Un evento estremamente sfortunato
C |
’era
una volta una ragazza che viveva in un piccolo villaggio, il suo nome era
Callisto.
Era
una ragazzina dall’aspetto strano, pallida ed esile, con lunghi capelli neri
che le cadevano simmetricamente su entrambi i lati della testa. Aveva il viso
ovale, la fronte alta, ma il mento stretto, le labbra sottili e il naso
perfettamente dritto, se non un tantino troppo lungo sulla gobba.
Erano
tuttavia gli occhi a dominare i suoi lineamenti, enormi occhi scuri di un viola
sconvolgente, attraverso i quali osservava il mondo con un’intensità cupa e
inquietante.
Viveva
in un villaggio chiamato Gabbiano, nel profondo cuore delle paludi nere.
Un
nome alquanto bizzarro, dal momento che nessuno degli abitanti del villaggio
aveva mai visto un gabbiano e tanto meno il mare. Sempre che non si
considerasse il vecchio Bram, che forse aveva viaggiato per tutto il regno e
visto moltissime cose, che uno gli credesse o meno.
Il
villaggio era costruito su palafitte. Una moltitudine di piattaforme di legno
collegate tra loro si allungavano sopra un lago oscuro e soffocato dalle alghe,
ondeggiante tra enormi alberi di sughero e secche erbose che affioravano
dall’acqua grigio-marroncina.
A volte le secche venivano inghiottite
dall’acqua, quando questa si alzava fino a raggiungere quasi il livello delle
case; a volte invece il lago si abbassava così tanto che era possibile scorgere
le sagome scure degli esseri che vi nuotavano in attesa di agguantare
sprovveduti.
Qui
nelle paludi nere la vita era precaria: l’unico terreno veramente solido era
quello che ci costruiva con le proprie mani.
Callisto
abitava in una capanna rotonda vicino alla sponda del lago, dove una fitta fila
di alberi dalla corteccia cornea correva proprio vicino all’acqua. Divideva la
capanna con la zia.
Avevano
una piattaforma tutta per loro: attorno al muro della capanna correva una
passerella circolare fatta di tavole traballanti e una balaustra di rami
storti.
La
loro piattaforma era collegata a quella vicina da un ponticello a corde con un
buco là dove una delle assicelle era marcita. Callisto si ricordava si
ricordava di averlo sempre sorpassato con un saltello sin da quando era una
mocciosa che aveva appena imparato a stare in piedi sulle estremità posteriori.
Fino
a qualche tempo fa si sedeva sempre sul bordo di quel buco per starsene con le
gambe a penzoloni. Sua zia le aveva detto di non
farlo, ma Callisto era sempre stata una bambina testarda e aveva sempre
ignorato i suoi consigli.
Poi
un giorno il lago si era gonfiato in maniera straordinaria, e lei stava con i
piedi a penzoloni quando un pesce capra dall’acqua.
Aveva
scorto la sua gigantesca ombra cornuta un istante prima che guizzasse fuori
dalle tenebre, con la bocca spalancata come un abisso e trascinandosi dietro
una barba di viticci. Riuscì a tirarsi su appena le fauci velenose si
serrarono, proprio dove prima c’erano le sue gambette.
Il
pesce era abbastanza grande sbranargliele in un sol boccone. Quella volta
Callisto aveva imparato la lezione.
Sua
zia, Chryseis, lo diceva sempre che Callisto non seguiva non seguiva mai i
consigli degli altri e che faceva sempre il contrario di ciò che le veniva
detto.
Per
una volta Callisto prese in considerazione di fare esattamente l’opposto e di
seguire i consigli di sua zia alla lettera, ma alla fine decise che avrebbe
fatto soltanto confusione e quindi lasciò perdere.
«In
te c’è un pizzico del Vecchio Sangue, Callisto» Bram le aveva detto una volta. «Di
quel tempo in cui gli uomini e le donne erano forti e governavano il Regno. »
«Che
n’è stato di loro? » aveva chiesto seduta come sempre sul tappeto davanti al
fuoco, mentre
il vecchio, sulla poltrona in vimini sgangherata, pipava dal narghilè posato
vicino a lui sul pavimento.
«Si
sono rammolliti» rispose Bram. «La vita era felice, il Regno era in pace. Ma
all’uomo non piace essere in pace. Va contro la sua natura. Così le persone
presero a bisticciare tra loro e dai bisticci nacquero dei veri e propri
conflitti, e un conflitto è una cosa semplice da iniziare, ma altrettanto
difficile da fermare. Allora scoppiò la Guerra dei Molti Fronti, e quando fu
finita l’Uomo ormai era diviso e debole. Si rifugiò nelle paludi e in mezzo ai
monti, voltando le spalle ai suoi simili. Ora le antiche città sono vuote e in rovina,
infestate dal fantasma del passato proprio come noi. » aspirò dal suo narghilè
e soffiò fuori una boccata di fumo aromatico, che si mise a svolazzare nella
corrente del fuoco, dissipandosi poi lungo il soffitto di paglia.
Callisto
sapeva tutto sulla Guerra dei Molti Fronti –o almeno ne conosceva le leggende,
perché chi poteva sapere cosa era realtà e cosa era finzione?- tuttavia le
piaceva ascoltare i racconti del vecchio.
Bram
era considerato una persona stravagante, molto più di quanto lo fosse lei.
Comunque lui se ne stava per conto suo, spesso rimaneva assente per lunghi
periodi, e quando tornava aveva sempre nuove storie da raccontare.
Magari
sotto altri aspetti era del tutto inoffensivo, ma per i genitori del villaggio
il solo fatto che fosse un giramondo era sufficiente per voler tenere i figli
alla larga da lui. Non poteva venire di buono dal mondo esterno.
Là
fuori ci vivevano fate, demoni e folletti, e cose senza nome. Non erano pochi
al villaggio a mormorare che anche nel vecchio c’era qualcosa di fatato.
Essere
così arzillo alla sua età poteva significare soltanto che guai.
«Ma
tu, ragazza mia» sibilò infine « tu hai un po’ di quello spirito antico,
proprio come me. La vita qui non ti soddisferà. Tu vedi quello al di là di
quello che ti sta davanti agli occhi.
«A
volte vorrei poter essere soltanto…felice. Felice con quello che ho» confessò
Callisto. «Come le altre ragazze della mia età.»
«Ah!
» tuonò con un guizzo della mano rugosa e avvizzita il vecchio. «Non confondere
l’accontentarsi con l’essere felici, Callisto. inoltre» disse fissando il fuoco
con un espressione improvvisamente distante «alcuni di noi sono nati nel posto
giusto, mentre altri se lo devono andare a cercare. »
Callisto
aveva trascorso tutto il giorno vagando per le paludi più fitte che
circondavano lago su cui si ergeva Gabbiano, alla ricerca di funghi e radici
con il suo falcetto arrugginito, servivano a sua zia per preparare infusi ed
impiastri per guarire dalle febbri della palude ad altre malattie.
Chryseis
era un po’ come una dottoressa, e la sua arte alchemica era quella di saper
trattare piante, sia quelle buone sia quelle velenose, per trarne dalle loro
anime fibrose potenti farmaci che erano somministrati ai malati; per questo
veniva molto spesso interpellata se qualcuno nel villaggio aveva preso la
febbre della laguna o la polmonite palustre. Callisto venerava questa sua
attività, e a volte, quando lei acconsentiva, la starla a guardare in religioso
silenzio, mentre tritava con un pestello di vetro Artemisia e Belladonna dentro
una ciotola di legno, o faceva fermentare strani intrugli su alambicchi esposti
al calore di una fiammella bluastra.
Osservava
con ammirazione le enormi polle di vetro posate sopra il tavolo del suo
laboratorio, collegate tra loro con sottili corridoi di vetro, attraverso i
quali arcobaleni di sostanze si fondevano l’una con l’altra, in armonia di
colori e luci del nord, fino a formare il cuore stesso della vita o della
morte, racchiusi in una sottile prigione di vetro.
Con
fare lento e indolente passò davanti a un paio di bambini che si stavano
arrampicando su un albero come scimmiette per raggiungere i rami dove appendere
una gabbia per gli spiriti. Chiacchieravano tra loro mentre fissavano quella
sfera fatta di stanghette di legno, che nel cuore custodiva una candela. La
candela era infilata in un bulbo di vetro colorato, e quando l’accesero emanò
un morbido bagliore rosa purpureo.
Callisto
gettò un’occhiata un po’ più in alto e notò il fianco muscoloso di un serpente
delle tenebre che se ne stava tranquillamente acciambellato su un ramo ad
osservare senza molto interesse quei bocconcini prelibati sotto di lui.
Per
i serpenti delle tenebre era ormai troppo tardi per cenare e di questo quei due
avrebbero sicuramente ringraziato il cielo, se solo avessero saputo che stava
lì. Soltanto un paio d’ore prima, il tenue tepore del sole avrebbe risvegliato
il metabolismo del serpente, che li avrebbe morsi entrambi e si sarebbe avvolto
attorno ai loro corpi paralizzati per spappolargli le ossa. Callisto si chiese
quante altre volte ancora la morte li avrebbe soltanto sfiorati prima di
afferrarli per sempre.
Invidiava
i ragazzi della sua età nella cittadina, che riuscivano a dimenticare le
preoccupazioni nell’allegria di una festa, che non aspiravano a nient’altro che
a un buon marito o una bella moglie e a tirar su bambini per perpetuare se
stessi.
Lei
non riusciva a pensarla così. Non riusciva a passare sopra il fatto che uno su
cinque di loro moriva di polmonite palustre entro il trentesimo anno, e che un
neonato su due nasceva morto, o che ogni anno ragazzini sparivano inghiottiti
nella palude, senza mai far più ritorno a casa.
I
vecchi del villaggio erano afflitti e tormentati dall’asprezza della vita, ma
nessuno alzava un dito per fare qualcosa.
Sembrava
che la gente fosse più felice se accettava il proprio destino. Ma lei non si
rassegnava. Sposare un giovanotto del villaggio, sistemarsi e sprecare tutta la
vita a sfornare bambini e sacrificarsi per loro? Piuttosto si sarebbe gettata
da sola in mezzo ai pesci capra. Almeno quella sarebbe stata una morte veloce,
in confronto a quella lunga e lenta che si prospettava a Gabbiano.
Non
aveva voglia di tornare a casa, né di partecipare alla festa, così decise di
allungarsi nel suo giro di raccolta.
Poco
dopo era ferma sulla riva della laguna palustre nel fitto interno della palude
nera, lontana dal villaggio e dalla civiltà. I rumori della festa e le urla dei
bambini si erano assopiti, soffocati dalla vegetazione rigogliosa, uccelli e
altri animali indefiniti trillavano tra le foglie verdi e lucide.
Attorno
a lei c’erano solo grandi e neri alberi ricurvi, che allungavano le loro chiome
piangenti verso l’acqua scura e melmosa, coperto da una patina verdognola.
Lanciava
piccoli sassi neri e lisci con la mano destra e guardandoli saltare una due,
tre volte sul pelo dell’acqua, coperta da una nebbiolina eterea, in un gioco di
cerchi concentrici che a partire dal centro si allargavano.
Le
libellule, piccole equilibriste dell’aria, si libravano tra i giunchi, le cicale
e i grilli frinivano tra l’erba ricoperta da gocce di rugiada.
In
lontananza, tra le lontane chiome più lontane, poté scorgere un’imponente
colonna di fumo grigio, che si alzava lenta contro il cielo.
Forse
avevano preparato un enorme falò per la festa.
È
strano come le cose possono accadere così in fretta, senza che tu possa
fermarle, un attimo prima ti senti il padrone del mondo, tutto sembra bello
come un meraviglioso dipinto ad acrilici, dove il sole splende alto nel cielo,
gli uccellini cinguettano beati e la natura sboccia in tutta la sua bellezza;
però basta un attimo, un filo spostato nella trama del destino perché il mondo
ti crolla addosso, e ti rendi conto che la vita non è il bianco delle favole,
popolato da principi, principesse e fatine buone, ma il mondo è grande,
spaventoso, e ha zanne affilate che possono morderti in qualsiasi momento.
Il
fato non andò leggero con lei, e la sfortuna arrivò puntuale, come la trista
Signora in persona, anche se questo non era coperto da un mantello nero, né
aveva una falce, e di certo non era tutto fuorché uno scheletro.
All’improvviso,
come comparsa per magia, un’ombra nera, grossa e distorta fece capolino dalla
nebbia, tagliandola come un coltello taglia il burro, arrancando malamente tra
l’erba alta, forse diretta verso di lei.
Callisto
sentì una scossa di paura, anche se da tempo aveva smesso di credere ai mostri
sotto il letto e ai fantasmi per dedicarsi a cose più concrete, sentì che c’era
qualcosa di cattivo nell’aria immobile, come in quieta attesa che succedesse
qualcosa. Strinse più forte il ciottolo caldo e liscio che teneva nel palmo
della mano, desiderosa di tirarglielo addosso e metterlo in fuga, ma quando
riconobbe la figura, su felice di non averlo fatto, perché altri non era che il
Ministro della Magia Cornelius Caramell in persona.
Lui
era un amico di sua zia, e una volta si era fermato con sua moglie a cena a
casa loro. Callisto se lo ricordava, perché era raffreddato, e ogni cinque
minuti doveva alzarsi per soffiarsi il naso.
Quello
che le piaceva di sua zia era che la trattava come un’adulta, e la faceva
partecipare ad impegnativi discorsi su politica, corruzioni, ciò che un giorno
avrebbe potuto servirle.
Caramell
quando la vide le sorrise cordiale, toccando la tesa della bombetta verde acido
in segno di saluto. Il suo faccione era rosso e lucido, come un sole spalmato
di grasso. «Buondì Callisto, bella giornata oggi, vero?» disse allegramente in
tono vano, guardandosi attorno come se quello che lo circondava fosse un
bellissimo paesaggio di campagna, invece di una palude, con un prato d’erba
alta e una piccola spiaggia fangosa, lambita da acqua fetida e salmastra. «Eh
sì, a mio parere non c’è niente di meglio che una bella passeggiata per
smaltire un po’ di ciccia» si diede qualche colpetto al grasso ventre.
«C’è
qualcosa che non va signor ministro?» chiese secca Callisto inarcando appena un
sottile sopracciglio, e fissandolo con quegli strani e intensi occhi.
La
sensazione sgradevole aumentò, fino a diventare pesante come un macigno rotolato
dentro il suo petto. Una vocina pestifera, che lei tanta odiava e che
rappresentava la sua parte pragmatica le sussurrò malignamente all’orecchio:
“Ma certo che c’è qualcosa che non va, altrimenti perché mai un pezzo grosso
come il Ministro della Magia in persona dovrebbe scomodarsi tanto per vedere
una mocciosa come te?”
«Zitta»
pensò Callisto. «Zitta, stai zitta».
Ebbe
un terribile cedimento al cuore e fu inghiottita da una voragine di
presentimenti.
Caramell
le lanciò uno sguardo tra l’impietosito e l’imbarazzato, si tolse rapidamente
il cappello, che appoggiò al petto rigirandolo nervosamente tra le tozze dita.
Fece
un sospiro, cercando le parole giuste per annunciarle quella terribile notizia.
«Callisto…» incominciò, chinando la testa lucida per guardarsi le scarpe
incrostate di fango. «Mi duole tantissimo informarti, che per evento
estremamente sfortunato, tua zia è perita
in un incendio, che ha anche distrutto la tua casa, mi dispiace.»
Se
avete mai perso qualcuno, allora capite come ella si sentì in quel momento,
altrimenti non potete neanche lontanamente immaginare il dolore sordo che
provò.
È
una cosa curiosa la morte di una persona cara. È come salire le scale al buio
per andare in camera di letto e credere che ci sia ancora uno scalino, il tuo
piede cade nel vuoto, e c’è un nauseante momento di tetra sorpresa.
«Hanno
cercato di fare il possibile per salvarla, ma è stato tutto inutile…» stava
spiegando il ministro, continuando a tormentare la bombetta.
Callisto
non stava ascoltando. Sembrava che il mondo di fosse rimpicciolito, e fosse
diventato grande quanto il sasso liscio che teneva nel palmo della mano
tremante. Tutti i suoni erano attutiti, persino la voce ronzante di Caramell,
che si proclama in una lunga spiegazione dei fatti.
Callisto
riusciva solo a sentire il lento sciabordio del sangue spargersi in tutto il
corpo e il ritmo cadenzato del proprio respiro.
Una
mano inguantata del Ministro si posò sulla sua spalla, lei, però la scostò
bruscamente, facendo poi un passo in avanti.
«Sai
cosa significa perito? » le chiese gentilmente Caramell.
«Certo
che lo so!» rispose stizzita la ragazzina, ripensando alle tante cose apprese
durante quei sei anni della sua esistenza, e ai libri che doveva ancora aprire.
Non sarebbe mai più riuscita a leggerli.
Avvertì
una forte fitta al petto. Piccole, salate gocce di rugiada fecero
capolino dagli angoli degli occhi, ma lei le cacciò subito via, cercando di
mantenere un po’ di quel contegno che le era rimasto.
«Era
una bravissima donna, mancherà a tutti noi» dichiarò Caramell solennemente, ma
questo però non fece sentire meglio Callisto. Si vedeva che avrebbe pagato oro
per non essere stato colui che le aveva dato la notizia, ma di questo non si
poteva fargliene una colpa, dopotutto non è facile spiegare ad una bambina che
solo da poco si era affacciata la vita la morte.
Era
entrata con piccoli passi esitanti, la prudenza dei bambini, quando vogliono
qualcosa.
Appoggiata
ad una valigia si era messa a fissare la zia dondolando un piede su e giù.
Fuori
era novembre, e il vento invernale aveva fatto gelare i boschi.
«È
vero che parti?»
«Sì,
Callisto».
«Allora
resto a dormire con te».
Chryseis
le aveva detto va bene, e lei era corsa a prendere il pigiama e il suo libro
dal titolo la vita delle piante, poi le era venuta accanto nel letto:
minuscola, indifesa, contenta. Fra qualche mese avrebbe compiuto i cinque anni.
Tenendola stretta stretta,
Chryseis si era messa a leggerle il libro, d’un tratto le aveva puntato gli
occhi negli occhi e posto quella domanda.
«La
vita che cos’è?»
Chryseis
non era brava con i bambini, non sapeva adattarsi al loro linguaggio, alle loro
curiosità. Le aveva dato una risposta sciocca, lasciandola insoddisfatta.
«La
vita è il tempo che passa fra il momento in cui si nasce e si muore».
«Tutto
qui?»
«Ma
sì Callisto. Basta».
«E
la morte che cos’è?».
«La
morte è quando si finisce e non ci siamo più».
«Come
quando viene l’inverno e un albero secca?»
«Più
o meno».
«Però
un albero non finisce, no? Viene la primavera e allora lui rinasce, no?»
«Per
gli uomini non è così, Callisto. Quando un uomo muore è per sempre e non
rinasce più».
«Anche
una donna? Anche un bambino?»
«Anche
una donna, anche un bambino».
«Non
è giusto!»
«Lo
so. Dormi».
«Io
dormo ma non ci credo alle cose che dici. Io credo che quando uno muore fa come
gli alberi che d’inverno seccano ma poi viene la primavera e loro rinascono,
sicché la vita deve essere un’altra cosa».
«
È anche un’altra cosa. E se dormi te la racconterò».
«Quando?»
«Domani,
Callisto.»
L’indomani
era partita per un lungo viaggio, forse per cercare una risposta alla sua
domanda.
Un
vento gelido soffiò facendo ondeggiare le canne, che produssero un suono come
d’ossa sbatacchiate tra loro.
Calò
un imbarazzante silenzio, durante il quale la ragazzina e l’uomo guardarono
entrambi verso la spumeggiante striscia dell’orizzonte, senza un solo pensiero
in testa, se non un terribile presagio futuro.
«Bene»
disse infine il Ministro, continuando a torturare il cappello. «Bene, bene,
bene» ripeté, come se una volta sola non gli bastasse.
La
bambina tirò su con il naso, asciugandosi gli occhi appannati con una manica
del vestito.
«Su,
su, andiamo» disse apprensivo Caramell, circondandole le spalle con un braccio
«Andrà tutto bene, vedrai. Ti abbiamo anche già trovato una nuova casa e una
famiglia che scommetto sarà felicissima di ospitarti. Li conosco, e so che sono
delle brave persone, hanno anche un figlio della tua età molto gentile e
educato. Sono sicura che ti sentirai a tuo agio con loro».
Callisto
alzò la testa verso di lui. Strano, prima a poco tempo prima, desiderava
andarsene da Gabbiano, ma adesso l’idea di lasciare il villaggio dove aveva
trascorso un po’ della sua infanzia le spezzava il cuore.
Sapeva
che gli altri cittadini non l’avrebbero accolta bene nelle loro case, al di
fuori di Bram, ma lui era troppo vecchio per potersi occupare di una bambina.
«E
chi sarebbero?» chiese.
«I
Malfoy.» Rispose Caramell raggiante.
*
L’
indomani, alle prime luci dell’alba, partì. Non fu un addio tragico, e nemmeno
tanto doloroso. Nessuno la venne a salutare, a parte il vecchio Bram, che la
strinse le braccia per un infinito istante.
«Buona
fortuna» le sussurrò.
Le
non disse niente. Raggiunse la carrozza nera con le tendine
abbassate e dalle verdi lanterne accese che l’aspettava appena ai confini di
Gabbiano, trainata da due possenti Thestral sbavanti, trattenuti a fatica dal
piccolo cocchiere seduto in cassetta, coperto da un pastrano dieci volte più
grande di lui dal collo alto come quello di un becchino e che portava, ben
calcato in testa, un cappello a cilindro che gli nascondeva completamente il
volto e lasciava fuori solo un pezzo del suo naso appuntito.
Ormai
non aveva più senso che lei rimanesse ancora a Gabbiano, soprattutto perché ora
non aveva un tetto sopra la testa. La sua capanna era completamente distrutta,
e al suo posto c’era un cumulo di cenere e la carcassa bruciata di un’antica
presenza.
Nessuno
conosceva la vera causa dell’incendio, e benché fossero state svolte le più
accurate indagini, si scoprì solo che era stato appiccato da una grande
distanza, e in pochi attimi, la casa fu divorata dalle fiamme.
Fu
catalogato come un incidente, forse accaduto, mentre Chryseis cercava di
scoprire qualche nuova formula, ma Callisto sentiva che c’era qualcosa che
stonava, una stecca acuta che rovinava l’opera di quella storia. Conosceva sua
zia, e sapeva che metteva molta cura nel maneggiare i suoi fragili oggetti, e
la delicatezza con cui li riponeva negli scaffali era come una danza fatta in
punta di dita.
Inspiegabili,
come l’origine delle fiamme, altri misteri si schiusero davanti agli occhi di
Callisto. Ogni famiglia ha i suoi segreti, porte lasciate chiuse, ma ora lei si
rendeva conto che la più piccola scoperta, scatenava nella sua testa un vortice
di domande.
Domande,
che ora temeva non avrebbero trovato risposte.
Così
divenne un’orfana.
La
carrozza partì, con uno schiocco possente, e ben presto, il villaggio Gabbiano
fu un solo ricordo dietro la scia della sua vita.
C’era
un certo albero che cresceva nelle paludi chiamato la pianta dell’ernia, le cui
foglie erano rinomate per la loro proprietà elastica. Quando era più piccola,
Callisto era riuscita a trovarne un po’, con un chiodo aveva fissato
un’estremità alle assi di una piattaforma e di era messa a tirarla per vedere quando
lontano sarebbe riuscita ad arrivare.
Era
affascinata da come la foglia si assottigliava diventando sempre più lunga e
alla fine, quando ormai l’aveva tirata troppo lontano, si spezzò facendola
ruzzolare a terra.
Non
c’era paragone più adatto alla sensazione che le era cresciuta dentro durante
il pomeriggio. Nel giro di un’ora, con il suo passo veloce e traballante, la
carrozza del Ministro l’aveva portata così lontana da casa come non lo era mai
stata, e prima che scendesse la sera il mondo le era diventato del tutto
ignoto.
Sentì
che il suo legame con Gabbiano era come quella foglia della pianta dell’ernia,
diventava sempre più sottile e sempre più teso, nel tentativo di riportarla
indietro quanto più si allontanava.
Callisto
pensò che non avrebbe mai rivisto il caro e vecchio Bran, il cantastorie, o
persino gli altri abitanti del villaggio. Nel profondo dell’animo si rese conto
di essere assolutamente, completamente sola.
La
sua casa era ormai alle spalle, e nel cuore sentì un improvviso, terribile dolore,
uno struggimento che non avrebbe mai pensato di poter provare.
Poi,
quando cadde il crepuscolo, il legame si spezzò.
Il
dolore e l’afflizione vennero a meno, trasformandosi in eccitazione.
Con
la presa di coscienza che non c’era alcuna possibilità di ritorno, arrivò anche
la consapevolezza che l’unica strada era andare avanti.
Alla
fine arrivarono.
Era
una dimora immensa, e si stagliava scura contro la notte, e in quella notte
flagellata dalla tempesta, sembrava avere un aspetto truce.
La pioggia spazzava i picchi circostanti e tra
la coperta di nubi nere, di tanto in tanto serpeggiava il silenzioso di lampi,
prima che un tuono si rovesciasse sul paesaggio e fuggisse poi lontano.
Il
maniero era l’unico segno di vita in quel posto desolato. Se ne stava
accovacciato imponente e solitario, disteso sopra la vetta di un monte, un
tremito di torrette e merlature, balaustre, guglie e torri, tutto scolpito
nella pietra. Era stato costruito su un terreno irregolare e quindi era
irregolare anche nella forma. Seguiva i contorni della roccia crudele e nuda
che gli aveva donato un aspetto così sbilenco,
tanto che l’ala volta a ponente si adagiava molto più in basso rispetto
al corpo centrale del castello.
“benvenuta
a casa” pensò Callisto.