I. Battesimo
Martedì, 15 Settembre 2015
Per Alice da Marco
Cara estranea,
sono dell’idea che tutto abbia un inizio ed una fine. Non credo a tutto
ciò che è longevo quanto l'infinito vista la sua labilità e la sua ipocrisia.
Come potrei credere a qualcosa che non avrei l’occasione di godermi a pieno,
data la fragilità della mia vita da misero essere umano? Tutto si protrae da un
polo all'altro, come il mondo. Siamo tutti fatti, finiti e definiti. L’intera esistenza
non è altro che un lungo viaggio passato ad aspettare e temere la fine.
Abbiamo un inizio il giorno in cui
nasciamo e al tempo stesso abbiamo una fine che, per quanto essa non ci sia
nota nel tempo, arriverà e ci sovrasterà con l'imponenza dei suoi artigli.
Crudele, non trovi?
Con molta probabilità ho scelto le
parole sbagliate se vogliamo considerare questa lettera come un mio approccio
al tuo mondo. Non nascondo il tremore nelle mie mani a ogni parola scritta.
Qualcosa in questo atto di magica pazzia mi incupisce, ma quando ti ho vista
qualcosa mi ha acceso una luce nel petto che credevo morta da tempo. Sarà forse
paura, questa? O forse è timore di sproloquiare?
La mia vera paura è quella di averti spaventata. Prometto solennemente che
oltre a non abbaiare, non mordo nemmeno: sono in realtà un tuo coetaneo che è
soltanto troppo timido per rivolgerti la parola e che, quando ha visto il libro
che stai leggendo, non ha saputo resistere. Ti lascio fra le mani i miei
timori, le mie parole scritte con lo stomaco; da folle pazzo invece, lascio
questo pezzo di carta a te probabilmente inutile tra le pagine del tuo libro.
Ti va di essere il mio inizio?
Contemplo ora la classe silenziosa, i cui
banchi diversi fra loro sono una massa eterogenea fastidiosa alla vista. Il
cielo ancora soleggiato di settembre illumina l’aula con un dolce velo dorato.
Ho passato un’intera nottata a pensare a cosa scriverle, arrovellandomi tra
parole, significati, simboli e rimorsi. Forse duecentosettantanove
parole non sono un’ottima presentazione; nel corso della mia notte piena di
stelle passata in bianco ho sfinito i miei pensieri, scrivendo un’accozzaglia
di frasi prive di senso. Più fortunato di Ungaretti, anche senza corpi di
soldati, ho comunque scritto lettere piene d’amore durante la mia veglia. Non
nascondo che tutto ciò mi appare come qualcosa di decisamente azzardato, ma
giocare col fuoco è uno dei miei passatempi preferiti, soprattutto quando
rischio di diventare cenere. Non ho grandi aspettative a riguardo, anche se la
speranza di una sua risposta mi agita di quella trepidazione che mi fa quasi
passare l'appetito.
Scegliere il posto in cui lasciarle
quella misera busta sgualcita dall’ansia non è stato facile: era necessario
trovarla, scoprire il suo nome, la sua classe e l’orario scolastico della
giornata. La fortuna è stata gentile, questa volta.
Proprio oggi mi sono dovuto rivolgere alla
professoressa Moriggi, referente per i progetti di
sostegno didattico; le ho dovuto spiegare l’acre situazione in cui mi trovo e
chiederle di poter aderire a un progetto BES (Bisogno Educativo Specifico).
Accogliendo la mia proposta, ha tirato fuori da un plico di documenti un elenco
manoscritto e, mentre contemplavo il corridoio gremirsi di gente durante il
cambio d’ora, semplicemente la ragazza che cercavo è entrata nella classe di
fronte alla mia. Sbigottito, non sentii le diverse richieste della
professoressa che dovette ripetermele nuovamente. L’operazione “troviamo quel raggio di sole” si è
quindi rivelata ancora più semplice, questa mattina: passando di fronte alla
sua classe l’ho vista seduta ad uno dei primi banchi. É stato quindi
sufficiente dare un’occhiata all’orario provvisorio delle classi per capire
quando agire. Non ho mai apprezzato tanto le ore di scienze motorie come questa
mattina.
Alice è il suo nome e suona così dolce
pronunciato dalla mia mente; scorre limpido fra i miei pensieri e si impiglia
nel ricordo dei suoi morbidi ricci castagna. L’ho scoperto leggendo
l’intestazione dei pochi quaderni che aveva nella cartella, ma ora devo uscire
furtivo dalla classe se non voglio essere scoperto. Le mani tremano al ritmo
del cuore che ancora palpita incredulo. I corridoi sono vuoti, eccezion fatta
per qualche bidella impegnata nell'arte del pettegolezzo. Tiro un sospiro di
sollievo e raggiungo il bagno dove, una volta entrato, lavo il viso con
dell'acqua fredda per ghiacciare un po' della tensione che mi riscalda i nervi.
Tra le palpebre è rimasta impressa l’immagine delle mie mani che cercano nel
suo zaino rosso il libro che mi fungerà da postino. Sospiro, lasciandomi andare
al proseguimento di questa giornata estenuante.
Sono le tredici quando l'ultima campanella
suona ed io mi scopro con lo sguardo perso tra la folla studentesca che ingorga
le uscite da questo inferno. Tra venti minuti passerà l'autobus che mi
riaccompagnerà tra le braccia di casa. Braccia che da qualche tempo fatico a
considerare accoglienti. Appena varco il cancello dell'uscita principale
estraggo il pacchetto di Marlboro Light morbide dalla tasca dei miei bermuda e
ne accendo una, finalmente respirando dopo cinque ore di torture. La mia
dipendenza dal tabacco è assai forte, ma ciò non mi turba fino a che essa placa
il tormento con cui convivo. Alle volte la convivenza più dura è proprio quella
con me stesso. Di me si può dire solo quel che è scontato, una triste e scarna
presentazione: il mio nome è Marco Fontana, diciottenne incastrato fra incubi e
deliri che frequenta l’ultimo anno di liceo artistico e abita in un paese
sperduto del Nord Italia. Il mio dossier però rivela cose che vorrei nessuno
sapesse e, forse, per questo la presentazione appena fatta non solo è scarna,
ma è anche una bugia.
Sono Marco Fontana, diciottenne incastrato fra gli incubi e i deliri causati da
uno spiacevole disturbo ossessivo-compulsivo che mi assedia giorno e notte.
All’arrivo dell’autobus infilo gli auricolari
nelle orecchie, acquietando la mia ansia con della sana musica. Mentre le note
dei Mercanti di Liquore si insinuano nelle mie orecchie appoggio la fronte
contro il finestrino, guardando le strade scorrere veloci oltre il vetro sporco
che filtra il mondo come un paio di occhiali polarizzati.
Che diamine ho fatto? Che avevo in mente
quando l’ho vista? Quando ho tracciato a spigoli quelle parole? Nonostante
l’impulsività rientri nella cura contro la parte di me più ostica al semplice
atto di vivere, non riesco a non avere ripensamenti. Avrei dovuto controllare
meglio la situazione, conferire poco potere alle emozioni che mi hanno
trascinato stamane in quell’aula. Sospiro silenzioso, maledicendomi per
quell’avventatezza che vorrei invece premiare.
***
Sono centocinquantasei passi dalla fermata dell’autobus a casa
mia; dal cancello del condominio sono ventisette passi al portoncino della
scala B; sono trentanove scalini per raggiungere il mio piano, il terzo. Sono
tutti multipli di tre. Cosa potrei desiderare di più?
Respiro profondamente, poi mi accosto
alla porta: provo ad auscultarla, a sentire quante volte è stata aperta e
chiusa questa mattina. Ho dimenticato le chiavi e suono il campanello,
aspettando una risposta che non giunge. Poso una mano sulla maniglia della
porta e scopro che è aperta. Entro piano, in punta di piedi, con il timore di
interrompere bruscamente il regno che il silenzio ha creato in questa casa.
Mio padre non c’è.
Richiudo la porta alle mie spalle e mi lascio scivolare verso terra, dove con uno sguardo più
attento scorgo un’ombra.
«Bentornato, Marco», alzo lentamente la
testa, non riconoscendo la voce che con pazienza si rivolge a me.
«Chi
è lei?» chiedo tenendo a freno la balbuzie che si impossessa della mia lingua
ogni qualvolta sono immerso nell’ansia. Lo sconosciuto mi sorride, il suo volto
si illumina; ha negli occhi un luccichio giovane, ma le rughe e la barba
incolta tradiscono questa apparenza. Ha lo stesso naso adunco di papà.
«Dammi pure del tu», l’uomo si
inginocchia di fronte alla mia figura seduta sul pavimento freddo del
corridoio, «è un piacere incontrarti dopo anni, anche se in una circostanza
così spiacevole».
Sgrano gli occhi: «Qual è questa circostanza?» il cuore mi scalpita in petto e
sento le tempie pulsare.
«Tuo padre non è qui.»
Il mio respiro si ferma, il vuoto mi
colma.
«Vuol dire che è finita?» i miei occhi
bruciano, i suoi mandano lampi di sconforto e dispiacere.
«No, non ancora. Sta lottando. Tuo padre
è un uomo forte, ma è costretto al ricovero» sospira mestamente, «sei affidato
a me».
Compio uno scatto degno di un felino e
in breve tempo mi ritrovo in piedi, con la rabbia che sgorga verso quest’uomo:
«Affidato a chi? Ad un estraneo che da un giorno all’altro trovo in casa mia?»
I suoi occhi lanciano aghi che puntellano
le mie iridi verdi: «Christian Fontana, tuo zio», mi tende una mano, «ma a
quanto vedo il piacere è solo mio. Il pranzo è in tavola. Spero che il rientro
a scuola sia andato bene».
Non smetto di guardarlo, fino a che non
infila una mano nella tasca dei suoi jeans logori, estraendone un mazzo di
chiavi.
«Ho delle commissioni da sbrigare. Torno
dopo cena. Passa un buon pomeriggio», mi scosta di poco ed esce silenziosamente
dalla porta, lasciandomi in questa realtà che non riconosco più. Il mio petto
si alza, si abbassa, si alza e si abbassa feroce, di un respiro sempre più
greve.
Urlo con una voce irriconoscibile.
Non ho pranzato, le patate e le carote si
toccavano e quando l’ho notato lo stimolo della fame era ormai passato da un
pezzo. Non sono riuscito a calmarmi, ho cercato un pretesto per stare meglio,
ma ho ceduto. Ancora.
Mi sono seduto al centro della mia
stanza alla ricerca di qualcosa da ordinare e, non trovando nulla di utile,
sono sceso in cantina. Ho frugato a lungo, trovando il necessario, ma non
scovando l’ordine delle cose. L’ordine mentale di cui ho bisogno. Qual è
l’ordine del mondo in questo circolo di anime perse nelle tenebre?
Secchi di vernice rossa inondano tutto
quello che si trova in camera mia e sono io a lanciarli. Sono le mie mani a
sporcare, a tingere di rosso tutto quel che è all’interno di questa stanza. Una
stanza in cui il dolore aleggia graziosamente e senza scrupoli.
Il dolore. Il rosso. Il sangue.
Lo stesso dolore che aveva nel sangue
mia madre prima di morire.
Lo stesso dolore che ora si prende anche
il sangue di mio padre.
Voglio cancellare, cancellare, cancellare.
Non lascio un solo spazio bianco.
Questo è il giorno in cui il dolore mi battezza.