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Autore: Alkimia    28/08/2009    0 recensioni
E se Christine si innamorasse di Erik fin dall'inizio? E se i direttori del teatro assoldassero qualcuno per indagare sul Fantasma dell'Opera e stanarlo? E se, per tutti, le cose si rivelassero ancora più complicate di quanto sembrano?... Non sono una grande fan della coppia Erik/Christine, ma mi sono sempre chiesta se le cose potevano andare diversamente, questa è la risposta che mi sono data.
Genere: Azione, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO PRIMO
Un uomo di nome Erik

Madame Eloise Giry sollevò la treccia nel solito chignon, era un'acconciatura che trovava estremamente pratica. Sbadigliò un paio di volte davanti allo specchio, mentre sistemava le forcine nella massa di folti capelli castani: aveva dormito poco e male quella notte.
Si gettò uno scialle di lana scura sulle spalle. Anche se suo marito era morto da diversi anni ormai, continuava a portare il lutto.
La donna sospirò osservando i sottili solchi agli angoli della bocca, di recente aveva notato che si erano fatti più marcati ed evidenti, e aveva notato anche che giorno dopo giorno si sentiva sempre più stanca, le sue energie si affievolivano ancora prima che venisse sera. Si era detta che era normale, che è inevitabile il tempo riscuota il proprio tributo, ma non era solo l'età a renderla stanca e spenta; erano anche una serie di preoccupazioni che non poteva condividere con nessuno, un fardello che aveva scelto di portare, consapevole del fatto che sarebbe sempre stata sola ad affrontare quella fatica.
Si stavano verificando una serie di sfortunate coincidenze e lei aveva la netta sensazione che avrebbero portato a qualcosa di tragico.
Il teatro era stato ceduto a due nuovi impresari che avevano preso alla leggera la vicenda del Fantasma dell'Opera, proprio nel momento in cui l'uomo che si nascondeva dietro a quella strana leggenda aveva deciso di rivendicare la propria autorità sul teatro, dando ordini precisi su come dovevano essere allestiti i nuovi spettacoli, su chi dovesse essere la nuova primadonna.
Madame Giry era certa che sarebbe successo, prima o poi. Era la sola a conoscere chi si celava dietro la figura del Fantasma, era la sola a sapere quanta rabbia e quanto dolore si celassero in fondo al suo animo. Così come sapeva che da diversi anni quell'uomo aveva cominciato a dare lezioni di canto alla giovane Christine, quella fanciulla che lei considerava come una figlia. Ora la ragazza aveva sviluppato un talento al di là di ogni aspettativa per merito di quell'uomo, e non c'era da stupirsi se lui avrebbe fatto di tutto perché la bravura di Christine potesse essere riconosciuta.
E Madame Giry sapeva che per il Fantasma dell'Opera “fare di tutto” non era semplicemente un modo di dire.
La donna si alzò dalla sedia e si diresse fuori dalla stanza. Era la direttrice del balletto dell'Opera, e in quei giorni era dedita, come tutti gli altri, all'allestimento del nuovo spettacolo che i direttori avevano deciso di mettere in scena. Le sue allieve avrebbero dovuto preparare un complicato balletto per la rappresentazione del “Il Muto”, ed era ora che cominciassero le prove.
Prima di uscire, Madame Giry trovò un foglio ripiegato sul pavimento davanti alla porta, qualcuno doveva averglielo infilato sotto l'uscio. Era il sistema che usava solitamente il Fantasma per recapitarle i suoi messaggi. Le aveva sempre risparmiato le missive chiuse da un lugubre sigillo di ceralacca a forma di teschio che inviava ai direttori poiché non aveva bisogno di spaventarla perché lei lo ascoltasse. Eloise, dopotutto provava per quell'uomo un affetto inspiegabile quanto sincero ed era certa che anche lui le volesse bene e le fosse grato per l'aiuto e la fedeltà che lei gli aveva sempre riservato.
La donna si chinò a raccogliere la lettera, all'interno del foglio era sistemata una banconota ed erano appuntate poche righe a matita:

Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire, e direi che i problemi di udito dei nostri nuovi impresari sono in uno stato piuttosto avanzato.
Non propinarti in avvertimenti e dimostrazioni di ansia, si rivelerebbe un comportamento troppo sospetto.
In quanto al fatto che i direttori ignorino le mie richieste, troverò un modo per convincerli che non è la condotta più opportuna da mantenere.

Dopo il breve messaggio erano segnate alcune cose che Eloise avrebbe dovuto comprare per lui, e in calce alla missiva c'era la solita formula con cui lui usava concludere le lettere che le inviava:

Saluti.
Erik

Erik, era questo il suo nome. Eloise non sapeva se era un nome inventato o se glielo aveva dato qualcuno, ma quando, anni prima, lo aveva portato via dal circo di zingari in cui era prigioniero lui le aveva detto che si era sempre sentito chiamare così, anche dai suoi carcerieri.

*

«Qual'è il vostro nome?»
«Erik...»

Le mani stringevano il parapetto di pietra che lo separava dal vuoto, come le mura dell'edificio lo separavano dal mondo divenendo a volte prigione a volte riparo, a seconda dell'umore.
Avrebbe dovuto essere a suo agio lì sul tetto dell'Opera Populaire: gli sguardi delle statue di bronzo erano complici e indulgenti, maledettamente vuoti e silenziosi. Occhi scolpiti che non sarebbero mai inorriditi davanti al suo volto.
L'alba di quel giorno di inverno gettava a malapena un velo di luce grigia su Parigi, su quella città che cresceva correndo rapidamente incontro al futuro, lasciandolo indietro. Non bastava spiare la vita da dietro le quinte di un teatro, non bastava leggere libri e giornali per sentirsi parte di quell'umanità di cui non riusciva a tenere il passo.
Il Figlio del Diavolo non era nato per quel mondo, ma allora perché il destino lo aveva scaraventato su quella terra, sotto lo sguardo di una madre che lo aveva abbandonato perché non riusciva a sopportare la sua vista?
Le mani allentarono la presa sulla balaustra, non c'erano poi tante ragioni di rimanere così attaccato a quella vita, e il cornicione del terrazzo era un ostacolo insignificante da arginare, non sarebbe stato un bordo di pietra a fermare il suo volo, e Dio non si sarebbe certo scomodato a inviare angeli e santi per sorreggerlo e frenare la sua caduta, sarebbe precipitato giù, verso lo scalone di marmo che portava all'ingresso del suo teatro e per una manciata di istanti avrebbe smesso di essere un angelo senza le ali. La morte non doveva essere una cosa poi tanto terribile, oltre quella soglia si annulla ogni differenza, per la morte si è tutti uguali, tutti figli da consolare, oltre quel limite c'è solo riposo e oblio.
Gli angoli della sua bocca si sollevarono in un sorriso di scherno, i suoi pensieri formularono la frase che già altre volte aveva attraversato la sua mente: «sono il Figlio del Diavolo, come può l'Inferno rifiutarmi asilo?».
Erik poggiò una mano sul profilo della statua accanto a sé e si diede uno slancio, con un movimento agile balzò sul parapetto e guardò verso il basso, ora non c'era più niente tra lui e il vuoto, solo il freddo e la sensazione quasi inebriante di vertigine. E non un solo pensiero bello che lo trattenesse.
Il mondo non era mai stato così vicino e a portata di mano, l'avrebbe raggiunto in pochi secondi dopo aver saltato.

L'unica speranza che aveva era stata distrutta in un attimo da ciò che a lei doveva essere sembrata collera... e invece era paura. Lei non avrebbe dovuto togliergli la maschera, non doveva conoscere la mostruosità del suo viso prima di imparare ad amarlo per quel po' di luce che aveva nel cuore, quella scintilla che gli dava il potere di tramutare il silenzio in sublime melodia. Aveva avuto paura di vederla scappare via, è per questo che aveva urlato, inveendo contro di lei come se prendersela con quella ragazza avrebbe cambiato in qualche modo le cose, come se maledicendo Christine avrebbe potuto evitare di maledire sé stesso per l'ennesima volta.
Povera Christine, non aveva avuto nemmeno la forza di farfugliare una giustificazione o di chiedere scusa, sembrava così fragile riversa sul pavimento di pietra con il viso rigato di lacrime di pena, un gioiello finito per sbaglio in una viscida palude.
Quando era riuscito a recuperare la calma le aveva detto in tono aspro che doveva riportarla indietro, che sicuramente la stavano cercando. Il tragitto che li aveva condotti fuori dai sotterranei era stato lungo e silenzioso. Lui camminava davanti, rapidamente, con la fretta di chi voleva sottrarsi al più presto da un impegno sgradito, e la ragazza tentava di tenere il passo, ma sembrava che non osasse nemmeno respirare. Solo alla fine, prima di farle attraversare lo specchio e riconsegnarla al suo mondo, come un ladro pentito di un furto troppo grave, lei aveva fatto appello a tutto il suo coraggio e prima che lui andasse via gli aveva parlato.
«Qual'è il vostro nome?» aveva chiesto concedendosi di alzare lo sguardo solo per un attimo.
«Erik...» aveva risposto lui asciutto, prima di voltarsi e sparire nel buio del corridoio di pietra.

Lo sguardo dell'uomo si spostava con scatti febbrili, prima verso il cielo grigio poi verso il pavimento della piazza sotto di sé. Non c'era nessuno, nessuno che potesse spaventarsi nel vedere una persona prossima a saltare dal parapetto del teatro, nessuno che avrebbe pianto la sparizione del Fantasma dell'Opera: i fantasmi scompaiono nel nulla lasciando solo storie macabre da raccontare e un senso sollevante di liberazione.
I muscoli delle gambe fasciate da calzoni di seta scura erano tesi, pronti a piegarsi per andare in avanti, il vento gli asciugava le labbra e gli inumidiva gli occhi. Il silenzio era sempre stato il suo peggior nemico, e ora invece gli sembrava sopportabile, quasi confortante. Il silenzio per lui era il contrario della musica, e la musica era l'arma con cui aveva sempre sconfitto i suoi dolori.
Come era arrivato a quel punto, al punto in cui la musica non era più sufficiente a dare un senso a quel buio che lui chiama vita?
Che cos'era quel dolore che nemmeno la musica riusciva a lenire?
Ah già... era cominciato tutto quando lei aveva smesso di essere solo uno strumento attraverso il quale far conoscere al mondo il suo genio.

«Resterai con me?»
«Sempre!»

Christine gli aveva fatto quella domanda solo pochi mesi prima, quando ancora non poteva immaginare che lui, il suo Angelo della Musica, fosse un uomo, e per giunta un uomo che di angelico aveva decisamente poco, a cominciare dal suo aspetto per finire  con la sua anima.
Christine era come lui, terribilmente spaventata dalla solitudine e dal silenzio.
E lui le aveva detto che sarebbe rimasto con lei sempre... e allora cosa ci faceva lì, pronto a uccidersi per raggiungere quell'Inferno a cui si sentiva destinato? Chi si sarebbe preso cura della carriera di mademoiselle Daae se non ci fosse stato lui? Non certo quei due smidollati che si facevano chiamare direttori e che strisciavano come vermi non appena una primadonna incapace alzava la voce, sicuramente non madame Giry, che per quanto potesse essere affezionata a Christine non aveva alcuna voce in capitolo e meno che mai quel damerino del Visconte che temeva di stuzzicare troppo le malelingue se avesse preso le parti di una ballerina. No, doveva essere lui, doveva mantenere la parola data: stare vicino a Christine, occuparsi di lei... a cosa sarebbe servito renderla una stella se poi gli altri continuavano a tentare di oscurare la sua luce?

Le prove per la rappresentazione de “Il Muto” erano cominciate già da qualche giorno e, contrariamente alle sue richieste, la parte della protagonista non era stata affidata a mademoiselle Daae.
Aveva mandato avvisi ai quei due stolti di cui a volte faceva persino fatica a ricordare il nome, missive scritte con i toni più cordiali che era in grado di utilizzare, ma loro si erano lasciati spaventare da una scenata isterica di Carlotta Giudicelli e avevano deciso di ignorare le sue istruzioni, malgrado lui avesse annunciato il verificarsi di un tremendo disastro.
Erik guardò un ultima volta la piazza vuota sotto di sé e sospirò. Era ora che il Fantasma dell'Opera tornasse a reclamare il diritto di gestire il suo teatro, visto che, contrariamente ai nuovi direttori, ne aveva la capacità. Era ora che l'Angelo della Musica tornasse a prendersi cura della sua protetta, era già da qualche giorno che non le faceva udire la sua voce.

... fino a che tutte le strade portano a te
non ci si può sbagliare...*

L'uomo tornò ad appoggiarsi alla statua accanto a sé, con passi cauti scese dal parapetto e tornò dentro, accompagnato solo dal fruscio del suo mantello.

*

I rumori della strada provenienti dalla finestra annunciarono a madame Ginette Dubois che era  mattina. Parigi stava per mettersi in moto, ed era ora che anche lei si preparasse a uscire. La donna pensò che non si sarebbe mai abituata alla vita di città, ma l'esistenza di una madre è ben poca cosa se vissuta lontano dal proprio figlio, specie se questo è l'unico affetto che le rimane.
Madame Dubois era originaria di un piccolo paese ai piedi dei Pirenei, dove aveva vissuto tutta la sua vita fino a pochi mesi prima. Aveva realizzato giovanissima il sogno di ogni ragazza di buona famiglia: sposare un uomo facoltoso che le fosse affezionato, il fortunato era stato Simon Dubois, notaio della cittadina in cui vivevano. Ricordava perfettamente il giorno del loro matrimonio, ogni volta che si soffermava a pensare a quell'evento la memoria le rimandava l'immagine di sé stessa, giovane, felice e proiettata verso un futuro quanto mai radioso, migliore di ogni più rosea aspettativa. Quando il destino però le aveva portato via il suo primogenito la donna aveva maturato la pessimistica consapevolezza che la vita, prima o poi, si fa pagare cara per ogni istante di felicità che concede. Dopo il doloroso evento erano passati diversi anni prima che lei e suo marito riuscissero ad avere un altro figlio, anni passati all'ombra della paura di non poter mai più essere madre, poi il medico le aveva annunciato che era in attesa di un bambino e quella nuova nascita aveva riportato speranza e gioia nel suo cuore.
Suo figlio si chiamava Alexandre, si era rivelato l'orgoglio dei suoi genitori sostenendo con risultati eccelsi la carriera accademica, giovanissimo aveva deciso di trasferirsi a Parigi per completare i suoi studi di lettere e conoscere meglio il panorama artistico che in quel periodo, proprio in quella città, stava dando vita a movimenti destinati a rivoluzionare l'arte e la letteratura del Vecchio Continente. L'unico problema era sorto quando, dopo alcuni anni trascorsi nella capitale, il ragazzo aveva annunciato di volersi trasferire stabilmente in città, dove aveva trovato lavoro come giornalista. Monsieur e madame Dubois avevano accettato a malincuore la scelta del loro unico figlio, dal momento che gli impegni lavorativi di Simon non permettevano alla coppia di genitori di raggiungerlo a Parigi, ma non avevano mai contrastato quel suo desiderio, consapevoli del fatto che una grande città potesse offrire molte più occasioni a un giovane di talento di quante potessero essercene in una cittadina di montagna. Tuttavia, quando suo marito era morto, facendo di madame Ginette una facoltosa vedova, lei non aveva sopportato l'idea di rimanere sola e aveva annunciato a suo figlio che lo avrebbe raggiunto a Parigi. Per Alexandre era stata una vera sorpresa, non avrebbe mai immaginato che sua madre si sarebbe convinta ad andare a vivere in città, ma era stato contento della sua scelta e si era adoperato a cercare una casa più grande che potesse andare bene per entrambi, così aveva preso in affitto un attico in rue Saint Bernard, nei pressi dell'Opera Populaire, pensando che il teatro avrebbe potuto essere una buona distrazione per la donna.  
Il tempo aveva già soffiato una patina d'argento sui folti capelli che una volta erano stati color ebano e aveva cominciato a segnare il viso con solchi sottili agli angoli degli occhi e della bocca rendendo più duri lineamenti che un tempo erano stati fini e gentili, a prima vista madame Ginette appariva più vecchia dei suoi cinquantaquattro anni e nonostante avesse sempre goduto di buona salute c'era qualcosa nel suo aspetto che dava l'impressione che fosse vittima di qualche strana patologia, di una sorta di malessere interiore che le piagava lo spirito e le intristiva lo sguardo.
Madame Ginette si vestì dopo una rapida toeletta e raggiunse la camera da pranzo dove la domestica aveva preparato la colazione. Suo figlio era già a tavola,
«Buongiorno, maman» la salutò appena la vide arrivare. «Ho una cosa per voi».
Alexandre aveva ventisette anni, somigliava molto a madame Ginette e il suo aspetto estremamente gradevole lasciava intendere che anche lei, tempo prima, doveva essere stata una bella donna. Il ragazzo era di alta statura, e la sua corporatura magra donava un'innata eleganza alla sua figura. Aveva lo stesso colorito chiaro di sua madre, ma al contrario di quanto accadeva a lei, quell'incarnato non sembrava il sintomo di qualche malattia, anzi si sposava alla perfezione con i suoi occhi chiari e con i capelli castani che portava tagliati corti fino alla nuca.
Il giovane indicò una busta da lettere posata accanto alla tazza di sua madre, la donna sbirciò il contenuto con curiosità.
«Sono due biglietti per la prossima rappresentazione che si terrà all'Opera Populaire» spiegò Alexandre. «Me li ha procurati Raoul».
«Il Visconte De Chagny?» chiese madame Ginette, suo figlio annuì.
«Ve lo presenterò quando andremo a teatro, è un mio carissimo amico»
«Sì, ne ho sentito parlare dicono che sia un vero gentiluomo e anche un bel ragazzo»
«Beh sì, uno dei migliori partiti di Parigi, peccato che la fanciulla a cui fa la corte non sembri interessata a lui»
«Chi è questa sciocca?» domandò sarcastica madame Ginette.
«Mademoiselle Daae, ricordate, la soprano che ha cantato nell'Annibale qualche settimana fa» rispose suo figlio versandosi del latte caldo da una caraffa di porcellana.
«Una ragazza molto graziosa»
«Già, lui l'ha invitata a cena dopo lo spettacolo ma pare che lei abbia rifiutato accampando una scusa del tutto implausibile»
«Evidentemente la ragazza non ha il cuore libero ma non vuole che si sappia» ipotizzò la donna. «Ma non capisco perché il Visconte debba darsi tanta pena per una cantante, può trovare certamente partiti migliori di lei».
Alexandre scrollò le spalle, non amava i pettegolezzi, specie quelli che riguardavano uno dei pochi amici davvero cari che aveva a Parigi.
«Il giovane Visconte pare sia uno degli scapoli d'oro della città, e pensare che questo titolo potrebbe spettare anche a te, se solo ti interessassi un po' di più a cercare una fidanzata!» disse madame Ginette fingendo noncuranza.
Suo figlio sapeva che la donna non perdeva occasione di rammentargli quanto la sua condizione di celibe la preoccupasse e le creasse disagio, non capiva perché Alexandre insistesse a perdere più tempo dietro le sue scartoffie, alla ricerca di storie da scrivere, piuttosto che nel tentativo di trovare una brava ragazza da sposare. Lui non sembrava far troppo caso alle speranze disattese di sua madre riguardo a un suo prossimo matrimonio, Alexandre aveva sogni e urgenze che riteneva più soddisfacenti del vedere madame Ginette commuoversi durante una cerimonia nuziale: era alla ricerca di una storia da raccontare, voleva pubblicare un romanzo e farne un capolavoro destinato a far conoscere il suo nome a numerose generazioni future. Si considerava un bravo scrittore, e di fatto lo era davvero, la sua brillante carriera di giornalista lo provava, ma a lui non bastava redigere articoli di una pagina su un quotidiano, insiemi di parole che venivano dimenticate il giorno dopo, sostituite dal resoconto dell'ultimo fatto di cronaca, lui voleva una storia avvincente da raccontare, e purtroppo il suo talento nel mettere insieme le parole sulla carta non corrispondeva a un altrettanto grande dose di fantasia.
«Oh, suvvia maman, vedrete che mi sposerò quando meno ve lo aspettate e allora vi lagnerete del fatto che non sarete più l'unica donna della mia vita!» esclamò Alexandre con aria ironica.

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* questa frase è presa dal testo del brano "Tutte le strade portano a te" di Ligabue

 Al solito, il nome di Madame Giry non compare da nessuna parte, per abitudine nelle mie fanfiction la chiamo sempre Eloise.

Capitolo reinserito il 18\12\2011
   
 
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