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Autore: deathkilledveronica    12/04/2021    0 recensioni
In questo caso c'è ben poco da ascoltare ed Alice lo sa bene. La sordità che l'accompagna l'ha circondata di silenzio, di rumori non sentiti e di parole non recepite. Alice vive nel suo paese delle meraviglie, dove i libri sono la sua casa, le poesie il suo tripudio d'amore.
Anche Marco sa bene che c'è ben poco da ascoltare: conta ogni passo che compie, vive sommerso dai suoi numeri. Nel suo mondo le pietanze non si toccano, tutte le sue camminate iniziano col piede destro ed i sentimenti non sono ingarbugliati tutti nel suo stomaco.
É seguendo il ritmo delle sue emozioni - e non il numero dei suoi passi - che Marco incappa in una coincidenza meravigliosa, casualità fortuita di un destino che non vuole dargli l'ordine che tanto brama: Alice è nascosta fra le fronde degli alberi dove l'unico raggio di sole illumina lei. Lei che non può sentire, lei che non può ascoltare, lei che si nasconde dietro un libro, vivendo dietro al suo silenzio che gli altri danno troppo per scontato.
La poesia non sarà più solo un lontano sogno d'amore: diventerà la chiave fondamentale di una tiepida e dolce corrispondenza epistolare.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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I. Battesimo


Martedì, 15 Settembre 2015
Per Alice da Marco

 Cara estranea,
sono
dell’idea che tutto abbia un inizio ed una fine. Non credo a tutto ciò che è longevo quanto l'infinito vista la sua labilità e la sua ipocrisia. Come potrei credere a qualcosa che non avrei l’occasione di godermi a pieno, data la fragilità della mia vita da misero essere umano? Tutto si protrae da un polo all'altro, come il mondo. Siamo tutti fatti, finiti e definiti. L’intera esistenza non è altro che un lungo viaggio passato ad aspettare e temere la fine.
 Abbiamo un inizio il giorno in cui nasciamo e al tempo stesso abbiamo una fine che, per quanto essa non ci sia nota nel tempo, arriverà e ci sovrasterà con l'imponenza dei suoi artigli. Crudele, non trovi?
 Con molta probabilità ho scelto le parole sbagliate se vogliamo considerare questa lettera come un mio approccio al tuo mondo. Non nascondo il tremore nelle mie mani a ogni parola scritta. Qualcosa in questo atto di magica pazzia mi incupisce, ma quando ti ho vista qualcosa mi ha acceso una luce nel petto che credevo morta da tempo. Sarà forse paura, questa? O forse è timore di sproloquiare?
La mia vera paura è quella di averti spaventata. Prometto solennemente che oltre a non abbaiare, non mordo nemmeno: sono in realtà un tuo coetaneo che è soltanto troppo timido per rivolgerti la parola e che, quando ha visto il libro che stai leggendo, non ha saputo resistere. Ti lascio fra le mani i miei timori, le mie parole scritte con lo stomaco; da folle pazzo invece, lascio questo pezzo di carta a te probabilmente inutile tra le pagine del tuo libro.
Ti va di essere il mio inizio?

 Contemplo ora la classe silenziosa, i cui banchi diversi fra loro sono una massa eterogenea fastidiosa alla vista. Il cielo ancora soleggiato di settembre illumina l’aula con un dolce velo dorato. Ho passato un’intera nottata a pensare a cosa scriverle, arrovellandomi tra parole, significati, simboli e rimorsi. Forse duecentosettantanove parole non sono un’ottima presentazione; nel corso della mia notte piena di stelle passata in bianco ho sfinito i miei pensieri, scrivendo un’accozzaglia di frasi prive di senso. Più fortunato di Ungaretti, anche senza corpi di soldati, ho comunque scritto lettere piene d’amore durante la mia veglia. Non nascondo che tutto ciò mi appare come qualcosa di decisamente azzardato, ma giocare col fuoco è uno dei miei passatempi preferiti, soprattutto quando rischio di diventare cenere. Non ho grandi aspettative a riguardo, anche se la speranza di una sua risposta mi agita di quella trepidazione che mi fa quasi passare l'appetito.
 Scegliere il posto in cui lasciarle quella misera busta sgualcita dall’ansia non è stato facile: era necessario trovarla, scoprire il suo nome, la sua classe e l’orario scolastico della giornata. La fortuna è stata gentile, questa volta.

 Proprio oggi mi sono dovuto rivolgere alla professoressa Moriggi, referente per i progetti di sostegno didattico; le ho dovuto spiegare l’acre situazione in cui mi trovo e chiederle di poter aderire a un progetto BES (Bisogno Educativo Specifico). Accogliendo la mia proposta, ha tirato fuori da un plico di documenti un elenco manoscritto e, mentre contemplavo il corridoio gremirsi di gente durante il cambio d’ora, semplicemente la ragazza che cercavo è entrata nella classe di fronte alla mia. Sbigottito, non sentii le diverse richieste della professoressa che dovette ripetermele nuovamente. L’operazione “troviamo quel raggio di sole” si è quindi rivelata ancora più semplice, questa mattina: passando di fronte alla sua classe l’ho vista seduta ad uno dei primi banchi. É stato quindi sufficiente dare un’occhiata all’orario provvisorio delle classi per capire quando agire. Non ho mai apprezzato tanto le ore di scienze motorie come questa mattina.

 Alice è il suo nome e suona così dolce pronunciato dalla mia mente; scorre limpido fra i miei pensieri e si impiglia nel ricordo dei suoi morbidi ricci castagna. L’ho scoperto leggendo l’intestazione dei pochi quaderni che aveva nella cartella, ma ora devo uscire furtivo dalla classe se non voglio essere scoperto. Le mani tremano al ritmo del cuore che ancora palpita incredulo. I corridoi sono vuoti, eccezion fatta per qualche bidella impegnata nell'arte del pettegolezzo. Tiro un sospiro di sollievo e raggiungo il bagno dove, una volta entrato, lavo il viso con dell'acqua fredda per ghiacciare un po' della tensione che mi riscalda i nervi. Tra le palpebre è rimasta impressa l’immagine delle mie mani che cercano nel suo zaino rosso il libro che mi fungerà da postino. Sospiro, lasciandomi andare al proseguimento di questa giornata estenuante.

 Sono le tredici quando l'ultima campanella suona ed io mi scopro con lo sguardo perso tra la folla studentesca che ingorga le uscite da questo inferno. Tra venti minuti passerà l'autobus che mi riaccompagnerà tra le braccia di casa. Braccia che da qualche tempo fatico a considerare accoglienti. Appena varco il cancello dell'uscita principale estraggo il pacchetto di Marlboro Light morbide dalla tasca dei miei bermuda e ne accendo una, finalmente respirando dopo cinque ore di torture. La mia dipendenza dal tabacco è assai forte, ma ciò non mi turba fino a che essa placa il tormento con cui convivo. Alle volte la convivenza più dura è proprio quella con me stesso. Di me si può dire solo quel che è scontato, una triste e scarna presentazione: il mio nome è Marco Fontana, diciottenne incastrato fra incubi e deliri che frequenta l’ultimo anno di liceo artistico e abita in un paese sperduto del Nord Italia. Il mio dossier però rivela cose che vorrei nessuno sapesse e, forse, per questo la presentazione appena fatta non solo è scarna, ma è anche una bugia.
Sono Marco Fontana, diciottenne incastrato fra gli incubi e i deliri causati da uno spiacevole disturbo ossessivo-compulsivo che mi assedia giorno e notte.

 All’arrivo dell’autobus infilo gli auricolari nelle orecchie, acquietando la mia ansia con della sana musica. Mentre le note dei Mercanti di Liquore si insinuano nelle mie orecchie appoggio la fronte contro il finestrino, guardando le strade scorrere veloci oltre il vetro sporco che filtra il mondo come un paio di occhiali polarizzati.
 Che diamine ho fatto? Che avevo in mente quando l’ho vista? Quando ho tracciato a spigoli quelle parole? Nonostante l’impulsività rientri nella cura contro la parte di me più ostica al semplice atto di vivere, non riesco a non avere ripensamenti. Avrei dovuto controllare meglio la situazione, conferire poco potere alle emozioni che mi hanno trascinato stamane in quell’aula. Sospiro silenzioso, maledicendomi per quell’avventatezza che vorrei invece premiare.

***

Sono centocinquantasei passi dalla fermata dell’autobus a casa mia; dal cancello del condominio sono ventisette passi al portoncino della scala B; sono trentanove scalini per raggiungere il mio piano, il terzo. Sono tutti multipli di tre. Cosa potrei desiderare di più?
 Respiro profondamente, poi mi accosto alla porta: provo ad auscultarla, a sentire quante volte è stata aperta e chiusa questa mattina. Ho dimenticato le chiavi e suono il campanello, aspettando una risposta che non giunge. Poso una mano sulla maniglia della porta e scopro che è aperta. Entro piano, in punta di piedi, con il timore di interrompere bruscamente il regno che il silenzio ha creato in questa casa.
 Mio padre non c’è.
 Richiudo la porta alle mie spalle e mi lascio scivolare verso terra, dove con uno sguardo più attento scorgo un’ombra.
 «Bentornato, Marco», alzo lentamente la testa, non riconoscendo la voce che con pazienza si rivolge a me.
  «Chi è lei?» chiedo tenendo a freno la balbuzie che si impossessa della mia lingua ogni qualvolta sono immerso nell’ansia. Lo sconosciuto mi sorride, il suo volto si illumina; ha negli occhi un luccichio giovane, ma le rughe e la barba incolta tradiscono questa apparenza. Ha lo stesso naso adunco di papà.
 «Dammi pure del tu», l’uomo si inginocchia di fronte alla mia figura seduta sul pavimento freddo del corridoio, «è un piacere incontrarti dopo anni, anche se in una circostanza così spiacevole».
Sgrano gli occhi: «Qual è questa circostanza?» il cuore mi scalpita in petto e sento le tempie pulsare.
 «Tuo padre non è qui.»
 Il mio respiro si ferma, il vuoto mi colma.
 «Vuol dire che è finita?» i miei occhi bruciano, i suoi mandano lampi di sconforto e dispiacere.
 «No, non ancora. Sta lottando. Tuo padre è un uomo forte, ma è costretto al ricovero» sospira mestamente, «sei affidato a me».
 Compio uno scatto degno di un felino e in breve tempo mi ritrovo in piedi, con la rabbia che sgorga verso quest’uomo: «Affidato a chi? Ad un estraneo che da un giorno all’altro trovo in casa mia?»
 I suoi occhi lanciano aghi che puntellano le mie iridi verdi: «Christian Fontana, tuo zio», mi tende una mano, «ma a quanto vedo il piacere è solo mio. Il pranzo è in tavola. Spero che il rientro a scuola sia andato bene».
 Non smetto di guardarlo, fino a che non infila una mano nella tasca dei suoi jeans logori, estraendone un mazzo di chiavi.
 «Ho delle commissioni da sbrigare. Torno dopo cena. Passa un buon pomeriggio», mi scosta di poco ed esce silenziosamente dalla porta, lasciandomi in questa realtà che non riconosco più. Il mio petto si alza, si abbassa, si alza e si abbassa feroce, di un respiro sempre più greve.
 Urlo con una voce irriconoscibile.

 Non ho pranzato, le patate e le carote si toccavano e quando l’ho notato lo stimolo della fame era ormai passato da un pezzo. Non sono riuscito a calmarmi, ho cercato un pretesto per stare meglio, ma ho ceduto. Ancora.
 Mi sono seduto al centro della mia stanza alla ricerca di qualcosa da ordinare e, non trovando nulla di utile, sono sceso in cantina. Ho frugato a lungo, trovando il necessario, ma non scovando l’ordine delle cose. L’ordine mentale di cui ho bisogno. Qual è l’ordine del mondo in questo circolo di anime perse nelle tenebre?
 Secchi di vernice rossa inondano tutto quello che si trova in camera mia e sono io a lanciarli. Sono le mie mani a sporcare, a tingere di rosso tutto quel che è all’interno di questa stanza. Una stanza in cui il dolore aleggia graziosamente e senza scrupoli.
Il dolore. Il rosso. Il sangue.
 Lo stesso dolore che aveva nel sangue mia madre prima di morire.
 Lo stesso dolore che ora si prende anche il sangue di mio padre.
Voglio cancellare, cancellare, cancellare.
Non lascio un solo spazio bianco.
Questo è il giorno in cui il dolore mi battezza.


 

 

   
 
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