia sembravano essere terribili.

Il povero mozzo stava ancora inginocchiato sulle dure assi di legno del ponte, inerme al cospetto di quell’anziano uomo che, con le mani ben piantate sui fianchi larghi e il volto paonazzo dall’ira, continuava un monologo tedioso quanto – a parere della ragazza – ingiusto.

L’educazione con cui i genitori avevano rigidamente allevato lei e sua sorella fin dalla nascita le suggeriva di allontanarsi con grazia e silenzio dal luogo, come un’elegante e docile fanciulla ma, ovviamente, Saffie non era dello stesso parere.

“Devi sorridere e chinare il capo con dolcezza, non usare quella lingua lunga che purtroppo ti ritrovi.”

I suoi occhi castani inquadrarono di sfuggita il sorrisetto soddisfatto dipinto sul viso sbarbato di quello che sembrava essere un giovane tenente con nessuna intenzione di fare il proprio mestiere. Lui e il mozzo potevano avere la stessa età, ma il primo non era mosso da qualsivoglia compassione e, anzi, se ne stava appoggiato mollemente alla base dell’albero di prua, come uno spettatore interessato.

Fu quest’ultima immagine che fece perdere il controllo a Saffie: buttando a mare l’etichetta richiesta dalla situazione, la ragazza si era già fatta vicina al marinaio in due passi svelti, anche se l’interessato ancora non aveva fatto segno di essersi accorto in alcun modo della sua presenza. Saffie aggrottò le sopracciglia scure e, per farsi coraggio, serrò le dita contro la ruvida copertina del libro che aveva portato con sé sopracoperta.

“Signor Brown!” si ritrovò a dire con voce un poco tremante ma decisa, dopo aver preso un profondo respiro di incoraggiamento “Credo che il vostro giovane sottoposto abbia già compreso molto bene il suo errore.”

Il nostromo voltò la testa grigiastra nella sua direzione, di scatto. Gli occhi arrossati dalla foga con cui stava gridando si fecero improvvisamente sbarrati e stupiti, come altrettanto basita era l’espressione che si era palesata sul volto del tenente ancora in piedi a qualche metro da loro.

La ragazza decise di affrontare con un temerario sorriso l’incredulità dei due uomini di mare di fronte a lei. Il suo sguardo si abbassò quindi con dolcezza sul povero mozzo: anche lui, per qualche ragione, la guardava come se fosse stata un’apparizione mistica pronta a svanire da un momento all’altro. Gli occhi azzurri di quel ragazzino lacero non si staccavano dal suo elegante abito beige, ed inseguivano i ricami in pizzo bianco che lo componevano come se non avessero mai visto niente del genere in tutta la loro breve vita.

All’improvviso, come un fulmine a ciel sereno, Saffie pensò con dispiacere che lui avesse più paura di lei che del nostromo stesso e delle sue ire funeste, ma non si pentì affatto di essere intervenuta. “Continuare a infierire su di lui non lo farà certo riprendere più velocemente il lavoro che gli volete veder compiere” aggiunse allora la ragazza, dissimulando una serenità che non sentiva di avere, visto che nessuno dei tre uomini si era ancora deciso a spezzare il silenzio.

Suo malgrado, si accorse di stare arrossendo leggermente, dall’imbarazzo, e scelse così una breve ritirata strategica, abbassando nuovamente lo sguardo sul ragazzetto in ginocchio di fronte a lei, poiché un insopportabile sentimento di inadeguatezza aveva cominciato a farsi strada dentro il suo cuore.

“Se fossi almeno la metà di quello che è tua sorella, io e tua madre potremmo morire felici.”

Le sue dita si strinsero con ancora più forza sulla rilegatura del libro, come se la proprietaria avesse voluto lacerarlo. O, al contrario, avesse il timore di poterlo perdere da un momento all’altro.

Grazie al cielo, fu il nostromo a ritrovare la voce per primo. Fece solo un cenno brusco e sbrigativo al sottoposto che fino a qualche secondo prima stava terrorizzando e, non appena questi riprese a lavorare a testa rigorosamente bassa, si rivolse alla donna che sfortunatamente erano stati obbligati a prendere a bordo: non solo portava mala sorte avere una femmina imbarcata sulla nave per tutta la durata del viaggio, ma era il carico pesante che era giunto con lei a preoccupare maggiormente l’equipaggio.

“Mi scuso per il disagio che questa scena può avervi causato, signora Worthington” asserì l’uomo, con una lieve nota d’ansia nella voce roca da animale selvaggio; e, forse per questo motivo, non fece caso al lieve sussulto della ragazza, nell’udire il nome da lui pronunciato. “Ma certa marmaglia a volte è difficile da gestire.”

Le sue parole furono gratificate da un freddo sorriso di cortesia e da un leggero inchino. “Nessuno disagio, davvero: sono solo grata del fatto che tutto si sia potuto risolvere per il meglio. A volte, una parola gentile ottiene più di una sfilza di ingiurie, signor Brown.”

Il nostromo in questione sentì le orecchie andare a fuoco in meno di un secondo, tanto la frase di quella ragazzina minuta l’aveva colpito nel profondo: era bastata quella secca battuta per mandare in pezzi l’orgoglio nei confronti di quel carattere di cui si vantava con mezzo mondo da cinquant’anni a quella parte.

Sbalordito e offeso, avrebbe anche risposto con forza se il tenente che poc’anzi aveva assistito a tutto il teatrino in silenzio non si fosse palesato in maniera fulminea al suo fianco. “Shaoul Brown, con me prego!” gli sibilò in faccia, passandogli una mano sotto il braccio ed attirando così la sua attenzione. Il tricorno calato sugli occhi attenti non permise al nostromo di vedere bene la sua espressione, ma udì fin troppo chiaramente le parole piene di tensione che seguirono: “Sta arrivando l’Ammiraglio. Tacete immediatamente.”

“È tutto in ordine?”

Il signor Brown fece giusto in tempo ad alzare gli occhi verso la fonte di quella voce che, in pochi secondi, tutto il suo ardore fu trasformato in timorosa deferenza.

La domanda era stata posta dall’attempato capitano della Stinger, ma era il giovane uomo a cui si accompagnava ad essere la vera causa dell’agitazione sua e di tutto l’equipaggio, da quando erano salpati: l’alta e imponente figura dell’ammiraglio Arthur Worthington camminava dritta al fianco del comandante, con le mani elegantemente incrociate dietro la schiena e un’aria di tremenda severità stampata su un viso dai lineamenti aristocratici, ma freddi.

“Ce…certo, signore! Tutto sotto controllo, come da ordini!”

Worthington.

Saffie non udì neppure la risposta balbettante del tenente a pochi passi da lei, come a malapena aveva fatto caso al colorito funereo palesatosi all’improvviso sul grasso viso del signor Shaoul Brown. Tutta la sua attenzione era stata immediatamente dirottata sulla persona che ora svettava altezzosa davanti a loro, avvolta in un’abbagliante divisa blu e oro, con gli stivali neri tirati a lucido e un’elaborata quanto sottile spada ben allacciata al fianco sinistro.

“Non trovi che sia bellissimo, Saffie?”

Un’ondata di disprezzo impressionante travolse in un attimo la ragazza e lei stessa se ne stupì, poiché in realtà sentiva il suo intero corpo pietrificato sul posto e il suo stesso cuore – si disse – di certo aveva smesso di battere in un istante.

Fu inevitabile: gli occhi verde scuro dell’ammiraglio si incatenarono per una frazione di secondo con quelli castani di lei e Saffie dovette suo malgrado sostenere il gelido rancore che le iridi dell’uomo segretamente comunicavano.

Arthur Worthington abbassò poi lo sguardo smeraldino sul piccolo libro che la ragazza stringeva al petto e una smorfia sprezzante gli attraversò fugacemente il volto sbarbato.

Allora le labbra di Saffie si serrarono l’una contro l’altra con forza, poiché quell’odiosa espressione non solo non le era sfuggita ma, se fosse dipeso da lei, avrebbe voluto vedere l’uomo in questione sparire inghiottito nelle stesse acque scure che stavano attraversando.

“Lo ami proprio tanto questo Arthur Worthington, vero, Amandine?”

“Mi rallegro che abbiate il tempo per fare salotto” commentò l’ammiraglio con una nota di ironia nella voce profonda e perfettamente controllata. Erano il nostromo e il tenente gli impauriti destinatari di quell’affermazione che, ovviamente, li fece scattare immediatamente sull’attenti. “Signor Brown, vi consiglio vivamente di tornare ai doveri per i quali la Marina della Corona vi paga un lauto salario. Tenente, voi seguirete immantinente me e il capitano sul ponte di comando. E, con immantinente, intendo adesso.”

“Repliche, ovviamente, non sono nemmeno da contemplare” pensò con fastidio e sarcasmo Saffie, trattenendosi dall’alzare platealmente gli occhi al cielo azzurro.

Senza aspettare alcun segno di risposta da parte dei due uomini presi in causa, Arthur Worthington si voltò agilmente e cominciò a camminare con fare tranquillo verso la poppa della nave, percorrendo la lunghezza del ponte apparentemente ignaro del turbamento che la sua presenza provocava nell’equipaggio tutto.

Era il famoso carico pesante che mai si sarebbero aspettati di trovare a bordo: con trentatré anni appena compiuti, l’imperterrito Ammiraglio Worthington era il più giovane nel suo ruolo da generazioni e, lasciando da parte il suo carattere orgoglioso, in una situazione di normalità non avrebbe dovuto metter piede su un vascello classificato di terzo grado come l’Atlantic Stinger: eppure, era stato proprio quest’ultimo il mezzo prescelto per il lungo viaggio fino all’insediamento di Kingston, sorto da non molti anni nell’affascinante Mar dei Caraibi.

Come se non bastasse, c’erano delle donne sulla nave: la presenza della graziosa moglie dell’ammiraglio e della sua domestica personale preoccupava parecchio i marinai, che non potevano far altro se non rivolgere mute suppliche all’oceano di una fortunata e tranquilla navigazione.

Ritrovatasi pressoché sola a prua del vascello, Saffie si concesse ancora qualche minuto per osservare l’ampia schiena dell’uomo che più odiava al mondo allontanarsi: era dalla loro disastrosa prima notte di nozze che non lo vedeva da così vicino.

La ragazza si voltò di scatto, nuovamente in direzione dell’infinito del mare, e cercò di mettere a tacere il misto di disgusto e risentimento che le aveva attanagliato lo stomaco all’improvviso.

Ormai, non ricordo nemmeno quando è stata l’ultima volta che ci siamo rivolti la parola.

Anche poco prima era andata così: né un cenno, o un saluto era intercorso fra di loro, perché a nessuno dei due sembrava importare di odiarsi pubblicamente, alla luce del sole.

“Almeno quando arriveremo a Kingston non avrò più modo di vederlo ogni santo giorno” sospirò Saffie, per tirarsi su di morale. Salì con cautela i pochi gradini che la separavano dalla parte più alta del ponte di prua, il castello, e si sedette sulle scomode assi di legno, aprendo il suo piccolo e inseparabile libro sulle gambe fasciate da metri e metri di fastidioso tessuto pregiato.

L’oceano riluceva splendente e placido davanti a lei; mentre l’orizzonte risultava ora perfettamente visibile, anche se sempre troppo lontano e inafferrabile, proprio come un sogno.

“Io e Arthur ci sposeremo, Saffie! Sono talmente felice da sentirmi morire!”

Quasi le parve di udire il suono di una dolce risata perdersi nel vento salmastro e, cercando di non dare ascolto al suo turbamento costante, la ragazza passò le dita fra le onde di capelli castano chiaro con nervosismo. Provava un senso di colpa difficile da decifrare: un sentimento doloroso che – pensò – non si meritava in alcun modo.

È stata tutta colpa tua.

Tu sei responsabile.

Forse Saffie poteva immaginare, ma non di certo sapere, che simili erano i sentimenti in quel momento provati dal giovane ammiraglio.

“Mantenendoci a questa andatura, probabilmente arriveremo a destinazione con qualche giorno d’anticipo” asserì Arthur in tono neutro, all’indirizzo del capitano; i suoi occhi verdi erano però ben piantati a prua e, in particolare, verso la minuta figura femminile che da qualche tempo a quella parte avrebbe voluto veder sparire come per magia.

Con uno sforzo considerevole, obbligò sé stesso e il rancore che gli divorava l’animo a concentrarsi sulle carte spiegate sopra il banco in legno lucido davanti a lui.

Non dovresti esserci tu qui, ma lei.

Si appoggiò con entrambe le mani al piano e inarcò leggermente la schiena verso di esso, cercando contemporaneamente di controllarsi e mantenere il contegno elegante per cui era famoso fra i suoi sottoposti. Latitudini e longitudini si perdevano tra isole distanti, mari esotici e rotte di navigazione da lui stesso calcolate e tracciate, poiché niente il suo sguardo riusciva in realtà a cogliere.

“Se il tempo continuerà a concederci clemenza, certo” fu il commento bonario del comandante Henry Inrving, il cui temperamento mite ma inflessibile gli era valso decenni di ammirazione da parte di svariati equipaggi e neanche un tentativo di ammutinamento durante le lunghe traversate oltremare. Gli occhi sagaci dell’uomo vagarono pigramente dalle ampie spalle dell’ammiraglio in piedi di fronte a lui fino al fondo del ponte sopracoperta, la cui prua era occupata da sporadici marinai e da un’insolita ragazza castana, coraggiosamente intenta a leggere sul castello. Decise così di aggiungere, in tono apparentemente casuale: “Saremo tutti ben lieti di metter piede a Kingston al più presto anche se, devo ammettere, la vostra adorabile moglie sta affrontando questa traversata come una vera creatura di mare: è raro vedere una donna salire così spesso sopracoperta e, soprattutto, una che non soffra il mal di mare!”

“…e, promettilo, mi porterai sempre con te, vero?”

Se il capitano Inrving si era aspettato di veder qualche tipo di reazione in seguito alle sue parole gentili e piene di ammirazione nei confronti della signora Worthington, dovette rimanere deluso. Solo, gli occhi verdi di Arthur si alzarono per la seconda volta sulla figura lontana di Saffie Lynwood. “Così sembrerebbe” commentò freddamente, senza l’intenzione di aggiungere altro.

Fortunatamente per lui, l’attenzione del comandante venne attirata dal tono brusco e schietto del suo più fedele timoniere che chiedeva urgentemente udienza. L’ammiraglio Worthington li udì confabulare a malapena, preso com’era a gestire la forte repulsione provocata dalla realtà che l'ignaro Henry Irving gli aveva sbattuto in faccia, come uno schiaffo a viso aperto: ora lei portava il suo cognome, ma preferiva morire piuttosto che riconoscerla come signora Worthington.

È tutta colpa tua.

La vide aggiustarsi distrattamente una ciocca di capelli ribelli dietro l’orecchio, gli occhi scuri persi fra le pagine di quel maledetto libro, probabilmente la seconda cosa al mondo che più odiava dopo la ragazza in questione.

Tu sei responsabile.

Non dovrei essere io, a provare questo senso di colpa.

Eppure né Saffie, né Arthur potevano sapere come, in quella limpida mattinata del 3 Marzo 1730, entrambi avessero già messo in movimento i fili invisibili di un destino a cui non era possibile opporsi. Tutto ciò che entrambi riuscirono a fare, invece, fu tornare indietro al momento in cui la loro esistenza era mutata per sempre.

L’Atlantic Stringer procedeva a vele spiegate verso l’ignoto mentre, ai poli opposti della nave, i due volgevano lo sguardo in direzione di un unico istante passato.

Ad Amandine, che ancora era in vita.





Angolo dell’autrice:

Ehm…Buongiorno. Vorrei ripresentarmi decentemente alla piattaforma e, nella mia testa, avevo pensato a un incipit del tipo: “Ciao, sono Sweet Pink, e non pubblico più storie dal lontano 2012. Ormai sono pulita da nove anni, eppure non c’è stato momento in cui non abbia provato a prendere una penna in mano, chissà mai tornasse il caro vecchio coraggio di scrivere”.

Efp mi ha dato tante soddisfazioni e tanti bei ricordi, quindi non ho incertezze nel pubblicare anche qui la mia storia, poiché in tutto questo tempo entravo a più riprese nel sito per dare una “sbriciatina”, o solamente per leggere qualche storia!

In questo caso, non mi resta che dirvi quanto io sia emozionata nel pubblicare nuovamente qui, come spero tanto che vi abbia incuriosito – e vi sia pure piaciuto – il prologo al racconto che sto scrivendo. Dopo tanto tempo ho un’idea e uno svolgimento abbastanza chiari nella mia mente, quindi la mia speranza è che vi divertiate a leggere nello stesso modo in cui io mi sto divertendo a scrivere. Mi farà senz’altro piacere sapere cosa ne pensate!

Ultima cosita: è da parecchi anni che non scrivo qualcosa di veramente completo, quindi chiedo perdono se dovesse esserci qualche inesattezza.

Anzi, no, ultimissima cosita: mi rendo conto che il mio prologo e – soprattutto – i miei capitoli potranno risultare un po’tanto lunghi, ma questa è l’unica che non è mutata con il tempo. Capitoli corti, per me sono misteriose e ignote creature!

Un abbraccio forte,

Sweet Pink

  
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