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Autore: Flappergiuly    17/04/2021    0 recensioni
“Mediante l’esperienza scopriamo una scorciatoia per mezzo di un lungo vagabondare.”
(Thomas Hardy, the writer)
Aspettando la vera sesta serie, vi posterò la mia versione della mia sesta serie.
Genere: Poesia, Storico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het, Crack Pairing | Personaggi: John Shelby, Nuovo personaggio, Sorpresa, Thomas Shelby
Note: Lemon, Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Threesome, Triangolo, Violenza
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nda: in omaggio a Zia Polly Gray, la regina dei gitani di Watery Lane, passata a miglior vita in serata per via d'un tumore a soli 52 anni. Polly è insostituibile come altrettanto lo è il suo ruolo.

4. IN MEMORY

(Thomas Shelby) Suonano alla porta, il mio pensiero va subito ai russi, saranno già arrivati? Chiedo tra me e me. Poca voglia d'andare ad aprire, così faccio, fingo di non aver sentito. Sarà solo uno scampanellio, tutto qui. Svanirà. Ritorno assorto tra le slavine di carte e pensieri che minacciose pullulano e mi rincorrono. Piramidi di piani fumeggiano tra la mente e la stanza come i grigiastri camini di Small Heath che, anche se lontani per diverse miglia da qui, riecheggiano ancora, eppure lo fanno tuttora. Gli affari con gli italiani non sono stati gli ultimi, bensì i primi degli ultimi. Ho ancora tanto da vivere, ho ancora tanto da vedere. Ho ancora tanta gente da vedere crollare, come gli scarlatti mattoni degli sfatiscenti ruderi di Birmingham. I miei occhi cadono su una sorta di biglietto, una pergamena, vedrò di che e soprattutto di chi si tratta. Incomincio a leggere, è una lettera, un messaggio, per l'esattezza. Una calligrafia corsiva curva, una scrittura maschile, lessico scelto ed elegante.


"Westmininster, 6 febbraio 1930

Egregio Signor Shelby,

non crederà mica che la storia sia finita tutto qui? Ho lasciato Westmininster solo per un paio di giorni onde, presto, ci rivedremo. Ci sono un paio di cose che vanno messe in chiaro. Domani tornerò da questo mio breve soggiorno fuori porta, non molto lontano da Londra. Sto partendo ma prima volevo chiarire e avvertirla di questo.

La saluto cordialmente,

Oswald Moseley".

E ancora una volta lui, uno di tanti, solo uno di questi. Accantono il foglio, ritrovandomi di nuovo di fronte a un'altra grafia di carattere alquanto diverso. Una stesura con una serie di simboli appena pronunciati e non fortemente calcati, dall'andatura inclinata e rapida, ahimè, quasi indecifrabile. Aspetta, quelle che saranno mai? Che c'è scritto qui? Quella è una V? Sembra delle formule scritte da uno psicoanalista. Le stesse A e le stesse T di uno che svolge tale lavoro. Non si tratterà mica mai di un arabo? Chiedo ancora tra me e me, a mano mano che mi addentro sempre più nella lettura dell'esposizione.

"Covent Garden, 5 febbraio 1930

Egregio Signor Shelby,

non ho mica paura di Lei, delle sue amicizie e delle sue inclinazioni. Sarò pure un ebreo, sarò pure un fottuto ebreo, ma il coraggio non mi manca affatto. La volevo solo avvertire di questo.

La saluto dichiarandomi a Lei apertamente,

Simeon Solomons".

Ecco, un altro, decisamente l'ennesimo della lista, ma non l'ultimo. Suonano nuovamente alla porta, ma stavolta con insistenza. Indifferenza fino a un certo punto, ora gliele dirò e darò di santa ragione. Lascio le carte svolazzare nella massima confusione di sempre. Mi alzo dalla poltrona dello scrittoio, dò uno sguardo rapido al mio orologio da tasca laccato in oro a 24 carati costatomi un accidenti quando decisi finalmente di acquistarlo, una volta tornato dalla guerra. Lo avvistai davanti alla vetrina della boutique di Albert Watson in Garrison Lane. Non direi che erano tempi migliori se non perchè ero più giovane. I tempi migliori li avevo persi già da un pezzo, come i cari amici caduti tra la battaglia della Somme e di Verdun. Guardo le lancette sul quadrante che luccicano ogni volta che rintoccano. É proprio il radio e il mercurio che dà loro quell'effetto fluorescente. Le osservo attentamente, mi indicano le ore otto e trenta postmeridiane. Mi avvicino alla porta della stanza e vedo mia moglie che mi viene incontro.

"Sarà per te, io vado un attimo da mia madre! Ho capito perchè non vuoi mangiare, perchè hai ospiti!" esclama.

"Aspetta, veramente prima di tutto non lo sapevo, secondo li faccio entrare e poi vai!" rispondo fermandola con fare deciso.

M'avvio verso la porta, la apro.

"Michael, che vuoi? Traditore!" chiedo contrariato spingendolo al di là della soglia.

"Lasciami parlare, presto!" replica facendo resistenza.

Lo guardo in faccia, ha una brutta cera ma continua ancora a non urtarmi sentimentalmente.

"Hai litigato con tua moglie e cerchi alloggio da me per non dar fastidio alle donne?" continuo in modo piuttosto scostante.

Lo guardo in faccia, quell'espressione persiste.

"Accomodati, parla!" lo invito ad entrare sbuffando e chiudendo la porta dietro di noi.

Incomincia a piangere.

"Dai, sei uomo! Allora!" minimizzo cercando di farlo arrivare al dunque.

Smette di piangere per un attimo, si riprende e incomincia a parlare.

"Ero in ufficio, mi arriva una chiamata, rispondo ed era Ada..." incomincia a raccontare.

"Cosa?" lo interrompo incominciando ad uscire.

"Ecco, quando si fa il nome delle donne, Tommy accorre subito!" replica.

"Tu non fai nemmeno questo!" rispondo.

"Aspetta!" mi blocca.

"Ah, è Michael! Io esco, a dopo! Ciao, ragazzi!" Spunta mia moglie uscendo di casa.

"Anche lui inopportuno!" aggiungo esclamando.

"Tommy, stavo in ufficio quando all'improvviso mi chiama Ada tutta preoccupata! Sto al Garrison, stavo discorrendo con zia Polly davanti a una tazza di tè irlandese, dice, quando all'improvviso zia Polly ha incominciato ad urlare! Sta male!" esclama.

"Andiamo!" ordino e usciamo di casa.

Apro le porte del Garrison con la massima veemenza, Michael mi segue con la stessa aria di prima, Polly accasciata per terra nel bel mezzo della sala consumazione.

"Tommy, bravi, alla buon'ora!" rimbrotta Ada "Sembra non dare segno di vita!" continua.

"Sarà incosciente, ma hai sentito il polso? Aspetta, faccio io!" mi affretto.

"Ambulanza! Polly! Com'è successo? È entrato qualcuno e le ha sparato? Io non vedo niente! Avrà fatto qualcos'altro!" replico ininterrottamente per un po' schiaffeggiandola in volto.

"No, è successo, così, all'improvviso!" biascica Ada dando una risposta alquanto vaga, almeno per me.

Caso archiviato e, almeno per ora, da indagare.

"L'ho chiamata ma niente da fare!" continua .

Avvicino l'orecchio alla bocca, per qualche secondo, per controllare qualche eventuale presenza di respiro. Gli premo con due dita la parte sinistra del collo, il lato più vicino al cuore, per controllare qualche eventuale presenza di polso. Mi fermo qualche istante per controllare qualche eventuale presenza di movimento. É quello che mi hanno insegnato in guerra, in fondo sono stato anche nella nursery da campo oltre che in trincea. Ero un infermiere militare, volontario della Croce Rossa Britannica. Non so quale dei due ambienti sia stato il migliore, non so se dire bene o male riguardo alla postazione alternativa. Come non so più chi sono, curo e uccido, uccido e curo, ma perchè? Continuo a chiedermi. Un corpo senza mente o una mente senza corpo. Sono il generale o la truppaglia, niente più insieme. Mi hanno smembrato, i fucili, gli animali del fronte. Vorrei provare a darmi pizzicotti come stimoli per vedere e sentire se riesco ancora ad avvertire veramente il dolore, davvero. Sento un rumore, rumore di porta che si apre, un saluto. É la voce graffiante e vellutata di Arthur che prolunga la rottura del silenzio. Riaffiora Michael da dietro il bancone dopo essersi appartato per un po'.

"Il dottore sta arrivando!" avverte.

"Finalmente, ho provato a rintracciarlo più volte e risultava sempre occupato!" esclama Ada.

Di nuovo le porte del Garrison si aprono improvvisamente, seguite da un saluto che cerca invano di smorzare la tensione. Il dottore si fa strada tra i tavoli invitandoci, con dei cenni del capo, di accantonarli e di uscire dalla sala principale. Ci accomodiamo nella saletta privata del mio pub. Silenzio, sguardi nel vuoto, è solo l'ansia e la speranza a farsi spazio e a parlare di sè monitorando tutto. Mi appare il volto di Polly accanto a quello di Grace tra gli intarsi floreali della carta da parati della saletta privata, quasi si trattasse l'ennesima profezia.

"Esco, non ce la faccio!" esclama improvvisamente Michael uscendo dalla saletta, infrangendo gli ordini.

Si riaffaccia dopo un po', opaco e trasparente al tempo stesso, più di prima. Lo segue il dottore, con la stessa espressione al tempo stesso senza espressione. Intuisco, capisco, ma con timida certezza e sfrontata incertezza. Esita per un po', si gratta la gola, vocalizza in un emissione di fiato.

"Mi spiace!" sospira.

Notte fonda, Lizzie scende dalla Bugatti nera dopo esser arrivata e aver parcheggiato a Harley Hall. Mi coglie in fragrante seduto sui gradini di fronte alla porta d'ingresso, con lo sguardo basso fisso sul terreno nascosto dietro al mio berretto di velluto grigio.

"Tommy, che ci fai qui tutto solo? Fa freddo, entra! É inverno ed è tardi!" chiede avvicinandosi.

"Nel bel mezzo di un gelido inverno!" mi lascio trascinare accendendomi l'ennesima sigaretta.

"Cosa? Hai bevuto? Entriamo e basta fumare, non sei lucido! Dai, su! Non fare il bambino!" ulula.

"Sono rimasto solo, orfano di padre, di madre e..." sembro delirare.

"Che dici? Cosa sono ormai ste cose?" m'interrompe.

"É il guaio e che non so il perchè!" blatero.

"Che voleva Michael, piuttosto?" chiede.

"Zia Polly è morta!" mi lascio scivolare alzandomi.

"Eravamo ormai tutti una famiglia!" esclama.

Una voce del tutto differente come la mia d'altronde. M'accorgo per un attimo d'avere un'anima per poi di nuovo ripiombare nel nichilismo più assoluto dei perchè, un nichilismo ancora più fitto. Perchè in fondo in me ancora un filo d'anima c'è?

   
 
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