Una
densa nuvola di fumo nero si alzava all’orizzonte. Il mago
guardò i suoi amici,
come al solito erano in ritardo, mai che riuscissero ad anticipare
quell’orda
famelica e distruttrice. Accarezzò la nuca del cavallo; la
morbida criniera, al
tatto, gli donava sempre una sensazione di tranquillità,
emozione che non
riusciva più a provare da tempo. Aveva perso il conto delle
ore trascorse in viaggio,
per tutto il continente di Thaurus; era molto stanco, ma non poteva
cedere,
aveva una missione da compiere; si sarebbe riposato solo dopo aver
messo fine
alle sofferenze della popolazione di quel continente. Guardò
i suoi amici per
infondere loro un po’ di coraggio. Per un attimo si
sentì un codardo, un
traditore nei confronti della fiducia che riponevano in lui; non aveva
molte
speranze per sé stesso, eppure voleva donarla agli altri. Un
ipocrita, ecco
come si sentiva; ma era l’unica strada percorribile,
l’unico modo che conosceva
per tirare avanti, per avere la forza di alzarsi dal giaciglio appena
il giorno
sorgeva, per continuare ancora a guardarsi allo specchio. Dopotutto,
lui era il
capo della gilda dei maghi, gli esseri più potenti di
Thaurus e dell’intero
mondo di Staras; e allora, perché non riuscivano a mettere
fine a quei massacri
gratuiti, perpetrati dalle forze del male? Perché gli uomini
continuavano a
soccombere, dinnanzi a quella soverchiante brutalità?
Perché non riuscivano a
contrastare quelle orde di mostri? Erano domande a cui avrebbe voluto
dare una
risposta, ma la verità era che non ne aveva, e lui,
dannazione, doveva
conoscere quelle fottutissime risposte.
Strattonò
irritato le redini ed impartì al cavallo l’ordine
di andare al trotto,
dopotutto il villaggio non doveva essere molto distante. Durante la
cavalcata
nessuno dei tre uomini osò fiatare, troppo concentrati nel
pensare a come porre
rimedio a quella situazione. Si guardavano costantemente intorno per
captare
eventuali pericoli in arrivo, ma nulla si muoveva, sembrava di
camminare tra la
morte. La campagna intorno a loro era priva di ogni rumore e la leggera
nebbia
rendeva ancora più angustiante quel paesaggio.
Hatrim
guardò incuriosito il cippo miliare che era posto al margine
della strada,
l’iscrizione riportava la distanza da percorrere per giungere
al villaggio di
Fels. Due chilometri, sarebbero arrivati lì nel giro di
un’ora, se avessero
continuato a mantenere quell’andatura; non avevano la
necessità di accelerare,
ormai era troppo tardi, come spesso accadeva negli ultimi tempi;
inoltre,
avrebbero rischiato di affaticare i cavalli inutilmente.
L’acre
odore del fumo, ora, era chiaramente percepibile e non faceva presagire
nulla
di buono. Quando furono vicini alla palizzata del villaggio, i loro
presentimenti furono ampiamente confermati; la recinzione difensiva era
divelta
in più punti e, dove una volta era collocata la porta
d’ingresso, ora vi era
solo un enorme cratere. Un vento leggero trasportava la cenere ovunque
e, delicatamente,
la faceva posare tra i loro capelli, come neve. Percorsero lentamente
il
perimetro difensivo, per cercare un agile punto di ingresso per le loro
cavalcature, lo trovarono nella parte più ad oriente. La
palizzata era stata
completamente distrutta, l’unica traccia della sua
preesistenza erano gli
enormi fori, che in precedenza ospitavano i giganteschi pali appuntiti.
Legarono i cavalli ad un moncone di ferro che spuntava dal terreno,
unico
superstite della furia distruttiva che aveva travolto quella parte del
borgo.
Non trovarono una sola casa integra sul loro cammino, erano state tutte
incendiate, rimanevano solo gli scheletri lignei, oramai carbonizzati e
prossimi al disfacimento. Si diressero verso il centro di quella
piccola
cittadina e quello che temevano di trovare si parò dinnanzi
ai loro occhi:
centinaia di corpi orrendamente dilaniati erano accatastati su quella
che
doveva essere stata la piazza cittadina. Non avevano risparmiato
nessuno, come
sempre; per quei maledetti mostri donne, uomini o bambini non avevano
nessun
valore, erano solo esseri da trucidare nel peggior modo possibile. Si
divertivano a strappare con i loro denti aguzzi gli arti delle persone,
o a
dilaniare con i loro artigli i corpi; traevano piacere dalla sofferenza
che impartivano,
dalla lenta agonia a cui condannavano le loro prede. Orride creature
della
notte, nate dalla mente oscura e potente del Leviatano, che si
divertivano ad
assaltare villaggi in gruppo.
Un
verso proveniente dal retro del pozzo, situato al margine orientale
dello
spiazzo, mise in allerta i tre uomini. Hatrim fece cenno ai due amici
di
rimanere dietro di lui; le loro espressioni erano contrariate per
quell’ordine
che consideravano scellerato, dato che lui era il mago più
potente della gilda
e non si potevano permettere di farlo rischiare. Ma lui era stato
inamovibile,
sarebbe andato in avanscoperta per vedere da cosa e da dove provenisse
quel
guaito.
Mormorò
alcune parole ed una leggera aura color ametista circondò
tutto il corpo;
qualsiasi cosa avesse cercato di colpirlo, sarebbe stata distrutta al
contatto
con quella barriera. Tenere su quella difesa gli costava parecchie
energie, ma
nel breve periodo era capace di sopportare quella fatica. Mentre si
avvicinava
cautamente al pozzo, i lamenti si accentuavano sempre più;
sicuramente non
appartenevano ad un essere umano, il suono era troppo gutturale,
ricordava più
il verso di un animale ferito. Quando finalmente riuscì a
vedere di cosa si
trattasse, rimase senza fiato, era un’Empas. La ferita non
era grave, ma gli
impediva di muoversi; infatti, la lancia che le trapassava la spalla,
la
costringeva a restare seduta immobile contro la parete del pozzo. I
grandi
occhi neri sporgenti, che mal si adattavano al viso tondo e piccolo,
guardavano
pieni di odio il mago; anche il ritmo della respirazione
aumentò
vertiginosamente, infatti dal naso largo e schiacciato provenivano
suoni che
sottolineavano questo stato. I peli intorno alle orecchie si rizzarono.
La
pelle squamosa virò da una tonalità verde chiaro
ad uno scuro, quasi marrone. I
muscoli delle gambe e delle braccia, molto simili agli arti umani, si
gonfiarono; ma ogni sforzo fu vano, non riusciva a muoversi. Era
incredulo, non
aveva mai avuto la fortuna di catturare un esemplare vivo, una volta
tanto il fato
era dalla sua parte. Chiamò a gran voce i suoi amici, che
accorsero
velocemente.
Alla
vista di quei tre uomini il nervosismo della creatura
aumentò sempre più; provò
a divincolarsi, ma la lancia non si spostava di un millimetro.
Cercò di
colpirli con i suoi artigli bronzei, ma i tre si erano posizionati
oltre il
raggio di azione del braccio squamoso.
«Questo
sì che è un colpo di fortuna!»
Esordì Hatrim.
«Perché
dovrebbe esserlo?»
«Non
capisci, Ceutes? Finalmente abbiamo la possibilità di capire
i punti deboli di
questa creatura! Fino ad ora molte delle nostre magie si sono rivelate
inefficaci; se riuscissimo a capirne la natura, potremmo trovare il
modo di
contrastarle più efficacemente.»
«E
dici che basterebbe?» Chiese Teucos.
«La
verità? Non lo so! Però, se grazie ai nostri
esperimenti e alle nostre magie
riusciremo a salvare un solo uomo in più, vorrebbe dire che
ne sarà valsa la
pena.»
«Come
intendi trasportarlo? Le normali sbarre di ferro riescono a malapena a
contenere la sua forza brutale.» Rispose Ceutes.
«Le
rinforzeremo con la magia. Fino ad ora le nostre barriere hanno retto
alla loro
furia.»
«Si,
ma mai per molto!»
«Hai
ragione Teucos. Ma dovevamo sempre erigere una barriera che proteggesse
un
intero villaggio da un'orda di Empas. Questa volta è
diverso, è ferita e siamo
in tre. Possiamo farcela, abbiate fiducia nelle vostre
capacità. Inoltre,
Sieran è solo a cinque giorni di viaggio da questo posto.
Possiamo farcela,
dobbiamo farcela, altrimenti non meritiamo il titolo di mago che
sfoggiamo con
onore.»
I
due maghi si guardarono negli occhi, Hatrim aveva ragione, era compito
loro
mettere fine a quelle incursioni che avevano gettato nel terrore il
continente
di Thaurus. Da quando il Leviatano era comparso, portando con
sé quelle
creature, tutto era andato sotto sopra. Passarono al setaccio quel
villaggio
per trovare del materiale ferroso; erano maghi, ma non potevano creare
una gabbia
di ferro dal nulla o senza una base di partenza. Per quanto fossero
abili nel
manipolare la forma della natura, non erano al di sopra delle leggi di
quest’ultima; erano capaci di trasformare a loro piacimento,
ma non di creare o
distruggere; senza ferro a sufficienza, la gabbia che avrebbero creato
sarebbe
risultata debole.
Mentre
cercavano, si ritrovarono a pensare a quanto fossero stati fortunati ad
avere
Hatrim a capo della loro comunità; non era solamente il mago
più potente che ci
fosse in circolazione, era anche un leader. Era solito stare poco tempo
nel suo
ufficio, gli piaceva partecipare alle missioni, ed era sempre in prima
linea in
caso di pericolo; non si limitava ad impartire gli ordini, era il primo
ad
eseguirli. Era il loro esempio, la loro guida, la persona che li
spingeva
costantemente a migliorarsi. Se non ci fosse stato lui, probabilmente
si
sarebbero arresi molto tempo addietro, alla furia distruttrice di quel
mostro.
Quando ebbero materiale a sufficienza, con una magia costruirono una
gabbia
abbastanza robusta per la loro preda.
Videro
Hatrim applicare una serie di sigilli che non gli avevano mai visto
fare prima,
probabilmente erano una sua nuova invenzione. Poi lo videro mormorare
una
formula magica, che fece addormentare l’Empas; rimasero
sbalorditi nel
constatare che avesse fatto quella operazione delicata, con tanta
semplicità.
Gli diedero una mano nell’estrarre la lancia dalla spalla del
mostro e poi nel
tamponare la ferita. Poi, cautamente, la misero nella gabbia. La parte
più difficile
dell’operazione era andata a buon fine, senza nessun intoppo.
Misero il loro
bottino sul carro, che Hatrim aveva evocato, e partirono subito alla
volta di
Sieran, non avevano un solo minuto da perdere.
Hatrim
batté furioso i pugni sul tavolo, settimane di esperimenti e
nessun risultato
tangibile tra le mani. In un impeto di rabbia gettò tutti i
documenti e tutti
gli strumenti presenti sul tavolo del laboratorio a terra. Un urlo di
rabbia
sgorgò dalla sua bocca. Uscì dalla stanza
furente, come mai lo era stato in
vita sua. Tutte le speranze che aveva riposto in quelle settimane di
studio,
erano state tutte vanificate dal fallimento dei suoi esperimenti
sull’Empas. I
risultati che aveva ottenuto erano quelli già noti. Fuoco,
acqua, elettricità ed
armi riuscivano a ferire la creatura,
potevano anche ucciderla, ma comportava un dispendio enorme di energie.
Occorrevano due maghi abbastanza potenti per poter ferire gravemente
quel
mostro o una decina di uomini ben addestrati, per poterle tenere testa;
non
aveva avuto una sola novità dalle sue sperimentazioni, erano
tutte cose che già
sapeva; anzi, un risultato lo aveva ottenuto: aveva constatato, con i
suoi
occhi, la velocità con cui si rigeneravano i tessuti
danneggiati. Nel giro di
una notte, l’Empas era capace di curare tutte le sue ferite;
otto ore ed era
come nuovo, come se nessun oggetto o magia avesse mai scalfito la sua
pelle
squamosa.
Si
diresse verso le celle dove era incarcerata. La nuova barriera che
aveva
concepito si stava dimostrando molto efficace, durante quelle settimane
di
prigionia non era stata minimamente scalfita dalla creatura magica.
Controllò i
sigilli, erano ancora in ottimo stato, non era necessario sostituirli o
rigenerarli. Osservò la creatura che se ne stava tranquilla
in un angolo della
cella, era rannicchiata su sé stessa e grattava, con i suoi
artigli bronzei, il
pavimento in granito. Appena lo vide scattò in piedi e
provò a saltargli
addosso, ma la barriera la respinse al suolo, stordendola. Hatrim
rimase
impassibile a quello spettacolo: lo aveva visto mettere in atto diverse
volte,
durante quelle settimane; qualche secondo e la bestia sarebbe ritornata
in
piedi, come se nulla fosse accaduto. Osservò con attenzione
il punto illuminato
dal fascio di luce, che entrava dalla grata; potè notare che
la pelle non si
era cicatrizzata perfettamente nel punto dove, qualche settimana prima,
la
lancia l’aveva colpita. La colorazione non era del solito
color verde che
virava verso il marrone, ma era sfumata di una tonalità
più chiara. Come aveva
fatto a non notarlo prima? Era tentato ad avvicinarsi di
più, ma preferì
rimanere dov’era, la creatura si sarebbe ripresa in qualche
attimo. La vide
alzarsi più agguerrita che mai; il suo sguardo trasudava
odio. Se fosse stata
libera sicuramente lo avrebbe assaltato, per dilaniarlo con i suoi
artigli e
straziato la sua carne con i suoi denti aguzzi.
Ritornò
velocemente nel suo ufficio e prese la sacca che aveva con
sé quel giorno,
prese la punta della lancia e cominciò ad esaminarla. Ad
occhio non notava
nulla di strano, era una comunissima lama in bronzo, finemente
lavorata. Il
fabbro che l’aveva forgiata sapeva ben fare il suo lavoro,
considerato che non
vi era nessuna crepa sulla superficie. La poggiò sul bancone
e mormorò una
formula. Il puntale iniziò a librarsi in aria, dapprima
lentamente, poi
cominciò a vorticare sempre più velocemente,
finché non ci fu una piccola
esplosione; diverse sfere caddero pesantemente sul bancone, erano i
diversi
elementi di cui era composta la lega bronzea. Lo stagno e lo zinco
erano i
metalli più presenti, vi era anche qualche traccia di piombo
ed arsenico; ma,
il suo sguardo si posò su una microscopica sferetta, che si
era depositata tra
le venature del legno del tavolo. La prese con una pinzetta e
l’avvicinò per
osservarla meglio, ossidiana. Cosa ci faceva all’interno
della lega? Non era un
componente che di solito si usava per forgiarla. Poteva essere lei il
motivo
della non perfetta cicatrizzazione della ferita? Si spostò
verso l’armadietto
per trovarne un pezzo di dimensioni maggiori; lo trovò nella
parte più in
basso, lo prese e lanciò una magia per dargli la forma che
desiderava.
Si
precipitò verso le celle, voleva subito mettere a frutto
quella pazza idea che
gli era venuta in mente. Si ritrovò nuovamente di fronte
all’Empas; rigirò
nella sua mando destra, diverse volte, quella specie di spada in
ossidiana che
aveva creato; ora che era dinnanzi al suo nemico titubava.
Inspirò
profondamente, dissolse la barriera, portò una mano davanti
a sé ed immobilizzò
al muro l’orrida creatura. Entrò nella cella. Gli
sudavano le mani per la
tensione, perchè non aveva mai usato una lama prima
d’ora. Ripensò per un
attimo a tutte le vittime di quella creatura e l’istinto ebbe
la meglio, colpì
il braccio con tutta la forza che aveva; un profondo squarcio si
aprì lungo la
parte superiore dell’arto, facendo intravedere
l’osso, non lesionando nessun
nervo. Una chiazza di sangue viola si spandeva sul granito della cella,
mentre
il mostro urlava dal dolore. Hatrim uscì dalla segreta,
ripristinò la barriera
e sciolse l’incantesimo di blocco. Lentamente si
trascinò verso la sua camera,
non si sentiva meglio della creatura che aveva appena colpito.
Il
mago si svegliò di soprassalto, quanto tempo aveva dormito?
Guardò verso la
finestra, dalla luce che entrava, ipotizzò che doveva essere
mattino inoltrato.
Dopo gli avvenimenti dell’ultimo giorno, prendere sonno si
era dimostrata
un’impresa. Si vestì pigramente, non aveva molta
voglia di fare alcunché quel
giorno, ma sapeva che non era possibile. Si diresse controvoglia verso
la
cella, il gesto compiuto la sera prima lo perseguitava ancora; si
impose di non
pensare, aveva fatto quell’azione per il bene
dell’umanità, cercò di
convincersi di questo. Aprì il pesante portone di acciaio
che portava alle
prigioni e discese i gradini. La barriera era ancora al suo posto ed
intatta;
trovò l’Empas sempre nel solito angolo, intenta
come al solito a grattare il
pavimento. Tirò un sospiro di sollievo, mentre il senso di
colpa divenne un po’
più leggero.