Questa storia partecipa al contest “Magicamente controversi!” Indetto da Shallo sul forum di EFP.
«Posso
sedermi?»
Sussultò, voltandosi all'indietro con un guizzo di
panico. Suo zio era lì, silenzioso come uno spettro, appoggiato di
schiena alla corteccia di un albero. Aveva le braccia incrociate al
petto, i capelli scuri tirati all'indietro e la solita espressione
indecifrabile sul volto. Si chiese da quanto tempo
lo stava osservando e se lo avesse visto piangere.
Si
affrettò a passarsi una mano sotto gli occhi, così da eliminare le
rimanenti tracce di pianto, prima di annuire e chinare il capo per la
vergogna.
Lo sentì avvicinarsi lentamente, con quel passo appena
udibile grazie alle foglie secche disperse sul terreno, e sedersi sul
masso accanto a lui. Non disse nulla, appoggiando i gomiti sulle
ginocchia e gustandosi i piccoli suoni – il cinguettio degli
uccelli, la rapida corsa di qualche coniglio, lo scroscio d'acqua del
fiumiciattolo più ad est – che interrompevano il silenzio che
ammantava il bosco.
«Da ragazzo adoravo questo posto» ricordò
monocorde, accennando un sorriso che sapeva di nostalgia. «Passavo
più tempo qui che al castello. Tuo nonno detestava vedermi rientrare
solo per cena. Diceva che era inammissibile perdere tempo a
bighellonare in giro quando bisognava consolidare il potere e il
prestigio della famiglia. Non ha mai capito nulla» affermò
risoluto, con leggero sprezzo, lo sguardo perso davanti a sé. «Non
può costruire un bel niente se prima non conosci te stesso».
Il
bambino alzò appena il capo, quanto bastava per incrociare lo
sguardo dell'uomo fisso su di lui.
Ai suoi occhi, suo zio era
sempre stato una figura grandiosa ed invincibile. Aveva visto uomini
cedergli il passo, piegandosi in inchini servizievoli ed esibendo
sorrisi untosi. Mangiamorte sussurravano alle sue
spalle, alcuni con malcelata ammirazione e altri con palese
disprezzo. A suo zio non era mai importato del parere della gente: in
qualsiasi discussione, anche con coloro che lui chiamava traditori
del proprio sangue, il suo viso non aveva mai espresso nulla. Né
piacere, irritazione o altro. Era semplicemente la maschera di
qualcuno incapace di provare emozioni.
È quello che mi piace
far credere, gli aveva raccontato una sera mentre gli
rimboccava le coperte, alle persone spaventa vedere che non
c'è altro dietro il mostro.
Eppure con lui non lo era mai
stato, un mostro. I mostri in casa sua erano altri: gli uomini
incappucciati che si presentavano ad orari improbabili, a volte nel
cuore della notte, che lui spiava dalla ringhiera della scala
all'ingresso, che avevano tatuato sulla pelle un marchio assetato di
sangue e sofferenza, o quello che si aggirava per il maniero con un
sorriso affilato e lupesco, desideroso di dispensare punizioni con la
bacchetta.
Quello era il peggiore. E lui lo odiava.
«Perché
si è arrabbiato, stavolta?» domandò suo zio, apatico, evocando
quel mostro dai suoi pensieri.
Lui esitò un secondo, torcendosi
le mani.
«Non riusciva a far quadrare dei conti e ha punito un
Elfo» rispose, ripensando con un brivido alla scena che aveva visto
nello studio. Ancora sentiva nelle orecchie le urla di quella
creatura e il suo stomaco si rivoltò al ricordo di tutto quel
sangue. «Voleva che guardassi mentre dilaniava il corpo di Tim
perché poi avrebbe fatto lo stesso a me. Sono scappato appena ne ho
avuto l'occasione» confessò con un tremolio patetico nella voce.
Il
bosco era un buon rifugio: suo padre detestava macchiarsi gli stivali
e l'orlo del mantello di fango. Non sarebbe venuto a cercarlo.
«E
perché?»
«Avevo paura» ammise lui, arrossendo per la
vergogna.
Suo zio inarcò appena un sopracciglio,
impassibile.
«Mio fratello ha sempre avuto la propensione a
prendersela con quelli più deboli, sicuro di poter fare quello che
vuole senza subire le conseguenze. La verità è che non c'è
soddisfazione in una vittoria facile, è la fatica che rende dolce e
appagante il trionfo» illustrò con noncuranza. «Senza contare che
ci sono modi più intelligenti per annientare una persona» continuò
con l'ombra di un ghigno a solleticargli le labbra. Spostò lo
sguardo su di lui, il verde spietato di quelle iridi che lo
inchiodava sul posto. «La paura che provi è tutta nella tua testa.
Puoi controllarla, comprenderla, piegarla, affinché possa diventare
un'arma da usare contro i tuoi nemici» spiegò con dolcezza.
Lui
lo fissò, le labbra dischiuse e il volto pallido. Il sangue gli
martellò violentamene nelle tempie mentre quella famigliare
sensazione d'orrore che era solita artigliargli le viscere e
tormentarlo la notte, strappandogli il sonno e facendolo tremare fin
dentro le ossa, venne sostituita da una scarica di eccitazione. Gli
scorreva nelle vene, potente e ammaliante, accarezzandogli la mente
con una serie di promesse.
Non dovrai mai più piegarti,
gli sussurrava nelle orecchie quella nuova emozione, niente
più dolore, niente più urla. Sarà il tuo mostro quello steso sul
pavimento con la schiena insanguinata.
«E come?» pigolò,
affascinato da quella prospettiva.
«Ti interessa imparare a
dominarla?»
Lui annuì più volte, trepidante.
«Non voglio
essere come mio padre» sbottò con uno slancio di determinazione,
aggrottando la fronte.
Un uomo che si faceva beffe dei più
deboli, che rideva delle loro disgrazie e del loro dolore, ma che
tremava alla presenza di qualcuno che riteneva più potente.
Un
vigliacco, si disse. Fu un pensiero che trasformò i suoi
lineamenti infantili in una smorfia di puro disgusto.
Suo zio rise
di una risata feroce, vibrante di gioia e soddisfazione, che
riecheggiò tra le fronde degli alberi, facendo innalzare in volo un
paio di uccelli. Lo guardò con tale orgoglio che lui faticò quasi a
crederlo possibile: nessun adulto lo aveva mai considerato come
qualcuno di cui essere fiero, né gli aveva mai rivolto un sorriso
tanto luminoso.
«Ragazzo mio, puoi diventare molto peggio
di lui».
Baratro
«Tutte
le creature hanno paura».
«Anche
quelle che mettono paura?»
«Certamente,
soprattutto quelle».
Batman Begins
Urla,
si dibatte e affonda le unghie con disperazione nelle tempie mentre
ogni singolo nervo del suo corpo si tende, contorce e brucia come
migliaia di aghi nella carne. Il dolore è talmente soffocante che
quasi non riesce a respirare.
E poi all'improvviso, esattamente
come è venuto, tutto svanisce.
Solo allora si rende conto di
essere sdraiato su un pavimento gelido, immerso in un lago di sudore.
Batte un paio di volte le palpebre per mettere a fuoco il soffitto di
pietra e un gemito gli sfugge dalle labbra, un suono basso e flebile,
simile a quello di un animale morente mentre i polmoni si riempono di
nuovo, a fatica, di ossigeno. Trema per angoscia e l'incredulità di
essere ancora vivo, il
cuore che gli martella furioso nel petto come se volesse sfondargli
la gabbia toracica.
«Posso
continuare tutto il giorno» dichiara una voce crudele.
Arrancando,
Benjy Fenwick riesce a sollevare il capo.
Dolohov troneggia sopra
di lui, avvolto in un mantello scuro e con la bacchetta stretta tra
le dita. Nonostante il viso sia distorto in una smorfia irritata per
quello che ritiene un insulso tentativo di opporsi al suo
interrogatorio, i suoi occhi azzurri bruciano di gioia.
È
un sadico che si nutre della sofferenza altrui, realizza
Benjy in un lampo di lucidità.
«Non
esagerare» lo rabbonisce Travers con un sorriso disimpegnato, in
piedi accanto all'altro Mangiamorte. «Non lo devi uccidere» gli
ricorda morbido.
«Pensi che non lo sappia?» stride Dolohov,
aspro, le labbra arricciate a scoprire i denti. «È fortunato che ci
serva vivo, altrimenti lo spedirei a fare compagnia ai fratelli
Prewett».
«E ai McKinnon» aggiunge Travers, deliziato,
mordendosi il labbro inferiore al ricordo. «Grande serata, quella.
Non sai cosa ti sei perso, Antonin. Suppliche, sangue e un uso
alquanto creativo dell'Imperius. È stato sicuramente il mio lavoro
migliore» considera a bassa voce, quasi tra sé, accarezzandosi
compiaciuto la barba.
Benjy non riesce a smettere di fissare i due
uomini che parlano tranquilli tra di loro come se non si trovassero
nelle segrete di qualche castello, in piedi su un pavimento umido e
viscido di sangue, dopo aver appena finito di torturare un uomo e
senza badare al resto dei prigionieri appiatti in un agghiacciante
silenzio contro le pareti.
La parte più razionale di lui –
quella che cerca di scrollarsi di dosso il torpore della paura per
fare il punto della situazione – si chiede da quanto tempo
si trovi lì, se la sua Mary ha informato l'Ordine della
sua sparizione e se qualcuno si stia prendendo la briga
ricercarlo. No,
si dice, passandosi la lingua sulle labbra screpolate e insanguinate
che ha martoriato con i denti mentre era sotto Cruciatus, è
inutile sperare. Non uscirò vivo da qui.
«È
ovvio che non vuole parlare, Antonin» riprende Travers, scoccando a
Benjy un'occhiata quasi dispiaciuta. «Un vero peccato, non trovi? Ci
risparmierebbe tanto di quel lavoro...»
«Voglio vedere per
quanto rimane di questa convinzione» sputa Dolohov, storcendo il
viso in una smorfia minacciosa. «Tempo altri dieci minuti e la
Cruciatus gli scioglierà la lingu-»
«Mi annoio».
Dolohov e
Travers si voltano indietro, sul viso un'espressione di identico
stupore.
A Benjy quasi sfugge un gemito strozzato quando realizza
di essersi dimenticato del suo terzo carceriere, quello che è
rimasto per tutto il tempo su una sedia dall'altra parte dei
sotterranei, nascosto nell'ombra ad ascoltare le sue grida. Non sa il
perché ma la calma di quella voce lo preoccupa più di quella
vibrante d'ira di Dolohov o del falso rammarico di Travers.
Forse
perché, elabora
il suo cervello, sai
di cosa lui è capace.
«Come?»
domanda Dolohov, gelido.
«Ho detto che mi annoio» ripete Rosier,
paziente, ignorando l'irritazione dell'altro Mangiamorte. «È un'ora
che sono rinchiuso in questo umido sotterraneo a guardarti torturare
inutilmente Fenwick» spiega apatico.
«Allora dacci una mano
invece di ciondolare!» abbaia Dolohov, rabbioso, digrignando i
denti. «Non mi sto divertendo».
«Avrei detto il contrario»
considera Rosier, quasi sovrappensiero.
Benjy sente la sedia
strisciare indietro e trattiene il respiro. Lo vede emergere
dall'oscurità con il passo lento e sicuro, le mani affondate nelle
tasche dei pantaloni. Si ferma accanto ai suoi compagni, inclinando
il capo di lato e soppesandolo con lo sguardo.
Evan Rosier ha il
volto di un ragazzo e gli occhi di un vecchio. Dietro le fiamme che
bruciano in quelle iridi verdi, c'è uno scintillio di feroce
perspicacia. C'è il desidero di scavargli la mente, di capirlo,
di farsi strada dentro di lui per scoprire ogni singola debolezza.
Vuole guardargli l'anima, piegarla, dilaniarla e assoggettarla.
Vuole
distruggermi dall'interno, pensa
Benjy, raggelato, deglutendo a fatica.
«Non parlerà con la
Cruciatus» decreta infine Rosier, certo, senza smettere un attimo di
guardarlo. E Benjy ha la sensazione che più guarda quegli occhi e
più gli stia concedendo frammenti di sé. «È uno di quegli
sciocchi che si crede un eroe» commenta incolore.
«Stai dicendo
che finora ho solo perso tempo?» domanda Dolohov, sferzante.
Rosier
alza le spalle con noncuranza.
«La Cruciatus funziona» insiste
Dolohov, scoccandogli un'occhiata risentita. «Bisogna solo avere
pazienza. Cedono tutti, alla fine» afferma convinto, annuendo con il
capo. «Ma se tu hai un'idea migliore...»
Rosier inarca appena un
sopracciglio a quella palese provocazione, voltando lo sguardo verso
l'uomo alla sua sinistra.
«Così da prendermi anche la
responsabilità del fallimento?» ironizza, lasciandosi sfuggire un
sorriso lieve. «Così da essere punito dal Signore Oscuro al tuo
posto?»
«Se pensi di riuscire a farlo parlare...»
«Ma
io so di
riuscirci» afferma
Rosier, non con arroganza ma con sicurezza. «Come so che la mente
umana è molto più pericolosa di qualsiasi incantesimo» continua
criptico.
Dolohov
gli rivolge un ghigno di sfida.
«Allora dimostramelo».
Rosier
continua a sorridere, sarcastico, guardandolo di sbieco.
«Come
vuoi» sospira condiscendente. «Però vi chiedo di lasciarmi solo:
non mi piace avere un pubblico».
Travers sorride intrigato mentre
Dolohov scuote la testa, il viso corrucciato in una smorfia
nauseata.
«Il solito presuntuoso» lo sbeffeggia quest'ultimo,
offensivo. «Riderò del tuo fallimento, Rosier».
«Di' a
Greyback di portarmi quello che gli ho chiesto, piuttosto» ribatte
lui, atono e immobile, attendendo che i suoi compagni gli lascino
campo libero.
Appena la pesante porta della cella si chiude con un
cigolio inquietante, il Mangiamorte appella la sedia con un
incantesimo non verbale. Si lascia cadere sopra mollemente,
appoggiando i gomiti sulle ginocchia, bacchetta in pugno, e sporge il
busto in avanti. Socchiude appena le palpebre, fissandolo
sagace.
«Non credo di aver mai avuto il piacere, Benjy Fenwick»
esordisce infine, composto, azzardando persino un sorriso di
cortesia. «Che cosa si prova a strisciare ai piedi di uno di quelli
di cui ti credi tanto superiore?»
Benjy stringe le labbra in una
linea dura e risentita.
«Non ti dirò dove sono nascosti i
Potter» sputa simulando coraggio, nonostante non riesca nemmeno a
mettersi seduto. Con una smorfia di fastidio, è costretto ad
osservare il suo carceriere accovacciato sul pavimento, i muscoli
doloranti e incapaci di rispondere ai suoi comandi.
Rosier si
limita a lanciargli un'occhiata penetrante che non cela
l'ironia.
«Perché non lo sai» afferma sicuro, senza smettere di
sorridere. È appena una piega delle labbra ma gli ingentilisce i
lineamenti del viso. «Sei troppo in basso nella scala gerarchica. A
dire il vero, non comprendo la tua utilità all'interno dell'Ordine:
non hai amicizie influenti, non sei particolarmente abile nei duelli
e le tue strategie lasciano parecchio a desiderare. Sei una pedina
sacrificabile. Dubito che Silente abbia questi grandi progetti per
te».
«E allora perché stai perdendo il tuo tempo con
me?»
«Perché voglio delle informazioni e, a differenza di
Dolohov, so come ottenerle dai soggetti più caparbi» spiega quieto.
«È quasi un anno che il Signore Oscuro cerca i Potter e, se non li
ha trovati lui, significa che sono nascosti sotto Incanto Fidelius.
Quindi c'è un Custode Segreto. E chi può essere?» domanda
pensieroso. «Silente? Probabile ma in tal caso le nostre possibilità
di trovarli si riducono fino a svanire. Fingiamo per un attimo di
escluderlo. Chi ci rimane? Sirius? Certo, fin da bambino ha
dimostrato un certo sprezzo per il pericolo e considera Potter come
un fratello, ma non ti pare scontato? Tutti sono a conoscenza della
loro amicizia e, questo, renderebbe Sirius una scelta poco saggia. Il
Custode Segreto è, per sua stessa definizione, segreto quindi perché
semplificarci la vita e scegliere qualcuno di così prevedibile? No,
non credo affatto che sia lui» confessa, scuotendo il capo.
«Ragioniamo che, chiunque abbia accettato l'incarico, sappia di
esporsi ad un rischio mortale e chiediamoci: chi sarebbe disposto a
morire per James e Lily Potter?» domanda, piantandogli quegli occhi
verdi e freddi addosso. «Mi vengono in mente solo due nomi, due soli
individui che hanno passato i setti anni di Hogwarts attaccati al
mantello di Potter: Lupin e Minus. Quindi» continua, piegando il
capo e sfoderando di nuovo quel sorriso gentile. «Chi è dei
due?»
«E cosa ti fa credere che io lo sappia?» replica Benjy,
ruvido. «Prima hai affermato il contrario!» gli ricorda
velenoso.
«E lo penso ancora» conferma Rosier, sereno. Sbuffa,
distogliendo lo sguardo e scuotendo il capo quasi con compatimento.
«È un peccato che nessuno si ricorderà di te, Fenwick. Sei stupido
ma cerchi disperatamente di essere leale fino alla fine» riflette
posato. «Lo ha fatto anche Fabian Prewett. Un po' mi è dispiaciuto
per lui: era un grande mago».
«E tu lo hai ammazzato» recrimina
Benjy, sforzandosi di scacciare l'angoscia al ricordo della morte
dell'amico.
A pensarci bene, quella è stata la prima volta che ha
visto Rosier in azione. All'inizio non gli aveva prestato particolare
attenzione – era solo un altro Mangiamorte senza nome – fino a
quando non lo aveva visto tenere testa a Fabian. Era un ragazzino –
uno dei tanti che si erano diplomati ad Hogwarts qualche anno
addietro – eppure i suoi incantesimi erano letali e precisi, e il
suo stile di duello imprevedibile e subdolo.
«Dolohov lo ha
ammazzato» puntualizza Rosier, senza alcun rimorso, rigirandosi la
bacchetta tra le dita. «Io mi sono limitato a renderlo innocuo»
ricorda distrattamente. «E poi, cos'è questo biasimo che sento?
Anche tu hai ucciso, vero Fenwick?» insinua mellifluo.
«Mai
persone innocenti» proclama Benjy, fiero. «Solo mostri come
te».
Ora che lo osserva così da vicino, si accorge delle ombre
violacee sotto i suoi occhi e dell'aria stanca. Il Mangiamorte ha la
faccia di chi non riesce a dormire bene la notte e, per un folle
istante, Benjy si chiede che cosa tenga sveglio Evan Rosier. Forse la
consapevolezza e il senso di colpa per aver distrutto tante vite gli
tormenta il sonno?
Ma
no, pensa
con acredine, figurati
se a lui importa di loro. Dovrebbe avere un cuore per provare qualche
tipo di sentimento.
Rosier
si lascia sfuggire un sorriso crudele.
«Sai cos'è la paura,
Fenwick?» gli chiede inaspettatamente, strappandolo dai suoi
pensieri e riportandolo alla cruda realtà, a quel sotterraneo umido
e scuro. «È quel motore che pompa il sangue nelle tue vene, ordina
ai tuoi polmoni di incamerare ossigeno ad ogni costo e ti costringe a
venire a patti con te stesso. Con le tue emozioni, le tue
convinzioni, i tuoi ideali»
termina beffardo, il sorriso che diventa più ampio
Benjy corruga
le sopracciglia, disorientato.
«Sembri conoscerla bene» ironizza
tagliente, non capendo dove voglia andare a parare.
Rosier si
stringe nelle spalle, sereno.
«È mia vecchia amica da tanto
tempo» rivela sbrigativo. Poi gli occhi verdi gli si accendono per
l'esaltazione. «Facciamo un gioco» propone animandosi.
«Non ho nessuna intenzione di prestarm-»
«Chi non gioca muore»
precisa il Mangiamorte, amabile. «Chiamiamolo cosa
sarei disposto a fare per lei».
E
proprio nell'istante in cui finisce di parlare, che la porta della
cella si apre con rumore metallico. Greyback entra con un ghigno
tagliente sul volto, trascinandosi dietro una figura più piccola,
tremante ed arrendevole.
A Benjy basta una sola occhiata perché
il cuore perda un battito. Stretta tra le grinfie del Lupo Mannaro,
con gli occhi marroni colmi di lacrime e terrore, c'è la sua piccola
Annie, la bambina che lui e Mary hanno desiderato così tanto mettere
al mondo.
Con un scatto energico, cerca di rimettersi in piedi ma
le gambe cedono non appena tenta di distenderle. Cade in ginocchio,
picchiando le rotule contro la dura pietra del pavimento ma nemmeno
bada al dolore, troppo impegnato a fissare ossessivamente la sua
bambina, a scacciare quel ronzio sordo che fischia nelle orecchie –
è solo panico, può controllarlo – e a farsi venire un'idea per
portarla fuori da lì. Lontana dai quei mostri, lontana da
Rosier.
«Dolohov ha ragione: la gente diventa chiacchierona sotto
Cruciatus» riprende quello, carezzevole. «E tu zio non ha resistito
nemmeno cinque minuti prima di rivelarci l'ubicazione del rifugio
della tua famiglia. Non fartene una colpa. È una delle debolezze
dell'uomo» lo consola.
«E Mary?» gracchia Benjy, la voce
spezzata e flebile. «Dov'è?»
«Chi?»
chiede Rosier, corrugando le sopracciglia con educata
confusione.
«Mia moglie. Dov'è mia moglie?»
Il Mangiamorte
si volta a guardare il Lupo Mannaro, che, ghignando, mostra una fila
di denti gialli e affilati.
«Avevi
detto di volere solo la bambina» risponde rauco, senza riuscire a
celare il divertimento. «Non mi avevi detto che ti serviva anche la
donna».
E
mentre a Benjy vorticano una serie di immagini terribili davanti agli
occhi, mentre pensa a quello che quella bestia ha
fatto a Mary – l'ha uccisa sotto gli occhi di Annie? – e sente
una rabbia cieca divamparli nel petto, Rosier inarca appena un
sopracciglio con vago rimprovero.
«Immagino
di essere stato ingenuo» continua atono, facendo una smorfia. «Puoi
andare Greyback».
«Ti
dispiace se resto?» domanda questo, passandosi la lingua sulle
labbra, affamato. «Adoro quando li fai crollare».
«Non
lo ripeterò due volte» ribadisce Rosier, gelido, scoccandogli
un'occhiata significativa.
Contrariato,
Greyback lascia il braccio di Annie ed esce con pesanti passi dalla
cella, chiudendosi la porta alle spalle.
La
bambina, rimasta immobile e silenziosa per tutto il tempo, fa
rimbalzare lo sguardo spaventato dal Mangiamorte al padre e, dopo un
secondo di ansiosa incertezza, scatta verso il genitore. Benjy
spalanca le braccia, pronto ad stringerla a sé, quando Rosier evoca
una barriera azzurrina che cala tra di loro e divide il sotterraneo
in due parti: Annie rimane da una parte, Benjy e gli altri
prigionieri dall'altra.
Con
un secondo incantesimo – un Petrificus
Totalus,
probabilmente – la
bambina viene immobilizzata sul posto.
«Passo
ad illustrarti le regole del gioco» riprende Rosier, tranquillo.
Benjy non può fare a meno di sentirsi a metà tra l'allarmato e il
furioso. Vederlo così vicino a Annie, pensare a quello che lui
potrebbe farle, annebbia la sua ragione, facendolo sentire debole e
vulnerabile. «È molto semplice: ti faccio delle domande, tu mi
rispondi. Puoi mentirmi, naturalmente, ma se me ne accorgo, paghi
pegno».
Benjy
deglutisce, inquieto.
«E
in che cosa consiste questo pegno?» chiede titubante.
«Qualcuno
muore» chiarisce Rosier, appoggiando rilassato la schiena al legno
della sedia. «Decidi tu se tua figlia o uno degli altri prigionieri,
per me non fa differenza».
Benjy
abbassa la testa, nascondendogli il viso. Nel silenzio che segue
sente solo il suo respiro diventare più affannoso.
«È
solo una bambina» tenta, incredulo e orripilato, gli occhi incollati
al pavimento.
Rosier
sospira, annoiato.
«E
questo dovrebbe proteggerla?» domanda piano, senza intonazione.
«Sono sempre i bambini a pagare il prezzo delle scelte degli adulti»
considera con un punta di amarezza.
«Non
hai un briciolo di compassione» proclama Benjy, impetuoso,
vomitandogli addosso tutto la sua collera. Se non ci fosse quella
dannata barriera e se il suo corpo non fosse così debole, gli si
scaraventerebbe contro e lo strangolerebbe con le sue mani. Niente
gli darebbe più piacere.
Rosier
rimane immobile, indifferente al risentimento e all'odio che gli vede
sgorgare dallo sguardo.
«L'ho
finita da tempo» dice solo, imperturbabile.
«Respira».
Evan
si sforzò di ubbidire, cercando di ignorare quell'odore di sangue
che sentiva ancora nelle narici e che gli sconquassava lo stomaco,
riportandogli alla mente il macabro spettacolo che si era concluso
meno di una decina di minuti prima nei sotterranei.
«Respira»
ripeté suo zio, scostandogli con un gesto incredibilmente dolce i
capelli dalla fronte sudata. «Ecco, così».
Evan, i polmoni che
incanalavano più ossigeno e quella sensazione di nausea che si
ostinava a tormentarlo, sollevò il capo e il sorriso dell'uomo era
lì, ad accoglierlo.
«Quello che Sewlyn
ha fatto» iniziò roco, con la voce spezzata.
«Lo so» lo
interruppe suo zio, comprensivo. «Ma siamo in guerra, Evan: le
vittime sono inevitabili».
«Li ha torturati» sottolineò lui,
pronunciando quelle parole con incredulità e accusa. «Non era
necessario infierire così, non era necessario mutilare».
Suo
zio sospirò leggermente, abbassandosi quanto bastava per essere alla
stessa altezza di un ragazzino di dodici anni.
Ecco, si
lasciò sfuggire lui, mortificato. L'ho deluso. Deludo
sempre.
«È stato sgradevole» concordò, invece, l'uomo,
sottovoce. «Però necessitavamo di quelle informazioni e Selwyn non
avrebbe calcato tanto la mano se loro si fossero limitati a darcele
senza troppe storie» osservò grave. Le sue labbra ebbero un fremito
prima di piegarsi in una linea amara e lo sguardo si incupì. Gli
afferrò i capelli castani, spingendogli la testa in avanti fino ad
appoggiarsi alla sua fronte e scrutandolo dritto negli occhi. «Ho
visto la tua reazione quando lui ha iniziato ad interrogarli» e,
qui, Evan non riuscì a trattenere il rossore che, traditore, gli
imporporò le guance, né quel moto di vergogna che lo investì. «Non
sono deluso» confessò suo zio, schietto, stringendogli i capelli in
una morsa quasi dolorosa. «È normale provare compassione,
all'inizio. Con il tempo imparerai a sopprimerla».
«Prima
domanda: prima che il Signore Oscuro lo cercasse, hai visto spesso
Potter in compagnia di Lupin e Minus al vostro quartier
generale?»
Benjy piega le labbra verso il basso, un'espressione
ostile che si fa strada sul volto pallido.
«Ah, già» riprende
Rosier, sbadato e sfoggiando un sorriso di scuse. «Mi sono
dimenticato di illustrarti la regola più importante: se non mi
rispondi, farò tornare qui Greyback. Gli lascerò carta bianca su
come straziare la carne della bambina e ti costringerò a guardare.
Per quanto tempo, dipenderà da lei» scrolla le spalle, apatico,
gettando ad Annie una lunga occhiata valutativa «Di solito nessuno
resiste per più di un paio di giorni ai suoi denti ma magari tua
figlia è l'eccezione che conferma la regola».
Negli occhi scuri
di Benjy balugina un lampo di panico.
«Non puoi farlo» sfiata
debole.
Il sorriso di Rosier diventa più ampio.
«Ah no?»
sospira beffardo, inarcando un sopracciglio. «Non posso? Mi spiace
contraddirti ma se voglio far torturare qualcuno, lo faccio. Se
ritengo opportuno uccidere, uccido. E se voglio qualcosa, me la
prendo» illustra disinvolto, senza mutare espressione. «Allora, mi
rispondi o devo far tornare qui Greyback?»
Benjy serra le labbra,
frustrato. In fondo, si dice, è un'informazione
di poco conto. Non può capire nulla dalla mia risposta.
«Credo
di sì» dice, infine, senza sbilanciarsi. «Nelle riunioni facevo
più attenzione ad ascoltare come agire piuttosto che guardare chi
parlava con chi» aggiunge piccato, senza riuscire a trattenere
l'acredine.
«Lo credi o lo sai?»
«Lo so».
Rosier
annuisce più volte, abbassando appena il capo, pensieroso. Nel
silenzio che segue, Benjy non può fare a meno di guardare Annie,
immobile accanto al Mangiamorte. Si sforza di farle un sorriso, ma
quello che esce è una smorfia amara e traballante. Sua figlia
ricambia con uno sguardo spaurito e umido.
«Hai mai passato del
tempo con Lupin o Minus?» continua Rosier, pretendendo
attenzione.
«È capitato».
«Quindi li conosci?»
«Non ci
siamo raccontati la nostra vita, se è quello che vuoi sapere»
replica Benjy. «Eravamo in missione, non a bere al pub» non riesce
a fare a meno di aggiungere, stizzito.
Sa che sta tirando la corda
continuando a provocarlo ma il Mangiamorte non sembra farci caso. Lo
osserva con blando sarcasmo, con quel sorriso garbato sulle labbra e
la mente che rimugina attentamente sulle informazioni appena
ottenute.
A Benjy preoccupa saperlo così calmo. Quasi rimpiange
Dolohov e il suo Cruciatus.
«Sono sempre stati presenti alle
riunioni dell'Ordine?»
«Sì».
«Entrambi?»
«Sì».
«Pegno»
scandisce Rosier, le iridi verdi scintillanti di trionfo. «Non sei
un bravo bugiardo. Voce stridula e pupille dilatate sono un chiaro
indicatore di menzogna» spiega davanti all'occhiata sbalordita
dell'altro. «Loro o lei?» domanda semplicemente.
Benjy rimane
immobile, congelato.
«Veloce, Fenwick, non ho tutto il giorno»
lo esorta Rosier, spazientito, alzando per un momento gli occhi al
soffitto.
L'uomo volta indietro il capo, lentamente, e osserva
timoroso quella schiera di prigionieri che ricambiano il suo sguardo
con il panico dipinto sul volto. Si sente orribile per quello che sta
per dire ma sa bene di non avere altra scelta.
«Loro» mormora
piano, abbassando il capo sul pavimento per evitare di vedere morire
l'innocente che ha appena condannato a morte.
Stringe i pugni,
conficcandosi le unghie nelle carne, e il dolore risveglia l'odio per
il Mangiamorte.
«Quello che preferisci» concede quello,
tranquillo. «Prego».
Benjy non crede ai suoi occhi quando vede
scivolare la sua bacchetta sul pavimento lurido della cella. Alza lo
sguardo, giusto in tempo per vedere Rosier riattivare quella barriera
azzurrina e assume una muta espressione interrogativa.
D'accordo
che è debole e non ha nessuna possibilità di spezzare l'incantesimo
del Mangiamorte ma perché quest'ultimo dovrebbe aiutarlo fornendogli
un'arma?
«Che cosa significa?» non può fare a meno di chiedere,
allibito.
Rosier inarca un sopracciglio, inclinando il
capo.
«Uccidine uno» spiega spiccio. «Ah, già, tu non uccidi
gli innocenti. Beh, temo che stavolta dovrai andare contro la tua
morale» afferma senza preoccuparsi di celare la soddisfazione che
prova.
Benjy scuote furiosamente la testa, deglutendo e
rifiutandosi di raccogliere la bacchetta.
«Non posso farlo»
biascica frastornato.
Non può uccidere qualcuno solo perché
glielo ordina quel figlio di puttana. Le altre persone presenti in
quel sotterraneo non gli hanno fatto nulla di male, sono solo
vittime. Come lui, Annie e Mary.
«Certo che puoi» lo contraddice
Rosier, suadente. «Basta che fingi che sia un Mangiamorte. Credimi,
mentire a se stessi ti aiuta».
«Che
cosa ti sta succedendo?»
«Che intendi?»
«Da quando hai
passato l'inverno da tuo zio sei strano» buttò lì lei,
corrucciando il viso in una smorfia che lui aveva sempre trovato
buffa.
«È una tua impressione» si limitò a dire, noncurante,
tornando a posare lo sguardo su quel libro che gli stava tenendo
compagnia durante quel pomeriggio di pioggia ad Hogwarts.
«Evan»
lo ammonì lei, e il suo nome suonava così dolce pronunciato da
quelle labbra, socchiudendo gli occhi scuri con vago rimprovero.
Occhi che lo riportavano indietro ad un tempo in cui la guerra
infuriava lontana dalle proprietà delle loro famiglie – lontana
da loro –, quando i sorrisi e le risate bastavano per
sconfiggere le lacrime e sanare le ferite insanguinanti del corpo e
dell'anima.
O così credeva. Erano solo sciocche illusioni
infantili, le loro.
Non aveva mai capito nulla del mondo finché
suo zio non l'aveva trascinato fuori da quella gabbia dorata dove suo
padre l'aveva condannato a marcire.
«Va tutto bene» affermò
rassicurante, stendendo le labbra in un sorriso pieno d'affetto.
Stava diventando sempre più facile mentire e fingere di essere solo
un ragazzino del Secondo Anno di Serpeverde. Provava appena una fitta
di malessere quando constatava che nessuno si stava accorgendo della
sua metamorfosi, che nessuna si rendeva conto che quel ragazzino
stava annegando in un baratro di oscurità e sangue.
Diglielo, urlò
con feroce supplica un voce nella sua mente, dille
tutto. Dille quello che hai visto, quello che lui ti ha
insegnato. Dille che ti sta facendo paura quello che stai diventando.
Lei ti aiuterà, lo ha sempre fatto.
Sì, pensò Evan con
agghiacciante calma, afferrandole la mano che lei aveva
precedentemente posato sul tavolo di legno della Biblioteca e
stringendola sotto la sua. Finché non ne sarà disgustata.
Benjy
appoggia le mani in terra, per darsi la forza di portarsi in
ginocchio. Impugna la bacchetta, ritroso, prima di sospirare sfinito
e voltarsi verso il resto dei prigionieri.
Si sente sull'orlo di
un baratro, di un confine che non si è mai permesso di oltrepassare.
Ha sempre detestato uccidere e ha fatto di tutto per evitarlo, se
poteva. È la linea che separa il bene e il male, si
è detto, noi da loro. I Mangiamorte uccidono per piacere,
noi per necessità.
Eppure ora sta per ammazzare una persona
la cui unica colpa è quella di trovarsi nel luogo sbagliato al
momento sbagliato.
La sua vittima, quella che ha scelto di
sacrificare, trema quando capisce le sue intenzioni. È un uomo, poco
più vecchio di lui, dai capelli scompigliati e bianchi. Lo fissa con
occhi spiritati, singhiozzando in un pianto straziante.
Benjy,
odiandosi con tutto se stesso, stringe la presa sulla bacchetta.
«Puoi
farlo?»
Evan guardò l'uomo che aveva di fronte, una creatura
rattrappita per la paura che ricambiava con occhi spalancati e
supplicanti. Era disarmato e ferito, totalmente alla loro mercé.
Di
riflesso non poté fare a meno di chiedersi se anche lui era apparso
così, debole e patetico, di fronte a suo padre. Quel pensiero bastò
per cancellare il principio di compassione che stava inevitabilmente
affiorando, scacciato via da una furia cieca, rancorosa e
sanguinaria.
Suo zio era al suo fianco, immobile nel suo mantello
scuro e con il volto pallido imperturbabile.
«Il Signore Oscuro
vuole essere certo che tu abbia la tempra per fare ciò che è
necessario» continuò pacato e rapido. «La formula la conosci. Puoi
farlo, Evan?» ripeté secco.
Lui si rigirò la bacchetta tra le
dita.
«Chi è?»
«Un nemico» risponse suo zio, monocorde.
«Non ti serve sapere altro».
Si trovavano in una zona isolata,
persi da qualche parte nella campagna inglese, a decine di miglia da
un qualche centro abitato. La Traccia è svanita nel momento
in cui ho compiuto diciassette anni, considerò avveduto, e
il Ministero non saprà mai quello che sto per fare.
No,
fermati, gridò una parte di sé, che lui
immaginava con irritazione avere le fattezze del bambino che era stato.
Quel bambino inutile e piagnucoloso, spaventato persino dalla sua
ombra. È il punto di non ritorno. Tu non sei in grado di
uccidere!
Evan socchiuse gli occhi verdi,
infastidito, e, quasi a volergli dimostrare quanto si sbagliasse –
non era più un bambino, non aveva più paura –,
alzò la bacchetta davanti a sé.
«Avada Kedavra».
Pensava
che si sarebbe sentito male nello spezzare una vita, così, senza
motivo.
Invece, non sentì nulla.
«Avada
Kedavra».
Il corpo dell'uomo scivola sul pavimento,
accasciandosi in un posa scomposta.
Benjy fa a malapena in tempo a
vederlo, prima di abbassare con vergogna il capo. Quasi ha la
tentazione di lanciare via la bacchetta, tanto la nausea e il
ribrezzo che prova per se stesso lo sta affogando. Questo, unito alla
consapevolezza che lo rifarebbe altre dieci, cento, mille volte se
servirebbe per salvare Annie.
Non sono migliore di
Rosier, pensa stordito, senza riuscire a guardare né il suo
carceriere né tanto meno sua figlia. Ho appena ammazzato e
riesco solo a pensare agli effetti che questo avrà su di me, invece
di di rammaricarmi per la vita che ho stroncato.
«Ammetto di
essere deluso» la calma della voce di Rosier squarcia quell'oblio
oscurità che è diventata la sua mente. «Credevo che ci volesse di
più per spezzarti» considera asciutto.
«Hanno
ucciso, Evan».
Sapeva che sarebbe arrivato questo momento. Lo
sapeva, eppure in cuor suo aveva sperato fino all'ultimo che non
sarebbe successo. Che avrebbero avuto più tempo.
Tempo
per cosa esattamente? Non riuscì fare a meno di pensare una
parte di lui, ribollendo di irritazione. So da anni come la
pensa: lei e la sua maledetta pietà per quei Sanguemarcio di cui le
piace tanto circondarsi. Sono pronto a questa reazione.
Ma non
era pronto a dirle addio.
Fu un pensiero che non riuscì a
controllare, che si stagliò con forza nella sua mente e che, per un
attimo – un solo, maledetto, attimo – lo rese
incapace di sostenere quello sguardo inquisitore.
«E allora?»
domandò annoiato. «Ne parli come se fosse qualcosa di importante»
concluse incrociando le braccia al petto e appoggiandosi alla parete
di pietra alle sue spalle.
«Ma ti devi importare!» insistette
lei, accalorandosi e spalancando quegli occhi scuri come se non lo
riconoscesse. «Tu non sei così» decretò sicura, appena tremante,
scuotendo impercettibilmente il capo.
Lui sbuffò piano,
limitandosi ad inarcare un sopracciglio.
«E come
sarei?»
Debole, sussurò una voce
odiosamente simile a quella di suo padre alle sue orecchie. Non
sarai mai altro che questo.
Tanto bastò per mandargli il
sangue al cervello e fargli conficcare con rabbia le unghie della
mano destra nella lana del maglione che gli copriva
l'avambraccio.
«Non sei senza cuore» disse semplicemente lei,
con assoluta sicurezza. Tra le sue mani continuava a stringere
convulsamente quella copia della Gazzetta del Profeta,
recante le ultime notizie riguardanti le scomparse e le uccisioni da
parte dei Mangiamorte. «Non so che cosa ti stia succedendo ma è
da quando frequenti tuo zio che non sei più lo stesso, e io sono
stufa di fingere che vada tutto bene. È per colpa sua?» chiese
apprensiva. «È lui che ti ha messo in testa-»
«Evita di
tirarlo in ballo» la bloccò lui, brusco. «Lui non c'entra».
«E
allora perché è sotto processo per omicidio?»
«Strano»
commentò Evan, sprezzante. «Ho sempre pensato che prima di
condannare un uomo bisognasse aspettare il verdetto del Wizengamot.
Te lo hanno insegnato i tuoi amici Grifondoro a giudicare senza
conoscere i fatti?»
Lei voltò il capo, stringendo le
labbra.
«Senti» riprese, continuando a stroppicciare il giornale
per il nervosismo. «So che gli vuoi bene e che lo consideri come un
padre ma tutta questa situazione mi preoccupa. Tu mi
stai preoccupando, perché in questo periodo mi sembri ancora più
distante del solito. Puoi parlamene, lo sai» mormorò con dolcezza,
allungando una mano per stringergli il braccio.
Evan si allontanò
ancor prima che lei riuscisse a sfiorarlo.
«Di cosa?» replicò
sferzante e irritato. «Di cosa si prova ad essere il nipote di
un ipotetico Mangiamorte? Passo, grazie».
«Vorrei
solo sapere che sta succedendo» confessò lei, piano. «Perché non
sopporto di vederti in questo stato».
«E allora stammi alla
larga».
La vide sgranare gli occhi e corrugare la fronte,
incredula. Rimase per un secondo immobile, come per assicurarsi di
aver sentito davvero quelle parole poi, quando constatò la serietà
sul suo volto, abbassò il capo e si portò una mano alla bocca
tremante.
Il primo singhiozzo, Evan lo sentì appena. Il secondo
gli si piantò in mezzo al petto come una coltellata, togliendogli il
fiato e facendogli precipitare quella maschera di indifferenza che si
era tanto impegnato nello sfoggiare.
Lei non lo guardò neppure,
la mano premuta contro la bocca che cercava di soffocare qualsiasi
lamento e le guance bagnate dalle lacrime. Per questo non vide il
dolore sul volto di Evan né il gesto che lui aveva fatto di alzare
il braccio verso di lei.
Non vide nulla.
Ma lui sì e, mentre la
guardava allontanarsi in tutta fretta, con movimenti frenetici e
impacciati, riportò il braccio lungo il fianco, scostando il capo a
sinistra. E nonostante stesse facendo del suo meglio per non provare
nulla, sapere di averla ferita, di averla persa – e con lei tutto
quello che restava di lui, di quel bambino – gli dilaniò l'anima e
gli procurò un genuino senso di disgusto per se stesso.
«Dicevamo
che Lupin e Minus non erano sempre presenti alle vostre riunioni»
afferma Rosier, riprendendo il filo del discorso e calamitano
l'attenzione di Benjy che, suo malgrado, torna a fissarlo. «Come
tutti gli altri membri dell'Ordine, suppongo. Immagino che è così
che il Custode dei Potter si
nasconda: fingendo di eseguire altri incarichi mentre sta
rintanato come un topo. Ora ti chiedo... chi tra i due ti è sembrato
più strano?»
«Remus» risponde Benjy, stupendo se stesso per la
velocità con la quale quella verità gli è scivolata fuori dalle
labbra. «Ci sono dei momenti in cui si comporta in mondo strano. Non
sembra nemmeno lui» espelle riluttante.
Il Mangiamorte gli
rivolge un'occhiata scettica.
«Da quello che so, gli succede una
volta al mese» afferma criptico, alludendo a qualcosa che lui non
riesce a capire. «Che intendi con strano?»
Benjy esita,
leccandosi le labbra. Non sa nemmeno lui come spiegarlo ma ogni volta
che ha intravisto Remus, gli è sembrato di scorgere qualcosa di
oscuro dietro a quelle iridi color miele. Quasi come se ci
fosse altro oltre al ragazzo modello uscito da
Hogwarts con ottimi voti e il fidato alleato dell'Ordine. E questo lo
ha portato spesso a chiedersi se, viste le continue vittorie dei
Mangiamorte che sembrano quasi anticipare ogni loro mossa, tra di
loro non ci sia una...
«Spia?» domanda Rosier, leggero, gli
occhi verdi illuminati d'ironia. «Una ci deve essere sicuramente.
Non ti sei chiesto come mai abbiamo trovato tuo zio?»
«Non è
possibile» esplode Benjy, spalancando gli occhi sconvolto e sentendo
un nuovo fiotto di paura artigliargli le viscere. «Impossibile»
ripete flebile.
Rosier lo grazia di un sorriso dolce.
«E
perché mai?» lo provoca amabile. «Capita di cambiare schieramento,
specie se si è dalla parte dei perdenti» commenta logico.
Perché
non siamo come voi, vorrebbe rispondergli Benjy ma quella
frase suona ridicola persino alle sue orecchie. Aggrotta per un
momento la fronte mentre una sequenza di domande e dubbi che si è
sempre sforzato di sopprimere in tutti quei mesi, tornano
prepotentemente a galla e si impongono con forza nella sua mente.
Tutti gli agguati che hanno subito, i morti caduti, la disperazione
che hanno provato... davvero uno di loro – uno dei buoni –
li ha venduti?
Ha senso, elabora rapidamente. Se
così non fosse, Mary non sarebbe morta e Annie non sarebbe in questo
fetido sotterraneo. Qualcuno
ha parlato.
Ma chi? Si trova a scorrere nella testa i
volti sorridenti dei compagni dell'Ordine, le stesse persone nelle
quali ha affidato la sua vita e con cui ha pronunciato il giuramento
di liberare il paese da quella piaga rappresentata da Tu-Sai-Chi e i
suoi seguaci.
Deve essere Black, sentenzia con genuino
disgusto. Quella famiglia è tutta marcia.
«Spero che
elaborerai in fretta lo shock» commenta Rosier, spassionato,
infilando la mano nella tasca del mantello. Tira fuori un rettangolo
che immediatamente riconosce come un pacchetto di sigarette
Babbane. Questa è buona, pensa Benjy,
frastornato, Evan Rosier che utilizza una diavoleria del
genere. «Vorrei finire questo gioco prima di sera. Più
tardi ho degli impegni» rivela, accendendo una sigaretta con un
colpo di bacchetta e aspirando una lunga boccata. Lo vede rimanere
immobile, a contemplare quel fumo grigio e dall'odore nauseabondo con
aria meditabonda. «Minus non è uno che dà nell'occhio, vero?»
riflette serio, aggrottando la fronte e lanciandogli un'occhiata
perforante. «Probabilmente si fa fatica a ricordarsi quando è
presente e quando no. Quasi come se fossi invisibile» conclude con
l'ombra di un ghigno a solleticargli le labbra.
A Benjy quasi si
rizzano i peli quando intuisce quello che il Mangiamorte vuole fargli
capire. E, nonostante si senta esausto, si ritrova a scuotere il capo
convulsamente.
«Non è Minus» si affretta ad aggiungere,
ansioso, mentre il suo cervello inizia ad analizzare che, sì, forse
quel ragazzino cicciottello potrebbe non essere così candido come ha
sempre realizzato. E allora si rammenta che, prima che Voldemort
decidesse di designare il figlio dei Potter come nemico, Minus era
solito fermarsi al quartier generale e che non aveva mai avuto il
coraggio di scendere in campo ed affrontare il nemico con la
bacchetta in pugno, preferendo tirargli un ruolo dietro alle quinte.
Ruolo che gli avrebbe potuto permettere di spiarli e controllarli per
tutto il tempo, senza che lui o altri si accorgessero del suo doppio
gioco. «Minus non lo farebbe. Se c'è una spia è Black» si
costringe a dire.
Evan ride sommessamente, continuando a fumare
beato.
«Non ci credi nemmeno tu» asserisce divertito. «Scegline
un altro» aggiunge, indicando con un cenno del mento i prigionieri
ammassati contro la parete, che iniziano a gemere terrorizzati.
«Non
ho mentito» protesta Benjy, accalorandosi. Ignora l'occhiata
infastidita di Rosier e rifiuta di impugnare la sua bacchetta, che
giace abbandonata accanto al suo ginocchio.
Il Mangiamorte, dopo
aver sollevato gli occhi al soffitto con quello che pare profonda
irritazione, si degna di scoccargli un'occhiata di sfida prima di
agitare la bacchetta con un gesto secco.
Le urla strazianti di
Annie riempono immediatamente le pareti dei sotterranei. Benjy vede
il suo corpicino contorcersi per terra, strangolato da un dolore che
lui conosce bene, cercando una pace agognata quanto
impossibile.
«Potevi evitarle tutto questo» commenta Rosier,
implacabile, accendendosi un'altra sigaretta e indifferente a
tutto.
«Fermati, lo farò» dichiara Benjy, disperato, afferrando
alla svelta la bacchetta e supplicandolo di smetterla.
Solo quando
Annie smette di dimenarsi come un naufrago, schiacciato dalla furia
delle onde e alla disperata ricerca di ossigeno, Benjy deglutisce,
rendendosi conto di quello che sta per fare.
«Non ti preoccupare»
lo tranquillizza Rosier, accondiscendente. «Il secondo assassinio è
più semplice» afferma con l'aria di chi lo sa bene.
Attendeva
con ansia questo momento. Lo aveva sempre fantasticato più volte nei
corso degli anni, progettando ogni dettaglio con meticolosa
attenzione e valutando qualsiasi variabile o imprevisto.
Sarebbe
stato grandioso. La vendetta deve esserlo, aveva pensato
più volte.
Si era aspettato di provare un ammasso di sentimenti
contrastanti – rabbia, euforia, gioia –, di esaltarsi nel vederlo
strisciare ai suoi piedi e di ascoltare con profondo compiacimento le
sue suppliche.
Invece era andata diversamente.
Dopo averlo
disarmato e reso innocuo, sentiva solo una intensa delusione.
Suo
padre, il mostro che lo aveva terrorizzato per tutta la sua infanzia
e che aveva passato la sua adolescenza a lanciargli occhiate nervose
e impaurite – ironico che fosse stato l'unico ad accorgersi del suo
cambiamento – giaceva rannicchiato sul pavimento, tremante e con la
camicia linda che iniziava ad imporporarsi.
È di questo
essere patetico che avevo paura?
«Non puoi farlo» singhiozzò
con voce talmente esile che si spezzò più volte. Lo guardava con
occhi supplicanti e le labbra tremanti. «Evan» mormorò, sperando
forse di impietosirlo.
Lui lo fissava senza davvero vederlo.
Quello che vedeva invece era una sequenza di ricordi
che gli rammentavano la violenza e la rabbia che quel mostro gli
aveva vomitato addosso per anni, insieme alla convinzione di essere
debole ed insignificante.
Non si sarebbe liberato dal suo giogo se
non fosse stato per suo zio.
«Rilassati» lo tranquillizzò Evan,
seduto su una sedia al centro del salotto deserto. Tirò fuori dalla
tasca dei pantaloni un pacchetto di sigarette – vizio pessimo ma
ottimo modo per calmare i nervi e pensare – e ne accese una con un
colpo di bacchetta. «Il peggio deve ancora venire» affermò
distaccato.
«Non mi uccidere» gemette ancora suo padre,
mostrando nemmeno un briciolo di dignità. «Non voglio
morire».
«Credimi: dopo tutto quello che ti farò, la morte sarà
una liberazione».
Non sa
nemmeno lui come sia successo.
Forse è semplicemente stanco o
forse si è reso conto che non vale nemmeno la pena combattere. Tanto
non servirebbe a nulla, perché piegherebbe la sua morale se dovesse
scegliere tra la causa a cui ha prestato giuramento e la sua
bambina.
Così si ritrova a dirgli tutto quello che l'altro vuole
sentire. Non ci prova nemmeno a mascherare la verità o ad aggiungere
qualche bugia. Si limita a far sgorgare fuori le parole dalla sua
bocca, in una litania lenta ed affaticata.
Non ricorda nemmeno
quante persone ha ucciso né il loro volto. Dopo il secondo morto, si
è imposto di non guardarli in faccia mentre la Maledizione senza
Perdono gli succhiava via la vita, conscio che la loro, di vita, non
è nemmeno paragonabile a quella di Annie.
«Ti ringrazio»
afferma infine Rosier, cordiale. «Mi sei stato davvero utile».
«Ti
prego» farfuglia Benjy, ormai completamente sconfitto. Si azzarda ad
alzare il capo, guardando il suo aguzzino negli occhi. «Ti supplico
non ucciderla. Fai di me quello che vuoi, ma risparmia lei».
Rosier
ricambia con uno sguardo gelido, continuando ad aspirare boccate di
fumo. Tuttavia, solo per un breve istante, brilla qualcosa in quelle
iride verdi che Benjy non riesce proprio ad interpretare se non come
una certa tristezza e fragilità. È una visione tanto rapida quando
inaspettata, sufficiente però per lasciarlo senza parole.
«Sei
un buon padre, Fenwick» afferma Rosier, piano, gettando a terra il
mozzicone di sigaretta e annuendo impercettibilmente con il capo.
«Non tutti i figli sono stati così fortunati».
Non è una
promessa. Non è niente ma nel momento in cui lo
sente dirgli di essere rapido con il suo addio, Benjy non riesce a
reprimere quel sorriso di gratitudine nel sapere che Annie
sopravviverà.
Il
braccio tremò, scosso da spasmi dolorosi e incontrollabili, mentre
rivoli di sangue colavano da quel segno che gli era stato appena
impresso. Il teschio lo fissava con orbite vuote, la mandibola
spalancata da cui spuntava un serpente sinuoso dagli occhi spietati e
funesti.
Evan non riuscì a smettere di fissare il Marchio Nero,
lucido e ancora rovente, spiccare sulla pelle pallida.
Una mano
gli strinse la spalla, una presa salda e vigorosa.
«Ben fatto,
ragazzo» sussurrò suo zio, un sorriso trionfante ed orgoglioso ad
illuminargli il volto austero.
Rosier
entra nel momento in cui si sta gustando il suo secondo scones.
Lo
vede avvicinarsi a loro, comodamente seduti sui divani del salotto, e
gettare una breve occhiata distratta al tavolino imbandito per il tè
delle cinque. Alle spalle del Mangiamorte, Travers si stupisce nel
trovare la bambina di Fenwick, che fluttua serenamente addormentata
in un sonno incantato.
«Cerchiamo Minus» esordisce Rosier,
spiccio. «Fenwick ha detto che ha dei parenti in una piccola contea
nel Galles occidentale. Basterà un rapido consulto all'anagrafe del
Ministero per saperne più. Naturalmente» continua con quella
sfumatura sarcastica nella voce. «Una volta scoperta la città,
vediamo di usare un minimo di discrezione. La Polisucco sarà
sufficiente per permetterci di indagare senza dare
nell'occhio».
Leccandosi via le briciole che gli sono rimaste
attaccate ai polpastrelli, Travers inclina il capo.
«Dici che si
è nascosto lì?» chiede interessato.
Rosier scrolla il capo,
alzando per un istante le sopracciglia con incertezza.
«Può
darsi» ammette leggero. «La gente è solita rifugiarsi nei luoghi
con cui sente un legame».
«Sono solo supposizioni» replica
Antonin, derisorio, sorseggiando il suo tè.
Rosier non pare
essersela presa. Dal modo in cui si sfrega le tempie, Travers
ipotizza che sta per avere uno dei suoi soliti attacchi di mal di
testa ed è probabile, a giudicare dalla postura rivolta verso la
porta, che non veda l'ora di
andarsene per ingurgitare un filtro lenitivo.
«Se vuoi
perdere il tuo tempo a cercare Black, fa pure» replica Rosier,
quieto, facendo un cenno di congedo con il capo.
Sta già per
allontanarsi quando la voce di Travers lo costringe a rimanere ancora
nel salotto.
«Che hai intenzione di fare con la bambina?»
domanda curioso.
«Ti interessa?» ritorce Rosier, degnandolo di
un'occhiata stanca e spazientita.
«Di solito ti sbarazzi subito
di tutti i testimoni» ammette stupito, agguantando un
altro scones dal piatto fumante che un Elfo ha
portato nella stanza pochi minuti prima. «Immagino che Greyback sarà
stato ben felice di occuparsi di Fenwick».
Rosier si lascia
sfuggire un sorriso beffardo.
«Non preoccuparti, Travers» lo
assicura lieve, alludendo alla bambina. «Non andrà a spifferare la
chiacchierata che ho avuto con il suo vecchio».
Travers incurva
le labbra in un sorriso deliziato.
«Di questo, non ho alcun
dubbio» confessa, domandandosi in che modo toglierà di mezzo quella
piccola seccatura. Probabilmente utilizzerà un Avada
Kedavra. Rosier è solito fare un lavoro pulito e detesta i fiumi
di sangue che invece eccitano il Lupo Mannaro.
«Come sei riuscito
a far parlare Fenwick?» si inserisce Antonin, scoccando al
Mangiamorte più giovane uno sguardo di puro disprezzo che però non
riesce a celare l'interesse.
Rosier esita un momento, scuotendo
appena il capo.
«A volte, per piegare un uomo non serve per forza
utilizzare la violenza. Basta capire come ragiona, a cosa tiene»
illustra celere e incolore.
Antonin alza gli occhi dalla sua
tazzina, puntandogli addosso quegli spilli slavati e crudeli.
«E
funziona con tutti?»
«Sprechi il tuo tempo con me, Dolohov»
afferma Rosier, sollevando le sopracciglia e storcendo il viso in una
smorfia di sarcasmo e disprezzo. «Tutti quelli che amavo sono morti»
taglia corto, asciutto.
«Non proprio tutti» lo contraddice
Travers, masticando compito e sorridendo ambiguo. «C'è sempre
Avery» svela ed è una sua sensazione o vede i lineamenti di Rosier
distendersi con quello che pare genuino sollievo?
«Avery, sì»
conferma Rosier, di nuovo padrone di sé. Inclina il capo, assumendo
un'espressione scettica. «Che è uno dei nostri. Mi chiedo perché
dovresti infastidirlo» commenta inespressivo, congedandosi dal
salotto.
«Non
ti penti di quello che fai?»
Quella domanda lo costringe a
distogliere lo sguardo dalla vastità azzurra che si estende sopra la
sua testa.
«Credevo che questo fosse territorio neutrale»
afferma Evan, impassibile, accendendo con il capo alla campagna nel
Northumberland. Una zona di terra brulla, circondata da catene
montuose, che ha sempre costituito un piccolo porto sicuro, un
rifugio nel quale la guerra e tutto quello che comporta non riesce ad
insozzare.
Lei si volta, girata sul fianco e con la testa sorretta
da una mano, aggrottando appena la fronte con quell'aria meditabonda
che ha sempre avuto fin da bambina.
«È così» risponde onesta,
sondandogli il viso con i suoi attenti occhi scuri. «Solo che... a
volte mi chiedo perché ti ostini tanto a fingere di essere il mostro
che non sei» dice con un velo di rammarico nella voce, ben
consapevole di inoltrarsi in un terreno scivolo, rischiando di
spezzare quell'equilibrio al quale sono giunti faticosamente dopo
anni di lontananza e finta indifferenza.
Evan le rivolge uno
sguardo penetrante e infastidito. Sa che lei non ha mai accettato
l'idea di vederlo combattere per una causa che ritiene folle e
sbagliata e che finga di non sapere che quelle mani sono ricoperte di
sangue innocente.
Lasciandosi sfuggire un sorriso mite, lui si
limita a spostarle una ciocca dei capelli scuri da davanti agli
occhi.
«Il mondo non sarebbe d'accordo, Emme» mormora con lieve
ironia.
«Il mondo non ti conosce, Evan».
E
finalmente siamo arrivati alla fine. Questa storia è stata davvero
una Odissea, tanto che ho pensato di più volte di abbandonarla e
cambiare. Però l'idea mi piaceva quindi ho cercato di combattere
contro lo sconforto e il nervosismo per portarla a termine.
Da
una parte sono emozionata, dall'altra scettica. Emozionata perché è
la prima volta che abbandono la New Generation per addentrarmi nella
Old. Scettica perché non era esattamente così quello che avevo in
mente. Tuttavia nella vita bisogna essere ottimisti e accettare
che questo è
il massimo che potevo fare.
Una
piccola spiegazione prima di lasciarvi alle note. Ho scelto di
scrivere di Evan Rosier perché di lui si sa poco o nulla: era uno
dei più temuti Mangiamorte, probabilmente era spietato, ed è uno di
quei personaggi che mi affascinano un sacco. Non mi dilungo troppo
perché non vorrei condizionarvi con le miei idee, spero solo di
averlo reso in maniera credibile.
Grazie
per essere arrivati fin qui.
Alla
prossima,
Blue
Sanguemarcio:
le traduzioni italiane hanno fatto un gran casino tra Nati Babbani e
Mezzosangue. Considero Sanguemarcio un insulto rivolti ai Nati
Babbani.
Evan
Rosier: saltellando
su Google, ho scoperto che Evan ha iniziato Hogwarts nello stesso
anno di James, Sirius e compagnia bella. Non so perché ma l'ho
sempre creduto più vecchio, forse perché mi ricordavo le parole che
Silente rivolge a Voldy («Allora,
se dovessi andare alla testa di Porco adesso, non troverei un gruppo
– Nott, Rosier, Mulciber, Dolohov – in attesa del tuo ritorno?
[…]» va
da sé, naturalmente, che il Rosier in questione non è Evan ma lo
zio).
Arco
temporale in cui si svolge la storia:
visto che nomino l'omicidio dei McKinnon, avvenuto per mano di
Travers e altri Mangiamorte, siamo teoricamente tra il luglio e
l'ottobre del 1981, ovvero alla fine della guerra.
Dico
teoricamente perché mi sono resa conto, quando ormai avevo terminato
la storia, che Evan muore un anno prima della caduta di Voldy. Mi
sono quindi presa la libertà di posticipare la sua dipartita.
Minus:
qua, ammetto di essermi basata su ipotesi. Ho trovato che Minus
passava informazioni ai Mangiamorte già dal 1979. Ora, com'è
possibile che per quasi tre anni non sia mai stato beccato da
qualcuno? Poi, però, ho pensato che l'avesse fatto in anonimo, così
da rimanere “neutrale” e salire sul carro dei vincitori. Al
termine del 1981, la situazione ha fatto sì che Minus si schierasse
dalla parte dei Mangiamorte, rivelando solo a Voldemort la sua
identità. Per questo Evan lo cerca, non sa che è una spia.
Ah,
naturalmente è stato Minus a rivelare l'ubicazione del Custode
Segreto dei Fenwick. Probabilmente lo aveva sentito senza che Benjy
se ne accorgesse.
Perché
Evan chiama Sirius con il suo nome:
penso che essendo coetanei e rampolli di famiglie purosangue, si
conoscessero. Che andassero d'accordo, è un altro discorso
Lo
chiama Black solo davanti agli altri Mangiamorte.
La
ragazzina che compare nei ricordi di Evan e alla fine:
spero di avervi fatto capire che si tratta della stessa persona.
Non
avevo assolutamente intenzione di fare un copia incolla della storia
di Lily e Piton. Sì, ha un suo peso ma non è determinante,
tanto che Evan non tradisce i Mangiamorte per lei.
Per
quanto riguarda la sua identità... so che nel fandom vi è la
tendenza ad associare Evan con Dorcas Meadowes ma io lo vedo troppo
con Emmeline Vance.