Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: PerseoeAndromeda    11/04/2021    1 recensioni
[Fanfic scritta per l'Easter Advent Calendar del gruppo Hurt/Comfort Italia - Fanart and Fanfiction - GRUPPO NUOVO]
Correva come se stesse fuggendo in preda al panico da qualcosa di tremendo e intanto urlava, convinto che nessuno lo udisse.
Lo aveva raccolto, lo aveva fatto calmare tra le sue braccia e Armin si era lasciato andare, confessandogli che era l’unico mezzo che aveva trovato per non impazzire.
Lui, razionale, lucido, mente geniale, sarebbe andato in pezzi pur di non far pesare i propri traumi sulla squadra e aveva trovato solo quella via di fuga: perché il suo malessere interiore, di razionale non aveva proprio nulla.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Armin Arlart, Conny Springer, Jean Kirshtein
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Autore: Perseo e Andromeda; Heather-chan
Fandom: Attack on Titan
Prompt: 6. Corsa
Titolo: Vienimi a cercare
Personaggi: Armin e Jean. Breve comparsa di Connie
Genere: Hurt/Comfort, angst
Rating: giallo
 
VIENIMI A CERCARE
 
«Hai visto Armin?».
Jean si aggirava tra i soldati impegnati nei lavori al porto, poneva a chiunque questa domanda e faticava a nascondere la preoccupazione. Neanche Eren e Mikasa vedevano il loro amico da un po’ di tempo e sembrava essersi dissolto nel nulla.
Una figura umana si parò sui suoi passi, sbuffando con una cassa di provviste tra le braccia che gli impediva la visuale. Solo il balzo all’indietro di Jean poté evitare la colluttazione.
Connie mantenne a stento l’equilibrio, poi posò a terra il suo carico, con un’esclamazione di sollievo.
Aver incrociato l’amico si trasformò, per lui, in una scusa per riprendere fiato.
«Stai ancora cercando Armin?» chiese, asciugandosi la fronte. «Più passa il tempo e più sembri una mamma chioccia con lui. Stai diventando peggio di Eren».
«Ma che dici? Sei cretino?!».
Nonostante il tenore della risposta, Jean doveva ammetterlo: le parole di Connie esprimevano una realtà della quale si rendeva conto lui stesso.
Ma non poteva farci nulla.
Nel corso degli anni, il legame tra i membri dell’armata di ricognizione si era saldato a tal punto che non potevano più considerarsi una semplice squadra di compagni d’arme.
Erano una famiglia, avevano condiviso troppo, perso troppo e si erano protetti a vicenda troppe volte: l’affetto che li univa era quanto di più prezioso restava a tutti loro nell’inferno della loro esistenza.
Inutile nasconderlo, ognuno di loro ci provava sempre meno a fingere che non fosse così.
Jean non osava neanche più negare con convinzione l’intimità e la confidenza che aveva raggiunto con Armin: un legame così lo aveva sperimentato solo una volta nel corso della sua vita.
Ed era durato troppo poco.
Da quando l’aveva perduto, avvicinarsi ad Armin in un modo fin troppo simile gli era venuto naturale.
Armin ne aveva bisogno, lui ne aveva bisogno e tanto bastava.
Nel corso degli anni avevano appreso cose l’uno dell’altro che, spesso, nessun altro conosceva.
Nel caso di Jean, nemmeno Connie e Sasha.
Nel caso di Armin, nemmeno Eren e Mikasa.
Non perché Armin non si fidasse di loro, ne aveva parlato con Jean una volta: avrebbe affidato loro tutto se stesso.
Ma aveva fatto una promessa: mai sarebbe stato un peso, mai avrebbe fatto in modo di dover essere costantemente difeso da loro come quando erano bambini.
Così si era limitato a restare vicino ad entrambi senza mostrare tante cose di sé, tanti crolli, tante debolezze di cui invece Jean era al corrente, perché vi aveva assistito.
Aveva visto, solo lui in tutto il gruppo, come Armin si isolasse per poter dare via libera a quei crolli, per poter sfogare i suoi traumi senza far preoccupare nessuno.
Lo aveva visto quando, per puro caso, preoccupato perché si era reso conto di un suo momento di estrema tristezza, anni prima, lo aveva seguito e lo aveva sentito urlare, da solo, nel bosco e seguendo quelle grida lo aveva trovato.
Correva come se stesse fuggendo in preda al panico da qualcosa di tremendo e intanto urlava, convinto che nessuno lo udisse.
Lo aveva raccolto, lo aveva fatto calmare tra le sue braccia e Armin si era lasciato andare, confessandogli che era l’unico mezzo che aveva trovato per non impazzire.
Lui, razionale, lucido, mente geniale, sarebbe andato in pezzi pur di non far pesare i propri traumi sulla squadra e aveva trovato solo quella via di fuga: perché il suo malessere interiore, di razionale non aveva proprio nulla.
Non aveva mai smesso.
Per quanto Jean, nel corso degli anni, avesse cercato di cogliere quei momenti, di prevederli e prevenirli, quelle corse pazze lontano da tutti, dando libero sfogo alla propria disperazione e alla propria paura, non erano mai cessate.
Così, quando scompariva, a Jean veniva naturale preoccuparsi e cercarlo: preferiva essergli vicino in quei momenti, preferiva abbracciarlo piuttosto che lasciarlo correre e urlare in preda alla follia.
Ma tanto spesso Armin sgattaiolava via come un pesciolino: era bravo a dissimulare, fin troppo, era uno stratega anche con se stesso.
Connie si sedette sulla cassa di legno, sbuffò verso il cielo e si asciugò per l’ennesima volta il sudore dalla fronte.
«Hai provato da qualche parte sulla spiaggia?».
«Ci stavo andando adesso».
Riprese il suo cammino, quando la voce di Connie lo trattenne:
«Se lo trovi, dì al nostro delicato signorino che qui avremmo bisogno anche dei suoi pochi muscoli».
Jean abbassò il capo e ridacchiò: Armin era il loro piccolo gigante colossale… una contraddizione in termini che sembrava uno scherzo del destino.
Si allontanò dalla zona più trafficata e camminò senza mai smettere di guardarsi intorno, giunse laddove la sabbia era più soffice, finché i rumori delle attività umane non si fecero sempre più indistinte per poi scomparire del tutto.
Si ritrovò da solo, gli uccelli marini di cui da poco avevano scoperto l’esistenza stridevano sopra la sua testa e quelle strane onde di sale picchiavano sulla riva spruzzandogli addosso la loro schiuma.
Lui era uno di quelli che, un tempo, avevano canzonato Armin per quel suo sogno bizzarro.
Ma Armin ne sapeva sempre più di loro, ormai lo aveva capito, lui aveva saputo vedere oltre l’aridità delle mura e della loro vuota esistenza.
E aveva avuto ragione, perché quel suo sogno si era rivelato una realtà così bella da togliere il fiato, una realtà che i conflitti umani stavano distruggendo, così come distruggevano i sogni di Armin.
Si fermò non appena lo vide, un puntino lontano, ma quella scintilla bionda che rifulgeva sotto il sole era inconfondibile.
Era fermo in riva al mare, le onde gli lambivano i piedi, proprio come la prima volta che erano giunti lì e guardava lontano.
Riprese a camminare e, man mano che si avvicinava, poteva notare anche l’espressione di Armin, che invece era tanto diversa da quel giorno: in quel momento non vi era alcun sogno acceso nei suoi occhi, solo tristezza e smarrimento.
Dopo un po’ quella figurina minuscola si mosse, fece un passo, poi un altro, addentrandosi di più nell’oceano e Jean venne colto del tutto alla sprovvista quando, all’improvviso, lo vide correre, proprio come faceva sempre nella foresta, medesimo atteggiamento, medesimo agire insensato, con l’unica differenza che questa volta non urlava.
Colto da un senso di urgenza, Jean si mise a correre a propria volta, sentendo il bisogno di raggiungerlo prima che…
Prima che cosa?
Se l’era appena chiesto quando Armin scomparve tra i flutti, come se il suo sogno di infanzia lo avesse di colpo inghiottito.
Un ragazzino scomparso nel suo sogno.
Che strani pensieri.
«ARMIN!» si ritrovò a gridare, arrancando nell’acqua che lo rallentava, il panico che lo aggrediva suo malgrado.
L’amico riaffiorò davanti ai suoi occhi quando erano ormai a pochissima distanza, tanto che Jean poté allungare una mano e afferrarlo per un braccio, trascinandolo nel punto in cui si trovava lui e in cui il fondale era ancora abbastanza basso da poterlo toccare con i piedi.
Quel contatto fece scattare qualcosa in Armin che, d’un tratto, urlò, un grido così forte ed acuto che Jean fu sul punto di mollarlo per portarsi le mani alle orecchie.
Anche così non lo lasciò, dopotutto c’era abituato.
Lo tirò maggiormente verso di sé e se lo fece aderire addosso, ma quel movimento fu, per forza di cose, così brusco che entrambi caddero e un’onda li spinse più vicini alla riva, sballottandoli come se fossero due ciottoli in balia dell’oceano.
Sputacchiando acqua salata, a Jean venne spontaneo proteggere Armin dalla colluttazione con la sabbia, per quanto questa fosse morbida: erano così avvezzi a proteggersi tutti a vicenda che capitava spesso di farlo anche quando non ce n’era davvero bisogno.
Così lui si ritrovò seduto a terra, con Armin in braccio e le onde che frustavano senza sosta i loro corpi ormai fradici.
«Jean» pigolò Armin con la sua voce sottile.
«Scemo!» gli fece eco l’altro, molto più energico.
Armin arrossì e distolse lo sguardo.
«Cosa diavolo credevi di fare?».
«Non… non lo so…».
«Non lo sai?!».
Jean si alzò con mosse nervose, trascinando con sé il compagno.
Si ritrovarono in piedi, l’uno di fronte all’altro, un braccio di Armin prigioniero delle dita di Jean e il più piccolo così confuso e imbarazzato che non osava sollevare il viso.
«No… non lo so…» si limitò a sussurrare, con tono così basso, incerto, con espressione così indifesa che Jean desiderò fare solo una cosa.
E lo fece.
Se lo tirò di nuovo addosso e lo abbracciò forte, una mano sui fianchi, l’altra tra i capelli, affondando in essi il naso:
«Mi hai fatto morire di paura».
«Pe… perché?».
Già, perché?
Perché ti sei isolato da tutti senza dire niente, perché ti ho trovato qui a fissare il nulla con espressione sconvolta, perché ti sei messo a correre nel mare e, completamente vestito, ti sei tuffato e sei scomparso, perché quando ti ho riacchiappato ti sei messo ad urlare come se ti stesse divorando un titano…
Perché a volte, caro piccolo genio, la tua mente è così contorta che non si capisce cosa ti passi per la testa.
Tutti quei pensieri si tradussero in uno sbuffo, in un piccolo ringhio mentre poneva fine all’abbraccio, che si ridusse nel residuo intreccio delle loro mani.
Poi Jean scosse il capo:
«Perché sei un cretino».
Armin arrossì ancora, lo sguardo fuggì nuovamente e sul suo volto a un tempo delicato e un po’ buffo comparve un leggero broncio:
«Lo so».
A Jean non sfuggì l’incrinarsi della sua voce, così lo scrutò con maggior attenzione. Le lacrime comparvero insieme al sussultare delle spalle.
La mano di Armin salì alla bocca nel tentativo vano di arginare un singhiozzo e quella vista strappò a Jean un nuovo sospiro e uno scuotersi del capo.
«Quante volte te l’avrò ripetuto? Vieni da me quando…».
«Non voglio…».
«Non voglio essere un peso» Jean gli fece il verso e gli arruffò i capelli.
Ma quella tenerezza non aiutò Armin a controllare il pianto, anzi, lo fece esplodere definitivamente.
Nonostante tutto, a Jean venne da sorridere.
Era meglio così, almeno si sfogava e non se ne stava a piangere da solo o a commettere, da solo, qualche altra sciocchezza.
Girò sui tacchi e, senza lasciare la sua mano, prese a camminare verso la riva:
«Almeno vieni a piangere all’asciutto».
Armin non oppose alcuna resistenza, superarono le onde, risalirono di qualche metro lungo la spiaggia e solo lì si fermarono, ancora mano nella mano.
Jean tornò a guardarlo, le mani si sciolsero un poco, ma le dita rimasero allacciate. Lo sguardo di Armin rimaneva basso, piangeva e, al tempo stesso, Jean lo scoprì a sorridere.
Le guance e il naso tondo erano più rossi che mai.
Jean inarcò le sopracciglia.
«Stai piangendo o stai ridendo?».
Armin rintanò la testa tra le spalle, che si scossero in quelli che Jean si chiese se fossero risate o singhiozzi, poi lo guardò dal basso verso l’alto in un’espressione che era al contempo timida e un po’ monella.
«Se ti dico che non lo so, mi credi?».
«Capirai» sbuffò Jean. «Da te mi aspetto qualunque cosa, anche che tu possa ridere e piangere insieme».
Le dita di Armin si agitarono un po’ nelle sue, chinò la testa in avanti e appoggiò la fronte sul petto del ragazzo più alto.
«Jean…» mormorò.
«Dimmi, Armin».
«Grazie… e scusami se ti ho fatto spaventare».
Un altro sbuffo, una mano ad arruffare la chioma bionda impregnata di sale, il bisogno che Jean sentiva di rimanere lì ancora un po’, a stringerlo contro di sé e a proteggerlo da quel mondo che per loro sembrava non avere nulla di buono.
«Va bene così… ma ogni tanto ricordati che puoi venirmi a cercare».
 
 
 
 
 
   
 
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