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Autore: Fran Truth    24/04/2021    0 recensioni
Crowley non si aspetta più nulla dalla vita: una laurea in astronomia presto ridotta a un hobby solitario e notturno, il lavoro come insegnate di fisica, il sabato sera al bar con gente sconosciuta. Una routine fiacca e maniacale rotta solo da qualche pomeriggio in compagnia di Anathema, sua collega e vicina di casa, e nulla più. Finché una telefonata dall’Italia non rompe tutti gli schemi, perché la figlia di sua sorella Helen, morta quasi sedici anni prima, è rimasta orfana e senza parenti. Isotta si vede così costretta a lasciare Trieste, il mare e Ilenia, il suo primo e ancora fragile amore.
Aziraphale credeva di aver finalmente trovato il suo equilibrio, barattando il mondo esterno con quello dei suoi libri, ma a un certo punto si ritrova a soffocare nella sua stessa bolla. Preso da un impellente desiderio di sfuggire a quella solitudine, pubblica un annuncio di lavoro alla porta della sua libreria. Isotta coglie quella che sembra una piccola possibilità di ripartire, ammaliata da quell’angolo di mondo che odora di carta e tè, una luce in fondo a quel tunnel di delusione. Quel fioco bagliore si avvicina sempre di più e, infine, illumina tutti e tre.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Aziraphale/Azraphel, Crowley, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Il suono del fuoco sotto la pentola si confondeva con le note di una melodia per violoncello di Elgar. Il Big Ben chiamò l'ora di pranzo con dodici rintocchi e Aziraphale chiuse le finestre per attenuare il fragore delle campane e del fitto vociare in strada.

«Sei sicura di voler cucinare tu, cara? Guarda che per me non è un disturbo».

«Davvero, signor Fell» rispose. Sebbene le avesse detto che poteva chiamarlo per nome, Isotta non lo faceva mai. Un po' gli dispiaceva, ma non insisté.

«Esco per comprare il pane, allora» indossò il cappotto appeso all'attaccapanni e infilò in tasca il portafoglio. «Torno fra dieci minuti. Ah, domani non serve che tu venga: devo andare da un cliente a Cambridge».

Tirava un'aria gelida, figlia della pioggia appena estinta, e Aziraphale si strinse la sciarpa di cashmere intorno al collo. Imboccò una strada secondaria per evitare la masnada di persone dirette ai ristoranti del quartiere, entrò nel solito negozio di alimentari e ne uscì con un sacco pieno. Stava per percorrere a ritroso il percorso di prima, ma una mano inguantata sulla spalla lo fermò. «Ehi, Aziraphale, quanto corri».

Si voltò. Gabriel, infagottato in uno dei cappotti più costosi della loro azienda, allargò le braccia e sorrise. «Ieri sei sgattaiolato via come un topo».

Aziraphale strinse il sacchetto al petto e abbassò lo sguardo. «Sì, sono... sono andato a passeggiare nei boschi».

Gabriel lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. «Fai sempre così. Ti cerchiamo e tu te ne vai. Non hai nemmeno il coraggio di guardarmi in faccia».

«Lo sai che non sono molto portato per lo sport».

«Ma chi ti giudica, quando siamo in famiglia?». Aziraphale ripercorse tutti i colpetti sulla pancia ricevuti, ma tacque. «Vogliamo averti con noi, Azi. Non fare il misantropo».

«Non sono un misantropo».

«Eppure te ne stai sempre chiuso nella tua libreria, a studiare manoscritti. Non ci chiami mai, non vuoi nemmeno pranzare insieme la domenica e quando ci troviamo per una partita a cricket fuggi via. Non capisco quale sia il tuo problema».

Aziraphale si guardò intorno, boccheggiò, ma non rispose.

Gabriel sospirò con un velo di irritazione. «Michael mi ha detto che hai assunto una ragazzina. Straniera».

«Sì».

«E che la porti a passeggiare al parco».

Una baguette nel sacchetto si crepò da quanta forza Aziraphale stava mettendo nelle braccia. «Ogni tanto».

«Capisco» si sistemò il cappello. «Comunque la sorella di Uriel si è laureata».

Aziraphale si sforzò di sorridere. «Oh, bene, in... storia, vero? ».

«Sì, o roba simile, qualcosa che ti apre le porte del centro per l'impiego, insomma». Il cuore di Aziraphale sprofondò nella vergogna. «Stasera dà un aperitivo per la famiglia, hanno invitato anche noi, si terrà a Camden Town» gli allungò un biglietto con un indirizzo scritto sopra. «Ti aspettiamo. E non scappare, stavolta c'è anche la famiglia di Michael. Ci vediamo» si voltò e sventolò la mano prima che Aziraphale potesse esprimersi.

Buttò il biglietto nel sacchetto del pane e riprese a camminare a passo rapido. Un aperitivo con tre famiglie diverse per la laurea di una ragazza che conosceva appena era l'ultima cosa di cui aveva bisogno, ma in un certo senso si sentiva costretto. In fondo Gabriel non aveva tutti i torti: non era educato abbandonare il proprio gruppo in quel modo, sgusciando dal campo come un prigioniero che non deve farsi scoprire, infilandosi in un bar con uno sconosciuto. Uno sconosciuto che era lo strambo zio della giovane che lavorava per lui.

Non aveva toccato l'argomento con Isotta, quella mattina. Se n'era stata piuttosto in disparte, a mettere a posti i libri e alla cassa, mentre lui discuteva con uno dei suoi soliti acquirenti, e dopo l'orario di chiusura si era subito offerta per preparare il pranzo. Ogni tanto, dietro agli scaffali, l'aveva sentita ridacchiare.

Aprì la porta dell'appartamento gioendo dentro di sé per il dolce calore. Oltre il tavolo di legno lucido, Isotta stava con una gamba piegata sul marmo della cucina e l'altra completamente tesa, tentando di afferrare un barattolo di spezie in cima al mobiletto. Quando Aziraphale chiuse la porta, Isotta si voltò di scatto e portò giù la gamba con un gemito. Aziraphale soffocò una risatina. «Quale ti serve?»

Isotta indicò un contenitore con l'etichetta rossa, massaggiandosi la coscia.

«Ti sei fatta male?»

«Niente di che» e buttò i fusilli.

Vicino al pacco di pasta aperto vi era un libro con la costa gialla e un titolo in rosso, italiano, spiccava sulla copertina bianca su una moltitudine di spine di grano nere.

«Cos'è?» se lo rigirò tra le mani, incontrando sulla quarta parole sconosciute.

Isotta prese posto di fronte a lui. «Si chiama "Io non ho paura". È ambientato nel Sud Italia degli anni Ottanta e parla del rapimento di un bambino benestante del Nord tenuto nascosto fra i campi di grano. Un ragazzino del luogo lo trova e cerca di capire perché sia lì. È ispirato a veri fatti di cronaca nera. Di solito lo fanno leggere nelle scuole perché è considerato un piccolo classico della narrativa di formazione. Credo sia stato anche tradotto, sa? È molto bello».

«Credo di aver già letto qualcosa di questo autore. Un romanzo che raccontava di due storie d'amore parallele, ma mi sfugge il titolo».

«Forse intende "Ti prendo e ti porto via", è stato il secondo libro che ho letto di Ammaniti. Anche "Io e te" è molto bello, purtroppo non ho ancora letto il romanzo con cui ha vinto il Premio Strega. Le è piaciuto?».

«Ha uno stile un po' inusuale, ma forse sono semplicemente poco abituato alla letteratura italiana. È molto spoglio e diretto».

«Vero, si legge in un attimo. Mi piace anche che talvolta faccia uso di termini dialettali o regionalismi, però credo che quasi tutti vadano persi nella traduzione. Oh, la pasta». Scattò in piedi e spende il fuoco.

Aziraphale finì di apparecchiare e Isotta divise equamente le porzioni di pasta al sugo. «Voi avete molti dialetti, non è così?».

Isotta annuì pulendosi la mano da una macchietta di sugo. «Sì, un sacco. Variano molto anche nelle stesse regioni. Però non tutti sono dialetti: nella mia regione, per esempio, molti sanno parlare il friulano, che è una lingua vera e propria».

«La parli?»

«No, a Trieste è quasi assente. Abbiamo il dialetto triestino, che deriva dal dialetto veneziano. Tutt'altra cosa. Ma non lo parlo granché, non l'ho mai imparato».

«Ve lo insegnano?»

«No, no, lo si impara ascoltando, diciamo. Molti lo imparano con i nonni, ma i miei erano un caso un po' particolare. Mio nonno era di Trieste, ma ha vissuto quasi tutta la sua giovinezza in montagna e sapeva poco dialetto. In compenso mia nonna mi ha insegnato lo sloveno».

«Mi hai detto di essere andata molte volte in Slovenia».

«Se si vive a Trieste non ci vuole nulla. Bastano tre quarti d'ora d'auto, o un viaggio in barca». Posò la forchetta, spezzò un tozzo di pane e iniziò a raccogliere il sugo. «Con la amica andavo spesso a Pirano. È una cittadina portuale bellissima, la chiamano la "Venezia slovena". Ha un museo del mare meraviglioso ed è molto pittoresca».

Inghiottì l'ultimo pezzo di pane e si appoggiò allo schienale guardando verso il basso. Aziraphale la guardò portare la testa da una spalla all'altra: anche suo zio lo faceva, eppure quel medesimo gesto era così diverso fra loro che faticava a credere fosse lo stesso. Isotta puntava lo sguardo ora verso l'alto, ora a destra, ora in basso e non lo guardava più come aveva fatto fino a un minuto prima. «Ti manca mai il tuo Paese?»

Isotta annuì con lentezza. «A volte tanto, altre volte non ci penso troppo. Non che abbia lasciato molto: non avevo parenti né chissà quanti amici. Più che altro mi manca Ilenia».

Aziraphale si alzò per prendere della frutta. «Chi?».

«Ilenia» ripeté Isotta. «La mia... migliore amica». Infilò la mano in tasca, smanettò col cellulare e lo mostrò ad Aziraphale. Una foto raffigurava Isotta, in abiti estivi e con un cappellino bianco da sole, accanto a una ragazza appena più alta di lei, con lunghi e lisci capelli corvini, una forte abbronzatura in pieno contrasto con la pelle diafana di Isotta e un paio di occhiali da sole su cui erano riflessi il braccio e lo schermo del cellulare. Dietro di loro si espandeva un dolce mare carezzato dal sole dorato - Ormai, giorno per giorno, il dio dalle guance di fuoco guidava nudo negli spazi celesti la rutilante quadriga...*, pensò AziraphaleUn'alba estiva italiana, al mare, con due ragazze sorridenti in primo piano, eppure qualcosa stonava. Aziraphale guardò Isotta davanti a sé, poi la sua figura nella foto e comprese: quella in carne e ossa non aveva profondi cerchi di kajal intorno agli occhi, né spessi strati di ombretto scuro. Solo le solite, leggere linee di matita che le allungavano lo sguardo e le ciglia accentuate dal mascara. Il sorriso che sfoggiava in foto, seppur sincero, appariva provato. Era disturbante.

«È il mio ultimo giorno in Italia» disse Isotta. «Quello è molo Audace, davanti alla piazza principale. Vede quel castello bianco in fondo? È Miramare».

«Sembra un bellissimo posto» disse Aziraphale sedendosi. «Molto caldo».

Isotta mise via il cellulare. «C'erano trenta gradi quel giorno. Ecco, se mi chiede cosa mi manca dell'Italia, io le rispondo i trenta gradi e i miei pantaloncini».

Risero entrambi. «Andiamo, d'estate non si sta così male».

«Onestamente pensavo peggio».

«Siete andati al mare, tu e tuo zio? A Brighton, per esempio».

Isotta scosse la testa. «Era un'idea, ma alla fine siamo rimasti nei dintorni. Magari durante le vacanze di Natale progettiamo qualcosa» si alzò per sparecchiare. «Mi piacerebbe vedere com'è il mare qui».

«Ami molto il mare, non è così?»

Isotta si fermò un attimo con il piatto a mezz'aria. «Sa, darei oro per poter rivedere il mare dalla finestra della mia stanza e non la strada trafficata di Camden Town. A casa potevo guardare le navi arrivare. Venivano da tutto il Mediterraneo».

La pausa pranzo finì. Per tutto il resto della giornata lavorativa Aziraphale non poté fare a meno di chiedersi cosa avrebbe pensato lui se al posto del vivace viale di Soho che, da due anni a quella parte, lo accoglieva tutte le mattine, avesse avuto una strada sconosciuta, con colori nuovi e sgradevoli. Conosceva alla perfezione i dettagli visibili dalla finestra accanto alla sezione pregiata, ci passava davanti da più di sette anni e l'aveva sempre preferita alla vista della sua stessa camera, nella casa di famiglia, che dava su una porzione del Tamigi vicino a Chelsea Bridge. Forse perché aveva sempre amato di più la libreria rispetto al grosso appartamento che condivideva con la sua famiglia, ma il suo era stato un cambiamento graduale: prima qualche giorno alla settimana, poi tutti, fino al suo trasferimento definitivo. Aziraphale apprezzava la tranquillità della monotonia (o almeno, lo aveva fatto interamente prima di far entrare Isotta nel suo piccolo mondo) e non sopportava gli scombussolamenti: aveva odiato i picchi e i cali improvvisi quando lavorava in azienda, detestava quando Gabriel lo infilava a forza nelle riunioni e nelle cene con un giorno di anticipo. Non riusciva a immaginare come Isotta avesse potuto reggere la catena di eventi che l'aveva condotta a Londra, una scia che lo avrebbe portato a una crisi di nervi: dal padre a uno zio sconosciuto, da una placida cittadina di mare a una delle metropoli più mastodontiche d'Europa. Probabilmente aveva dei progetti, dei sogni, tutti - almeno momentaneamente - mandati a monte.

Rinsavì con un lieve tocco alla spalla. Una vocetta, prima del tutto indistinta, si fece di colpo nitida. Isotta lo stava chiamando. «Signor Fell, c'è la signora Sands. Ha detto di avere un appuntamento per parlare di un certo manoscritto sull'amor cortese».

Da quanti minuti era seduto alla finestra? Fuori era già scuro. «Ah, sì, sì». Si sistemò il papillon. «Potresti preparare il bollitore, cara? E il tè alle prugne, per favore, quello che piace a lei».

*

Seduto sul divanetto del soppalco, Aziraphale faticava a concentrarsi sul suo libro. Aveva recuperato "Ti prendo e ti porto via" dal fondo della sua libreria, ma la scrittura cruda di Ammaniti non lo convinceva, nonostante Isotta lo avesse lodato proprio per quello. Inoltre, il pensiero del festino di laurea gli opprimeva il petto. Abbandonò il romanzo sul tavolino e scese per radersi e pettinarsi, ma il tempo era come bloccato. Cos'avevano quelle otto e mezza che non arrivavano mai? Di giungere in anticipo non se ne parlava. Meno tempo passava in mezzo ai party, meglio era. Per calmarsi accese il bollitore nel retrobottega e preparò una bustina di camomilla, ma quando portò la tazza sul tavolino si bloccò. Un libro bianco dalla costa senape era stato lasciato sulla sedia più vicina alla porta, quella che usava sempre Isotta. Zuccherò la camomilla, prese il libro e riconobbe il campo di grano nero che aveva visto quella mattina.

Sorseggiando dalla tazza sfogliò per sfizio le pagine. I caratteri erano enormi rispetto a quelli a cui era abituato e componevano una serie di vocaboli sconosciuti e affascinanti. Ah, l'italiano pensò. Beata Isotta che poteva leggere senza problemi tutta quella meravigliosa poesia medievale. Gli vennero in mente tutti i suoi fallimentari tentativi di imparare una qualunque lingua che non fosse il gallese che gli aveva insegnato sua madre.

Fece scorrere in fretta le pagine e alcuni pezzi di carta finirono a terra. Si chinò per raccoglierli: un segnalibro con un acchiappasogni disegnato a mano, un foglietto con il nome di un farmaco da banco e una lista della spesa piena di ingredienti mediterranei.

Ripose tutto nella pagina da cui erano caduti, ma tenne in mano il segnalibro. Il cartoncino presentava a lato una linguetta. Tirandola, il rettangolo di cartoncino si aprì a libro, rivelando un disegno a matita: un ritratto curato e realistico di Isotta e un'altra ragazza, distese su un capo d'erba, che si guardavano incrociando l'una le dita dell'altra, legate dal gambo nudo di una rosa. L'unico dettaglio colorato erano gli occhi diversi di Isotta.

Accanto vi era una poesia di Emily Dickinson in elegante corsivo:

Garland for Queens, may be-
Laurels-for rare degree
Of soul or sword.
Ah-but remembering me-
Ah-but remembering thee-
Nature in chivalry-
Nature in charity-
Nature in equity-
This Rose ordained!

Studiò il disegno, ma più metteva a fuoco i dettagli, più si sentiva sporco: c'era qualcosa di intimo in quell'intreccio di mani, qualcosa di intenso nei sorrisini grigi di matita e negli sguardi: stava invadendo uno spazio che non aveva il diritto di toccare, chiuse il segnalibro e lo rimise fra le pagine. Prima di uscire scrisse l'indirizzo di Isotta su un biglietto e mise il libro nella tasca interna del cappotto. Giacché andava a Camden Town tanto valeva riportaglielo, dato che il giorno dopo non sarebbe venuta. Era certo che la sua permanenza alla festa non sarebbe durata granché.

Raggiunse un grande bar al centro del quartiere. Ancora prima di entrare la musica del locale gli rimbombò nel petto e rimpianse i suoi vinili di Stravinskij che avrebbe voluto ascoltare quella sera.

«Aziraphale!» Gabriel, seduto a un tavolo con Michael e Uriel, agitò il braccio invitandolo a unirsi. Tentennante, prese posto accanto al fratello.

«Sciogliti» sussurrò Gabriel. «Sembra che tu stia andando al patibolo».

Aziraphale fece per ribattere, ma una mano sulla spalla lo fermò. Era Daniel «Ciao, Aziraphale». Lo affiancò sulla panca. «Come va? Sei ancora in libreria?».

«Sì, gli affari vanno bene. Mi tengono impegnato» rispose ringraziando col pensiero quell'angelo dal paradiso. Daniel aveva lavorato per molto tempo con lui alla Fell Creations come stilista ed era l'unica persona con cui era mai andato veramente d'accordo. «Ho sentito che sei stato promosso».

Daniel annuì. «Ora viaggio molto. Due mesi fa siamo andati negli Stati Uniti. Avresti dovuto esserci, ci sono dei musei meravigliosi».

Michael, davanti a loro, schioccò la lingua. «Eri a lavorare, Daniel, non in vacanza. Se vuoi vedere i musei, aereo e hotel te li paghi da solo».

Daniel arrossì con violenza e abbassò lo sguardo. Aziraphale gli pose una mano sulla spalla, ma si guardò bene dal consolarlo sotto l'espressione truce della cognata.

«Su, su, Michael» Gabriel ammiccò a sua moglie. «Siamo a una festa, devi rallegrarti. Oh, Sandalphon è tornato con la roba da bere. Spero ti vada bene il Merlot, Aziraphale».

No che non gli andava bene, Gabriel - come tutti - sapeva quanto Aziraphale non amasse il vino rosso, ma accettò il bicchiere senza fare storie e trangugiò a fatica qualche sorso.

Sandalphon gli diede una pacca sul braccio. «Allora, Azi» sentire di continuo il suo nome lo stava mettendo incredibilmente a disagio, come un imputato in tribunale. «Parlaci un po' delle novità in libreria. Abbiamo sentito che hai lasciato entrare qualcuno nel tuo piccolo rifugio».

«Davvero?» disse Daniel.

«Dicevi sempre di amare il lavoro in solitaria» disse Uriel. «Che è successo?»

«Niente di che». Era schiacciato da dieci occhi indagatori, così pungenti da sembrare molti di più, come se l'intero viale si fosse fermato a fissarlo in silenzio. «I libri stavano diventando troppi e avevo bisogno di una mano».

Gabriel arricciò le labbra. «Proprio tu, che non chiedi aiuto a nessuno. Avresti potuto moderare gli acquisti».

«Ricevo molte richieste» ribatté Aziraphale. Con la coda dell'occhio vide Uriel trattenere a stento una risatina. Anche Sandalphon strinse le labbra, distogliendo lo sguardo dal fratello.

«Immaginiamo, immaginiamo» disse Gabriel. «Ma dove hai pescato quella ragazzina? Michael ha detto che non avrà più di quindici anni, non è nemmeno legale, Azi».

Le fiamme gli avvolsero il volto. Lo guardavano tutti, chi divertito, chi perplesso. Perché Gabriel avrebbe dovuto insinuare una cosa del genere davanti alla sua famiglia al completo? «Isotta ha diciotto anni» rispose. Non riuscì ad alzare la voce da quanto gli tremava. «Semplicemente è bassina e sembra più giovane».

Gabriel ridacchiò e scosse la testa. Daniel sviò l'argomento ponendo alcune domande a Sandalphon sull'ultima linea di cravatte e Aziraphale gli fu grato. Prestò poco ascolto al loro scambio di battute e dieci minuti dopo si alzò. «Vado un attimo in bagno».

I servizi del bar erano minuscoli, ma quantomeno puliti. Si appoggiò al muro e assaporò finalmente il silenzio. Pensò alla sua libreria, alla poltrona accanto al camino acceso e alle nuove infusioni di cioccolata che aveva comprato a Westminster e che avrebbe voluto provare ascoltando la "Sagra della primavera". Lontano dal chiasso e dal rock sparato dagli stereo dentro il locale si sentiva come un prigioniero appena liberato dalle corde intorno ai polsi. Toccò il libro dentro la tasca interna del giubbotto e sfilò quanto bastava per intravedere il titolo quando Daniel entrò. «Aziraphale». Ricacciò il libro nella tasca. «Stai bene? Sei qua da un po'».

«Ho mal di testa» borbottò Aziraphale fingendo un tono sfiancato. «Tutta quella musica... non sono abituato».

Daniel gli sorrise. «Ho un analgesico, se vuoi, ma è un po' forte».

Aziraphale gli fece cenno di no con la mano. «Non preoccuparti». Lo superò. «Torno a casa. Se vedi gli altri, per favore, avvisali».

Agguantò la maniglia, ma un tocco tiepido sulla spalla lo fermò. «Mi dispiace che te ne sia andato» disse Daniel. «Gabriel aveva torto. Eri un buon elemento».

«Gabriel non c'entra» Daniel corrugò la fronte, ma non rispose. «Me ne sarei andato comunque. Non è quello il mio ambiente».

Uscirono insieme e si strinsero la mano. «Chiamami pure se hai bisogno di qualcosa».

«Grazie Daniel. La tua amicizia mi è molto cara».

«Ti va di vederci al Ritz, settimana prossima? I tuoi fratelli mi daranno un po' di respiro».

Gli sorrise. «Volentieri, caro».

Si diresse a passo rapido fuori dal locale e si fermò accanto a una pianta del viale per controllare l'indirizzo di Isotta. Raggiunse le strisce pedonali, ma si bloccò quando il suo nome riecheggiò nella strada illuminata. Gabriel stava correndo verso di lui, con la lunga sciarpa che gli svolazzava sulla schiena. Per un attimo, Aziraphale fu tentato di attraversare di corsa la strada: già si immaginava la predica. Ma restò fermo: Gabriel non era contento, ma non sembrava nemmeno infastidito. Giunse davanti a lui con il fiato che si condensava nella gelida aria serale. «Devo dirti una cosa. Daniel ci ha detto che non stai bene, ma è importante».

Aziraphale fu sorpreso nel vedere che Gabriel si preoccupava per lui. «Che succede?»

«Ci sono dei... problemi. Alla Fell».

«Problemi?»

«Le ultime linee non hanno venduto bene» disse. «Molti disegnatori se ne sono andati, dopo la sfilata in America. Hanno ricevuto proposte da una multinazionale che ha sedi anche qui in Inghilterra».

La notizia non giunse inaspettata ad Aziraphale. Non dopo che i suoi fratelli avevano dato strette agli stipendi, ai materiali e alle promozioni. «Non ne avete assunti altri?».

Gabriel scosse la testa . «Sono pochi, non hanno esperienza».

«Se non lavorano non l'avranno mai...» si interruppe quando Gabriel lo fulminò con lo sguardo.

«Non possiamo permetterci di assumere dei novellini. Non ne abbiamo le possibilità» gli mise una mano sulla spalla. «Quindi devo chiederti un favore».

«Dimmi». Nel linguaggio di Gabriel non esistevano favori. Esistevano ordini.

«Devi mandarci dei disegni. Lascia stare quelli che facevi in azienda, sbizzarrisciti».

Aziraphale lo guardò dubbioso. «Tu... hai sempre detto che i miei progetti non erano granché. A che ti servirebbero?».

Gabriel strinse le labbra, poi annuì. «Diciamo che, forse, i freni non ti facevano bene». Gli prese la mano tra le sue e gli rivolse un sorriso caloroso. «Puoi aiutarci? Per la famiglia».

«V- va bene, va bene» rispose Aziraphale sfilando la mano da quelle del fratello. Gabriel allargò le braccia, tronfio.

«Ottimo! Entro sabato prossimo. Riprenditi!». Girò i tacchi e se ne andò fischiettando.

Aziraphale rimase bloccato sul posto un minuto buono. Fino a un'ora prima Daniel gli stava parlando della sfilata negli Stati Uniti e ora Gabriel gli riferiva dei "problemi". Non che la Fell fosse stata sempre rose e fiori, soprattutto dopo che Gabriel e Sandalphon, insieme a Michael, avevano preso le redini tre anni prima. Al tempo gli affari avevano subito un lieve calo e loro avevano cercato di sopperirvi, a volte licenziando dipendenti in malattia da tempo o richiamando le nuove madri con largo anticipo. Se loro padre avesse potuto vedere tutto ciò si sarebbe messo le mani nei capelli. Ma quando Aziraphale aveva levato le tende per dedicarsi interamente alla libreria le cose andavo per il verso giusto: partecipavano a un numero discreto di eventi, i prodotti vendevano e i conti tornavano. In due anni non aveva mai avuto alcuna notizia negativa e ora Gabriel, che non lo aveva mai considerato un elemento molto valido (a malapena aveva badato ai suoi bozzetti in quasi cinque anni di collaborazione) gli chiedeva aiuto. Dirgli di no ormai era inutile: la sera dopo, invece di dedicarsi al manoscritto che stava studiando - l'idea già lo rattristava, pensando a quelle stupende miniature - si sarebbe piazzato al tavolo armato di matita.

Sovrappensiero, raggiunse il viale di Camden Town che aveva scritto nel foglietto. Nel frattempo aveva iniziato a piovere e Aziraphale si coprì con l'ombrello raggiungendo i citofoni del palazzo dove viveva Isotta. Schiacciò il tasto affiancato dalla scritta "Anthony Crowley" stampata a computer, con "Isotta Fonda" aggiunto a penna. «Buonasera» disse la voce metallica di Isotta dopo due squilli. «Chi è?».

«Isotta, sono il signor Fell» rispose. «Ti ho riportato il libro che hai lasciato in libreria».

Per un attimo non disse nulla. Aziraphale se la immaginò con gli occhi sgranati. «Davvero, signor Fell? Grazie!». Seguì un borbottio che Aziraphale non comprese. «Signor Fell, mio zio le chiede se vuole salire, dato che piove».

L'immagine dei suoi libri e del calore della libreria quasi lo indusse a rifiutare, ma un forte tuono seguito da un lampo non prometteva bene. Inoltre, la sua camicia era nuova e rovinarla sarebbe stato un peccato. «Non vorrei disturbare».

«Non si preoccupi, siamo solo noi due e domani mio zio ha la giornata libera. Le apro subito. Secondo piano, porta a destra». La serratura scattò.

Si pulì i piedi sullo zerbino posto all'ingresso e lasciò l'ombrello gocciolante accanto alla porta. Una luce al neon si accese automaticamente, illuminando un piccolo atrio d'ingresso pulito e vuoto, con una bacheca stracolma appesa al muro. Diede un'occhiata al libro di Isotta, ancora nella tasca interna del cappotto: non si era bagnato, per fortuna. I libri bagnati mantengono sempre le pagine tutte secche e ondulate, Isotta lo avrebbe odiato, ne era certo.

Salì i gradini lasciando umide chiazze sul pavimento grigiastro e raggiunse il secondo piano, dove due porte gli si pararono di fronte. Bussò alla destra, da cui provenivano un lieve brusio metallico e il clangore di oggetti sbattuti. Poi un rumore di passi, leggeri e rapidi e la chiave che girava nella toppa.

Il visino di Isotta spuntò a metà sull'uscio insieme all'occhio verde, con il labbro un poco incurvato verso l'alto e le dita della mano destra che sgusciavano a malapena fuori dalla manica della felpona rosa acceso che indossava e che la rendeva larga il doppio. In quel momento Aziraphale si rese conto di non averla mai vista senza trucco: gli occhi erano ancora più grandi e luminosi e le guance, senza il blush, parevano di porcellana.

«Buonasera». Spalancò la porta e lo invitò ad appendere il cappotto all'attaccapanni vicino all'ingresso. Non appena mise piede nell'appartamento, un odore dolce e gradevole lo fece sorridere, ricordandogli che non mangiava dall'ora di pranzo. «Stavate cucinando?»

Isotta lo superò, le mani dentro la tascona centrale. «Stavo facendo lo zabaione».

Superarono il piccolo corridoio fino ad arrivare alla cucina-salotto. Aziraphale si aspettava di trovare il signor Crowley seduto al tavolo o sul divano, ma a parte il rumore delle voci italiane in sottofondo, che discutevano in un'aula di tribunale, e la ventola del forno, la stanza era deserta.

«Tuo zio...?»

«È di là in camera. Finisce di stirare due cose e arriva. Ah, si sieda pure».

Aziraphale prese posto al tavolo celeste della cucina, da cui poteva ammirare un muro lussureggiante di piante di varia grandezza poste davanti alla finestra imperlata di pioggia. «Sono ben tenute, queste piante».

«Se ne occupa mio zio» Isotta afferrò una sac a pochè piena di impasto e formò una ventina di biscotti sottili sulla carta forno. «È bravo, anche se ha metodi... particolari».

Un ciabattare improvviso fece sobbalzare Aziraphale. Si voltò e a pochi metri da sé vi era il signor Crowley, ancora vestito di nero dalla testa ai piedi, ma senza gli occhiali da sole e con i capelli disordinati. «I miei metodi non sono particolari, sono i più efficaci che esistano. 'sera, signor Fell». Spostò con un soffio una ciocca di capelli davanti al naso e prese posto di fronte a lui. Sorrise cordiale e portò una mano sotto al mento. «Possiamo offrirle qualcosa?».

Aziraphale scosse la testa insieme alle mani. «Niente, la ringrazio davvero, ma niente, ho già bevuto».

«I biscotti sono pronti fra meno di dieci minuti» disse Isotta infornando la teglia. «Lo zabaione è a posto, ormai». Si sollevò sulle punte per prendere due coppette dalla credenza. Sfiorò la terza, guardò Aziraphale e a quel punto lui annuì.

«È stato gentile da parte sue venire qui» disse Crowley.

«Beh, sì, ero nelle vicinanze e... un secondo, ho lasciato tutto nel cappotto». Si alzò e corse verso l'attaccapanni vicino all'ingresso. Estrasse dalla tasca il libro, studiò un'ultima volta il campo di grano e lo porse a Isotta. «Tutto asciutto».

«Grazie mille, signor Fell». Tornò davanti al forno, ma sollevò la testa verso il corridoio quando una canzone soul risuonò fra le stanze. «È il mio telefono, torno subito». Zampettò fino alla sua camera, dove oltre la porta vi era lo scorcio di un copriletto verde. Iniziò a parlare in italiano a mezza voce.

«Mi sa che le conviene restare finché non si calma» disse il signor Crowley. Tuonò ben due volte e fuori dalla finestra un acquazzone improvviso scrosciava sulle strade. Fortunatamente Aziraphale aveva accettato l'invito a salire: rientrare in libreria fradicio bagnando tutto il pavimento era l'ultima cosa che avrebbe voluto fare.

I biscotti doravano e il tono straniero di Isotta, più basso di prima, non accennava a fermarsi, insieme al suono di pagine che giravano con forza. Il signor Crowley guardava la televisione: sottotitoli bianchi in inglese recitavano nomi italiani, seguiti dalla parola "ergastolo". Nome, "ergastolo", nome, "ergastolo".

«È un poliziesco?».

Il signor Crowley bofonchiò, poi si sporse verso un piccolo mobile accanto alla televisione e afferrò il cofanetto di un DVD. Se lo rigirò tra le mani. «Non proprio. Cioè, sì, ma è roba reale. Maxiprocesso di Palermo. Mafia, insomma».

«È di Isotta?»

Alzò le spalle. «Le interessano queste cose. E comunque tutti i DVD di questa casa sono di Isotta». Indicò col pollice un mucchietto di cofanetti accanto alla televisione: "La dolce vita", "Suspiria", uno con Marilyn Monroe in copertina, "Il grande Gatsby" e un altro dal titolo piuttosto lungo, in italiano, di cui riconobbe le parole "classe" e "paradiso".

«La prima volta che li ho visti sono rimasto spiazzato» fece il signor Crowley. «Saranno almeno duecento, con quelli che ha in camera e negli scatoloni».

«Pensavo che con l'avvento di siti come Neflit, Nextil...»

«Netflix».

«Sì, grazie, non sono molto pratico. Pensavo che i giovani usassero quelle cose».

«No, suo padre non gliel'ha mai lasciato» grugnì e si passò una mano tra i capelli rossi. «Isotta mi ha detto che le dava un po' di soldi ogni mese e lei li usava per comprare i DVD. Non voleva che si rin... citrullisse stando tutto il tempo davanti al computer. E così mi ha invaso casa». Indicò col pollice un mobile in soggiorno: due ripiani erano sovraccarichi di libri e DVD, stretti fra loro come sardine, tanto che alcuni libri pendevano di qualche centimetro, infilati a forza. In cima troneggiava una piccola fila di monumenti in miniatura: il Big Ben, il campanile di San Marco e la Torre di Pisa al centro. Più a lato c'era uno strano cappello verde con una piuma nera. «Quello era mezzo vuoto prima dell'estate. E anche il frigo».

Aziraphale per un attimo credé si riferisse ai diversi stili alimentari, ma in realtà parlava del mosaico di magneti che tempestava la superficie della porta. Erano souvenir da varie città europee e per ognuna ve n'erano almeno due o tre: sul lato destro Isotta aveva posizionato le città italiane, il resto a sinistra. Verona, Venezia, Milano, Roma, Firenze, Lubiana, Tolosa, Monaco, Londra, Limerick, San Marino. In alto, Isotta aveva appeso una cartolina di Trieste, accanto a una foto in cui, bambina, stava in braccio a una coppia di anziani. «Sono davvero moltissimi».

«Ha insistito per comprare pure di quelli di Londra. Le ho detto "a che ti servono, se ci vivi", ma le è entrato da un orecchio e uscito dall'altro».

«È un po' come mia madre» disse Aziraphale. «In ogni luogo che visitava comprava due tazze e un quadretto ad acquerelli. Non ha mai cambiato schema».

«Io e la mia famiglia non abbiamo mai viaggiato molto, ma ricordo che scattavamo sempre una foto tutti e cinque assieme. Forse ne ho ancora qualcuna». Si alzò per togliere il DVD dal registratore.

«Quelli sono i nonni di sua nipote?» chiese Aziraphale indicando la fotografia sul frigorifero.

Crowley annuì. «Mi ha detto che erano a Capodistria. Penso che Isotta avesse nove o dieci anni».

«E anche loro...»

«Morti». Aziraphale trasalì. Era così diretto. «Altrimenti non credo sarebbe qua. Comunque, mi dica» si sedette di nuovo di fronte a lui «Dove andava tutto ben vestito? Con questo tempo, per di più».

«Ehm, io...» si tormentò l'anello al mignolo. Non si aspettava un cambiamento così repentino. «A una festa. Nulla di che, la sorella di una mia ex collega si è laureata e hanno invitato anche la mia famiglia».

Crowley lo guardò sottecchi. «Ed è fuggito via di nuovo?»

Aziraphale sgranò gli occhi, ma non capì se stesse insinuando qualcosa. Stava sbagliando a raccontargli cose del genere, non poteva sapere se quell'uomo fosse della stessa pasta dei suoi fratelli.

Agitando le mani, Crowley guardò dall'altra parte. «Mi scusi, sono stato inopportuno».

«No, non importa» Aziraphale sospirò. «Ha ragione, comunque» si limitò a dire. In fondo lo aveva visto solo una volta. E lo ritrovava ancora dopo essere scappato dalla sua famiglia.

Crowley tornò a guardarlo. «Non si trova bene?»

«Diciamo che potrebbe andare meglio. Lei ha famiglia? A parte Isotta, dico».

«Una sorella» si alzò e prese una bottiglia di liquore dalla dispensa. «Ma non ci parliamo praticamente mai. Sicuro di non volere nemmeno un po' di rum?».

Aziraphale scosse la testa. Il signor Crowley si riempì il bicchierino e bevve sporgendosi verso il forno. «Spero torni prima che si brucino».

«Cucina spesso?»

«Le dico solo che ho messo su quattro chili da luglio. Non sono mai stato un gran mangiatore, ma Isotta cucina così bene». Tacque per un attimo e una nota più acuta della voce di Isotta ruppe il silenzio. «Credo stia spiegando qualcosa di filosofia».

Aziraphale sgranò gli occhi. «Lei sa l'italiano?».

Il signor Crowley mosse su e giù le spalle. «Non proprio, ma ovviamente dovendo passare qualche mese in Italia ho dovuto imparare qualcosa. È stata Isotta a insegnarmelo e si meriterebbe un plauso per la pazienza che ha avuto. All'inizio non me ne importava granché, ma comunicare non era semplice, dato che non tutti sanno l'inglese. Almeno poi ho imparato a ordinare il caffè da solo». Ridacchiarono. «Era divertente, in fondo. E la psicologa diceva che le faceva bene».

«La psicologa?».

«Lunga storia».

Aziraphale aprì la bocca non sapendo bene che dire, ma lo salvò il trillo di un timer a forma di limone vicino alla cappa da cucina. Il signor Crowley si girò e guardò il forno. «Isotta!»

«Arrivo!» e borbottò altre poche parole in italiano.

Una saetta rosa shocking si catapultò in cucina, abbassandosi davanti al forno. La tasca della felpa era illuminata dalla luce del cellulare ancora acceso. Isotta si infilò i guanti, aprì la porticina e una ventata di calore fuoriuscì insieme al delicato profumo dei biscotti sulla carta forno.

«Che mi hai fatto oggi, principessa?»

Isotta si irrigidì a quel soprannome e Aziraphale non capì perché: lo trovava adorabile. «Lingue di gatto con lo zabaione».

Riempì le coppe con un po' di zabaione, ci affondò cinque biscotti l'una e le distribuì sul tavolo con le lingue rimanenti poste in un cestino al centro.

Il signor Crowley annusò la crema. «Alcolico?»

«Un po'» rispose Isotta. Assaggiò la punta di un biscotto. «No, forse ho messo troppo marsala».

Finirò ubriaco pensò Aziraphale. Ma appena assaggiò la crema dorata e lucente dovette trattenersi dal non leccare la coppa. Quando finì i biscotti ne prese altri due dal cestino e Isotta sorrise discreta con il labbro macchiato di crema.

«Hai ancora zabaione?» chiese il signor Crowley.

«Zio, è tanto calorico questo» ma gli passò lo stesso la ciotola.

«Si vive una volta sola. Signor Fell?» gli porse la ciotola e Aziraphale accettò senza remore.

«È delle tue parti?» le chiese.

«No, è piemontese. Nord Ovest».

«Ora dovrai iniziare ad armarti per i pudding» disse il signor Crowley bevendo del rum.

«Sì, zio, ti faccio anche la putizza».

Aziraphale la guardò stranito. «Poo-tee...?»

«Putizza» ripeté. «A Trieste si fa a Natale e Pasqua, è un dolce arrotolato con la frutta secca».

Aziraphale annuì pensieroso: era già dicembre. «Tornerete in Italia a Natale?»

Isotta abbassò lo sguardo. Il signor Crowley alzò le spalle. «Probabilmente no. I nostri vicini ci hanno chiesto di passare il Natale assieme. Anathema, sa, e il suo ragazzo. Lei non riesce a tornare in America e lui ha la famiglia lontana».

Lo ascoltava a metà, preso da Isotta: con gli occhi puntati in giù si tormentava le mani. Gli aveva detto di non avere parenti, ma chissà quanto desiderava rivedere la sua amica dai capelli neri. Non era però del tutto sicuro fosse solo un'"amica".

«Lei va dai suoi fratelli?»

Aziraphale sospirò. «Di solito facciamo insieme alle loro famiglie e a un po' di colleghi. Non proprio il classico Natale intimo, diciamo». Nonostante Isotta non sembrasse gradire il loro Natale a quattro Aziraphale avrebbe volentieri preso il suo posto. Lo aspettava un 25 dicembre uguale a quello dell'anno prima, e dell'anno prima ancora: tavolata al Ritz, fiumi di vino, una baraonda di chiacchiere che copriva le note delle melodie natalizie. L'anno prima aveva almeno potuto godere della compagnia di Daniel, invitato per la prima volta, ma gli era stato strappato presto da Gabriel per presentarlo a un amico. Dopo tanti anni, tutti identici, trovava ancora incredibile come una persona potesse sentirsi sola anche in mezzo a tanta gente.

Lui e il signor Crowley parlarono del più e del meno per qualche minuto, con Isotta che s'infilava di tanto in tanto tra le battute, ma solo se interpellata. Sotto al tavolo giochicchiava con un elastico per capelli e muoveva su e giù la gamba sinistra con rapidità. Aziraphale non capiva se la sua visita le avesse fatto piacere o meno: gli aveva sorriso tanto, ma adesso si nascondeva dietro a un muro di silenzio. Il fatto che si rivedesse molto in quell'altalena di veli scostati e richiusi non lo faceva stare bene per lei.

Quando la pioggia scemò e il Big Ben batté le undici si decise a partire. Il signor Crowley lo accompagnò all'ingresso. «Va a piedi?»

«Chiamerò un taxi». Guardò Isotta, seminascosta dietro a suo zio. «Ci vediamo dopodomani».

Lei annuì. «Grazie ancora per il libro».

Il signor Crowley lo salutò con un mezzo sorriso e Isotta agitò entrambe le mani. Uscito dal palazzo il freddo lo attanagliò.



 

* "Morte a Venezia" di Thomas Mann, traduzione di Bruno Maffi, edizione Club Italiano dei Lettori S.p.A., Milano 1978

 
   
 
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