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Autore: The Custodian ofthe Doors    20/04/2021    4 recensioni
[Storia interattiva| Deathfic!| Ready? Start!| Iscrizioni chiuse]
In un epoca sorprendentemente di pace, quando nulla turba l'equilibrio del mondo e dell'umanità, il pericolo più grande non è altro che la noia di coloro che hanno e possono tutto.
*
“ Problemi in Paradiso?”.
*
Il foglio volteggiò lento nell'aria densa delle Praterie degli Asfodeli, lì dove sorgeva il muro che li divideva dai Campi di Pena.
L'anima guardò altri fogli colorati svolazzare oltre quelle alte mura scure, caduti dal cielo, forse da quello vero e non dalla volta rocciosa che faceva loro da soffitto.
*
E se è la vita dei loro figli quella che gli dei vogliono veder in gioco, non vi sarà nessuno che potrà impedirlo.
*
“Riuscirai a “sopravvivere”? Sarai in grado di ingannare Thanatos?
Questa è la sfida della morte.
Questa è la Death Race.”
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo XIII- Natural.
 
 
 
Il cielo era chiaro, quasi sfocato, come la tavolozza di un quadro impressionista, i colori tenui sembravano aver una consistenza pastosa, qualcosa di pesante e leggero al contempo. Era l’acqua sporca in cui un pittore aveva appena pulito il suo pennello, sbiadita, annacquata.
Sul confine del fuoco visivo montagne blu e azzurrognole si perdevano tra le campiture che delineavano la distanza tra ciò che era vicino e ciò che era lontano. Più un oggetto si allontanava, più il pittore sovrapponeva strati e strati di acqua sporca, di colore sciolto, acquoso. Uno strato di calura vibrante per ogni metro, per ogni chilometro.
In primo piano si stendeva una marea dorata, spighe gialle picchiettate con grazia, ondeggianti sotto il vento gentile che soffiava nella vallata, la carezza di una mano amorevole che sfiorava ogni capo, ogni punta asciutta, ogni seme ancora intrappolato nella sua piccola cella lucida e fine come carta velina.
C’era silenzio in quel quadro perfetto, neanche il fruscio delle spighe riusciva a riempire l’aere, pareva quasi che ogni stelo mormorasse piano al passaggio della brezza, cercando di non svegliare chi lì attorno, nella calma di un pomeriggio assolato di mezz’estate, riposasse nei dintorni.
Silenzioso e pacato era anche l’incedere lento della donna che, con sguardo rilassato, osservava quel panorama così perfetto, così pacifico.
La pelle scura come la terra scintillava sotto il sole come faceva il grano, riflettendone i raggi in un’aura d’oro e calore. I capelli castani erano intrecciati in spesse trecce, ogni intreccio adornato con perle di coccio colorato, anelli di metallo opaco e fiori di campo, forse non belli come quelli da serra, ma resistenti alle avversità, forti e coriacei, testardi nel venire al mondo dove più li aggradava, vivi e rigogliosi. I loro colori erano velati della stessa pennellata sbiadita che dipingeva il cielo. Nella calura dell’estate ogni cosa sembrava più chiara, più leggera, meno brillante dell’esplosione d’energia della primavera, ma non gli occhi della donna. I verde vibrante delle iridi pareva vivo, pareva un’entità a sé che risplendeva tra le fini palpebre scure e le folte e corte ciglia nere. Le labbra morbide e piene erano in grado di dispensare i sorrisi più dolci e quelli più crudeli. Perché la natura null’altro è che questo: una madre amorevole ed una despota maligna.
Le mani forti della donna si strinsero alla gonna leggera che le copriva le bambe tornite, il tessuto resistente lasciava passare la brezza calda, il lino grezzo era stato filato con maestria, ricamato di piccoli e quasi invisibili fiori. La veste avvolgeva il corpo formoso della donna lasciando scoperte le spalle dritte, una generosa scollatura segnava una linea tremula sul seno abbondante, fatta di stoffa arricciata, chiusa da un fiocco lento e mezzo sciolto.
Non portava scarpe, un anello di spighe a adornargli le caviglie e solo la terra asciutta e polverosa a macchiare la pianta più chiara del piede.
Sorrise soddisfatta al campo di grano, carezzando piano qualche alto papavero che cercava di farsi spazio in quel prato giallo, di riuscir a macchiarlo di piccole chiazze rosse e stropicciate.
Non una nuvola, non il volo di un uccello, non lo squittire di un roditore o il ronzio di un insetto che pigro volava in cerca di nettare e di una comoda corolla su cui riposare. C’era solo il silenzio della vastità della valle e il sussurro del vento in risposta al mormorio delle spighe. C’era pace come non ce n’era nel mondo e fu per questo che l’improvviso fruscio di stoffe non fu difficile da notare.
La donna chiuse gli occhi, espirando pesantemente allungò un mano per fiorare le cime del grano, cercando di trovare conforto nel leggero pizzicorio che i fili d’oro le procuravano sul palmo.
 
«Perché devi venirmi a disturbare anche qui, alla fine del mondo?» domandò con voce quieta.
Alle sue spalle un’altra donna stava in piedi dritta ed orgogliosa come una spiga di grano. Ma non erano il giallo confortante e caldo dei grani maturi a colorare le sue vesti: bianco e grigio tingevano l’abito austero e freddo, dritto e plissettato come una colonna. Le spalline rigide parevano i rinforzi di un’armatura di seta, ricamati con minuscole perle di fiume, le stesse che disegnavano linee rette sul corsetto stretto, segnavano la linea obliqua dei fianchi come un busto sagomato. Bianca era la pelle di quel corpo fine e longilineo, biondi i capelli raccolti in un’acconciatura alta da cui non sfuggiva neanche una ciocca, dura era la linea delle sue labbra fini, aquilino il naso, freddi e taglienti gli occhi grigi. Le due donne erano così in contrasto tra loro da sembrare provenire da mondi diversi.
 
«Credevo vi fosse il dominio di Poseidone, alla fine del mondo, non il tuo.» rispose quella con voce ferma. Mosse qualche passo verso l’altra ed il suono delle suole dei suoi sandali sulla terra parve amplificato dall’eco della valle.
«Il mondo finisce dove finisce il nostro di dominio, non quello dei nostri famigliari.» la corresse senza troppo interesse. «Poseidone poi non è in grado di prestar attenzione al suo regno, figurarsi se sia in grado di farlo con i limiti di questo pianeta.»
«È forse risentimento quello che sento nella tua voce?» chiese sibillina la bionda.
La prima donna espirò ancora con pesantezza. «Cosa vuoi da me Atena?» domandò senza troppi preamboli.
La dea aspettò d’esser al suo fianco prima di risponderle, abbassando lo sguardo sui piedi nudi dell’altra e alzando un sopracciglio quasi schifata.
«Come fai a camminar scalza ovunque?»
«La pianta del nostro piede è ciò che ci mette in contatto con ogni superficie su cui camminiamo. Essere in contatto con la terra è importante, poterne sentire tutte le variazioni, tutte le consistenze…» le lanciò uno sguardo valutativo, storse il naso. «Non che mi aspetti che tu possa capire.»
«Trovo solo non sia sempre utile. È controproducente, ricorda cos’è successo a qualcuno che non ha ben protetto il suo tallone.» le rispose piccata da quell’accusa neanche troppo velata.
«Spero vivamente tu non mi stia paragonando ad un mortale, perché in tal caso ti ricorderei anche cos’è successo a qualcuno che ha avuto l’ardire di guadagnarsi una vittoria contro una dea.» la minaccia rimase sospesa nell’aria e Atena fulminò la sua interlocutrice, ancora furiosa alla sola menzione di quel nefasto evento.
Che creature magnifiche erano gli Dei, in grado di vivere in eterno e soffrire in eterno per le stesse cose, covar rabbia, rancore, vendetta e odio per gli stessi motivi, contro le stesse persone.
«Toccare la terra è toccare la natura, è essere in contatto con la vita che ci circonda.» proseguì l’altra. «Per me è importante tanto quanto lo sono l’acqua ed il cielo, tanto quanto lo è la famiglia o il trono per i miei fratelli.»
Atena annuì, lo sapeva, lo sapeva perfettamente.
«Ad ognuno il proprio regno, no?» domandò retorica.
«A Zeus i cieli, a Poseidone i mari e a me e Ade ciò che vi è sopra o sotto la terra. A conti fatti le uniche che non hanno ereditato un dominio sono Era ed Estia. Ma qualcosa mi dice che non sei qui solo per parlare della mia avversione contro le scarpe e della divisione del pianeta che è spettata a noi fratelli dopo la dipartita di nostro padre.»
«No, ovviamente.» annuì Atena. «Sono qui per parlare del problema del momento.»
Demetra alzò gli occhi al cielo. «Perché non mi sorprende?»
«E non ti preoccupa nemmeno? Per l’Olimpo! Sono l’unica che si sta ponendo delle domande?» chiese esasperata.
«Sei l’unica che si sta ponendo dei problemi o meglio, che li sta ponendo ad altri. Cosa c’è che ti infastidisce? Che sia stata un’ottima idea e che non sia venuta da te?» insinuò ghignando.
Atena fece un gesto vago con la mano. «Che avesse le basi per essere un’ottima trovata non fatico ad ammetterlo.»
«Strano.» borbottò l’altra sfregando il piede a terra.
«Ma ho capito fin da subito che ci fosse qualcosa di losco sotto. È stato quell’essere a proporcelo, dopotutto.»
La dea più antica sospirò già annoiata da quella discussione sterile.
«Per l’Olimpo dovrei dirlo io! Non vorrei esser ripetitiva o pedante, ma Atena, nipote mia cara, sarà mezzo secolo che tieni il broncio come una mocciosa? Non tutti veniamo apprezzati da tutti, non tutti provano stima nei nostri confronti e dopo quello che hai messo in piedi contro Clara-»
«Sei universalmente riconosciuta come una delle dee che “tiene di più il broncio” di tutte e vieni a dire a me che faccio la mocciosa quando invece, come è logico e giusto che sia, non mi fido di quell’essere lì? Devo ricordarti come te e Ade ancora litighiate ad ogni dannata riunione?» la sfidò alzando un sopracciglio fino.
Demetra però la trafisse con un’occhiata di fuoco. «Stai seriamente paragonando i tuoi problemi con Giordano al fatto che mio fratello abbia rapito e ingannato mia figlia, strappandomela dalle braccia e costringendola a vivere per sempre negli Inferi?»
«Mi sembra che non ci stia sempre.»
«Questo perché Zeus, in uno dei rarissimi casi della nostra esistenza, ha fatto qualcosa di sensato per sua figlia.» rispose quella a denti stretti.
Atena si strinse nelle spalle con disinteresse, «Se solo anche voi imparaste a non avere figli nello stesso modo degli umani-»
«Se solo tu chiudessi la bocca per una volta e la smettessi di sentirti superiore a tutti solo perché sei uscita dalla testa di tuo padre ti ricorderesti che sei finita lì dentro perché il nostro caro re ha deciso di rubare l’idea a papà e di farti fuori come lui a suo tempo aveva cercato di far fuori noi.»
Il vento soffiò più forte, le spighe mormorarono concordi con la loro signora, frustando il tessuto delicato delle vesti dell’altra.
La dea della saggezza guardò quella della natura senza abbassare lo sguardo, senza voler ammettere una delle tante scomode verità della loro vita.
«Portarmi rancore per ciò che successe a Clara è sciocco e controproducente.» disse risoluta ad aver l’ultima parola.
Ma Demetra era pur sempre una delle prime dee, era pur sempre figlia di Crono, sorella dei tre “pezzi grossi” e di Era: sarebbe finito il mondo prima che quella ragazzina avesse potuta averla vinta contro di lei.
«Portare rancore ad un umano anche lo è. Eppure, tu l’hai fatto e ora tutti i tuoi figli fuggono disperati alla vista di un aracnide qualunque.» un gesto secco della mano impedì alla bionda di replicare, «Sei venuta qui per parlarmi di quanto ti stia antipatico Giordano?» domandò già stanca di quella stupida discussione.
Atena espirò infastidita. «No. Sono qui perché ho parlato anche con Artemide e-»
«Oh, fantastico! Siete probabilmente le dee più odiate da Giordano e vi mettete anche a confabulare contro di lui!» rise Demetra sarcastica.
«Non è un club esclusivo, infatti sono venuta a parlare anche con te.»
«E perché non con Ermes? O Persefone- Non hai parlato anche con mia figlia, vero? Per l’Ade Atena! Sei andata a rompere le scatole anche alla mia bambina?!»
Atena sbuffò. «La tua “bambina” ha un bel po’ di secoli sulle spalle, smettila di trattarla come un’infante! E no, non ho parlato con lei. Non avrebbe senso farlo con Ade in giro, lui sicuramente sarà dalla parte di quell’altro.» ammise senza vergogna.
«Perfetto, allora dimmi, forza, cosa vuoi da me? Cosa siete riuscite ad aggiungere alla lista dei motivi per cui farvi odiare da Giordano?»
La dea della saggezza fece una smorfia infastidita, lasciando che il suo sguardo si perdesse nella marea dorata. «La mia è di sicuro più lunga di quella di Artemide.»
«Oh, ti prego! Non rendere tutto una competizione. È in casi come questi che ricordo quanto tu e Ares siate simili.»
«Non paragonarmi a quel troglodita!» scattò subito la dea più giovane.
«E tu non vantarti di cose futili come queste!»
«Non mi sto vantando, zia, è solo pura costatazione dei fatti. Prima che sua nipote morisse sotto lo stendardo delle sue ancelle Giordano non aveva nulla contro Artemide. Devo ricordarti anzi, che era l’unico uomo a cui era permesso cacciare assieme a lei?» a quelle parole Atena stessa si bloccò, voltandosi completamente verso l’altra dea. «È per questo? Sta cercando l’anima di sua nipote?»
Demetra la guardò senza batter ciglio. «Credi così fermamente che stia cercando qualcuno?» domandò monocorde.
Atena annuì. «Gli serve l’Ade, per questo ha ambientato lì la gara.»
«O forse l’ha ambientata lì perché è dove si trovano i morti.»
«Non essere sciocca! Non far finta di non capire! La giovane è morta e lui ora rivuole la sua anima! Non ha potuto salvare quella di sua sorella, quindi vuole salvarne la figlia!»
Ma Demetra scosse piano il capo, dissentendo silenziosamente.
«Dev’essere così per forza! Non lo vedi? Sta facendo di tutto per portare solo i semidei in finale, perché sa che sono malleabili ma resistenti.»
«Sarebbero comunque arrivati solo loro Atena, le nostre prove divengono ogni volta più difficili, se un comune mortale sarà in grado di superare la mia ne sarò davvero sorpresa.»
«Sì, ma si sta assicurando che ci arrivino i più forti, sta restringendo il campo e lo sta facendo a suo piacimento per velocizzare le cose. Quando solo la nostra progenie sarà ancora in gara ogni singola prova verrà affrontata con l’utilizzo dei loro poteri divini, Giordano aiuterà chi più gli aggrada e chi rispecchierà le sue necessità, ma nessuno di quei ragazzi arriverà veramente alla fine…»
Gli occhi grigi di Atena si agitarono come un cielo tempestoso, parevano biglie trasparenti dentro cui era stata imprigionata la potenza devastante e temporalesca della pioggia. Vibravano di luce fredda e sprazzi azzurri come i lampi di suo padre, la mente lucida e analitica della dea della saggezza lavorava senza posa, correndo in lande lontane come aveva fatto il signore dei Sogni ma in modo del tutto diverso.
«Porterà i suoi prediletti, li spingerà fino alla fine per mostrarci quanto siano forti, quanto potrebbero esserci ancora utili. Allora qualcuno di noi chiederà ad Ade di restituirgli le anime dei propri figli, chiederà di poterli avere al loro fianco così come Ade stesso fa con i suoi. Ci metterà davanti all’evidenza: sono morti e hanno perduto la loro unica possibilità di tornare in vita, osservate quando potenziale inespresso state perdendo, bramateli, bramate la loro servizievole fedeltà e pentitevi di non averli salvati prima. Cederemo, Demetra, cederemo tutti, chi più chi meno. Porterà in finale i suoi preferiti e noi, a quel punto li rivorremo indietro.» mormorò in un soffio, le sue elucubrazioni più simili ad una profezia che ad un ragionamento, un’ipotesi.
«Nessuno di loro vincerà, non permetterà a nessuno dei giocatori di assaporare di nuovo la vita, di mettere le mani sul premio. Troverà sua nipote e la riporterà indietro.» spostò lo sguardo grigio in quello verdeggiante dell’altra dea: il freddo marmo contro la rigogliosa natura, la ragione contro l’istinto.
Demetra la scrutò con attenzione, conscia del fatto che le parole della dea non dovevano esser prese sotto gamba, ma anche certa che non potesse esser solo quello, non potesse essere così facile, per quanto nulla, nel ragionamento di Atena, lo fosse.
«Ti rendi conto di ciò che hai appena detto? Dell’accusa che gli hai mosso?» domandò con voce calma.
L’altra annuì seria. «Certamente. Ma tu non mi credi, vero? No… credi che le mie parole possano essere corrette ma non vuoi crederlo al contempo. Non vuoi accettare il fatto che tradirebbe la nostra fiducia in questo modo.»
Le sue parole parvero quasi un’accusa, una provocazione, il sibilare di un serpente ammaliatore, ma non riuscirono a scalfire la forte corteccia contro cui si scontrarono.
«Oh, mia cara, ma certo che lo credo possibile.» sorrise improvvisamente Demetra, lo sguardo amorevole e accondiscendente, lo stesso sguardo che una madre dedicherebbe al suo bambino, «Se penso a tutto quello che abbiamo fatto a quella famiglia, se solo ripenso a quanto siamo stati sciocchi. Abbiamo ignorato Ada quando questa pregò per una nostra grazia. Abbiamo creduto di poter manipolare Clara quando abbiamo scoperto cosa fosse e poi, come gli sciocchi ambiziosi che siamo, abbiamo creduto di poter creare qualcosa di meglio, di poter usare Giordano come fosse stato un mero giocattolo.
Sono certa, Atena, certa, che se fosse una questione di rancore ci avrebbe già dati tutti alle fiamme, ma sbagli su di un punto, nipote, un punto essenziale.»
Atena non si mosse, la mente che veloce rivedeva ogni passaggio, ogni mossa, ogni minuto passato, presente e futuro. Riavvolse il nastro di quella conversazione e non capì ugualmente cosa volesse dirle la dea.
Il sorriso di Demetra si tese in un ghigno largo e spigoloso, uno squarcio della terra sulle profondità dei suoi abissi e tutto ciò che nascondono.
«Giordano Delle Vie non potrà mai tradire la fiducia che l’Olimpo gli ha accordato perché non ha mai nutrito lui, per primo, fiducia in noi. Ci apprezza come singoli, pochi di noi, e ci disprezza aspramente come intero.» Demetra poggiò delicatamente una mano sul braccio pallido di Atena, il contrasto stridente tra le loro pelli era paragonabile a quello del cielo limpido e del grano d’oro.
«Se questa è però la tua opinione, non farò nulla per fermarti, sappi però che non farò nulla neanche per fermare lui. So che Giordano ha in mente qualcosa, so che la Death Race è stata solo la scintilla che ha incendiato la sua volontà, ma finché le sue azioni non andranno ad alterare lo status quo non muoverò neanche un dito contro di lui. Se tutto ciò che vuole è l’anima di sua nipote, che la prenda pure, non distruggerà nessun precario equilibrio e, personalmente, la cosa non mi sfiora minimamente. Comprendo però che il vostro odio l’un per l’altra vi spinga ad ostacolarvi a vicenda anche per le cose più banali, quindi non cercherò di convincerti del fatto che sia sciocco impedirgli di riprendersi una piccola ed insignificante animuncola. L’unica cosa contro cui voglio metterti in guarda, nipote, è che non tutti, come me, saranno disinteressati a questa storia. Tu speri che i più siano della tua stessa opinione ma posso assicurarti che molti altri saranno dalla parte di Giordano. Molti ti diranno che è il minimo che possiamo fare, che glielo dobbiamo
Atena strinse per un attimo i pugni, un secondo di rabbia prima di riprendere magistralmente il controllo delle sue emozioni, soprattutto di quelle più basse, più umane.
«Mi stai dicendo che lo aiuterai, zia?» domandò alzando il mento in altro, il portamento fiero, la sfida palese nel suo sguardo freddo.
Demetra però neanche si volse a guardarla e ad agio, riprese a camminare tra la marea ondeggiante di spighe mature, lì alla fine del mondo. Del suo mondo.
 
«No, mia cara. Ti sto dicendo che non mi interessa. Che si prenda ciò che vuole se questo non intaccherà le nostre leggi supreme.»
«E se lo facesse?» chiese ad alta voce, pur conscia che la dea avrebbe potuto sentirla anche se avesse a mala pena sussurrato.
Demetra allungò la mano sfiorando i fili pungenti del grano.
«Se lo facesse, ricorda solo che non tradirò di nuovo mia sorella.»

 
 
*
 
 
Era impossibile non notarlo, persino agli occhi del più disattento degli uomini sarebbe apparso chiaro: non importava la direzione che si volesse prendere, qualunque essa fosse presto o tardi ci si sarebbe ritrovati nuovamente sul sentiero sterrato da cui ci si era distanziati.
Jonas alzò la testa verso il cielo roccioso, domandandosi non per la prima volta dove si trovassero in quel momento, dove fossero non sono nell’Ade ma nel pianta. C’era la sua vecchia Germania sopra di lui, o forse era dall’altra parte del mondo? Forse era in America, visto che a sentir Nathan tutto il mondo greco si era trasferito lì. O magari c’era solo il mare sopra di loro.
Abbassò di poco lo sguardo, lasciando che si perdesse nell’infinita distesa di erba nera che s’apriva in un sentiero brullo di terra luccicante. Dovevano essere i frammenti di vetro delle sfere dei ricordi di Ermes, quelle che i concorrenti dovevano aver distrutto per pura crudeltà, calcoli di gioco o disattenzione. Chissà se qualcuno aveva rotto la sua stessa sfera senza rendersene conto, se erano stati troppo lontani perché il ricordo rientrasse in loro o se magari, sgomenti nel rivedere ciò che avevano perduto, avevano lanciato via il globo vetroso nella speranza di non riappropriarsene. Chissà se c’era qualcuno che aveva preferito l’oblio eterno ad un frammento dannato della loro vita.
La mente gli volò veloce alla sfera che stavano trasportando con loro, che odorava di pioggia, fango, ferro e sangue, la sfera dei ricordi di Cade. Sapere che Eliza la portava con sé, ben al sicuro tra le pieghe della sua giuba, faceva crescere in lui una speranza che non credeva più d’avere.
 
Ma era proprio questo il desiderio di Cade, è proprio per questo che non ci ha detto nulla delle ferite, perché voleva che continuassimo a sperare di potercela fare.
 
Cade però non c’era, l’unico amico che si era fatto in quel luogo maledetto era scomparso e malgrado tutti gli avessero detto il contrario Jonas sapeva, lo sapeva dannazione, che era tutta colpa sua.
Erano successe troppe cose, tutte assieme e devastanti. Jonas non credeva di potersi sentire di nuovo così stanco eppure, ora che ne era consapevole, sentiva i classici sintomi invadergli le membra non più così inesistenti. Era affaticato, gli formicolavano le gambe, di tanto in tanto il ginocchio destro sembrava non riuscire più a sopportare il peso del corpo e Jonas era costretto a piegarlo alla svelta, cercando di bilanciarsi come meglio poteva.
Neanche i suoi compagni erano messi meglio: Jane arrancava tenendosi la gonna, cercando di non inciampare nei bordi sfilacciati, il volto pallido sembrava più malaticcio del solito ed i suoi capelli, se possibile, parevano più sporchi, appiccicati alla fronte come se avesse sudato parecchio.
 
E l’ha fatto, abbiamo corso in continuazione da quando è iniziata la gara, non ci siamo fermati un attimo.
 
Dietro la ragazza Lea ed Úranus chiacchieravano piano e lentamente. La figlia di Apollo pareva rammaricata per qualcosa, forse anche lei si sentiva in colpa per la sparizione di Cade, forse per non esser riuscita ad aiutarli tutti subito quando avevano avuto la geniale idea di fargli utilizzare i suoi poteri - di provarci per lo meno - o forse era rimasta davvero offesa dal fatto che Úranus avesse rivelato il suo genitore divino agli altri prima di farlo con lei.
Jonas aggrottò le sopracciglia. Era un poco infantile come cosa, persino lui se ne rendeva conto, ma effettivamente, se Cade avesse detto a- Lea a Lea stessa, chi era suo padre, senza averlo detto prima a lui… insomma, non che il rosso gli dovesse qualcosa, per di più Jonas non avrebbe proprio potuto rinfacciargli nulla visto il segreto che lui di portava dietro.
 
Più di uno, ma che differenza fa?


Abbassò definitivamente lo sguardo, fissandosi le mani bianche e screpolate, macchiate qui e lì di nero granuloso e luccicante.
Non che cambiasse qualcosa, aveva ampliamente dimostrato di essere inutile se non pericoloso, aggiungerci l’aggravante di morte, vita e genitore divino non avrebbe comunque potuto peggiorare le cose. O forse sì, forse la vita in particolare avrebbe potuto far danni, anche perché per quanto riguardava la morte, in un qualche modo, Jonas l’aveva già sganciata la bomba.
 
Bomba…guerra- la Seconda Guerra mondiale.
 
Con un tempismo del tutto inadatto alla situazione Jonas ricordò la proposta di Nathan di raccontargli cos’era successo dopo la sua morte, come fosse finito quel dannato decennio di cui lui aveva visto a mala pena la metà.
 
E chissà quanto dev’essere peggiorato dopo il 1936.
 
Ma non era quello il momento, dovevano pensare a trovare il ricordo di Úranus e a ritrovare il proprietario del ricordo che invece portavano con loro. Anche se forse…
Jonas guardò le spalle ampie e ben aperte del soldato, che camminava davanti a tutti assieme ad Eliza, mormorando qualcosa d’incomprensibile malgrado non gli fosse neanche ad un paio di metri di distanza. Forse quello era il momento giusto invece, un attimo di pausa, di pura marcia in cui avrebbe potuto far domande e aver risposte. O forse stavano parlando di qualcosa di importante ed era meglio che non li disturbasse.
Jonas grugnì infastidito dai suoi stessi pensieri: si stava di nuovo facendo problemi inutili nell’andare a disturbare la gente, a dargli fastidio. Era così sciocco. Certo, lui e Nathan non avevano decisamente lo stesso carattere, ma se fossero stati a parti invertite Jonas non avrebbe avuto problemi a raccontargli qualunque cosa, a fargli sapere cosa si era lasciato alle spalle. Eppure lui esitava, non voleva essere un fastidio, un moccioso che chiede e chiede e chiede, che vuole risposte ma non le vuole davvero sentire.
La triste verità era anche questa: per quanto Jonas volesse a tutti i costi sapere in che dannato inferno avesse lasciato le persone che amava, al contempo non voleva saperlo. Non voleva sentirsi ancora più in colpa, non voleva immaginarsi scenari apocalittici, non voleva immaginare e lo sapeva, Jonas era sicurissimo che non appena Nathan avesse aperto bocca lui avrebbe immaginato sua madre, suo nonno, Ludwig, i suoi compagni di classe, persino Virginia, in ognuna delle situazione che il soldato sarebbe andato a descrivergli. Non voleva immaginare i ragazzi sanguinanti, feriti, che imbracciavano armi e uccidevano ragazzi della loro stessa età, padri e fratelli. Non voleva immaginare le donne scappare da mostri in divisa nera, le urla, i pianti… non voleva immaginare di nuovo quell’uomo seduto al lungo tavolo della sfarzosa sala da pranzo delle grandi occasioni, quella con i grandi quadri ed il lampadario scintillante.
Jonas lo ricordava, il lungo e lugubre corteo che aveva scortato quell’anima maledetta nelle profondità dell’Ade, dritta verso i luoghi più oscuri e desolati dell’enorme cratere che erano i Campi di Pena. Aveva sfilato anche per la sua terrazza, l’ottava, così lontana dal fondo, così vicina alla cima ma non abbastanza per poter scorgere un frammento della pacifica calma dei senza ricordi, delle Praterie degli Asfodeli.
Un brivido di puro piacere lo animò al ricordo del capo chinato, delle catene, delle lunghe lance con cui lo pungolavano per farlo camminare. Ma subito dopo c’era il vuoto. Saperlo morto, saperlo finalmente nel luogo in cui meritava di essere non gli aveva portato davvero tutta la gioia che credeva avrebbe provato. Gli avevano detto quanti anni erano passati, gli avevano detto come il suo popolo e la sua terra era stata messa a ferro e fuoco dalle idee di quel folle e dei suoi seguaci per altri dieci lunghi anni, ed era morto, ora era definitivamente morto e chissà sulla terra le grida festose, le lacrime ed i canti dov’erano arrivati ma- dieci anni.
Jonas non aveva mai realizzato il verso senso di quelle parole finché Nathan non aveva parlato di una seconda Guerra Mondiale.
Non era certo uno sciocco, aveva immaginato quali e quanti danni quel pazzo aveva potuto fare, ma da lì a scatenare un conflitto mondiale, il secondo in circa vent’anni… a scuola andavano ripetendogli in continuazione quanto i dazi ed i costi da pagare per la sconfitta della grande guerra avesse distrutto il loro paese, quanto Francia ed Inghilterra si fossero accanite senza pietà solo su di loro, impendendo ad un popolo ferito di leccarsi le ferite e rimettersi in piedi e ora qualcuno gli diceva che era successo di nuovo, che ancora una volta la Germania aveva sofferto. A livello logico sapeva che spesso le parole dei suoi insegnati, di suo nonno e di tutti gli adulti erano intrise di rabbia, vergogna, voglia di rivalsa, di vendetta, ma adesso si domandava se tutto quello che gli era stato insegnato fosse vero o meno.
Avevano mentito su così tante cose, perché non potevano aver mentito anche su quello?
Stringendo i pungi Jonas prese un respiro profondo ed accelerò il passo: aveva creduto ciecamente alle parole degli altri, non aveva mia fatto domande, accettando tutto ciò che gli era stato detto come vero, ora, era arrivato il momento di chiedere lui ciò che voleva sapere e farlo con qualcuno che non aveva alcun interesse a mentire era senza ombra di dubbio la cosa migliore da fare.
 
E se interrompo qualcosa di importante, al diavolo! Me lo diranno e aspetterò che finiscano, ma voglio sapere, devo sapere.
 
Dal momento in cui tutte le sue certezze erano crollate, quando aveva perso l’unico amico che si era fatto, quando aveva rischiato di esser sopraffatto dal suo stesso potere, quando aveva visto l’orrore nelle vite dei suoi compagni, quando aveva scoperto di esser morto ma non poi così morto, Jonas decise che era arrivato il tempo di sapere cos’era successo ai vivi, cosa era successo dopo la sua fuga.


Affrontare ciò da cui sono scappato.
 
 
 
 
Lea aveva ascoltato in silenzio tutto il racconto di Úranus, come fosse stata la sua vita, come fosse casa sua, sua madre, suo padre. Si era sentita ferita quando aveva scoperto che il ragazzo aveva rivelato quel piccolo quanto essenziale dettaglio agli altri e non a lei, rompendo quella tacita ma comune promessa di non chiedersi l’un l’altro cose della loro vita passata che avrebbero potuto ferirli. 
Non era davvero una cosa importante, o meglio, lo era, certo che lo era, ma non era davvero importate perché nella sua precedente vita, se c’era una cosa che aveva imparato anche a sue spese, era quanto inutili fossero gli schemi in cui una persona veniva incasellata dalla società, dal proprio passato, dalla propria famiglia, dalla propria terra d’origine.
Lei era stata sempre “l’orfana”, la bambina abbandonata, sicuro frutto di un amore clandestino, di un tradimento, magari addirittura di una violenza, chi poteva saperlo. Era sempre stata quella sfortunata, che non aveva una vera famiglia, la bambina troppo alta per essere carina, per esser vista sotto una un punto di vista romantico. Era quella adottata da un medico, la povera ragazza costretta a crescere solo con un uomo e che, per altro, non poteva darle le attenzioni che necessitava perché impegnato in una professione così impegnativa. In molti avevano creduto, pur non dicendolo apertamente, che Giovanni l’avesse adottata solo per aver un giorno una fedele assistente cresciuta esattamente come voleva lui, ed era davvero aberrante sapere che la gente la credesse null’altro che un cagnolino ben ammaestrato sin dalla tenera età.
Elena non rientrava negli stereotipi della brava infermierina, di quella dolce e devota al suo superiore, sempre gentile con i pazienti. Non che non lo fosse, sia mai, Lea era la professionalità fatta persona quando lavorava, ma quante volte matrone e donne adulte l’avevano guardata con disapprovazione o rimbeccata non appena Giovanni aveva lasciato la stanza, per aver risposto a tono al Signor Dottore?
Poteva quindi comprendere la paura di Úranus di rivelare il suo genitore divino. Fobetone era una divinità magnanima e tranquilla a detta del figlio, ma incarnava pur sempre le paure più recondite di ogni essere e magari il ragazzo temeva di esser mal giudicato. Solo che Lea sperava di ispirare un po’ più fiducia di quanto non le era stata invece accordata.
 
«Continui a non avvertire nulla?» domandò piano, quasi in modo casuale.
Non sapeva come fare a chiedere ulteriori informazioni all’altro senza sembrare sconveniente o peggio ancora, offesa.
Úranus la guardò con la coda dell’occhio e poi scosse lentamente il capo.
«Il mio potere non funziona sempre e costantemente, devo concentrarmi o- o entrare in uno stato di panico tale da non riuscire a controllare tutto ciò che mi circonda.» mormorò.
«Oh. Quindi, quindi senti più cose quando hai paura?» chiese ancora.
Questa volta il giovane annuì. «Il potere di mio padre è basato sulle paure più profonde e più nefaste di ogni uomo, la paura non è una cosa razionale e di seguito neanche il suo utilizzo lo è.» poi si volse verso di lei. «Lea, io sento di doverle delle scuse.»
La figlia di Apollo storse il naso in una smorfia quasi comica: ecco, questo era quello che voleva evitare. «Non hai nulla di cui scusarti e non ricominciare a darmi del lei.» lo ammonì.
Ma Úranus non le diede ascolto. «Invece so di doverlo fare e mi è stato insegnato che l’educazione è molto importante quando-»
«Lascia stare, te ne prego.» sbottò lamentosa. «Non avevi alcun obbligo nel dirmi o meno chi fosse il tuo genitore divino, va bene? Sì, certo, non voglio negare d’esserci rimasta un po’ male ma- il biondastro lì davanti ha detto che non glielo hai proprio confessato di tua spontanea volontà, che te l’ha dovuto estorcere lui in qualche modo. Perciò non è come se tu avessi preferito dirlo a loro e non a me. È stato un caso, era necessario che lui, che è apparentemente quello che ne sa di più del nostro mondo dopo di te, sapesse di chi eri figlio per poter ritrovare me, Jonas e possibilmente anche Cade. Tutto qui. Non porto rancore, non sono tipo, tranquillo.» gli sorrise un po’ impacciata. Poi si riprese subito. «E per l’amor del cielo non darmi del lei! Mi fa sentire vecchia, nella mia epoca si dava del lei agli sconosciuti, sul posto di lavoro o se si voleva fare gli altolocati. Credo che noi non siamo nessuno di questi, giusto?» domandò ampliando il suo sorriso.
Úranus la fissò un attimo interdetto. «Cosa significa “altolocati”?»
Il risolino che scappò dalle labbra della ragazza aiutò enormemente a stemperare la situazione.
«Persone di un rango sociale elevato.» spiegò più leggera «Come un nobile o un uomo di scienza, uno studioso.»
«Noi ci rivolgevamo così a tutti, io lo facevo, ma comprendo ciò che intendi. Molte persone del villaggio non lo facevano nei miei confronti, come non lo facevano con i mendicanti o con i bambini.»
«Mi spiace. Se solo si fossero sforzati di conoscerti avrebbero scoperto che persona gentile e disponibile tu sia.»
Úranus sorrise. «Ero, ora sono un’anima, non più una persona. Anche se…» spostò di nuovo lo sguardo su di lei ed Elena sospirò, conscia di ciò che stava per chiedergli.
«Sì, stiamo riprendendo moltissime caratteristiche di quando eravamo in vita.» accennò un sorrisetto imbarazzato «Alla fin fine non sei l’unico che non ha detto qualcosa di importante, vedi?»
«Cade ti ha chiesto di mantenere il segreto e l’ha fatto anche per una ragione più che nobile.»
Lea sospirò. «Sì, ma forse avrei dovuto aver la prontezza di convincerlo a raccontare tutto anche a voi.»
«Saremmo andati tutti nel panico, sono certo che Nathan avrebbe anche provato a colpirlo.»
«Nah, questo no. È molto più disciplinato di quanto non sembri, sua madre era un vero generale.»
«Ciò non toglie che ne avremmo fatto di certo un dramma.»
«Esattamente com’è successo, solo che ci sarebbe stato anche lui a spiegare la situazione, a consolare Jonas. Ne è rimasto molto ferito.»
Úranus annuì. «È un ragazzo, è molto giovane e inesperto, ancora molto sensibile credo. Ha visto in Cade una figura salvifica, che l’ha trovato nel massimo momento del bisogno, che si è preso cura di lui senza pretendere nulla in cambio. Credo sia normale il modo in cui vi si è affezionato, il modo in cui ha riposto fiducia in lui.»
«Così come è ovvio, dal mio punto di vista, che Jonas sarebbe stato l’ultimo a cui avrebbe voluto dire questa cosa.» continuò Lea. «Giovanni faceva così spesso, sai? Cercava di tenermi nascoste le cose più brutte finché non era impossibile non rivelarmi tutto, come fece con-» si bloccò. Rallentando il passo Lea abbassò il capo e sorrise mesta. «Buon Dio, è proprio vero che certe cose non puoi comprenderle finché non cresci.»
Úranus le lanciò uno sguardo curioso ma decise di non proferir parola: Lea non gli aveva mai chiesto nulla, non gli aveva fatto una colpa per aver rivelato il suo segreto a terzi prima che a lei, così Úranus l’avrebbe ripagata con la stessa moneta: pazienza, comprensione e accettazione.
«Sono sicura che non appena lo ritroveremo Jonas gli salterà addosso e l’abbraccerà fino a piangere.» disse cambiando palesemente argomento.
Il giovane annuì. «Spero succeda presto.» ammise.
«Ma sì! Ritroveremo lui e anche la tua sfera dei ricordi e poi andremo alla prossima linea del traguardo.» lo rincuorò risoluta.
Úranus provò a sorriderle, ma quel lieve incresparsi di labbra non si vide sotto la barba folta.
«Ne sembri molto sicura.»
«Assolutamente! Pensaci, forza! Siamo arrivati fin qui, abbiamo superato prove dure, ci siamo incontrati nel momento del bisogno, Eliza e quell’altro sono stati salvati da un’entità invisibile, poi abbiamo trovato la sfera di Cade quando era impossibile farlo. Qualcuno ci sta aiutando e se devo essere sincera non posso dire che la cosa mi infastidisca.» ammise stringendosi nelle spalle.
«Non credi che, prima o poi, questo aiuto richiederà un pagamento?»
A quella domanda Lea si fermò di colpo, una spiacevole sensazione le scosse le membra morte, ma lei fece in fretta a levarsela di dosso, annuendo solo.
«Sì, è possibile, ma pensa anche a quello che hanno detto gli altri: se qualcuno sta “votando” per farci arrivare dove dobbiamo arrivare, forse l’unica cosa che vorranno da noi sarà la vittoria. In caso contrario, se dovessimo perdere dico, torneremo comunque da dove siamo venuti, no?»
Úranus non rispose, perché non era minimamente convinto di questa cosa, non era certo che in caso di sconfitta sarebbero stati riportati negli Elisi, anzi, in realtà temeva esattamente il contrario. Il discorso di Ade gli parve lontano anni ed anni, quasi non ne ricordava più neanche una parola.
«Spero tu abbia ragione.»
«Certo che ho ragione! Bisogna rimanere positivi! Quindi per prima cosa dobbiamo trovare ciò che ci manca.» trillò improvvisamente ad alta voce. «Se solo la bussola di qualcuno servisse a qualcosa per una volta nella vita!»
Nathan, che stava diversi metri davanti a loro, si voltò di scatto, rischiando anche di colpire in pieno Jonas che gli si era appena avvicinato, alzando il braccio e imprecando malamente contro di lei e contro il fatto che fosse quella dannata prova a non farla funzionare perché “in vita” era stata sempre utile se non essenziale.
Lea alzò gli occhi al cielo ma sorrise. «Allora puoi dirci dove ci sta portando?» gridò di rimando.
«Ma porco Zeus! Ne abbiamo parlato prima, dove cazzo eri? Al bar? Stiamo andando verso i Campi Elisi!»
«Quindi non proprio dove dovremmo andare visto che, in ipotetica eh!, dovremmo essere alla ricerca del ricordo di Úranus e di quella testa rossa di Cade!»
«Credete che potremmo trovarlo al traguardo?» domandò allora Jonas, l’espressione contrariata come se avesse dovuto rinunciare a far qualcosa di importante.
«Dal labirinto uscì prima di noi.» fece notare tranquilla Eliza.
Nathan grugnì. «Questo solo perché noi ci siamo fermati a salvare cenerentola, qui.» disse indicando Jane con il pollice.
La giovane alzò un sopracciglio, scettica. «Da quel che ricordo lui si è addentrato nel labirinto per recuperare il suo coltello, quegli strambi guanti che porta il ragazzino e poi ha salvato anche il ragazzino stesso.» replicò velenosa.
«Ehi, lo sai che il ragazzino ha un nome?» le fece eco Jonas con lo stesso tono acido. Jane neanche lo degnò di uno sguardo.
«Ti abbiamo tirato fuori dalla fottuta edera.» le ricordò Nathan.
Eliza sbuffò. «L’ho tirata fuori dalla dannata edera.» rimarcò facendo brontolare ancora il soldato.
«Sapere chi ha tirato fuori chi in quale tempistica ci aiuterà a ritrovare sfera e irlandese?» chiese Lea avvicinandosi ai compagni.
«Le Praterie ci stanno spingendo verso un punto preciso, ce ne siamo accorti tutti. Non so quanto ci sarà possibile deviare il sentiero per cercare persone o oggetti.» s’intromise Úranus cercando di porre fine all’ennesimo bisticcio infantile dei suoi compagni.
Nathan imprecò. «Ovviamente non gliene frega un cazzo a nessuno di cosa vogliamo effettivamente fare noi, sicuro gli Dei vogliono solo che arriviamo presto alla prossima prova di merda e che mettiamo su un bello spettacolino per loro. Devono esser più che soddisfatti del numero di anime che sono riuscite a recuperare quelle pallette di merda.»
Jane annuì. «Ne sono disgustata, ma sono d’accordo con lui.»
«Quale onore.»
«Fattelo bastare, non ne arriveranno altri.»
«L’hai detto anche l’ultima volta.»
«Quelli erano consigli.»
«E non è la-»
«Úranus.» disse con tono duro Eliza fulminando con lo sguardo gli altri due. «Non riesci a percepire Cade?»
L’uomo scosse il caso. «Come stavo spiegando a Lea, il potere di mio padre non funziona come quelli delle altre divinità, non è sempre una cosa che posso comandare. Alle volte posso riuscire in qualcosa concentrandomi, altre volte l’eccessiva concentrazione può portare a risultati infelice.
«Ma dai?» sbottò Jane ancora risentita. La seconda occhiataccia di Eliza in meno di due minuti la fece tacere immediatamente.
«Molto più spesso sono stati di panico o paura che alimentano il mio potere e lo fanno “funzionare” a pieno regime.»
Jonas rabbrividì. «Evitiamo il panico per favore.»
«E il tuo stesso ricordo? Deve scatenarti qualche emozione negativa, anche la semplice frustrazione, il fatto di non averlo ancora recuperato.» provò Eliza.
L’altro annuì ancora. «Ho pensato la stessa cosa ma- è come se vi fosse un tendaggio da me e lui, avverto che in queste lande c’è qualcosa che mi appartiene, che mi appartiene profondamente, ma qualcosa ci divide. So che c’è ma non so dove.»
Un forte battito di mani fece saltare tutti sul posto, Lea sorrise radiosa ai compagni. «Questa è una magnifica notizia!»
«Tu te la sei fumata l’erba degli Asfodeli.» Sbottò Nathan dopo un attimo di silenzio.
Con un gesto vago della mano Lea scacciò quella stupida insinuazione e afferrò il braccio di Úranus.
«Ma non capite? Avverte la sua presenza! Sa che c’è ma non sa dove! Questo vuole dire che il suo ricordo è ancora intatto! Che ovunque sia c’è, esiste! Nessuno l’ha rotto! Saranno passate ore da quando questa quarta prova è iniziata e nonostante tutto la sua sfera di Ermes è ancora intatta!»
«Beh… questo è un punto di vista inaspettato.» disse Jonas aggrottando le sopracciglia. «Ma non sappiamo dov’è.» ripeté però per buona misura.
«Forse vicino al traguardo?» ipotizzò Eliza. «Spiegherebbe perché non l’abbiamo trovata fino ad ora e perché è ancora intatta. Chi arriva alla fine di questa prova ha già il suo ricordo e nessun interesse verso un’anonima sfera sconosciuta.»
«Pensi seriamente che nessuno farebbe il ragionamento “se la rompo è uno sfidante in meno”.» chiese Nathan scettico. «Non ci credo neanche un po’. Dev’essere nascosta per bene se nessuno l’ha ancora rotta.»
«Ed è l’unica opzione?»
«Se no qualcuno l’ha presa ma non l’ha rotta. Ma di nuovo, a quale scopo? Che interesse possono avere?»
I sei rimasero in silenzio per una manciata di minuti, finché Eliza non sospirò.
«Ci sarebbe un altro modo per trovare Cade e la sfera.» iniziò alzando lo sguardo sui suoi compagni. «Potremmo usare i nostri poteri.»
Jonas fece una smorfia. «Hai già dimenticato cos’è successo l’ultima volta? Io passo, grazie.»
«Sinceramente neanche io muoio dalla voglia di riavere uno di loro due nella mia testa.»
«Non eravamo nella tua testa! Non leggo il pensiero, per l’amor del cielo!» sbottò subito il ragazzino sulla difensiva.
«Non parlavo del tuo potere.» s’intromise di forza Eliza, «Ma di quello di chi non ha ancora provato ad utilizzarlo.»
Úranus si volse piano verso Lea. «La tua luce?» chiese a bassa voce.
La ragazza scosse il capo, «Non credo di esserne in grado e non credo neanche di poterla utilizzare per trovare una persona in movimento. Quanto alla sfera-»
«Parlavo di me e di Jane.» la interruppe subito la figlia di Nike. «Ecate è la Dea della magia, giusto?»
«Oh, sarebbe fantastico se solo Maga Magò sapesse far qualcosa.» soffiò acido Nathan guardando con fare eloquente Jane.
La ragazza alzò un sopracciglio. «Cos’è un “Maga Magò”?»
«Cristo iddio…»
«Credo sia una persona, non una cosa.» suggerì Jonas. «Sembra il personaggio di una favola per bambini.»
«Sì, è la cattiva della “Spada nella Roccia” della Disney.» spiegò il biondo disgustato dal dover raccontare certe cose a degli adulti. Adulti che per la maggior parte ignoravano anche l’esistenza della Disney in effetti.
Jonas lo guardò sorpreso. «Fa ancora film?»
«Lui no, visto che è bello che morto, ma sì, ne fanno a tonnellate.»
«Cos’è un film?» domandò Úranus.
«Ehm… è un po’ complicato da spiegare… vedi, nel futuro siamo riusciti a produrre delle immagini perfette di oggetti, ambienti e persone, con uno strumento chiamato “macchina fotografica”, ed è proprio l’immagine perfetta identica. È la luce che si specchia su una superficie sensibile che-»
«OKAY!» sbottò Nathan interrompendo Jonas «La lezione di storia gliela facciamo un’altra volta, che dici? Ora possiamo concentrarci sul fatto che la ragazza delle Praterie non sappia fare un cazzo e che la tua proposta fa acqua da tutte le parti?» domandò riportando l’attenzione su Eliza.
La soldatesse gli regalò una smorfia infastidita. «Spero tu sia cosciente del fatto che utilizzi gli stessi termini di Cade.» gli fece notare spietata.
«È perché gli manca.» sogghignò Lea.
«Non mi manca il roscio di merda! Mi è scappato, okay?»
«Possiamo smetterla di parlare di quanto siano ridicoli i tuoi tentativi di negare la verità e concentrarci sul fatto che hai bocciato un’idea senza neanche sentirne la spiegazione?» gli fece il verso Jonas incrociando le braccia al petto.
Nathan aprì bocca per replicare ma Lea lo batté sul tempo. «Cosa proponi, Eliza?»
La figlia di Nike drizzò la schiena e prese un respiro profondo. «Jane, quando eravamo nel labirinto, ha creato un sorta di freccia luminosa che ci ha indicato la direzione da seguire. Capisco che questa non è la stessa situazione, ma se al suo potere aggiungessimo il mio…»
«Avere il favore di una figlia della vittoria potrebbe aiutare enormemente Jane. L’inesperienza sorretta dal favore divino.» concluse al posto suo Úranus.
«Credete seriamente che il mio potere sia sufficiente a fare una cosa del genere? Quell’incantesimo indicava la direzione da prendere per uscire da un luogo, non per trovare una persona o un oggetto. Un anima e un oggetto, per la precisione.» sbuffò la giovane stringendosi le braccia alla vita.
«Ma dobbiamo provarci, è la nostra unica possibilità. Questo o aspettare che Cade, ovunque sia, ci trovi da sé.» concluse Eliza guardandola dritta negli occhi.
Lea si fece avanti ponendo una mano sulla spalla della mora. «Possiamo avvicinarci un poco alla linea del traguardo, continuare a seguire il sentiero, e quando avvisteremo il punto d’incontro della prossima prova ci fermeremo, ci metteremo in disparte e proveremo a trovare Cade ed il ricordo. Sembra sensato?» domandò poi gentilmente.
I ragazzi sbuffarono ed annuirono, Nathan voltò subito le spalle a tutti e ricominciò a marciare, seguito immediatamente da Jonas che, tentennando, lo afferrò per la manica del giaccone mimetico attirando la sua attenzione e chiedendogli qualcosa a bassa voce. Il soldato si irrigidì per un momento ma poi annuì serio, piegandosi leggermente verso il ragazzino, pur mantenendo una certa distanza.
Eliza sospirò e lì seguì, conscia del fatto che Jonas doveva essersi deciso a chiedere informazioni sulla famosa guerra che si era consumata poco dopo la sua dipartita. Si voltò a guardare Jane e le fece cenno di affiancarla, «Vogliamo discutere del piano? Puoi spiegarmi quanto in là può andare il tuo potere?»
Jane fece una smorfia. «Potrebbe andare più in là di quanto io non sappia, ma non è detto che io sia in grado i farcela. Nessuno me lo ha insegnato e i miei tentativi passati non sono finiti proprio per il meglio.» ammise infastidita.
Lea si fece avanti sorridendo. «Questo allora potrebbe essere un buon momento per riuscire a scoprire qualcosa di più sui poteri di tua madre e su come utilizzarli. Sei rimasta vigile per tutti questi anni nelle Praterie, hai mai provato a fare qualche magia?»
A quella domanda Jane fece un’altra smorfia. «Sì… avevo degli- come chiamarli… appunti? Sì, qualcosa del genere. So fare delle magie, nulla di utile evidentemente, o comunque, nulla di utile per me
La figlia di Nike la guardò attenta. «Cosa intendi per “per te”?»
«Ho avuto centosei anni per allenare quel poco di magia che il sangue divino di mia madre mi ha concesso, perché ovviamente non poteva donarmi poteri incredibili, no?»
«Non funziona sempre così. I poteri che ti vengono donati alla nascita sono casuali, specie se si è figli di divinità molto prolifere. Solitamente i semidei che possiedono, seppur in modo ridotto, tutte le doti dei proprio genitori, sono coloro che hanno pochi fratelli. Figli di Zeus, di Poseidone, di Ade, dei tre grandi fratelli.» spiegò Úranus.
«Quindi tu rientri tra questi?»
Scosse il capo. «Io ho molti dei poteri di mio padre, ma, per esempio, non sono in grado di comunicare con gli animali, non posso portare malattie e malanni. Il potere di mio padre agisce anche sul corpo, mentre io sono più legato alla mente.»
«Io ad esempio ho un lieve controllo sulla luce e sul calore, ma mio fratello era in grado di illuminare a giorno una stanza buia. Credo sia un po’ una roulette.»
Gli altri tre la guardarono un po’ perplessi e Lea sorrise impacciata. «Un gioco d’azzardo, una pallina che gira dentro una ruota con delle caselle, bisogna scommettere che la pallina finisca in una di queste e non si può pilotare il gioco, quello che capita capita.»
«Esattamente. Anche i figli di Nike non sono molti.» continuò Úranus. «Questo rende Eliza potenzialmente più forte e capace di Lea o di te, o di Nathan anche.»
«Abbiamo la fortuna con noi, quindi.» sbuffò ironica Jane.
«La vittoria. La fortuna è Tiche.» la corresse il giovane senza farci davvero caso. «Purtroppo per noi, però, la vittoria è incerta, Eliza dovrà mantenere la massima concentrazione.»
«Lo farò, ce la faremo.» li rassicurò lei. «Ora dobbiamo solo capire come.»
Lea storse il naso, «Speriamo solo che la tanto decantata fortuna irlandese di Cade servirà a qualcosa, a lui o a noi.»
 
 
 
*
 
 
Sul mando erboso nero come la notte, si muovevano lente e luminose piccole ombre traballanti. Blu come il cielo senza stelle, trasparenti come i veli che adornavano le vestali, si agitavano fiammelle tremule a pochi centimetri da terra, fluttuando come lucciole tra gli steli immobili.
C’era stato un tempo in cui i fuochi fatui si potevano trovare in ogni angolo del pianeta, su ogni landa toccata dagli Dei e non, un tempo in cui queste piccole manifestazioni di magia, di energia pura e sensiente veleggiavano quiete non appena il sole calava, quando le notti erano profonde o quando le nubi scure coprivano ogni fonte di luce. I fuochi fatui erano speranza e avvertimento, erano la strada per tornare a casa e quella predestinata dal Fato.
Nell’Ade erano comuni e facili da trovare, se si era in grado di vederli.
Nei Campi di Pena, no.
Erano passati così tanti anni dall’ultima volta che Cicno ne aveva scorto uno, così tanto tempo che non si stupì quando il suo cuore, o qualunque cosa ci fosse ora al suo posto, si contrasse in una morsa dolorosa. C’era stato un tempo in cui i suoi piedi nudi avevano calpestato erba verde e fresca, tranquilli e sicuri, seguendo la via che quelle fiamme bluastre segnavano nel mondo dei vivi.
I fuochi fatui erano una manifestazione dell’Oltretomba però, dei luoghi più profondi della Terra, dove dimoravano esseri ancestrali e pericolosi, potenti e magnifici come la Notte e tutti i suoi figli. Era così curioso come molti Dei ed entità collegate ai cieli, alle stelle, al mondo al di là del loro fertile pianeta, fossero relegati nel buio pesto del suo stomaco.
Cicno lasciò che una minima contrazione muovesse il suo labbro, l’angolo si piegò per un attimo in un accenno di sorriso, ironico, beffardo, mesto.
I figli di Apollo, quelli dell’Auree, di Eos, di Iris, tutti i discendenti di coloro che avevano a che fare con la luce ed i figli di Ade, di Thanatos, di Ipno, di Morfeo, tutti coloro che avevano a che fare con il buio e le tenebre, potevano vedere i fuochi fatui. A loro era permesso scorgere le piccole fiammelle anche quando queste non volevano necessariamente palesarsi a loro, anche quando semplicemente lasciavano una traccia vaga del loro passaggio sul suolo mortale. Cicno non aveva mai saputo se esserne felice o meno, se saper di poter trovare sempre i fuochi fatui fosse una delle poche fortune derivategli da suo padre o l’ennesimo tormento.
Perché i fuochi fatui, oltre alla speranza, alla via di casa, al grande destino di eroi e contadini, erano simbolo di morte, erano simbolo di passato, di vita passata. Passata oltre. Ed ora, sull’erba nera scintillante di cocci rotti e frammenti pulverulenti di ricordi, i fuochi fatui danzavano come delicati ballerini su note silenziose, che solo loro potevano udire, che solo loro sapevano riconoscere, dipingendo gli steli e loro stessi di rifessi accecanti in un logo di oscura perdizione come lo erano le Praterie degli Asfodeli.
Cicno abbassò il capo per osservare quelle ondate di fine sabbia che s’alzavano ad ogni suo passo. Il suo signore gli aveva detto che sarebbe stato facile trovare la via per la prossima prova e per il resto di quella strampalata compagnia che gli era stata affidata, ma non si era immaginato neanche per un momento di ritrovare quei vecchi e cari, quando spaventosi ed odiati, amici a scortarlo fino alla meta. Che quell’essere fosse potente era un qualcosa con cui Cicno era già sceso a patti, specie dal modo in cui era stato in grado di scrutare la sua mente, trarne ogni informazioni, scorgerne i segreti più reconditi ed i desideri più oscuri, così come per il modo con cui si era rapportato con un dio.
 
E non uno qualunque, Fobetore, che anche i grandi dodici sui loro scarni dorati guardano con una certa apprensione.
 
Aveva conversato con colui che teneva le redini di tutti gli incubi del pianeta e l’aveva fatto come se fosse un compagno.
Il suo signore doveva essere ancora più potente però, se era riuscito a piegare al suo volere anche i fuochi fatui. Questo, o ciò che stava facendo si sposava perfettamente con il volere del Fato.
E Cicno non sapeva quale delle due opzioni fosse più spaventosa.
Espirando piano la sua frustrazione dal naso alzò il capo per osservare un piccolo gruppo di quattro fuochi fatui muoversi in cerchio davanti a lui. Più in avanti altri fuochi danzavano, si rincorrevano mollemente sussultando ad ogni stelo troppo alto che rischiava di lambirli.
Volse poi la testa verso il suo compagno e lo trovò a scrutare l’infinità delle Praterie, lo sguardo vacuo di chi si sta perdendo nella Foschia, nei ricordi ed in sé stesso.
 
Proprio quello di cui necessitiamo in questo momento.
 
Storse il naso e si costrinse ad abbozzare un sorriso, falso come la promessa di un mercante ma scintillante come il più bello dei monili.
 
«Sei silenzioso, avevo creduto fossi un grande oratore.» lo provocò blandamente, attirando la sua attenzione.
Cade si voltò verso di lui e abbozzò un sorriso molto più incerto ma di gran lunga più vero del suo.
«Pensavo. Ogni tanto capita anche a me.» disse scherzando.
Ma l’autoironia non era proprio qualcosa che Cicno comprendeva fino in fondo. «Perché dici così?» domandò infatti, «Qualcuno ti ha accusato di non esser in grado di riflettere da te?» e pensare che il suo popolo se ne faceva sempre un gran vanto dei proprio pensatori.
Cade scosse la testa. «Mi hanno detto che sembro un po’ stupido.» ghignò stavolta.
L’altro alzò un sopracciglio. «L’apparenza può ingannare, se sei giunto fino a qui e sei sopravvissuto a tutte le prove non puoi essere né uno stolto né un debole.» lo blandì con parole gentili ma che suonavano più come semplici costatazione dei fatti. Non voleva fargli dei complimenti, non voleva sembrare troppo amichevole o il semidio si sarebbe aspettato lo stesso comportamento anche con gli altri.
 
E gli Dei me ne scampino se vorrò fare questo stupido gioco anche con altre sei persone.
 
«Avevo aiuto.» precisò il rosso.
«Sono gli eserciti a vincere le guerre, non i singoli. Gli eroi sono rari e sono comunque sempre aiutati da scudieri e protettori divini.» disse alzando gli occhi al cielo, ad indicare la volta rocciosa.
Cade lo guardò per un lungo istante inclinando la testa verso sinistra. «Credi che siano gli Dei che ci stanno facendo andare in questa direzione?» chiese a bruciapelo.
Cicno accennò un sorriso. «Non sto seguendo il volere degli Dei, perché non ve n’è uno in grado di comandare la mia stella quando lo è il Fato.» mormorò vago.
«Che vuol dire?»
Il sorriso si ampliò, facendosi più affilato. «Non ci stiamo muovendo con casualità, non ci stiamo affidando a Tiche, la fortuna,» specificò quando lo vide pronto a domandare, «stiamo seguendo il sentiero illuminatoci da altri. Non vedi?» chiese questa volta lui alzando un sopracciglio.
Cade portò lo sguardo davanti a loro, sulla valle desolata in cui non vi era nulla se non erba nera, luccichio di sfere dei ricordi di Ermes rotte e qualche pietra qua e là. Com’era possibile che con tutte quelle anime in gara non ve ne fosse neanche una nei loro paraggi?
In ogni caso, Cade, non vedeva assolutamente nulla.
«Nah.» disse candidamente voltando di nuovo verso il ragazzo.
Cicno combatté strenuamente contro la voglia di alzare gli occhi al cielo, imprecare pesantemente contro suo padre, contro il suo signore che gli aveva affidato quel tipo e poi rifilare a suddetto tipo una testata sul naso. Tanto era più alto di lui, ci sarebbe arrivato perfettamente.
«A quando pare non sei figlio di una Dea.» rispose a denti stretti.
Il volto di Cade cambiò immediatamente, passando dall’innocente ma conscio sorriso stupido ad un’espressione dura e attenta.
«In che senso?»
Cicno ghignò. «Non vedi ciò che vedo io, quindi non sei figlio della divina Eos o della divina Iris. Le Dee dell’Aurora e dell’Arcobaleno. Non sei neanche mio fratello, quindi non sei figlio di Apollo e questo restringe le possibilità davvero a pochi Dei, tutti uomini.»
«Perché dici questo? Cosa vedi che io non riesco a vedere?» continuò cercando di evitare di parlare il più possibile di suo padre.
Se l’altro se ne accorse – e lo fece – non disse nulla. «Vedo i più antichi viandanti di questo mondo, coloro che segnavano le strade ed i destini degli uomini prima ancora che Ermes Piede Alato prendesse possesso del suo dominio e diventasse il patrono dei viaggiatori e dei perduti. Si chiamano fuochi fatui, piccole fiamme blu come quelle degli Inferi che sfiorano le terre della superficie per farsi scorgere solo dai bisognosi e da coloro a cui vogliono palesarsi. Alcuni di noi, figli di divinità legate alla luce o all’oscurità, possiamo scorgerli. Tu non fai parte dei figli della notte, quindi devi essere necessariamente discendente di quelli della luce, ma se non puoi scorgere i fuochi fatui anche contro la loro volontà, significa che non sei figlio delle Dee che ti ho prima nominato.» spiegò con semplicità, interiormente tronfio del bel suono che aveva finalmente ripreso la sua voce, come le parole uscissero fluide e melliflue dalle sue belle labbra.
Cade non aveva perso il suo cipiglio serio per tutto il tempo ed ora lo scrutava con un’attenzione che non gli aveva ancora dedicato, forse credendolo non necessario.
Sapeva così tante cose più di lui, conosceva così bene il loro mondo da esser persino in grado di eliminare dalla lista di infinite divinità alcune di quelle che non potevano essere il suo genitore divino per via di piccoli particolari come il non vedere i fuochi fatui.
 
«Li ho visti più di una volta, in vita. Fanno parte del folclore e delle legende tradizionali del mio popolo. Loro, i folletti, le pentole d’oro ed un’infinità di altre creature. Mi stai dicendo che sono qui anche ora?»
Cicno annuì. «Ovviamente, loro sono sempre tra di noi e qui… questo è il loro giardino, sono le terre che confinano con il luogo da cui sono originati.»
«Intendi il Tartaro?» domandò cogliendo quasi l’altro di sorpresa.
Quindi non era così stupido, interessante.
«Esattamente. Provengono da lì. Sono manifestazioni senzienti. Se volessero nascondersi anche da me potrebbero farlo, certo, ma pare non ne abbiano motivo e siano invece così magnanimi da indicarci il percorso da seguire per giungere al nostro obiettivo.»
«Come puoi sapere che ci stanno portando proprio lì e non fuori strada?» lo sfidò quasi.
Cicno non può impedirsi un suono di pura stizza che fece ridacchiare Cade.
«Perché sono un semidio molto potente, perché non è la prima volta che seguo dei fuochi fatui e perché non ho fatto loro alcun torto per far sì che mi indichino la direzione errata.» disse guardandolo di traverso.
Il rosso continuò a ridacchiare. «Sì, ma li seguivi, quanto? Un paio di secoli fa?»
«Temo che “un paio di secoli fa” fossi già morto anche tu.» lo rimbeccò. «Ho lasciato il mondo mortale prima che quel vostro Salvatore giungesse sulla terra. Qualcuno mi disse che l’anno della mia morte 1150.» lo guardò ancora malamente. «Sai contare a ritroso?»
Cade sgranò gli occhi allibito. «Ma allora sai essere stronzo anche tu!»
Il ragazzo scoppiò a ridere divertito, portandosi le mani alla pancia e piegandosi in avanti.
Gli aveva davvero appena chiesto se non fosse così stupido da non saper far due conti, quando neanche dieci minuti prima gli aveva detto che non poteva esserlo?
Dio santissimo, quell’angelo gli stava piacendo sempre di più.
«Felice che ciò ti porti giubilo.» disse quello a denti stretti.
Gli aveva davvero appena dato dello stronzo quando neanche un’ora prima l’aveva scambiato per un’apparizione divina e benigna?
Ghignò.
Forse quello strano individuo poteva quasi risultargli non così intollerabile.
Ma Cicno era pure sempre il “crudele” e alla risata sempre più divertita, più fastidiosa, del giovane pose fine con poche parole.
«Conosco molte cose che tu non sai, ne vedo molte che tu ignori. I fuochi fatui, come l’identità di colui da cui discendi.»
Cade smise immediatamente di ridere, serrando in denti e maledicendosi per aver abbassato la guardia credendo che il giovane davanti a lui avesse dimenticato la questione dei genitori divini.
«A sì?» domandò guardingo.
«Sì.» il sorriso di Cicno parve quasi magnanimo, pietoso, il sorriso di un saggio ad uno stolto. «Ai miei occhi è abbastanza scontato. O forse, dovrei dire, al mio naso
Cade lo guardò con serietà, una muta richiesta nello sguardo smeraldino.
E Cicno, grande e potente Cicno che tutto sapeva e tutto riusciva a scoprire, anche se non fosse stato il suo padrone a riferirglielo, l’avrebbe intuito da sé non appena avrebbe preso il ragazzo tra le sue braccia.
Se lo ricordava, se lo ricordava ancora, nonostante i millenni, nonostante le torture, il dolore, la rabbia e l’odio che l’avevano consumato da dentro come una fiamma greca. Se chiudeva gli occhi poteva ancora scorgerne il colore denso e velato, il sapore sulla lingua, il tocco sulla pelle, l’odore che gli penetrava fin dentro l’anima.
Oh, come avrebbe mai potuto dimenticarlo? Probabilmente anche ricordare era parte della sua condanna.
 
«Odori di cielo.»
 
 
*


Seduta comodamente sulla panchina di pietra Persefone rivolse il volto verso l’alto, come se potesse bearsi dei raggi di un invisibile sole che baciava la sua pelle e tutte le piante spettrali che la circondavano.
I giardini della Casa di Ade erano tra i più belli che l’Olimpo poteva vantare. Peccato si trovassero nelle profondità della terra e non sulla piccola e bianca montagna.
Non vi erano altri posti così suggestivi, credeva la Dea. Certo, aveva visitato i giardini e le tenute di molte altre divinità, anche di altre antiche religioni, ma le piante che nascevano sotto la cupola di roccia e terra pressata che la sovrastava in quel momento avevano qualcosa di magico. Doveva ammettere che la prima volta che aveva visitato il giardino di Ade, piccola ed innocente bambina stretta alla veste colorata di sua madre, aveva avuto quasi paura di quelle pallide piantine, ma non appena Ade aveva mosso la mano, come in un invito gentile a non temere i loro nuovi visitatori, ogni stelo si era acceso di luminescenti sfumature, colori così vibranti e saturi che Persefone s’era ricreduta con un solo sguardo.
Quello, il giardino intero e tutti gli ettari della tenuta in cui germogliava anche la più piccola delle vite, ironia della sorte in un mondo di morte, era stato il regalo di nozze che Ade le aveva fatto quando erano giunti nelle sue terre.
Persefone si mosse ad agio, camminando verso il centro del giardino principale, lì dove cresceva il principio e la ragione di tutti i suoi mali. O almeno questo era quello che ripeteva sempre sua madre.
Il melograno da cui era stato colto il fatale frutto che aveva segnato il suo destino non era grande ed imponente come ci si sarebbe aspettati fosse. Non era luminoso come le altre piante, non era scintillante e perfetto come gli alberi delle Esperidi, come i rami da cui pendevano i pomi dorati.
Il melograno, l’unica vita che non le apparteneva, l’unica pianta che rimaneva e sarebbe sempre rimasta “di Ade”, malgrado fosse divenuto suo simbolo, era piccolo, non toppo alto, nodoso nel suo avvilupparsi su sé stesso, nei suoi rami più larghi e in quelli più tremuli. Era un albero normale, banale, eppure donava la via in modi che molti potevano solo ignorare.
Si era spesso domandata, nel corso dei secoli, perché Ade cogliesse quei potenti e mistici frutti così di rado, perché concedesse a lei di farne ciò che ne voleva ma, ancora, fosse solo compito del dio staccare quei pomi dai loro rami. Era ironico e divertente che ci fossero ancora cose che le erano ignote, a lei come a tutti coloro che discendevano dai cinque fratelli. Forse solo Afrodite esulava da quel conto, figlia di un essere arcaico che tutti cercavano ancora di dimenticare. Ma neanche la bella e perfetta dea dell’amore sapeva tutto, neanche a lei era concessa la conoscenza suprema, così come non lo era concessa alla dea di quella stessa. Atena ignorava molte più cose di quanto non amasse ammettere, ma a differenza di tutti loro era costantemente affamata di informazioni, costantemente alla ricerca di nozioni, di fatti, tutto ciò che potesse colmare la sua sete di sapere. Eccellere sopra tutti, sopra tutto.
Ade non aveva dovuto neanche dirglielo esplicitamente ma Persefone sapeva che Artemide aveva parlato con Atena, le parole che suo marito aveva speso per raccontarle in breve il discorso avuto con la nipote non erano state troppo gentili e quei commenti poco lusinghieri verso altri “dannati mocciosi troppo cresciuti che si impicciano in fatti che non li riguardano come se fossero ancora dei veri poppanti lagnosi e petulanti” dovevano per forza di cose essere riferiti o alla dea, o ad Apollo, o ad Ermes, solitamente erano loro quelli che si ficcavano sempre nei problemi altrui.
Persefone quindi ora era più che certa che, esattamente come lei, anche tutti gli altri dei “di seconda generazione” non sapevano tutto, non avevano una visione ampia e completa di ciò che stava succedendo in quel momento. La cosa forse più terrificante era che neanche Ade ne aveva una completa. Forse gli unici erano Ipno e-
 
Eros.
 
La dea chiuse un attimo gli occhi, respirando a pieni polmoni l’odore umido di terra e grotta. L’odore di casa.
Quella gara stava perdendo interesse ai suoi occhi, per lo meno le sfide in sé. Non le importava più niente di chi sarebbe riuscito o meno ad arrivare alla fine della prova successiva, sapeva per certo che i suoi bambini ci sarebbero riusciti, Ade glielo aveva implicitamente promesso, ma ciò che più l’attirava, che aveva la sua più completa attenzione, era ciò che sarebbe successo quando questi fortunati sarebbero arrivati alla sfida finale ed il gioco si sarebbe concluso.
Un’anima sarebbe tornata sulla terra, la sua vita sarebbe ripartita esattamente da dove si era interrotta, senza nessuno sconto, senza nessuna perdita se non tutto il tempo ormai trascorso dalla sua partita. La dea fece una smorfia: sembrava una bellissima idea all’inizio, un modo per intrattenere tutti in un periodo di pace e ridare la possibilità ad un’anima di tornare a vivere ciò che le sarebbe restato da vivere se non fosse scomparsa prematuramente, ma era davvero così? Riflettendoci per bene, e ormai erano quasi due settimane che la dea lo faceva, non sarebbe stato poi così tutto rose e fiori come sembrava all’inizio.
Tanto per cominciare era più che ovvio che nessun mortale sarebbe mai riuscito a concludere la gara e vincere, quindi perché aprire la partita a tutti? Perché aprire le iscrizioni anche nelle terrazze più basse dei Campi di Pena? Certo, in quelle più alte c’era chi aveva commesso errori, chi era stato costretto a far qualcosa, chi non aveva avuto altra scelta. Ma i tiranni, gli sterminatori, i sadici, i crudeli… tutti loro, perché dargli l’opportunità di tornare in superficie a fare ciò che ormai non potevano più fare?
Se si parlava di semidei poi, si doveva fare un’altra scrematura: chi era morto in tarda età, quindi semidei abbastanza potenti o accorti da sopravvivere, chi era morto in guerra, chi in missione, chi al Campo, chi raggiungendolo o prima di raggiungerlo addirittura. Chi era morto al primo attacco, chi era morto senza neanche saper d’essere un figlio bastardo di una divinità annoiata.
Avevano più possibilità i veterani, ma loro meritavano di tornare in vita? Dopotutto erano adulti, avrebbero potuto lasciare spazio ai giovani. E chi era morto in battaglia? Aveva più esperienza ma era più meritevole della povera anima di un bambino morto tra le braccia di un satiro terrorizzato? La cosa più devastante forse era che molti semidei erano morti giovanissimi ed un bambino di sei anni non avrebbe mai neanche potuto firmare il contratto degli Inferi per partecipare alla gara.
Qual ora il vincitore fosse stato un giovane con ancora tutta la vita davanti, stroncata per un qualunque motivo, era giusto che tornasse a vivere in quel momento?
Questo era stato uno dei suoi pensieri più pressanti: se avesse vinto un giovane del ventesimo o ventunesimo secolo, la cosa sarebbe stata abbastanza sensata, ma se avesse vinto un valoroso cavaliere medievale? Un condottiero rinascimentale, un soldato spartano, un navigatore persiano? Quanto sarebbe stato crudele rimetterlo al mondo?
Persefone non lo sapeva, non sapeva quali sarebbero potute essere le conseguenze e soprattutto si sorprendeva che Giordano Delle Vie non si fosse interrogato su questi punti.
 
O forse l’ha fatto e ha deciso che non gli interessava la risposta.
 
Alle volte si dimenticava quali sangui maledetti erano stati mescolati per creare la stirpe da cui discendeva. Quanto rosso – quanto nero – fosse quel liquido fatale che lo teneva in vita.
Era quindi possibile che Giordano avesse pensato a tutto ciò e avesse deliberatamente deciso che non gli interessava. Ma perché? Il destino dei semidei era qualcosa che gli era sempre stato molto caro, specie dopo Clara, Al e tutti i ragazzi di quella casa fatiscente scomparsa gli dei neanche sapevano dove.
Con un moto quasi annoiato Persefone si lasciò cadere di nuovo sulla panchina di pietra e sbuffando, si sistemò distrattamente i capelli.
La verità era che non le importava davvero cosa stesse combinando Giordano, ma la vita eterna poteva essere noiosa e certe volte anche lei aveva bisogno di qualcosa per distrarsi. Gio le stava dando un bell’enigma da sbrogliare, lo stava dando a tutti, ma l’unico interesse che Persefone provava era nello scoprire la risposta, non nello sventare i suoi piani. Qualunque essi fossero.
Con una sicurezza quasi maligna la dea si disse che mai e poi mai le azioni di quell’essere avrebbero potuto lederla perché mai e poi mai Gio avrebbe fatto qualcosa per ferire Ade. Lei era semplicemente compresa nel pacchetto.
Giordano avrebbe anche potuto voler riportare sulla terra tutti i mostri dell’Inferno, farli marciare sull’Olimpo, saccheggiarlo e bruciarne gli scarni dorati, ma niente di questo avrebbe fatto cadere Ade dal suo di trono o tolto a lei il proprio. Si sarebbe potuta godere la fine del mondo seduta in poltrona e non un granello di polvere l’avrebbe compita.
Sorrise maligna, forse quando Caronte l’accusava di essere fin troppo simile alle sue cugine c’era un fondo di verità, dopotutto, anche se nata nella luce era tra le ombre che lei dimorava.
 
«Quel sogghigno maligno non ti si addice, tesoro.»
A quelle parole la piega delle sue labbra s’ammorbidì completamente.
Persefone si volse verso la sua destra e trovò la figura rilassata e sorridente di sua madre ad aspettarla a braccia aperte.
Come ogni volta che si rivedevano le piante attorno a loro sbocciarono in una prematura primavera, qualcosa che dava sempre sconforto ai poveri scheletri giardinieri che avevano il compito di curare il giardino.

«Madre.» la chiamò stringendola a sé, «Non credevo saresti arrivata così presto, neanche la metà dei partecipanti ancora in gara sono giunti alla linea del traguardo e molti di loro ancora cercano le loro sfere dei ricordi.»
La dea annuì con fare vago. «Sì, me l’hanno detto, ma qualcuno è venuto a disturbarmi nei miei campi e sfortunatamente l’unico posto in cui so che nessun altro verrà a rompermi le scatole è a casa del mio caro fratellone.» disse ironica facendo un ampio gesto con il braccio per indicare l’enorme villa alle sue spalle. «Ad invadere le mie terre non ci pensano due volte, ma a presentarsi alla dimora del Dio dei Morti diventano tutti subito educati e mandano avvisi e richieste.»
Persefone sorrise prendendola sottobraccio e portandola con sé verso la panchina.
«Non dire così, anche qui vengono a disturbarci spesso, solo che ci sono più cose spiacevoli da fare e Ade si diverte ad usare la carta del “visto che sei qui puoi aiutarmi” ogni volta che qualcuno è più fastidioso del solito. Artemide ha dovuto sfruttare la sua prova per aver una scusa per chiamarlo a consiglio.»
Demetra alzò gli occhi al cielo. «Oh, perfetto, me ne ero quasi dimenticata. Dovrò ringraziare le mie nipotine, dopo millenni mi hanno dato un motivo per essere comprensiva con mio fratello.»
«Sono venute a parlare anche con te?» domandò l’altra guardinga.
«Solo Atena, Artemide ha effettivamente qualcosa da fare a differenza sua. Gliel’ho sempre detto a Zeus che doveva trovarle qualcosa di più impegnativo da fare, tipo come ha fatto con Ermes, ma a quanto pare fissare umani che potrebbero potenzialmente avere delle idee brillanti che poi distruggeranno il mondo e dar loro la propria benedizione nel farlo è una cosa abbastanza “impegnativa” per i suoi standard. Ma cosa dovevo spettarmi? È uscita dalla testa di mio fratello, non da quella di un genio.»
Persefone ridacchiò, sempre estremamente divertita da come la madre criticasse senza pietà i suoi parenti, anche se nei confronti di Ade la sua soglia di sopportazione era più bassa.
«Cosa voleva?» chiese comunque per distrarla dal più che certo discorso su quanto suo padre non sapesse tenersi le vesti indosso e come questo aveva distrutto la loro famiglia, che ne sarebbe scaturito come sempre.
Demetra drizzò la schiena facendo scrocchiare qualche osso. «Voleva sapere di Giordano, ovviamente.»
L’altra la guardò improvvisamente più interessata. «A sì? E cosa le hai detto? Cosa ti ha detto lei?»
«Crede di sapere cosa vuole Giordano.» disse in tono neutro, «Le ho risposto che se è solo di questo che si tratta per me può far ciò che vuole.»
«Andiamo mamma, non girarci intorno con me!» rispose Persefone imbronciandosi come una bambina. «Cosa vuole il piccolo Giordano?»
«Non è più “piccolo” tesoro, non lo è più da troppe primavere. Anche da prima che potesse sbocciare.»
«E questa è colpa di Eros.»
«La perdita dell’innocenza di cui parlo non è quella sessuale, cara.»
«Mamma.» ripeté ancora le dea voltandosi completamente verso l’altra. «Cosa vuole Giordano?»
«Per certo, non lo so neanche io.»
«E secondo Atena?» incalzò decisa.
Demetra la guardò sorridendole e poi le carezzò una guancia. «Crede voglia riprendersi l’anima di qualcuno.» stette in silenzio contemplando per un po’ il volto della figlia, lasciandola arrivare alle sue conclusioni.
«Qui nell’Ade non ci sono né l’anima di Clara né quella di Al.» disse piano l’altra, la voce sottile e la mente già alla vera, possibile risposta.
«Non crede sia a quelle che miri.» rispose con dolcezza.
«Quelle- cerca quelle dei bambini?» domandò infine Persefone, il volto pallido e gli occhi vuoti, inespressivi. «Mamma…» continuò in un soffio, «le loro anime… non si-»
«Lo so. Io lo so tesoro, ma Atena no. Pensa che sia qui per quella di sua nipote.»
«Neanche Ade, volendo, potrebbe recuperarla. Cosa fa credere ad Atena che Gio potrebbe riuscirci? E perché solo quella della bambina?» la sua voce tentennò e Demetra le carezzò di nuovo il volto. Un tempo anche lei era stata una bambina innocente, proprio come lo erano i nipoti di Giordano quando erano giunti nell’Ade. Eppure, per quegli altri bambini, Demetra non riusciva a provare la stessa tenerezza, la stessa pietà. Probabilmente ne nutriva molta di più nei confronti di Giordano stesso.
«Sai perché, tesoro. Il maschio non si può recuperare, non dove si trova adesso.» le spiegò con dolcezza.
«Neanche lei.» insistette. «Per l’Olimpo mamma, se venisse da me e mi dicesse che ciò che vuole da questa gara non è altro che l’anima di sua nipote-»
«Tu gliela daresti, se fosse in tuo possesso. O l’aiuteresti a trovarla. Lo so bambina mia, lo so. Sei sempre stata dalla sua parte, anche prima di quell’ennesimo tradimento.»
Persefone si morse il labbro, indecisa ma al contempo convinta delle sue parole. «Non fu colpa sua. Glielo chiese Ade e Giordano, da bambino fedele e bisognoso d’approvazione qual era, non ha pensato neanche per un attimo di rifiutarsi. Non era nulla di sbagliato in fondo, non c’era nulla di male. Non lo biasimo per questo e mai lo farò. Voleva solo proteggere la sua famiglia.» ammise.
«Chi non ne ha mai avuta davvero una tende ad attaccarsi in modo quasi spasmodico a tutto ciò che vi ci si avvicina vagamente. Ma se vuoi la mia opinione,» continuò richiamando lo sguardo della figlia su di lei, «non sta cercando loro. Non ha senso, capisci?»
«Ade non l’avrebbe aiutato.» disse risoluta Persefone. «Se si fosse presentato qui, in un giorno qualunque, dicendo di rivolere indietro le anime dei suoi nipoti Ade non glielo avrebbe mai concesso. Strapperebbe la Luna dalle mani di Artemide e gliela donerebbe se Giordano glielo chiedesse, ma ha giurato tempo addietro di non intromettersi con la morte, specie con quella che segue sempre Gio.»
La dea annuì. «Ricordo le sue parole e malgrado io e mio fratello non andiamo d’accordo su molti punti, so per certo che non infrangerebbe mai un giuramento del genere.»
«Allora cosa cerca, madre? Cosa ti preoccupa?»
Demetra inclinò di poco la testa, lo sguardo sveglio ma incredibilmente impassibile, quasi vuoto.
«Nulla mi turba, bambina mia. Nulla. Giordano non cerca vendetta verso di noi o ci avrebbe uccisi tutti anni addietro. Cerca qualcosa, ne sono certa, ma sono anche certa che non ci infastidirà, ci sta solo tenendo occupati per non farci vedere dove sta infilando le mani, come un monello che ruba il miele.» sorrise poi con più calore.
«Se è così, se ha bisogno della nostra disattenzione, sta facendo qualcosa di proibito.»
«Come sempre.» sbuffò l’altra ironica.
«Sta facendo qualcosa che Zeus non gli avrebbe mai permesso, che nessuno di noi gli avrebbe mai concesso.»
«Tesoro.» disse allora la madre con un sospiro rassegnato, tipico di chi si appresta a spiegare per l’ennesima volta un concetto semplice, basilare. «Giordano Delle Vie non ha avuto, non ha ora e non avrà mai bisogno del nostro consenso o del nostro permesso per fare alcun ché.
Se proprio devo tirare ad indovinare, potrei dirti che ha tenuto anche Ade all’oscuro del suo piano perché probabilmente avrebbe potuto ferirlo in qualche modo o arrecargli qualche danno.»
«Non c’è nulla, nel suo dominio, che possa ferire Ade.» replicò subito, decisa, certa.
Demetra sorrise ancora. «In ognuno dei nostri domini c’è qualcosa che potrebbe distruggerci, Ade è solo quello più in costante pericolo di tutti. Ricordati dove si erge il suo scarno, mia cara, su cosa siede e domina il tuo sposo. Ci sono cose, qui nell’Ade, che noi Dei più antichi abbiamo giurato di non cercare, di non bramare, di non nominare neanche più. Ci sono luoghi, fonti di puro potere, che si alimentano dalle profondità di questa terra e da ciò che custodisce.
Credo che Giordano stia cercando una di queste fonti.»
Persefone fissò la madre improvvisamente pietrificata.
 
Cosa che neanche gli Dei sanno? Che neanche gli Dei osano bramare?
 
Non le pareva assurdo che dopo tutti quei millenni, la sua famiglia continuasse a custodire segreti su segreti, era anzi quasi rincuorante sapere che ve ne erano ancora altri da scoprire. Ma se questa “fonte” era così potente come sua madre le aveva lasciato intendere…
 
«Cosa ne sarà di lui? Se dovesse riuscire a raggiungere il suo scopo? Non sarà troppo persino per Giordano il mortale?» domandò con timore, un improvviso fiotto d’ansia per quell’anima così giovane eppure già così vecchia.
La dea scosse il capo, un gesto secco, l’espressione di chi reputava ridicolo anche il sol pensiero.
«Non dimenticare mai quanto pericoloso e potente sia quell’essere. Abbiamo giocato una partita rischiosa, abbiamo ignorato e poi svenduto le nostre pedine migliori mandandole al macello e ciò che siamo riusciti a ricavarne è stato un pezzo completamente instabile sia nelle nostre mani che nelle loro. Giordano sa il fatto suo, anzi, oserei dire che se c’è qualcuno che può riuscire in un’impresa tale, quello sia solo lui.»
«Rischia la sua vita, madre.»
«Oh, sciocchezze! Non si può rischiare qualcosa che non si ha Persefone! E la verità è che Giordano è morto prima ancora che le Moire potessero tagliare il suo filo. Senza contare che Cloto sarebbe stata così dispiaciuta da rifilarglielo!»
Con lentezza Demetra si alzò dalla panchina e scrutò sua figlia dall’altro, come un giudice imparziale e crudele.
«No bambina, no. Giordano non rischierebbe nulla e questa, se chiedi a me, è senza ombra di dubbio la cosa più spaventosa di tutte.»
 
Persefone guardò sua madre allontanarsi con lentezza, diretta verso la Casa di Ade, per poter probabilmente conversare anche con suo marito.
Fino a poco prima si era detta che non le interessava, qualunque cosa Giordano avrebbe fatto non l’avrebbe sfiorata perché lei era direttamente collegata ad Ade e Gio non avrebbe fatto mai nulla per ferire il suo amico, l’ultimo frammento della sua infanzia ancora in vita. Ora però iniziava a domandarsi quali ripercussioni avrebbero avuto le azioni dell’uomo, se in un qualche modo si sarebbero abbattute anche sull’Ade e sull’Olimpo.
 
Un segreto che gli Dei più antichi ancora conservavano.
 
Una fonte di potere incredibile che avevano giurato di non bramare.
 
Un pezzo instabile di un gioco troppo rischioso.
 
Un giocatore che non può perdere l’unica vita che gli è stata concessa, qualcosa che non possiede più.
 
Come si sconfigge un avversario del genere?
 
Un baluginio brillò nella mente della dea, uno scintillio sinistro come le zanne di un predatore.
Il ghigno di un drago.
 
 
 
“Non lo si sconfigge. Ci si allea.”
 
 
 
 
*
 
 
 
Avevano camminato per quelle che gli erano parse un paio d’ore e in tutto quel tempo Cade era più che convinto di non essersi zittito un attimo.
La verità era che il silenzio ancora lo innervosiva, si era perso per i meandri delle Praterie per rincorrerlo e gli era quasi sembrato di morire per colpa sua. Era svenuto esattamente come aveva visto quasi accadere a Jonas, come sapeva fosse successo a Nathan, a Jane ed era stata tutta colpa del silenzio.
Sentiva ancora il sangue secco nelle orecchie, malgrado Cicno gli avesse garantito d’averle curate e che non viera più alcuna ferita, il pulsare ritmico di un cuore che non avrebbe più dovuto avere lo perseguitava in quelle vallate nere e se solo fosse stato zitto per un secondo i batti ed i pensieri si sarebbero susseguiti con una tale violenza, una tale potenza, che Cade credeva sarebbe crollato di nuovo.
Così parlava di tutto e di nulla, teneva occupata la bocca e vagava con lo sguardo a destra e sinistra, cercava qualcosa – qualcuno – che aveva perso e che non riusciva a ritrovare a sentire.
 
Maldetto silenzio e maledetto rumore.
 
Il suo compagno di viaggio, nuovo di zecca se solo non fosse stato di qualche millennio fa, sembrava sopportarlo con rassegnazione, anche se Cade poteva scommetterci la sua moneta falsa che un paio di volte avrebbe voluto prenderlo a pugni. Meglio così, preferiva le persone focose a quelle troppo remissive e malgrado Cicno l’avesse salvato con la grazia e la benevolenza di un angelo era pur sempre un fuggitivo dei Campi di Pena e, per di più, un figlio degli Dei.


Come me. Come noi. Figlio di Apollo.
 
Gli gettò un’occhiata veloce, trovandolo con il capo eretto, lo sguardo puntato verso l’infinito orizzonte d’erba nera.


«Quindi mi ha cresciuto mamma, a conti fatti. Oddio, posso dire di essermi cresciuto da solo in un certo senso, se sai cosa intendo. Però mamma è sempre stata lì, sempre pronta a darmi una mano o a rammendarmi le brache. Non ci crederesti se ti dicessi quante volte mi sono impigliato in una ringhiera o su qualche balcone.» continuò a ciarlare.
Cicno fece a mala pena una smorfia. «Non so cosa sia una ringhiera e neanche cosa siano delle brache. Presumo vesti però, se tua madre te le cuciva.» rispose senza entusiasmo.
Se solo Cade avesse saputo che fatica stava facendo per rispondergli in modo quanto meno decente.
«Sono quelli che indosso ora! Le brache intendo. È un termine un po’ vago c’è da dire, che indica sia i pantaloni, questi qui, o le mutande. Voi ce le avevate le mutande?» domandò abbassando lo sguardo, quasi potesse scorgere qualcosa da sotto il gonnellino bianco.
Cicno alzò un sopracciglio, un piccolo sogghigno a tendergli le labbra nell’osservare il giovane fissargli con insistenza le cosce.
«È un bel panorama, per lo meno?» chiese di rimando.
Cade alzò di scatto la testa, un sorriso da monello di strada ed un occhiolino furono tutto ciò che il biondo ottenne in cambio.
«Non avevamo propriamente ciò che voi chiamate “mutande”. C’era un indumento che andava avvolto attorno ai fianchi, si chiama perizoma, ma solo gli uomini adulti lo indossavano e non sempre.»
Cade si fermò un attimo, fissando di nuovo la vita del giovane.
«Mi stai dicendo che le donne andavano in giro senza mutande? E che tu non le hai?»
Il biondo alzò gli occhi al cielo già infastidito.
«No, le donne non ne indossavano, erano solo per gli uomini e venivano indossate solo dopo una certa età. Non so quale fosse il rapporto che le genti della tua epoca avevano con il loro corpo, ma nella mia era motivo d’orgoglio, qualcosa che andava quasi ostentato. Perché coprire qualcosa di così bello?» domandò retorico. Poi, accortosi che Cade continuava a fissarlo, grugnì infastidito.
«Non ne ho mai indossate in vita mai, ma l’anima che ha così magnanimamente rammendato le mie vesti mi ha donato anche questi.» e così dicendo sollevò l’orlo del gonnellino come se nulla fosse, mettendo in mostra le cosce morbide ed il sedere alto avvolti in quelli che sembravano pantaloncini molto aderenti.
Cade ne aveva visti di simili nei Campi Elisi, qualcosa che aveva a che fare con la bicicletta o simili, ma di certo, non indosso ad un ragazzo proveniente dall’antica Grecia.
Deglutì. «E come ti ci senti? Non ti schiaccia la mercanzia?» domandò ancora.
Cicno fece un’altra smorfia. «Sono molto stretti, è una costrizione fastidiosa, ma ammetto sia più comodo correre o saltare con qualcosa che contiene così fermamente i genitali.» rispose quello senza vergogna.
L’irlandese distolse lo sguardo improvvisamente imbarazzato. «Non dire queste cose davanti alle ragazze quando lì avremo ritrovati, okay?»
L’altro alzò un sopracciglio. «E perché mai? Parlare del corpo umano vi imbarazza? È una delle opere più belle degli Dei.»
«Sì, beh, con il passare degli anni le cose sono cambiate. Ora c’è più pudore. Puoi parlare del corpo ma non in modo così- specifico.»
Cicno ghignò interiormente ma il suo volto apparve del tutto smarrito ed innocente. «In modo specifico? Cosa intendi? Non posso dire la parola genitali? Preferisci dica “pene”? è più decoroso?»
L’espressione contrita, assolutamente esagerata e teatrale, in cui si esibì Cade fece quasi ridere il figlio di Apollo. «Dio santissimo! Ancora peggio angioletto! Ancora peggio! No, no, no, quando si parla con gli uomini puoi anche usare questi termini, ma con le signore devi essere più vago, più allusivo…» cercò di spiegare con fare vago.
L’altro sorrise. «Credi fermamente che le signore non sappiano cosa abbiamo sotto la vita? Anche loro hanno-»
«NO! Questo non voglio sentirlo io! Dio, dio santissimo! Ma eravate tutti così nell’Antica Grecia? Parlavate di corpi nudi sempre?»
«La nudità non è qualcosa di cui ci si dovrebbe vergognare, come ti ho già spiegato. Il mondo dev’esser peggiorato da quando sono morto.» ragionò a voce alta.
Cade annuì, felice di poter cambiare discorso. «Tante buone cose nuove ma anche tanta merda.»
«Io non posso dire “pene” ma tu puoi dire queste volgarità?» chiese fulminandolo.
Il rosso ghignò. «Una delle cose che è andata male! Adesso le parolacce si dicono molto di più. O per lo meno da me. Ma io vivevo in una città portuale e lo sanno tutti che i marinai sono volgari e rudi e tutte quelle cose lì.»
«Magnifico, cos’altro? Non siete istruiti? Non avete scuole e pensatori? Non avete grandi eserciti composti da valorosi uomini? Fini artisti e geni?»
«Sì, alle scuole, anche se non ci vanno tutti, tipo io no, solo chi ha i soldi. Sì agli eserciti, valorosi uomini un po’ di meno, spesso ci sono tanti ragazzini che vanno a morire mentre i generali, tutti nobili, si fanno gli affari loro-»
«Che amenità è mai questa? Come si può essere generali se non si combatte in prima linea?»
«Eh, va a chiederlo a quegli stronzi. E sì a filosofi e artisti, ma anche lì, gente che ha i soldi e che può permettersi di far nulla tutta la vita fino a diventare famoso ed esser pagato per pensare o dipingere.»
«E non credi sia un degno lavoro anche quello? Nel futuro avete una visione molto debole del bello e dell’istruzione. Spero che almeno in quel famoso Campo Mezzosangue insegnino qualcosa di quanto meno decente.» borbottò calciando qualche coccio rotto.
Cade lo guardò con curiosità. «Non c’era il Campo Mezzosangue ai tuoi tempi?»
L’altro mosse il naso in una smorfia buffa, come quella di un bambino concentrato su qualcosa di importante. «Non come credo sia ora. Adesso ve ne è uno posto in uno specifico luogo, per ciò che ho sentito dire sono anni che si trova nella medesima città. Viene spostato assieme alla sede dell’Olimpo, se non erro, quindi ora si dovrebbe trovare in quello che chiamano “Il nuovo mondo”.»
«In America, sì. Non è più tanto nuovo da un po’ di tempo ormai, ma adesso gli Dei sono a New York City.»
Cicno fece un gesto vago con la mano. «Come dici tu. Quando ero in vita io però non funzionava così. I figli degli Dei non erano rari e non erano neanche così deboli da necessitare la protezione costante di un satiro o di una barriera che li nascondesse dai mostri. I nostri genitori mortali erano in grado di difenderci e i nostri genitori divini ci davano la loro benedizione. Vi erano campi d’addestramento in cui noi semidei potevamo esser addestrati all’arte della guerra e all’utilizzo bellicoso dei nostri poteri, ma non tutti vi si recavano. Figli di Ares, di Atena, miei fratelli e figli di Ermes, loro spesso accettavano questi addestramenti. I figli dei grandi fratelli invece avevano il loro proprio mentore, qualcuno che dedicava loro la propria vita per renderli eroi degni dei loro padri.» spiegò con semplicità. «Ovviamente alcune divinità erano mal viste, come Ade, Eris, Nemesi, Ecate, ma anche loro erano rispettati e avevano dei fedeli seguaci, i loro figli si recavano nei loro templi e vi prestavano servizio.»
Cade annuì. «Perché i figli dei pezzi grossi avevano il maestro privato?» domandò ancora.
«Mi pare abbastanza chiaro il motivo: sono i tre grandi Dei che ragnano sui maggiori domini nella terra, non lascerebbero i loro figli a mischiarsi con la plebaglia, non credi?» frecciò di rimando guardandolo dritto negli occhi.
Suo malgrado, Cade fu costretto a distogliere lo sguardo. «Per quel che mi ha detto Nathan, spesso non si scomodano neanche per riconoscerti.» mormorò a bassa voce.
«Un tempo non ce n’era bisogno. Gli Dei più importanti lo facevano ugualmente, anche alcuni dei minori, ma era abbastanza ovvio da chi si discendesse, non vi erano dubbi o incertezze, che fosse una discendenza in linea diretta o una benedizione era palese dalle doti che ognuno mostrava. Poi, se il dio in questione voleva manifestare un qualche interesse specifico verso la sua progenie, mandava un segno divino a palesare ciò che tutti già sospettavano.»
«Tu sei stato riconosciuto?» chiese cauto, troppo curioso per poter tacere ma anche timoroso che poi l’altro avrebbe rivolto lui quella stessa domanda.
Cicno fece un mezzo sorriso molto più simile ad un ghigno. «Sono nato nel fulgore del Sole, i miei balbettii infantili lenivano ferite e malanni e qualunque oggetto io lanciassi colpiva esattamente ciò che volevo colpire. Non sarebbe stato necessario farlo in ogni caso, era così scontato che nessuno dubitò mai delle parole di mia madre. In ogni caso, mio padre non si fece mai presente nella mia vita finché non giunse la fine e in quel caso, decise di palesarsi nel momento meno opportuno e nel modo meno opportuno. Ha ignorato la mia presenza per tutta la mia esistenza e vi si è affacciato solo per renderla ancora più miserabile, pieno della sua arroganza nella convinzione di poter far ciò che voleva di me, di potersi intromettere e che magari l’avrei anche ringraziato.»
Le parole fluirono fredde a brucianti, come acido sulla pelle viva. C’era rabbia, c’era rancore e odio, qualcosa che Cade si ritrovò a comprendere fin troppo bene.
«Se ti consola anche mio padre ha fatto lo stronzo con me.»
«Chi non lo fa? Sono davvero pochi i figli degli Dei graziati dalla loro benevolenza. Persino i più grandi sono stati vittime dei capricci dei loro divini genitori più e più volte.»
«Pare che nessuno sia al sicuro allora. Però c’è uno dei ragazzi che viaggia con me, Úranus, che invece ha sempre avuto ottimi rapporti con suo padre. L’eccezione che conferma la regola, no?» disse sorridente.
Cicno trattenne a stento una smorfia disgustata.
 
Grazie agli Dei direi, se non gli fosse stato vicino e non avessero avuto un ottimo rapporto il tuo amico sarebbe probabilmente finito nei Campi di Pena con me.
E noi non ci saremmo incontrati così facilmente.
 
«Presumo di sì.» rispose secco, sperando di mettere fine a quella stupida discussione.
Ma Cade non pareva del suo stesso avviso e gli si fece più vicino, le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni e l’aria quasi annoiata.
Una pessima finzione.
 
«Quindi… tua madre sapeva che eri figlio di Apollo?» domandò infatti.
Cicno serrò la mascella, piantandosi le unghie nei palmi delle mani. «Sì. Mia madre non mi ha mai nascosto i miei natali, tantomeno ha fatto con gli altri, anzi, non perdeva occasione di ripetere a tutti quanto fossi bello e magnifico, baciato dai raggi di mio padre.» sputò con asprezza, con astio.
Cade gli lanciò un’occhiata quasi imbarazzata: aveva capito che Apollo fosse un discorso un po’ delicato, ma non credeva così tanto.
«Lo odi parecchio, eh?» si ritrovò a dire senza volerlo.
Questa volta fu il turno dell’altro di lanciargli un’occhiata, ma decisamente più bellicosa e meno imbarazzata della sua. «Credo che “parecchio” non sia neanche lontanamente paragonabile a ciò che provo per quell’essere.»
Cade annuì. «Sì, posso capire.»
«Dubito.» ringhiò l’altro.
L’irlandese alzò un sopracciglio, infastidito da quella risposta piccata.
«E che ne sai tu? Quello stronzo non mi ha mai degnato di uno sguardo, ha abbandonato mia madre e me come se fossimo spazzatura. Non mi ha mai aiutato, non ha mai aiutato la donna da cui ha avuto un figlio. Non ha salvato me, non ha salvato lei o mia sorella.» elencò già nel pieno della rabbia al sol ricordo.
«Tua sorella era una semidea come te?» chiese freddo Cicno.
Il ragazzo ebbe appena il tempo di scuotere la testa che il più alto lo guardò con qualcosa di simile alla pietà negli occhi. Non aveva pena del suo destino, di com’era stata la sua vita, del fatto che non avesse potuto condividere la discendenza con sua sorella. Aveva pena di lui, delle sue parole.
«Gli Dei hanno figli in continuazione, dall’alba dei tempi, senza preoccuparsi della persona con cui li concepiscono. Vivono in eterno, Cade, noi periamo come fiori e loro rimangono forti sempreverdi. Abbiamo importanza solo se possiamo essergli utili, si interessano a noi solo se ci dimostriamo più forti della media degli altri nostri fratelli.
Tuo padre non ti ha mai aiutato perché probabilmente neanche si ricordava di te, non si ricordava di tua madre e tua sorella non era semplicemente un suo onere. Così come mio padre che ha ignorato la mia esistenza e tutte le mie pene, ha ignorato come uno dei suoi più cari doni mi avesse rovinato la vita, finché non ho deciso di mettere fine a ogni mio tormento.» lo guardò ancora con quello sguardo cinico, che non si sposava minimamente con quello dolce e gentile sotto cui si era svegliato, «Non mi conosceva, non conosceva i miei dolori e ha ugualmente scelto per me. Avevo perso l’amore, la fede, la fiducia. Avevo perso tutto e lui mi ha strappato l’unica cosa che mi rimaneva.» ghignò. «Dovresti esser felice che non si è mai interessato a te o a tua madre, quando il mio l’ha fatto con me, ha distrutto definitivamente il mio mondo.»
Cade non seppe come replicare. Le parole di Cicno gli erano parse glaciali ma logiche, lui era solo uno dei tanti figli di suo padre ed era quasi ovvio che non l’avesse mai riconosciuto perché Cade non aveva mai fatto grandi gesta nel corso della sua vita. Ma questo non leniva il suo odio, non alleviava il peso del vuoto, del modo in cui era stato ignorato da chi gli aveva dato la vita, così in contrasto con il modo in cui sua madre invece l’aveva amato.
Le parole del figlio di Apollo gli vorticarono in testa come una corrente intrappolata in un crocevia: Cicno era stato graziato da dei doni divini che apparentemente l’avevano solo ferito e al limite della sua sopportazione aveva deciso di mettere fine ai propri tormenti. E qual era l’unico modo per farlo?
 
La morte. Si è suicidato.
 
Quella costatazione gli balenò chiara alla mente e per quanto l’idea di qualcuno che si toglieva la vita lo rendeva quasi nauseato, ripensando a tutti gli amici, i fratelli che avevano perso quella stessa vita per mano altrui e che avrebbero fatto carte false per poterla riottenere, non riuscì a sentirsi in grado di giudicare Cicno per le sue azioni.
Stava diventando davvero debole, prima Jonas che ammetteva di essere scappato invece di rimanere a lottare, poi Cicno che confessava di essersi tolto la vita.
 
Di averci provato. Apollo deve averlo fermato, dev’esser stato questo il modo in cui ha scelto per lui.
 
Cade rabbrividì: non voleva immaginare la disperazione che si doveva provare per decidere di uccidersi per poi veder tutto andare in fumo per mano di uno sconosciuto.
Ed era assurdo, era assolutamente assurdo perché Apollo aveva salvato la vita a suo figlio ma- la verità era che lui non conosceva i trascorsi dell’altro, non sapeva quanto miserabile e dolorosa fosse stata la sua esistenza per spingerlo al suicidio, lui non era nessuno per poter giudicare e- e non voleva neanche dover immaginare, provare ad immedesimarsi in lui per capire cosa l’avesse spinto a tanto.
Cade non voleva pensare alla morte, forse perché lui, la sua, l’aveva temuta fino all’ultimo respiro.
Non seppe cos’altro dire, come replicare. Aveva la netta sensazione che se avesse provato a chiedergli di più, se si fosse interessato troppo l’altro l’avrebbe ripagato con la stessa moneta. Cicno gli aveva palesemente detto di sapere chi fosse suo padre e Cade aveva paura che il solo menzionare anche in modo lontano ed indiretto la cosa l’avrebbe costretto ad affrontare quel discorso. Di nuovo. Con qualcuno che sapeva di cosa parlava. Deglutì.
 
«Ti ha-» salvato? «-impedito di ucciderti?»
Malgrado ciò, non riuscì a tenere la bocca chiusa.
Cicno annuì. «Mi trasformò in un cigno. Quegli animali ora portano il mio nome.»
Il rosso aggrottò le sopracciglia. «Non mi sembra che il tuo nome gli somigli molto.» notò ripetendosi la parola in testa con accenti diversi, cercando di farla combaciare al nome dell’altro.
Cicno sospirò. «Questo perché non lo pronunci nella giusta lingua, eppure dovresti capirlo il greco. Come chiama quell’animale il tuo popolo?»
«Swan.» disse subito, anche se dubitava il compagno potesse averlo effettivamente sentito nella sua bella lingua madre.
Ma invece annuì. «Che suono ridicolo, sembra quello provocato da una spada che fende l’aria.» decretò con una smorfia di disapprovazione. «La pronuncia è Cicno
Cade arricciò il naso. «Non ho quel suono nella mia lingua.»
«Ma c’è nella lingua di tuo padre. Se fossimo ancora in vita potresti comprendere le mie parole anche senza questo ridicolo sistema di traduzioni.»
L’irlandese annuì, riuscendo ad evitare, per una volta, di far altre domande come “perché ridicolo?”, “perché ‘swan’ suona male?”, “che diamine di suono è ‘cn’?”. Continuò a ripetersi una parola e poi l’altra, cercando di accomunarle in qualche modo. Dio, aveva così tanta voglia di chiedere a qualcuno se sapesse come c’erano arrivati, giusto per cambiare discorso, giusto per allontanarsi dal tema “genitori che ti mettono al mondo e poi ti ci lasciano a morire male”.
Sospirò pesantemente, continuando a seguire Cicno e gli inesistenti fuochi fatui che indicavano loro il percorso.
Se la sua mente non fosse stata così impegnata a saltare da un argomento all’altro, forse gli avrebbe chiesto spiegazioni in più su quei fuochi, o magari gli avrebbe potuto chiedere informazioni sull’epoca da cui veniva, se avesse mai conosciuto altri semidei. Ma non era colpa sua, le Praterie lo mettevano in agitazione, il silenzio lo metteva in agitazione, l’idea di essersi dimentico qualcosa e non ricordare cosa, così come la sfera di Úranus che pesava come una macigno nella sua sacca lo metteva a-
 
«Ehi?» chiamò d’improvviso.
«Mh?» rispose Cicno sovrappensiero, dimentico quasi per un momento di tirar su quella maschera di compostezza che già aveva lasciato scivolare in basso troppe volte.
«Ma tu l’hai recuperato il tuo ricordo? O vuoi che andiamo a cercarlo prima di trovare i miei amici?» domandò seriamente preoccupato.
Il figlio di Apollo voltò il capo verso di lui per guardarlo meglio, pronto a dirgli che ricordava tutto alla perfezione, ad inventarsi una scusa valida su come fosse riuscito a recuperare la sua sfera dei ricordi prima d’incontrare lui, quando una scintilla, come lo scoppiettio di un ciocco arso in una notte buia, gli baluginò nella mente.
 
Lui aveva un ricordo da recuperare?
 
Per quanto ne sapeva, no. A lui non era stato sottratto nulla, i rami d’edera non l’avevano toccato in alcun modo, era sempre stato in salvo, prima grazie al guerriero nero e poi grazie al suo signore, ma Cicno non poteva averne la certezza, non sapeva come avessero lavorato le piante di Persefone, non sapeva con sicurezza se il suo padrone gli avesse detto il vero.
 
Mi fido di lui, so che mi porterà alla gloria, ma non so nulla, è un salto nel vuoto.
 
Oh, che ironia del destino.
Ugualmente si ritrovò a sorridere gentile all’altro semidio.
«Certamente. Tu non puoi saperlo, ma quando ti ho trovato ero diretto verso il traguardo, mi sono fermato a prestarti soccorso anche per questo motivo, perché ero tranquillo d’aver già superato la mia prova.» fece un lieve cenno con il capo. «Ma ti ringrazio per l’interesse e per la premura nel volermi aiutare.»
Cade gli regalò un sorriso a denti scoperti, così diverso da tutti quelli che Cicno cercava di fare, malgrado, di tanto in tanto, qualche bel ghigno predatorio se lo fosse fatto scappare, e annuì con vigore.
«Certo! Tu mi hai salvato la pelle, questo è il minimo, no? Se non fosse stato per te magari non mi sarei mai svegliato, magari mi sarei dissolto nelle Praterie!» disse melodrammatico, portandosi una mano al torace vuoto.
Cicno non poté evitare di alzare gli occhi al cielo, leggermente, ma giusto leggermente, divertito da quella stupida scenetta. Non che l’avrebbe mai ammesso neanche a sé stesso.
«Non ci si può dissolvere letteralmente nelle Praterie degli Asfodeli. L’unica cosa che può divenire sfocata e labile è la nostra stessa essenza, la nostra persona.»
«Ma siamo solo questo ormai! Null’altro che la nostra anima, quindi se si dissolve lei-»
«Non si “dissolve” l’anima, ma la tua personalità. Si diventa una nube di nebbia, ci si mescola alla foschia ma si rimane comunque sé stessi. Si diventa solo un guscio vuoto. Non trovi sia poetico? Il nostro vero guscio, il nostro corpo, è scomparso da anni e ormai ci rimane solo quello che vi era dentro, l’anima. Ma coloro che sono stati così mediocri nella vita da non meritare né pace né tormento, vedono quella loro stessa anima divenire prigione di un essenza che non esiste più. Si perdono i ricordi, si perde sé stessi. Un destino tra i più terribili, una pena tra le più crudeli.»
 
Cicno ricominciò a camminare, gli occhi chiari a cercare i fuochi fatui che danzavano lievi sul mare nero e luccicante.
Perdere sé stessi e ciò che si era vissuto, vedersi strappare persino l’unica cosa che davvero contava nella morte, il ricordo della propria vita passata. Ma cos’era più doloroso? Dimenticare, con il rischio di ricordare qualcosa solo se un’anima viva fosse giunta ad interrogarci, o ricordare sempre, tutto, costantemente e soffrirne?
Una fiammella blu s’accesa d’improvviso al suo fianco, vorticando tra le sue caviglie, salendo gentilmente a smuovere la stoffa del suo gonnellino, riflettendo la propria luce contro lo scintillante metallo dei suoi bracciali.
Cicno osservò i giochi di luce sulla superficie argentata con un sorriso mesto, che gli si congelò sul volto quando, d’improvviso, qualcosa non gli giunse a memoria al suo richiamo.
Ricordava la calca, ricordava il grande Cancello Nero aperto e tutte le amenità del mondo fuoriuscirvi come un vulcano in eruzione. Ricordava le anime urlare, cadere, calpestarsi e spintonarsi. Ricordava una marea di sensazioni, una marea e poi-
 
 
«Tutto bene, giovane?»


 
Cicno batté le palpebre, davanti alle iridi schiarite dalla morte si riflettevano le immagini del suo primo vero incontro con quel Jonas così come il fuoco fatuo si rifletteva sui suoi bracciali.
Rivide il corpo esanime del ragazzino galleggiare a mezz’aria, sentiva le informazioni su di lui pronunciate dalla sua stessa voce, come se le stesse pensando, rivide tutto ma-
 
Non mi ricordo di lui. Non ricordo il suo volto, non ricordo il suo aspetto, la sua voce.
 
Deglutendo con fatica Cicno continuò a camminare cercando di ignorare il lieve tremolio delle sue gambe.
Qualcuno l’aveva legato al giovane tramite i regali dei gemelli della Notte, ma lui non ricordava chi fosse. Aveva perso un ricordo, qualcosa che non era legato alla sua morte ma che forse avrebbe potuto scegliere della sua vita.
 
Lui deve saperlo. Deve per forza.
 
E non mi ha detto nulla.
 
 
*
 
 
Non appena sarebbero riusciti ad incontrare qualcuno che sembrava anche solo lontanamente provenire dal suo secolo, Lea si disse che avrebbe controllato che avessero un orologio e poi chiesto con precisione quanto tempo fosse passato dall’inizio. La concezione dello scorrere dei minuti, delle ore, dei giorni, le era rimasta impressa anche nella morte, così come presupponeva fosse successo a tutti coloro nati in un epoca in cui il tempo dettava ogni azione della loro vita.
Che fossero le campane della chiesa, il grande orologio delle torri, delle piazze, delle stazioni. Che fossero i bei orologi tascabili dei signori o le pendole nelle case più raffinate, Elena aveva sempre sentito il tempo correrle dietro e spingerla a fare di più, a passare alla prossima mansione, a sbrigarsi, a correre da quel paziente, a ritirare quella medicina, a cercare quell’erba dal droghiere. Gli ricordava quando somministrare le pastiglie, quando togliere i ferri sterilizzati dalle grandi tinozze bollenti, quando costringere suo fratello ad uscire dallo studio e mangiare.
Le mancavano quasi anche i trilli striduli delle campanelle durante le lezioni dalle suore.
Ora però non c’era nulla a indicarle quanta sabbia fosse fluita dalla clessidra e sebbene le paressero giorni, settimane quasi, da che era partita dai Campi Elisi, l’esser costantemente vigili, il continuo camminare, parlare, senza neanche potersi fermare un attimo a prender fiato perché-
 
Perché stiamo giocando una corsa contro il tempo per arrivare primi e riprenderci quello che la morte ci ha strappato.
 
Le pareva un giorno e gliene parevano mille. Le sembrava di conoscere Úranus e gli altri da sempre ma, se ci pensava, le veniva spontaneo dirsi che si erano “appena conosciuti”.
Era fastidioso non riuscire a catalogare una situazione del genere, un sentimento confuso e nuovo, ma anche così- comune.
Storse il naso e chiuse per un attimo gli occhi.
Tutti quei suoi ragionamenti non servivano a niente e non l’avrebbero portata da nessuna parte. Ragionare su quanto conoscesse i suoi compagni era inutile anche perché avrebbero potuto dover passar assieme anche cento anni o pochi istanti. Specialmente con quel gigante buono che le camminava di fianco.
Lea guardò di sottecchi Úranus, mordendosi la lingua per non cominciare a sparlare a vanvera solo per distrarlo, perché il silenzio in cui erano caduti la innervosiva come poche cose. Era ovvio che il giovane stesse pensando alla sua sfera, a dove fosse, a cosa gli mancasse.
Lei aveva rivisto il corridoio, la luce della stanza, suo fratello, quando era uscita dalla confortevole sicurezza della sua casa per andare ad aiutare qualcuno, come non le era stato permesso di fare in precedenza.
 
Perché non era affar mio, non era una cosa che mi riguardava. Come sempre, entrambe le volte.
 
Malgrado si fosse detta positiva, malgrado si fosse fatta vedere così tranquilla e quasi allegra dai suoi compagni, Lea stava maturando paura ed ansia ad ogni passo verso il prossimo traguardo, ad ogni figura sfocata che vedeva comparire lungo i confini della sua vista. Si stavano inevitabilmente avvicinando alle zone più popolate, il ché era ovvio segno di quanto la prova di Ermes stesse giungendo al termine.
Con un certo nervosismo si mordicchiò il labbro, fermandosi solo quando, strappata la prima pellicina, avvertì il sapore metallico del sangue in bocca.
Non potevano andare più in là, ad ogni metro macinato le sembrava di essere più vicina alla vita di quanto non lo fosse mai stata. E forse era solo una sensazione immaginaria, qualcosa che le stava rodendo il cervello – che non aveva più per l’amor del cielo! – da quando aveva confessato ai ragazzi della ferita di Cade, o forse era proprio l’assenza del giovane, disperso chissà dove e potenzialmente ferito e moribondo – solo, sta combattendo la sua battaglia da solo – ma si rese conto di non poter procedere oltre.


Dobbiamo essere tutti. Dev’essere tutto a posto.
 
«Dobbiamo provare a trovare il ricordo di Úranus.»


Lo disse ad alta voce, fermandosi di colpo, osservando senza vederla davvero la leggera nuvola di polvere vetrosa che s’era alzata al suo arrestarsi.
Il figlio di Fobetore la guardò crucciato. «Abbiamo ancora della strada da fare, prima di arrivare alla fine di questa prova e all’inizio dell’altra.»
Lea scosse il capo. «Dobbiamo farlo ora. Chiamalo senso femminile o in qualunque modo lo chiamasse la tua gente al tempo, ma so che se proseguiremo oltre non troveremo nulla.»
Úranus continuò a fissarla senza capire il suo improvviso cambio di umore, lo stato d’ansia che percepiva in lei era cresciuto da un momento all’altro ma non vi era stato nessun segno, nessun evento che potesse averlo provocato.
«Ti senti bene?» le domandò quindi chinandosi leggermente verso di lei.
La ragazza fece una smorfia, un sorriso tirato. «Ma sì, non sto male fisicamente solo-»
«Che succede?» Eliza chiuse la distanza tra di loro, posando gentilmente una mano sul braccio dell’altra per farla girare verso di sé. «Ti senti male? Le Praterie stanno avendo effetto anche su di te?»
«Vuol dire che hai fatto qualcosa di sbagliato nella vita. O che di cui dovresti pentirti.» s’intromise Jane. Poi sbuffò. «Non mi sembri il tipo.» sentenziò secca.
Anche se l’aveva detto con un tono decisamente infastidito, Lea apprezzò quella precisazione non richiesta ma ugualmente ed inaspettatamente gentile.
«Dobbiamo cercare il ricordo di Úranus. Adesso.» disse solo.
«Perché? Hai avvertito qualcosa? Lo senti vicino?»
«No, no- non proprio. Può sembrare stupido ma so che dobbiamo trovarlo ora.»
Lea guardò la soldatessa negli occhi decidendo di dire una mezza verità, una parziale menzogna.
Non c’era un motivo specifico, un motivo valido, c’era solo la sua ansia crescente al ricordo di ciò che era successo l’ultima volta che aveva perso qualcuno per non vederlo ritornare subito indietro. Era una cosa sua, personale e del tutto scollegata dagli altri. Forse era un po’ egoista e Jane ed Eliza avrebbero avuto bisogno di altro tempo per parlare, per chiarire le loro capacità ed escogitare un piano, ma Elena non poteva aspettare.
 
Non posso aspettare di nuovo.
 
 
 
Jonas deglutì annuendo piano, Nathan non era proprio il cronista più politicamente corretto del mondo, ma almeno gli stava dando un buon resoconto di quella che sarebbe stata conosciuta alla storia come la Seconda Guerra Mondiale.
Non era poi così sorpreso dell’alleanza con l’Italia, giravano brutte voci da tempo sulle politiche della nazione vicina, ma il Giappone era giunto del tutto inaspettato. Avrebbe dovuto dar retta a suo nonno e prestare più attenzione alla politica estera come gli aveva sempre detto di fare.
La salita al potere, l’invasione degli Stati limitrofi, la blanda difesa francese, la storia del Re d’Inghilterra che non aveva lasciato la sua nazione assieme a tutta la sua famiglia, la fuga dei grandi scienziati in America, le prime deportazioni.
Nathan stava cercando di spiegarli la questione giapponese, con scarsi risultai visto che erano più bestemmie ed insulti quelli che tirava fuori che effettivi fatti, quando la voce di Lea attirò la sua attenzione. Non capì subito cosa avesse detto ma si voltò ugualmente verso di lei.
 
«Che cazzo c’è ora?» chiese Nathan grugnendo.
Jonas scosse la testa. «Ha detto qualcosa, ma non ho capito. Penso si riferisse anche a noi però.»
Videro Elizabeth avvicinarsi agli altri e con un sospiro decisamente infastidito, Nathan lo afferrò per il gomito e lo spinse leggermente verso il gruppo.
«Perché devono sempre rompere il cazzo a ‘sto modo?»
«Magari è importante. Forse ha visto qualcosa.» appena ebbe finito di pronunciare quella frase Jonas si ritrovò a guardarsi attorno con ansia, sperando di scorgere una famigliare testa rossa di cui però, purtroppo, non trovò alcuna traccia.


«Che cazzo ha la rompi palle?!» urlò il soldato.
Se fosse stato abbastanza vicino avrebbe visto il modo in cui Eliza alzò gli occhi al cielo e avrebbe avuto il buon senso di rimanere un passo indietro e non beccarsi il pugno sulla spalla che gli arrivò.
«Riesci a non sembrare sempre costantemente infastidito da ogni cosa come un ronzino a cui si è infilata una spina nel fianco?»
«Wooo! Ronzino a chi? Ti rode il culo anche a te ora?»
Úranus sospirò. «Per favore, manteniamo toni educati.» fece un cenno con il capo a Jonas e per quanto al ragazzino non piacesse molto l’idea, si ritrovò ad infilarsi tra i due militari facendosi spazio a forza e distanziandoli l’uno dall’altro.
Sbuffò. «Lea ha detto qualcosa, ma da lì non l’abbiamo capita. È successo qualcosa di grave?»
«Spero sia più grave del voltafaccia dei musi gialli e del bombardamento a Pearl Harbor.» borbottò il figlio di Ares a mezza bocca.
«Me lo racconterai dopo, in ogni caso è passato ormai, no? Presumo tu non fossi neanche nato all’epoca. Cosa c’è di tanto strano in un bombardamento durante una guerra? Sono morti in molti?» chiese Jonas cercando di placare il biondo. Cosa in cui fallì miseramente.
«Solo perché non ero nato non vuol dire che non sia stata una merda! Quegli stronzi si dicevano nostri amici e poi hanno bombardato una base navale in America, mentre il resto della guerra non ha mai toccato suolo americano! E io sono americano e se penso a quello scempio, anche se non ero nato, mi rode parecchio il culo!»
«Quindi è a te che rode, non ad Eliza.» sogghignò Jane beccandosi un’occhiata quasi implorante da parte di Úranus.
«Sono morti più di duemila uomini!»
«Non vorrei essere cinica ma durante una guerra di solito la gente muore, specie i soldati.» ringhiò la figlia di Nike. «Sicuramente l’esercito americano si è rialzato e ha contrattaccato.»
«Certo che sì! Non gliel’abbiamo fatta passare liscia a quei bastardi.»
«Trovo così affascinante che quando si soffre per la perdita di vite umane si senta il bisogno di riequilibrare il mondo con altra morte.» soffiò perfidamente Jane.
«Cosa fai? Provochi?» la fulminò Nathan.
Lei si strinse nelle spalle. «Oh no, al contrario, approvo. Quando i miei genitori sono morti l’unica cosa che desideravo era uccidere tutti coloro che ne erano responsabili.» disse ostentando un sorriso quasi innocente.
Lea chiuse gli occhi, pregando chiunque la stesse ascoltando di darle la forza per farli smettere.
«Scusate!» sbottò ad alta voce. «Possiamo tornare al punto principale della faccenda?»
«Giusto. Secondo Lea dovremmo cercare ora il mio ricordo.» annuì Úranus.
A quelle parole Nathan si fece immediatamente più attento.
«Perché? Hai avvertito qualcosa? Hai visto qualcuno?» domandò serio.
Lea scosse il capo. «Non chiedermi perché, so solo che dobbiamo cercarlo ora.»
Strinse forte i pugni, sperando che anche lui accettasse la sua piccola ed insufficiente spiegazione, ma evidentemente qualcuno, sull’Olimpo, aveva deciso di ascoltarla, perché Nathan annuì semplicemente e fece un passo indietro, incrociando le braccia al petto.
«Mi hanno insegnato a dar sempre un minimo di credito al sesto-senso semidivino. Anche da parte dei soggetti più improbabili.»
«Ehi! Soggetto improbabile a chi?»
«Ti ha dato ragione, fermiamoci qui e non indaghiamo oltre.» si lamentò Jonas, domandosi se non dovesse spostarsi tra Nathan e Lea ora invece di rimaner fermo a far da spartiacque tra i due soldati.
«Questo significa che tocca a noi, Jane.»
La figlia di Ecate si volse a guardare quella di Nike e storse il naso, osservando la mano tesa verso di lei.

«Spero vivamente che tua madre ci sorrida.»
 
Le prese la mano e la strinse saldamente.
Probabilmente sarebbe stato un altro gran bel disastro.
 
 
*
 

«Comincio a vedere delle forme, sto diventando definitivamente stupido o pensi che siano le anime in gara?»
Cade si alzò sulla punta dei piedi, per poi saltellare piano sino ad arrivare sempre più in alto.
Cicno volse il capo verso il suo compagno, tirandosi indietro di scatto quando si ritrovò un ginocchio piegato a pochi centimetri dal suo bel naso.
 
Zeus! Ci manca solo che mi rompa qualcosa!
 
«Potresti smettere di fare la lepre? Sono le altre anime in gara, sì, siamo sempre più vicini alla meta.» si sforzò comunque di dire con tono pacato.
Cade sorrise. «Preferisco “grifone” se non ti dispiace.»
Il ghignetto dell’altro lo fece sorridere ancora di più. «Quando sfoggerai due magnifiche ali piumate ti chiamerò così, fino ad allora, mi spiace ma i grifoni erano esseri conosciuti nella mia patria, non puoi ingannare proprio me.» gli fece l’occhiolino e Cade scoppiò definitivamente a ridere.
Dio santissimo, l’angioletto avrebbe fatto vedere i sorci verdi sia alla ragazza delle praterie che al biondastro. Beh, forse con lui ci sarebbe anche potuto andare d’accordo in effetti.
«Senti, ma ci puoi mica parlare pure con i fuochi fatui? Possono dirti se hanno visto dei semidei simili ai miei amici o qualcosa del genere?»
«E secondo te come dovremmo sapere, io ed i fuchi fatui, che aspetto hanno i tuoi amici?» chiese l’altro alzando un sopracciglio.
Cade arricciò le labbra. «Punto per te. Un figlio di Ares, una di Nike, di Ecate, due di cui non ne ho la più pallida idea e una sorella tua.» fece allora l’elenco, lanciandosi poi in una dettagliata descrizione di ognuno di loro.
Cicno chiuse gli occhi, pregando l’unico dio a cui dava un minimo di credito ancora – Thanatos – di fargli la grazia di aprire una voragine sotto i piedi di quella sottospecie di satiro senza corna che aveva di fianco.
Quando nulla si mosse, il giovane imprecò.
 
Magnanimo come sempre.
 
«I fuochi fatui non possono parlare. Possono riportare l’eco delle voci degli esseri viventi, possono indicare oggetti e luoghi per comunicare in questo modo con gli altri, ma non hanno voce propria.» spiegò paziente.
«Bello schifo, potevi dirmelo prima che te li descrivessi uno per uno.» borbottò l’altro imbronciato.
«Ho notato che lasciarti parlare è il modo migliore per farti rilassare. Muovere la lingua anche senza apparente senso pare sia in grado di farti calmare e non lasciarti sprofondare in pensieri oscuri.» replicò sorridendo angelico.
Malgrado suonasse a metà come la verità e a metà come un insulto bello e buono, il rosso non poté far altro che ringraziarlo. Anche solo per vedere se la cosa l’avrebbe infastidito.
«Wow, grazie. Tu sì che sei magnanimo.»
«È una dote naturale.» rispose senza scomporsi.
«Come la modestia.»
«La modestia è per i giovani insicuri e per i savi che vogliono incoraggiare quei giovani a far sempre di meglio. Io non sono nessuno dei due.» ghignò.
Fingendo di asciugarsi le lacrime Cade guardò il suo compagno commosso. «Dio, quanto faremo incazzare il biondastro tutti e due assieme. Se poi riusciamo a coinvolgere anche la ragazza delle praterie potremmo addirittura portarlo al suicidio.»
«In tal caso, sarei pronto a dargli qualche consiglio, ma trovo la cosa molto improbabile.»
«Perché?» domandò quello curioso.
Cicno fece un gesto vago con la mano. «Figlio di Ares, giusto? Troppo orgogliosi per suicidarsi, il loro divino padre non perdonerebbe loro un atto del genere. A meno che non sia una morte sacrificale o per espiare vergogna e colpe. Se un figlio di Ares viene sconfitto in battaglia e l’onta è così grande da non poter esser redenta con una seconda vittoria, allora non resta che la morte per purificare il proprio spirito ed il proprio onore. Si libera il divino Ares e tutti i proprio compagni dalla vergogna di aver un tale fallimento al proprio fianco.»
Cade batté le palpebre incredulo. «Spero sia solo un- no cazzo, sei serio? Ares è davvero così cattivo?»
«Non la chiamerei cattiveria. È spietato, è impietoso. Questo.»
L’irlandese continuò a guardarlo allucinato, spostando poi lo sguardo sulle figure fumose che diventavano sempre più concrete, prendendo definizione, linee, colori.
 
Viola e arancione. Ce ne sono davvero tanti…
 
Cicno aveva notato la stessa cosa, c’erano una quantità sorprendente di giovani dalle vesti colorate e sapeva per certo, grazie a Michael, che quelle stoffe aranciate erano la divisa ufficiale del Campo Mezzosangue. Mentre quelle viola…
 
Ero morto già da tempo quando è stato il momento del loro avvento.


Il giovane espirò pesantemente stringendo i denti: era stato difficile per lui accettare che alla caduta del suo popolo gli Dei si erano votati ad un altro impero, non voleva certo mettersi a spiegare la faccenda anche a Cade. Non che il ragazzo fosse stupido, non completamente per lo meno, ma la traslazione di un’entità mistica sulla base delle preghiere e delle invocazione loro rivolte da popoli diversi iniziata a diventare un argomento fin troppo delicato per loro. Specie quando stava cercando così disperatamente i loro futuri compagni.
 
Che gioia.
 
Cicno cercò i fuochi fatui, sforzandosi di individuarli tra l’erba nera e rendendosi conto di quanto questi si stessero sempre più affievolendo. Significava che erano vicini al loro obiettivo, alla strada per la prossima prova e che con tutta probabilità avrebbero trovato lì gli altri semidei. Dovevano sbrigarsi, accelerare il passo e giungere a destinazione prima che quegli altri sei stolti facessero qualcosa di stupido o potenzialmente pericoloso.
 
Come utilizzare i poteri del figlio di Fobetore, o chiedere ad una figlia di Ecate che non sa neanche dove sia il tempio di sua madre di fare un incantesimo di ricerca.
Ringraziando gli Dei, il ragazzino non può far alcun danno.

 
Se avesse saputo quanto si sbagliava a pensare una cosa del genere, Cicno si sarebbe probabilmente colpito da solo, ma nel suo odio incondizionato per tutto il genere umano non si era mai reso conto di quanta fiducia mal riposa avesse per una cosa sciocca come il buon senso comune.
 
«Sono semidei anche loro, se te lo stai chiedendo.» attirò l’attenzione di Cade, esortandolo a seguirlo lungo il sentiero dei fuochi fatui quasi estinti
«Quelli arancioni lo so, Nathan mi ha detto che quando arrivi al Campo ti danno una maglia come quella, con il loro simbolo sopra. Sono quelli viola che non so da dove arrivino.» disse pensieroso.
«Forse in un’altra epoca la divisa era di quel colore. Il porpora è un tono regale, ufficiale.»
Non troppo convinto il rosso fece una smorfia. «I vestiti mi paiono gli stessi però… ce ne sono anche di molto moderni, simili a quelli del mio amico.»
Alzando gli occhi al cielo in modo discreto, l’altro imprecò mentalmente. «Forse allora, le- come le hai chiamate?»
«Maglie. Io le chiamavo camice, ma quelle ora sono solo quelle con i bottoni davanti, se sono tutte intere si chiamano maglie o magliette.»
«Sì, come dici tu. Forse le maglie arancioni sono la divisa classica, quella comune per tutti e quelle violacee sono per qualche ufficiale in grado.» provò a blandirlo.
«Mh… no, non ci sono gli ufficiali o simili, o Nathan me lo avrebbe detto e-»
«Allora chiederemo a questo tuo caro compagno che nomini così spesso.» tagliò corto, voltandosi poi per sorridergli. «Non appena lo incontreremo.»
«Ai tuoi tempi-»
«Come ti ho già spiegato, ai miei tempi i campi d’addestramento erano molteplici. Io non ne ho mai frequentato uno ma se così fosse stato, avrei indossato vesti dei colori dello stendardo di mio padre, non colori comuni a tutti.»
Quella spiegazione parve convincere Cade che finalmente annuì senza replicare.
Questo finché non realizzò cosa avesse detto precedentemente il compagno.
 
Sgranando gli occhi indignato si fece vicino all’altro, entrando senza il minimo rispetto nel suo spazio personale e alzandosi anche sulle punte per poter essere all’altezza del suo volto.
«Ehi! Io non lo nomino così spesso-»
«Non c’è nulla di cui vergognarsi, sai? Eros non guarda in volto nessuno.»
«Eros? Chi è Eros.»
«Il sommo dio dell’amore.» replicò Cicno indignandosi a sua volta. Neanche questo sapeva?
Cade divenne prima bianco come il morto che era e poi rosso come i suoi capelli.
«Amore? AMORE?! Tu credi seriamente che io- che io-?»
«Lo nomini in continuazione.»
«Al massimo potresti pensare che siamo amiconi!»
«Nella mia epoca, se due uomini erano molto vicini potevano esser tanto compagni d’arme quanto amanti. O entrambe le cose. Per di più, ho detto “compagno”, non ho specificato di quale natura.»
Cade boccheggiò allucinato, si sentiva decisamente insultato. «Senti un po’, mettiamo in chiaro una cosa: potrò non essere la persona più intelligente del mondo, ma non sono neanche un martire, quindi se proprio sarei dovuto essere uno di quella fazione, l’ultima persona che avrei potuto scegliere al mondo, dico, al mondo!, sarebbe di certo stato-»
 
Le sue ultime parole si confusero con l’esplosione che s’avvertì per tutta la zona circostante, facendo saltare sul posto parecchie anime, portato tutti in poco tempo a voltarsi verso la loro sinistra, dove una sottile linea di fumo si alzava pigra dalle steppe nere.
 
«MA PORCO D-!»
 
 
«… Nathan?»
 
 
*
 
 
Jonas si era reso conto che ogni volta che le cose non andavano propriamente bene erano sempre cominciate in modo, beh, semplice.
Prendere le medaglie? Semplice, mandiamo chi è più simpatico ai cani e guarda caso ha anche paura del fuoco.
Finito con lui e Nathan che litigano e il soldato che cade come una pera cotta.
Trovare le sfere dei ricordi di Ermes? Semplice, dividiamoci.
Si perdono prima Lea, poi si perdono lui e Lea e poi perdono Cade.
Individuiamo Cade? Semplice, usiamo i poteri congiunti di uno che è figlio dei dio degli incubi e un altro che non sa una benamata ceppa di suo padre e non ha neanche la benché minima idea di come usare i suoi suddetti poteri.
Finisce in tragedia con ricordi dolorosi e cadaveri sanguinolenti.
Dobbiamo trovare l’ultimo ricordo perduto? Semplice! Uniamo i poteri magici di una strega che non ha mai fatto un dannato incantesimo ben riuscito in vita (e in morte) sua e i poteri di una figlia della dea della vittoria a cui, apparentemente, i falliti e gli sconfitti non piacciono per niente, e facciamo usare questi poteri su una ragazza che, sostanzialmente, fallisce sempre.
Jonas sospirò. Che cazzo aveva fatto lui di male nella vita?
Ah. No, niente, domanda superflua.
Aveva fatto davvero così tanto schifo durante la sua vita?
Questa sembrava già una domanda più sensata.


Aveva osservato con malcelata ansia Jane posizionarsi davanti ad Eliza, porgendole le mani sporche e screpolata. La figlia di Nike le aveva afferrante senza pensarci due volte, lo sguardo serio e deciso, sicuro. Sicuro come non era nessuno lì in mezzo.
Non come lui che tirava e torceva il suo bracciale senza posa, come Úranus che si stava palesemente strappando tutte le pellicine delle labbra sotto quella barba incolta, come Lea che sembrava essere uscita dalla grazia del Signore tutto d’improvviso o come Nathan che guardava le due semidee come si guarda un incidente che sai che sta per avvenire, che potresti fermare ma che rimani comunque fermo a guardare. Forse perché sei sadico, forse perché non hai altra scelta. Trattandosi del soldato, Jonas optava per un mix dei due.
 
«Concentrati sul ricordo di Úranus, visualizza la sfera ma non immaginarla di un colore definito.» la istruì Nathan, le braccia conserte strette al petto come per impedirsi di far alcun ché.
«Finirà malissimo.» si ritrovò a sibilare Jonas per buona misura.
L’occhiataccia di Eliza gli fece distogliere lo sguardo. Lui non lo voleva vedere l’incidente.
«Come faccio a visualizzare la sfera e non immaginarmela di un colore definito? Devo vederla nera? Marrone? Grigia?» chiese sarcastica Jane voltandosi verso il figlio di Ares.
«Guarda me.» la richiamò Eliza. «Devi solo immaginare la sfera, puoi immaginarla scura, come sembravano tutte da lontano.»
«E che cazzo ho detto io?»
«Colore non definito.» borbottò Lea.
«E non è la stessa cosa?»
«Beh, no. Un colore indefinito non è per forza scu-»
«Fai respiri profondi. Non li ascoltare.» continuò la mora. L’occhia scettica di Jane valse più di mille parole.


Jonas fece una smorfia, girando definitivamente le spalle alla piccola compagnia, cercando di concentrarsi su altro, magari su tutte quelle anime sempre più chiare che stavano iniziando a comparire da ogni dove. C’erano molti ragazzi con la maglietta arancione, quella del Campo Mezzosangue, ma ce ne erano anche parecchi con una strana maglia viola. Che diamine era?
Avrebbe voluto voltarsi verso Nathan e chiederglielo, ma così sarebbe stato costretto a guardare di nuovo l’imminente incidente che stava per avverarsi e non gli andava proprio di rivedere qualcosa che non gli apparteneva.
 
«Incanala la magia. È dentro di te, nel tuo sangue. Sei una figlia di Ecate, il dono di tua madre è ciò che ti distingue da tutti gli altri.» mormorò a bassa voce Úranus.
Forse lui sarebbe dovuto star zitto più di tutti gli altri, visto come aveva ritrovato il ricordo di Jane, ma di nuovo, Jonas non aveva intenzione di girarsi e rischiare di prendersi una qualunque onda magica di rinculo dritta in pieno petto.
Rimase stoicamente voltato anche quando un leggero bagliore verdastro si rifletté sugli steli bassi e sui frammenti vetrosi e Lea si lasciò scappare un verso sorpreso.
 
 
Jane teneva gli occhi fissi in quelli di Elizabeth, il verde smeraldo le si rifletteva nelle iridi sbiadite, ora animate da quello scintillio di magia che sua madre le aveva concesso. Così poco eppure così evidente ogni qual volta provasse a fare anche il più piccolo incantesimo.
Davanti a lei non vi era davvero la soldatessa però, ma solo la Foschia densa delle Praterie, il vento che soffiava forte sfocando i contorni di ogni figura che vagava per quelle valli.
Doveva cercare una sfera ma, sorprendentemente, ce ne erano ancora moltissime in gara e perfettamente intatte. Come poteva trovare quella giusta? Non aveva neanche la minima connessione con Úranus, per quanto il potere di Nike potesse giovarle non l’avrebbe certo aiutata ad individuare ciò che non conosceva, i suoi poteri non funzionavano così. Di certo, non come quelli del gigante rosso, che l’avevano trovata e l’avevano fatto nel modo più doloroso possibile.
Una nota di acredine le si accese in petto, se solo avesse saputo come fare avrebbe servito pan per focaccia a quel figli prediletto che andava predicando il vero verbo degli Dei come fosse un prete.
Ma l’invida, in quel momento, non le sarebbe servita a molto.
Con uno sforzo di volontà incredibile, che sorprese persino lei stessa, Jane cercò di riportare alla mente tutto ciò che il giovane le aveva raccontato. Probabilmente il suo ricordo sarebbe stato legato a sua madre, magari a suo fratello o- no, il fratello no, non l’aveva visto nascere. Ma Jane non aveva la più pallida idea di come fosse la madre di Úranus, del suo aspetto, la sua voce.


Cercare qualcosa di famigliare che non ho mai visto, mai saputo.
 
Come potevano credere che ci sarebbe riuscita?
 
 
 
“Oh, ti conviene non pensarla così, coccinella, a Nike non piace chi si piange addosso, non le piacciono i deboli.”
 
 
 
A Jane parve quasi di aprire di scatto gli occhi, malgrado non avesse battuto ciglio per tutto il tempo.
Nel fumoso e sfocato mondo di Foschia un uomo con un lungo cappotto nero ed un legno bruciante tra le labbra le sorrideva. Un sorriso che Jane poteva solo sapere ma non vedere, il volto dell’uomo non c’era, soffiato via dal vento come ogni altro particolare. Eppure, lei sapeva chi fosse.
 
L’uomo del biglietto.
 
 
 
“Corretto, Ladybyg. Lieto di vederti qui, sei riuscita a farne di strada. Malgrado ciò, per quanto brava tu possa esser stata e per quanto tu sia riuscita a trovare abbastanza velocemente i tuoi compagni, non sei diversa dagli altri semidei. Anzi, sei proprio uguale a tutti gli altri.”
 
 
 
Jane aggrottò le sopracciglia. La stava insultando?
L’uomo rise.
 
 
 
“Lungi da me! Ma vedi, se vivi abbastanza a lungo quanto me, cosa che non è riuscita a nessuno di voi apparentemente, riesci a vedere i collegamenti anche dov’è impossibile vederli.”
 
 
 
Cosa mi sono persa?
 
Domandò allora crucciata.
 
 
 
“Tu? Nulla. I semidei in generale? Molte cose. Troppe cose. Ma ciò che più vi accomuna è che, malgrado i poteri ricevuti dal vostro retaggio divino, continuate ad annaspare verso ciò che non avete. E questo, se chiedi a me, è ciò che vi rende più simili ai vostri genitori: volete sempre più di quanto già non abbiate.”
 
 
 
L’uomo fece qualche passo verso di lei, arrivando ad affiancarsi alla figura sfocata che sarebbe dovuta essere Eliza. Inconsciamente Jane strinse la presa sulle sue mani, in cerca di aiuto, di supporto. Non si sentiva in pericolo, ma sapeva che quell’uomo era pericoloso, lo sentiva dentro, glielo diceva-
 
Il mio sangue divino.
 
 
 
“Ottimo, stai imparando ad ascoltarlo quindi.”
 
 
Un ghigno invisibile si aprì sul suo volto, come uno squarcio su di un telo, lungo e frastagliato.
 
 
 
“Non cercare la sfera. Non cercare il ricordo di qualcosa che neanche conosci. Cerca qualcosa, qualcuno, che conosci.”
 
 
 
Le diede un buffetto sulla testa e poi le volse le spalle, incamminandosi verso il resto di quel mondo in movimento che li circondava.
 
 
 
“E se ti può interessare: non stai per niente simpatica a Nike e non stai neanche facendo nessun incantesimo. Ma congratulazione, sei riuscita ad accedere al mondo di Foschia, anche se ti ci è voluto un invito. È comunque un passo avanti.”
 
 
 
Jane avrebbe giurato di sentir sghignazzare l’uomo oltre il rombo del vento e l’idea che qualcuno si prendesse così palesemente gioco di lei la innervosì esattamente come facevano sempre le parole di Nathan.
Serrando la presa sulle mani di Eliza per un attimo, Jane la lasciò d’improvviso, girandosi verso l’uomo, pronta ad urlargli contro anche. Ma non appena ebbe lasciato le mani dell’altra, una scintilla d’argento schizzò tra le loro dita, un ringhio basso e infastidito. Nike aveva prestato orecchio alle preghiere di sua figlia, ma l’impertinenza di Jane, completamente dimentica del suo obiettivo, della persona che la stava aiutando, non le piacque affatto.
Una scossa elettrica seguì la scintilla e con uno scoppio simile a quello di un pentolone esploso, Jane si ritrovò spinta via dal mondo di Foschia, dritta in quello reale dell’aldilà.
 

Jonas tenne la testa bassa, fissando incantato i giochi di luce sull’erba scura, quando un improvviso bagliore argenteo, seguito da quello che gli parve lo schiocco di un fucile, lo fece saltare sul posto.
Non ebbe il tempo di votarsi e controllare cosa fosse successo, qualcosa lo colpì in pieno sulla schiena, mandandolo lungo per terra come ormai pareva succedere spesso.
 
«Ma che ca-»
Il grido di Lea superò la sua imprecazione ma non quella di Nathan, un peso non indifferente lo schiacciava al suolo e gli ci volle l’aiuto della ragazza per togliergli di dosso una stordita e piuttosto incazzata Jane.
«Quell’uomo…»
«Mio dio! State bene? Cos’è successo? Eliza?» Lea si inginocchiò vicino a loro, cercando poi con lo sguardo l’altra giovane, seduta tra Nathan ed Úranus.
«Non so cosa sia successo di preciso. Stava andando tutto bene, poi Jane ha iniziato a stringermi di più le mani e dopo poco le ha lasciate di scatto.» spiegò l’altra.
Úranus le guardò preoccupata. «La divina Nike non deve aver gradito.»
«Non l’hai ringraziata, vero? Cazzo! Dovevo dirti di ringraziarla!» imprecò Nathan.
«Mi state dicendo che è stata Nike a farle saltare via?» domandò Jonas senza provare neanche ad alzarsi, steso a pancia in giù tra l’erba nera. Sputacchiò un po’ di polvere e cercò di togliersi qualche frammento di vetro di dosso: almeno non sembrava vetro vero, si sgretolava non appena lo si toccava.
«Sì, temo sia stata mia madre. Non ha gradito l’interruzione del contatto.»
«Ma hai trovato il ricordo di Úranus, no? È per questo che hai mollato la presa.» chiese speranzosa Lea.
Jane fece un verso di stizza. «Ci sarei anche riuscita, ma è apparso quell’uomo.» sputò con astio. «Sono sicura che è lo stesso che mi ha dato il biglietto qui nelle Praterie e scommetterei che è lo stesso che ha visto Eliza.»
«Ti ha interrotto?»  domandò lei sorpresa. «Ma fino ad ora ci ha aiutati…non ha senso.»
«Se è una divinità ha senso tutto. Fanno solo il cazzo che gli pare.» ringhiò Nathan senza grazia. «Che ha detto?»
«Che non sto simpatica a Nike, che noi semidei somigliamo moltissimo agli Dei. Poi mi ha fatto notare gentilmente che lui queste cose le poteva ben dire perché a differenza nostra è vissuto abbastanza per impararle e poi mi ha detto che non solo sono antipatica a tua madre – disse puntando il dito contro Eliza – ma non ho neanche fatto nessun incantesimo. Apparentemente sono solo finita nel “mondo di foschia” e solo perché mi ci hanno invitata!» concluse con tanta di quella rabbia che Jonas storse il naso e lasciò ricadere il capo a terra.
Non avevano scoperto nulla.
«Oh.» disse poi d’improvviso Jane. «E che non dovevo cercare qualcosa che non conoscevo ma qualcuno che conoscevo.»
«In sostanza,» borbottò Jonas con voce mezza soffocata dalle sue stesse braccia. «ti ha detto “lascia stare il ricordo di Úranus e pensa a Cade?”, questo?»
«Che significa? Perché non dovremmo cercare il ricordo?»
«Ci sta dicendo di mollare?»
«E secondo voi dovremmo ascoltarlo?»
«Ci ha aiutati fino ad ora, perché vuole che lasciamo indietro un compagno?»
«Sempre che sia stato lui, ad aiutarci.»
«Ti ho detto di sì.»
«L’hai visto in faccia?»
«No, ma so che era lui.»
«Allora perché avrebbe voluto-»
 
«Che sia-» Úranus mormorò appena, ma subito tutti gli altri smisero di parlare per guardarlo curiosi. Il giovane deglutì. «Se è vero che quest’uomo ci ha aiutato per tutto il tempo, che ci ha sospinti gli uni verso gli altri, ha salvato le nostre anime in momento delicato. Se è vero che vuole la nostra vittoria, forse l’unica spiegazione è che cercare il mio ricordo sia più difficile del trovare Cade.»
Lea si sedette meglio in terra, spolverandosi le mani sui pantaloni. «Credi che ci stia dicendo di trovare prima la cosa più facile?»
«Cade è una persona, è sicuramente più facile da trovare di un’anonima sfera nera.»
«Peccato che ci siano quasi tutti i morti del mondo in gara.» sbuffò Jane.
«Cos’altro potrebbe essere allora?» la sfidò il ragazzino guardandola da basso.
«Magari.» intervenne Eliza prima che i due potessero iniziare a bisticciare. «Magari ci indirizza alla ricerca di Cade perché con lui potremmo trovare più facilmente il ricordo di Úranus. Ha trovato il suo coltellino in un labirinto, ricordi la storia dei fili?» domandò rivolta a Nathan.
Il soldato annuì. «Non so se ci fosse riuscito solo perché il dannato coltellino era suo o-»
«Ma certo!»
Jonas saltò su seduto, pulendosi la faccia con la manica e incrociando le gambe si strinse le caviglie per un attimo, abbassando lo sguardo sul suo bacino. Appesi al passante dei pantaloni e alla cinta, poggiati sul fianco, c’erano i guanti metallici di Cade, quelli che l’irlandese gli aveva dato nel labirinto per aiutarlo a difendersi da solo.
«Ha ritrovato il coltello e i guanti.» continuò a voce più bassa. «Potrebbe ritrovarli di nuovo… forse ti ha detto di cercare lui perché anche Cade ci sta cercando. Ci dobbiamo andare incontro. O forse dobbiamo rimanere fermi, se no lo manchiamo. Potrebbe essere più vicino di quanto non pensiamo.»
Gli altri lo guardarono chi più, chi meno, con apprensione. Era abbastanza ovvio che Jonas continuasse a sentirsi in colpa, l’idea di allontanarsi da lui mentre li stava cercando, di girarsi attorno senza mai incontrarsi doveva essere una paura più che concreta per il ragazzo. Ma la verità era che non potevano rimanere fermi in eterno, non potevano aspettare nel caso in cui Cade li stesse cercando. La cosa più sensata da pensare era che il giovane si stesse dirigendo all’inizio della prossima gara e che l’avrebbero ritrovato al punto di partenza.
 
Se non si è perso nelle Praterie. Se non ha perso sé stesso.
 
Per quanto gli costasse ammetterlo, Nathan aveva avuto una spiacevole sensazione al solo pensiero. Non che gli mancasse quella testa di cazzo o altro, ma erano diventati compagni di squadra, in qualche modo. Erano un gruppo da missione, erano commilitoni nel modo più lontano e vicino possibile a quello a cui Nathan era abituato.
Non voleva lasciare un compagno indietro, anche se poi sarebbe diventato suo nemico. Non voleva perdere nessuno ma non potevano neanche perdere tempo. E non potevano seguire le indicazioni di un figuro sconosciuto che probabilmente era apparso a tutti loro in momenti diversi, aiutandoli e spingendoli dove voleva vederli arrivare.
 
Potrebbe essere una trappola.
 
E la storia dei guantoni non poteva reggere. Cade aveva detto di vedere un filo, sì, questo era vero, ma si trovavano in un ambiente che per quanto intricato rimaneva circoscritto. Le Praterie erano troppo ampie e loro aveva percorso troppe strade diverse, la traccia, in qualunque modo Cade riuscisse a fiutarla, doveva essere troppo blanda.
 
«Avviciniamoci un altro po’ al traguardo.» sentì dire d’improvviso da Eliza. «Riprendiamo fiato, avviciniamoci di qualche decina di metri, non saranno questi a negarci la possibilità di ritrovare Cade. Lì Jane potrà provare a seguire il consiglio dell’uomo in nero- Era vestito di nero anche l’uomo che hai visto tu, giusto?»
Jane annuì solo, spolverandosi la gonna rovinata e alzandosi in piedi. «Ma senza il tuo aiuto. Se sto davvero antipatica a tua madre dubito che vorrà aiutarmi di nuovo.» concluse con una smorfia.
«Ma se-»
«Ci troverà anche lì. Se fosse vero che ci sta cercando tramite i suoi guanti, ti troverà ovunque andrai.» lo rassicurò Lea forzando un sorriso. «Fidati un po’ di quella testa rossa.»
«E dai un minimo di credito anche a me, ragazzino. Nessuno mi ha insegnato nulla, ma non sono stupida. So imparare dai miei errori.» lo gelò con uno sguardo Jane, quasi l’avesse insultata apertamente.
«Su, alziamoci.» Propose la figlia di Apollo porgendogli la mano. «Qualche metro ancora, il tempo per Jane di riprendersi e si riprova.»
 
Úranus sorrise mesto alla scena davanti ai suoi occhi, quando Nathan gli assestò una pacca sulla spalla e senza guardarlo in faccia gli fece cenno di muoversi.
«Troveremo anche il tuo ricordo.» disse solo.
L’altro annuì. «Se l’uomo in nero è nostro alleato ci sta sicuramente consigliando di trovare prima Cade perché lui potrà esserci d’aiuto.»
«Di certo, con i salti che fa, potrebbe vedere ben lontano.» concordò il biondo.
«Dobbiamo solo trovarlo.»
 
 *
 
 
«Ti dico che era Nathan.»
«Riconosci la sua voce anche così da lontano e ti stupisce il fatto che io possa credere ci sia la benedizione di Eros su di voi? Cosa avete voi persone dei nuovi tempi contro l’amore?» domandò ironico Cicno.
Cade storse il naso. «A me piacciono le donne.» sentenziò sicuro.
«Dal modo in cui cercavi di scrutare sotto le mie vesti non si direbbe, ma ho conosciuto molte genti come te, certe di qualcosa di cui non si può aver certezza.» sorrise divertito dall’imbarazzo che colorava le guance di Cade. «L’amore è labile, come la vittori. Effimero come la gloria, volubile come la fortuna. Se ne hai trovato ti consiglio di non gettarlo via e di non perderlo di vista.»
«Molto poetico, dico davvero, ma a me piacciono i seni. Due bei seni grossi e alti. Suona meglio?»
«Pare molto sciocco e volgare. Sono solo mammelle, le hai anche tu.»
«E che cazzo, ma devi chiamare proprio così? Le mucche hanno le mammelle. E io di certo non le ho.» disse incrociando le braccia.
«Mi stai forse confessando di avere un petto privo di capezzoli?» domandò alzando un sopracciglio.
Cade lo guardò storto. «Ma che hai tu con il corpo umano? Sei fissato?»
«Non particolarmente. Trovo sia solo una delle-»
«Opere più belle degli dèi. L’hai già detto. Neanche troppo tempo fa.» sospirò, poi tornò a sorridere, maligno. «Non dire queste cose davanti ad Eliza o ti picchia. Ma dille davanti a Jonas, diventerà rosso come un pomodoro.»
Fu il turno di Cicno di sospirare. «Sei piuttosto infantile, senza offesa.»
«Me lo dice spesso anche Elza, ma tra poco lo potrai sentire direttamente da lei! Sei sicuro che è questa la direzione giusta?» domandò cambiando discorso.
«Sei tu il segugio, da dove proviene l’aria che odora di bruciato?» ritorse cercando di nascondere il suo fastidio per i continui e repentini cambi d’argomento. Ci riuscì piuttosto bene apparentemente.
Cade sorrise a trentadue denti ed indicò dritto davanti a loro.
«Allora lì sia.» sorrise finto il biondo.
L’altro sembrò però non farci caso, rimanendo con lo sguardo puntato verso la direzione appena indicata, pensieroso.
Uno sguardo che, a voler essere sinceri, Cicno non apprezzava troppo.
Era lo sguardo di qualcuno che stava per avere una pessima idea e lui non voleva rientrarci.
 
Anche se non avrò molta scelta, purtroppo.
 
«Senti…» iniziò infatti Cade.
Cicno strinse i denti. «Dimmi pure.» disse mantenendo il tono più neutro possibile.
«Ma… tu hai problemi con le altezze?»
Al figlio d’Apollo venne da ridere. Se non fosse stato del tutto fuori posto e assolutamente inquietante, e se non ci fosse stata la seria possibilità che quella risata si trasformasse da divertita ad isterica, concludendosi con lui che lanciava i suoi amati coltelli a quel bastardo degli dèi, si sarebbe lasciato andare.
Aveva problemi con le altezze lui? No, per carità divina, altrimenti non avrebbe deciso di buttarsi da una rupe. Altrimenti non sarebbe sopravvissuto a lungo in forma di cigno.
Serrò i denti digrignandoli silenziosamente.
Optò per una versione più leggera di quella originale.


«Fui tramutato in un cigno, ricordi? I cigni volano.» sorrise in modo gentile, null’altro che un lieve incresparsi di labbra. Avrebbe voluto spaccargli la faccia a colpi di verga.
«E con il contatto fisico come te la cavi?» continuò l’altro.
 
“Me la cavo” che probabilmente ne ho conosciuto molto più di quanto non abbia fatto tu.
Che sia stato di piacere o di tormento.

 
«Credevo non fossi di tuo gradimento.» lo provocò blandamente.
Cade rise, l’espressione un po’ più rilassata. «Non prenderla male, mi piaci comunque, ma non in senso romantico. Dovresti avere un paio di cose in più ed un paio di meno, se capisci cosa intendo.» ammiccò divertito.
«Capisco che non te ne intendi di matematica. Tre cose in più e tre in meno.» lo corresse senza vero interesse.
Cade parve rifletterci, contando sulle dita prima di annuire convinto. Sorrise poi e senza preavviso, gli strinse un braccio attorno alla vita.
Cicno si voltò di scatto poggiando le mani sulle sue spalle. Lo superava quasi di tutta la testa.
«Cosa stai-»
«Reggiti forte angioletto, ti sto per portare a fare qualche salto!»
Il biondo non ebbe il tempo di rispondere, Cade fletté le game e proprio come aveva fatto giorni addietro con Jonas, si librò in aria portandosi dietro un compagno sorprendentemente più collaborativo di tutti gli altri. Cicno poté solo stringergli le braccia al collo e affidarsi a lui.
Lo odiava. Odiava dover mettere la sua vita nelle mani di altri, ma almeno aveva la consolazione del sapere che, in caso di caduta, lui sarebbe stato l’unico in grado di riprendersi. E la morte di Cade sarebbe stata uno spiacevole inconveniente.
 
Cade passò anche l’altro braccio attorno alla vita sottile di Cicno, rendendosi conto di quanto fosse magro malgrado sembrasse una di quelle statue antiche che si vedevano sui giornali.
Si stupì anche di quanto fosse morbida la sua pelle, di quanto fosse pulita, profumata. Lui era un anima degli Elisi e non profumava in quel modo.
Chi diamine l’aveva rimesso a nuovo?
Una strana sensazione gli scivolò sotto pelle attirando la sua attenzione. C’era qualcosa di liscio e duro che premeva contro il suo collo, proprio all’altezza dei polsi di Cicno. Sembrava quasi- metallico?
Aprì bocca, pronto a chiedere cosa fosse, ma stavano già perdendo quota, riscendendo rapidamente verso l’erba nera e dovette concentrarsi sul planare lentamente. Non appena sfiorò con i piedi il terreno si diede un’altra spinta, notando con piacere come Cicno avesse sollevato i suoi di piedi, per evitare di intralciarlo in alcun modo. Si era affidato completamente a lui, reggendosi alle sue spalle senza alcun problema.
 
Non è un tipo troppo fiducioso verso gli altri, ma è palese che in vita fosse abituato ad affidarsi a qualcun altro per ottenere ciò che voleva. Non dev’essere la prima volta che viene portato in braccio in questo modo.
 
Cade sospettava che anche se avesse provato a tirarlo su a mo’ di damigella Cicno non avrebbe battuto ciglio e stava quasi per chiedergli, beffardo, se non preferisse prendere una posizione più comoda, quando nel mezzo della risalita l’altro tolse un braccio da attorno al suo collo ed indicò un punto indefinito alle loro ore due. Sì, Nathan le aveva tipo chiamate così, come l’orologio.
 
Dei dell’Olimpo! Sto davvero pensando a lui un po’ troppo spesso. Cazzo, va a finire che mi affezione pure al biondastro.
 
«Lì!» disse a voce alta Cicno. «C’è qualcosa che brilla. Potrebbe essere magia.»
 
Non lo era. Palesemente. Non c’era alcuna possibilità che la magia di una figlia di Ecate brillasse a quel modo, fredda e metallica, ma non c’era bisogno che Cade lo sapesse.
Cicno sorrise interiormente. Quello che brillava era un gioiello divino e dubitava fortemente che ce ne fossero molti altri in gara se non i suoi e quelli di Jonas.
Cade seguì la direzione della mano ed inspirò a fondo. Un vago odore di erbe, cenere, terra e polvere da sparo, qualcosa che calzava alla perfezione con i suoi compagni, gli solleticò il naso. Sentiva anche una scia simile a quella del bronzo, sì, dovevano essere loro.
 
Devono. Per forza.
 
Il suo sorriso di ampliò quando la corrente ascensionale che avevano preso gli portò anche il profumo della pioggia, quello della terra bagnata, dei mattoni, delle tegole, de-
 
Del sangue.
 
Nella sua mente immagini mute si susseguirono in fretta, il peso leggero di Cicno tra le sue braccia divenne quello insostenibile e rassicurante di un fucile. La cupa luce di un giorno nuvoloso e piovoso mescolava le ombre con le persone, dalle fessure delle persiane di legno poteva vedere i soldati marciare, le ruote dei carri girare, gli zoccoli dei cavalli, ma non sentiva nulla. Non sentiva i rumori, le voci. Ricordava gli odori solo perché gli erano appena giunti.
Il suo ricordo era lì e anche se non ci fossero stati i suoi amici – dovevano esserci per forza – sarebbe comunque dovuto andare lì a recuperare la sfera, prima che fosse troppo tardi.
 
«Reggiti angioletto, facciamo un volo bello lungo.»





   
 
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