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Autore: mask89    25/04/2021    25 recensioni
Due ragazzi, nati e vissuti in luoghi completamente diversi, vengono uniti dal destino. Verranno coinvolti nelle vicende del continente di Thauras, dove sono in atto oscure macchinazioni sin prima delle loro nascita.
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo V


Una densa nuvola di fumo nero si alzava all’orizzonte. Il mago guardò i suoi amici, come al solito erano in ritardo, mai che riuscissero ad anticipare quell’orda famelica e distruttrice. Accarezzò la nuca del cavallo; la morbida criniera, al tatto, gli donava sempre una sensazione di tranquillità, emozione che non riusciva più a provare da tempo. Aveva perso il conto delle ore trascorse in viaggio, per tutto il continente di Thaurus; era molto stanco, ma non poteva cedere, aveva una missione da compiere; si sarebbe riposato solo dopo aver messo fine alle sofferenze della popolazione di quel continente. Guardò i suoi amici per infondere loro un po’ di coraggio. Per un attimo si sentì un codardo, un traditore nei confronti della fiducia che riponevano in lui; non aveva molte speranze per sé stesso, eppure voleva donarla agli altri. Un ipocrita, ecco come si sentiva; ma era l’unica strada percorribile, l’unico modo che conosceva per tirare avanti, per avere la forza di alzarsi dal giaciglio appena il giorno sorgeva, per continuare ancora a guardarsi allo specchio. Dopotutto, lui era il capo della gilda dei maghi, gli esseri più potenti di Thaurus e dell’intero mondo di Staras; e allora, perché non riuscivano a mettere fine a quei massacri gratuiti, perpetrati dalle forze del male? Perché gli uomini continuavano a soccombere, dinnanzi a quella soverchiante brutalità? Perché non riuscivano a contrastare quelle orde di mostri? Erano domande a cui avrebbe voluto dare una risposta, ma la verità era che non ne aveva, e lui, dannazione, doveva conoscere quelle fottutissime risposte.
Strattonò irritato le redini ed impartì al cavallo l’ordine di andare al trotto, dopotutto il villaggio non doveva essere molto distante. Durante la cavalcata nessuno dei tre uomini osò fiatare, troppo concentrati nel pensare a come porre rimedio a quella situazione. Si guardavano costantemente intorno per captare eventuali pericoli in arrivo, ma nulla si muoveva, sembrava di camminare tra la morte. La campagna intorno a loro era priva di ogni rumore e la leggera nebbia rendeva ancora più angustiante quel paesaggio.
Hatrim guardò incuriosito il cippo miliare che era posto al margine della strada, l’iscrizione riportava la distanza da percorrere per giungere al villaggio di Fels. Due chilometri, sarebbero arrivati lì nel giro di un’ora, se avessero continuato a mantenere quell’andatura; non avevano la necessità di accelerare, ormai era troppo tardi, come spesso accadeva negli ultimi tempi; inoltre, avrebbero rischiato di affaticare i cavalli inutilmente.
L’acre odore del fumo, ora, era chiaramente percepibile e non faceva presagire nulla di buono. Quando furono vicini alla palizzata del villaggio, i loro presentimenti furono ampiamente confermati; la recinzione difensiva era divelta in più punti e, dove una volta era collocata la porta d’ingresso, ora vi era solo un enorme cratere. Un vento leggero trasportava la cenere ovunque e, delicatamente, la faceva posare tra i loro capelli, come neve. Percorsero lentamente il perimetro difensivo, per cercare un agile punto di ingresso per le loro cavalcature, lo trovarono nella parte più ad oriente. La palizzata era stata completamente distrutta, l’unica traccia della sua preesistenza erano gli enormi fori, che in precedenza ospitavano i giganteschi pali appuntiti. Legarono i cavalli ad un moncone di ferro che spuntava dal terreno, unico superstite della furia distruttiva che aveva travolto quella parte del borgo. Non trovarono una sola casa integra sul loro cammino, erano state tutte incendiate, rimanevano solo gli scheletri lignei, oramai carbonizzati e prossimi al disfacimento. Si diressero verso il centro di quella piccola cittadina e quello che temevano di trovare si parò dinnanzi ai loro occhi: centinaia di corpi orrendamente dilaniati erano accatastati su quella che doveva essere stata la piazza cittadina. Non avevano risparmiato nessuno, come sempre; per quei maledetti mostri donne, uomini o bambini non avevano nessun valore, erano solo esseri da trucidare nel peggior modo possibile. Si divertivano a strappare con i loro denti aguzzi gli arti delle persone, o a dilaniare con i loro artigli i corpi; traevano piacere dalla sofferenza che impartivano, dalla lenta agonia a cui condannavano le loro prede. Orride creature della notte, nate dalla mente oscura e potente del Leviatano, che si divertivano ad assaltare villaggi in gruppo.
Un verso proveniente dal retro del pozzo, situato al margine orientale dello spiazzo, mise in allerta i tre uomini. Hatrim fece cenno ai due amici di rimanere dietro di lui; le loro espressioni erano contrariate per quell’ordine che consideravano scellerato, dato che lui era il mago più potente della gilda e non si potevano permettere di farlo rischiare. Ma lui era stato inamovibile, sarebbe andato in avanscoperta per vedere da cosa e da dove provenisse quel guaito.

Mormorò alcune parole ed una leggera aura color ametista circondò tutto il corpo; qualsiasi cosa avesse cercato di colpirlo, sarebbe stata distrutta al contatto con quella barriera. Tenere su quella difesa gli costava parecchie energie, ma nel breve periodo era capace di sopportare quella fatica. Mentre si avvicinava cautamente al pozzo, i lamenti si accentuavano sempre più; sicuramente non appartenevano ad un essere umano, il suono era troppo gutturale, ricordava più il verso di un animale ferito. Quando finalmente riuscì a vedere di cosa si trattasse, rimase senza fiato, era un’Empas. La ferita non era grave, ma gli impediva di muoversi; infatti, la lancia che le trapassava la spalla, la costringeva a restare seduta immobile contro la parete del pozzo. I grandi occhi neri sporgenti, che mal si adattavano al viso tondo e piccolo, guardavano pieni di odio il mago; anche il ritmo della respirazione aumentò vertiginosamente, infatti dal naso largo e schiacciato provenivano suoni che sottolineavano questo stato. I peli intorno alle orecchie si rizzarono. La pelle squamosa virò da una tonalità verde chiaro ad uno scuro, quasi marrone. I muscoli delle gambe e delle braccia, molto simili agli arti umani, si gonfiarono; ma ogni sforzo fu vano, non riusciva a muoversi. Era incredulo, non aveva mai avuto la fortuna di catturare un esemplare vivo, una volta tanto il fato era dalla sua parte. Chiamò a gran voce i suoi amici, che accorsero velocemente.
Alla vista di quei tre uomini il nervosismo della creatura aumentò sempre più; provò a divincolarsi, ma la lancia non si spostava di un millimetro. Cercò di colpirli con i suoi artigli bronzei, ma i tre si erano posizionati oltre il raggio di azione del braccio squamoso.

«Questo sì che è un colpo di fortuna!» Esordì Hatrim.

«Perché dovrebbe esserlo?»

«Non capisci, Ceutes? Finalmente abbiamo la possibilità di capire i punti deboli di questa creatura! Fino ad ora molte delle nostre magie si sono rivelate inefficaci; se riuscissimo a capirne la natura, potremmo trovare il modo di contrastarle più efficacemente.»

«E dici che basterebbe?» Chiese Teucos.

«La verità? Non lo so! Però, se grazie ai nostri esperimenti e alle nostre magie riusciremo a salvare un solo uomo in più, vorrebbe dire che ne sarà valsa la pena.»

«Come intendi trasportarlo? Le normali sbarre di ferro riescono a malapena a contenere la sua forza brutale.» Rispose Ceutes.

«Le rinforzeremo con la magia. Fino ad ora le nostre barriere hanno retto alla loro furia.»

«Si, ma mai per molto!»

«Hai ragione Teucos. Ma dovevamo sempre erigere una barriera che proteggesse un intero villaggio da un'orda di Empas. Questa volta è diverso, è ferita e siamo in tre. Possiamo farcela, abbiate fiducia nelle vostre capacità. Inoltre, Sieran è solo a cinque giorni di viaggio da questo posto. Possiamo farcela, dobbiamo farcela, altrimenti non meritiamo il titolo di mago che sfoggiamo con onore.»

I due maghi si guardarono negli occhi, Hatrim aveva ragione, era compito loro mettere fine a quelle incursioni che avevano gettato nel terrore il continente di Thaurus. Da quando il Leviatano era comparso, portando con sé quelle creature, tutto era andato sotto sopra. Passarono al setaccio quel villaggio per trovare del materiale ferroso; erano maghi, ma non potevano creare una gabbia di ferro dal nulla o senza una base di partenza. Per quanto fossero abili nel manipolare la forma della natura, non erano al di sopra delle leggi di quest’ultima; erano capaci di trasformare a loro piacimento, ma non di creare o distruggere; senza ferro a sufficienza, la gabbia che avrebbero creato sarebbe risultata debole.
Mentre cercavano, si ritrovarono a pensare a quanto fossero stati fortunati ad avere Hatrim a capo della loro comunità; non era solamente il mago più potente che ci fosse in circolazione, era anche un leader. Era solito stare poco tempo nel suo ufficio, gli piaceva partecipare alle missioni, ed era sempre in prima linea in caso di pericolo; non si limitava ad impartire gli ordini, era il primo ad eseguirli. Era il loro esempio, la loro guida, la persona che li spingeva costantemente a migliorarsi. Se non ci fosse stato lui, probabilmente si sarebbero arresi molto tempo addietro, alla furia distruttrice di quel mostro. Quando ebbero materiale a sufficienza, con una magia costruirono una gabbia abbastanza robusta per la loro preda.
Videro Hatrim applicare una serie di sigilli che non gli avevano mai visto fare prima, probabilmente erano una sua nuova invenzione. Poi lo videro mormorare una formula magica, che fece addormentare l’Empas; rimasero sbalorditi nel constatare che avesse fatto quella operazione delicata, con tanta semplicità. Gli diedero una mano nell’estrarre la lancia dalla spalla del mostro e poi nel tamponare la ferita. Poi, cautamente, la misero nella gabbia. La parte più difficile dell’operazione era andata a buon fine, senza nessun intoppo. Misero il loro bottino sul carro, che Hatrim aveva evocato, e partirono subito alla volta di Sieran, non avevano un solo minuto da perdere.

 

Hatrim batté furioso i pugni sul tavolo, settimane di esperimenti e nessun risultato tangibile tra le mani. In un impeto di rabbia gettò tutti i documenti e tutti gli strumenti presenti sul tavolo del laboratorio a terra. Un urlo di rabbia sgorgò dalla sua bocca. Uscì dalla stanza furente, come mai lo era stato in vita sua. Tutte le speranze che aveva riposto in quelle settimane di studio, erano state tutte vanificate dal fallimento dei suoi esperimenti sull’Empas. I risultati che aveva ottenuto erano quelli già noti. Fuoco, acqua, elettricità  ed armi riuscivano a ferire la creatura, potevano anche ucciderla, ma comportava un dispendio enorme di energie. Occorrevano due maghi abbastanza potenti per poter ferire gravemente quel mostro o una decina di uomini ben addestrati, per poterle tenere testa; non aveva avuto una sola novità dalle sue sperimentazioni, erano tutte cose che già sapeva; anzi, un risultato lo aveva ottenuto: aveva constatato, con i suoi occhi, la velocità con cui si rigeneravano i tessuti danneggiati. Nel giro di una notte, l’Empas era capace di curare tutte le sue ferite; otto ore ed era come nuovo, come se nessun oggetto o magia avesse mai scalfito la sua pelle squamosa.
Si diresse verso le celle dove era incarcerata. La nuova barriera che aveva concepito si stava dimostrando molto efficace, durante quelle settimane di prigionia non era stata minimamente scalfita dalla creatura magica. Controllò i sigilli, erano ancora in ottimo stato, non era necessario sostituirli o rigenerarli. Osservò la creatura che se ne stava tranquilla in un angolo della cella, era rannicchiata su sé stessa e grattava, con i suoi artigli bronzei, il pavimento in granito. Appena lo vide scattò in piedi e provò a saltargli addosso, ma la barriera la respinse al suolo, stordendola. Hatrim rimase impassibile a quello spettacolo: lo aveva visto mettere in atto diverse volte, durante quelle settimane; qualche secondo e la bestia sarebbe ritornata in piedi, come se nulla fosse accaduto. Osservò con attenzione il punto illuminato dal fascio di luce, che entrava dalla grata; potè notare che la pelle non si era cicatrizzata perfettamente nel punto dove, qualche settimana prima, la lancia l’aveva colpita. La colorazione non era del solito color verde che virava verso il marrone, ma era sfumata di una tonalità più chiara. Come aveva fatto a non notarlo prima? Era tentato ad avvicinarsi di più, ma preferì rimanere dov’era, la creatura si sarebbe ripresa in qualche attimo. La vide alzarsi più agguerrita che mai; il suo sguardo trasudava odio. Se fosse stata libera sicuramente lo avrebbe assaltato, per dilaniarlo con i suoi artigli e straziato la sua carne con i suoi denti aguzzi.

Ritornò velocemente nel suo ufficio e prese la sacca che aveva con sé quel giorno, prese la punta della lancia e cominciò ad esaminarla. Ad occhio non notava nulla di strano, era una comunissima lama in bronzo, finemente lavorata. Il fabbro che l’aveva forgiata sapeva ben fare il suo lavoro, considerato che non vi era nessuna crepa sulla superficie. La poggiò sul bancone e mormorò una formula. Il puntale iniziò a librarsi in aria, dapprima lentamente, poi cominciò a vorticare sempre più velocemente, finché non ci fu una piccola esplosione; diverse sfere caddero pesantemente sul bancone, erano i diversi elementi di cui era composta la lega bronzea. Lo stagno e lo zinco erano i metalli più presenti, vi era anche qualche traccia di piombo ed arsenico; ma, il suo sguardo si posò su una microscopica sferetta, che si era depositata tra le venature del legno del tavolo. La prese con una pinzetta e l’avvicinò per osservarla meglio, ossidiana. Cosa ci faceva all’interno della lega? Non era un componente che di solito si usava per forgiarla. Poteva essere lei il motivo della non perfetta cicatrizzazione della ferita? Si spostò verso l’armadietto per trovarne un pezzo di dimensioni maggiori; lo trovò nella parte più in basso, lo prese e lanciò una magia per dargli la forma che desiderava.
Si precipitò verso le celle, voleva subito mettere a frutto quella pazza idea che gli era venuta in mente. Si ritrovò nuovamente di fronte all’Empas; rigirò nella sua mando destra, diverse volte, quella specie di spada in ossidiana che aveva creato; ora che era dinnanzi al suo nemico titubava. Inspirò profondamente, dissolse la barriera, portò una mano davanti a sé ed immobilizzò al muro l’orrida creatura. Entrò nella cella. Gli sudavano le mani per la tensione, perchè non aveva mai usato una lama prima d’ora. Ripensò per un attimo a tutte le vittime di quella creatura e l’istinto ebbe la meglio, colpì il braccio con tutta la forza che aveva; un profondo squarcio si aprì lungo la parte superiore dell’arto, facendo intravedere l’osso, non lesionando nessun nervo. Una chiazza di sangue viola si spandeva sul granito della cella, mentre il mostro urlava dal dolore. Hatrim uscì dalla segreta, ripristinò la barriera e sciolse l’incantesimo di blocco. Lentamente si trascinò verso la sua camera, non si sentiva meglio della creatura che aveva appena colpito.
Il mago si svegliò di soprassalto, quanto tempo aveva dormito? Guardò verso la finestra, dalla luce che entrava, ipotizzò che doveva essere mattino inoltrato. Dopo gli avvenimenti dell’ultimo giorno, prendere sonno si era dimostrata un’impresa. Si vestì pigramente, non aveva molta voglia di fare alcunché quel giorno, ma sapeva che non era possibile. Si diresse controvoglia verso la cella, il gesto compiuto la sera prima lo perseguitava ancora; si impose di non pensare, aveva fatto quell’azione per il bene dell’umanità, cercò di convincersi di questo. Aprì il pesante portone di acciaio che portava alle prigioni e discese i gradini. La barriera era ancora al suo posto ed intatta; trovò l’Empas sempre nel solito angolo, intenta come al solito a grattare il pavimento. Tirò un sospiro di sollievo, mentre il senso di colpa divenne un po’ più leggero.
La creatura magica lo guardò di traverso con i suoi due enormi occhi grigi, evitando di avvicinarsi troppo alle sbarre, memore di ciò che era successo il giorno prima. Hatrim la guardò attentamente, la cicatrice sul braccio destro era ben visibile; la sua intuizione si era rivelata giusta, l’ossidiana poteva causare molti più danni di un’arma comune. Osservò l’Empas, qualcosa non gli tornava; acuì lo sguardo e finalmente riuscì a comprendere. Il braccio da lui colpito era paralizzato, il mostro non riusciva più a muoverlo. Un sorriso si fece largo sul viso. Era riuscito finalmente a trovare qualcosa che fermasse quelle dannate creature. Uscì da quell’angusto luogo di corsa, doveva riferire quello che aveva appreso al resto dei maghi. Finalmente potevano armare gli uomini; questo gli avrebbe consentito di guadagnare tempo, per poter terminare in tutta calma gli studi che stava portando avanti, per poter sconfiggere definitivamente il Leviatano. La fine di quella guerra era vicina, era uno dei più bei giorni della sua vita. 

   
 
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