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Autore: arashinosora5927    26/04/2021    2 recensioni
Io prima di te, o più nel dettaglio il passato di Gokudera dalla nascita con particolare focus sul giorno in cui abbandona il castello, passando per il canon di Bakudan Bambino, esplorando i cinque anni che ha trascorso a vivere per strada prima che incontrasse Tsuna.
[accenni5927] [59 centric]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Bianchi, Hayato Gokudera, Tsunayoshi Sawada
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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L'abbandono di Shamal lo aveva segnato profondamente, così tanto da convincerlo che in realtà tutti lo odiassero. Alfonso aveva smesso anche solo di cercare di parlargli, Clara lo ignorava come al solito, Bianca - o forse avrebbe dovuto chiamarla "Alessandra"?- era quella che lo preoccupava di più.

Da mesi ormai non era la stessa di un tempo e sembrava solo intenzionata a perfezionare le sue tecniche da assassina, lavorando a tempo pieno su quella che aveva chiamato "poison cooking", ricercando gli ingredienti più velenosi in giro per il mondo facendosi autorizzare a viaggiare.

Personaggi bizzarri di ogni tipo si alternarono quell'anno a Villa Bianchi, tra questi Hayato rimase decisamente colpito da un povero martire, un certo Romeo Bovino dai riccioli corvini e gli occhi smeraldo. Questo ragazzetto aveva trovato il coraggio di intraprendere una relazione con sua sorella, quando era evidente che questa lo sfruttasse solo come cavia.

Meglio lui che me aveva pensato Hayato, aveva perso il conto delle giornate passate a vomitare perché Bianca si ostinava a testare su di lui le nuove creazioni.

D'estate Romeo era rimasto come ospite per quasi un mese durante il quale Hayato aveva avuto la possibilità di conoscerlo un po' meglio. Non aveva reperito molti elementi, ma di una cosa era certo Romeo voleva toglierselo dalle scatole per questo Hayato non faceva in tempo ad avvicinarsi che si trovava qualche lira in mano accompagnata dalla frase "vai a comprarti un gelato." Poco male, soldi gratis e cibo, ma al contempo era l'ennesima persona che sembrava non sapere che farsene della sua presenza.

Solo Elisa era ancora gentile con lui, affettuosa, ma lo faceva solo perché era il suo lavoro, Hayato aveva la sensazione che se non fosse stata pagata per questo non lo sarebbe mai stata.

Forse non meritava amore e non meritava dolcezza. Se era così che stavano le cose, non ne avrebbe neanche dispensati.

Giunse il momento in cui il suo cuore si incupì e Hayato iniziò ad alimentarsi a odio. Cominciò a odiarli tutti, i suoi genitori, sua sorella, Elisa stessa, chiunque fosse più grande di lui era un nemico.

Gli adulti erano solo un cumulo di menzogne e promesse infrante, egoismo e cattiveria. Hayato li avrebbe ripagati con la stessa moneta.

Divenne insopportabile, una piccola peste ingestibile alla quale presto si arresero anche gli insegnanti più severi. Le botte che riceveva non facevano che accrescere il suo odio per l'umanità intera.

In questo periodo iniziò a pensare seriamente che forse era finito sul pianeta sbagliato, i suoi veri genitori dovevano essere dei fantastici alieni che ancora cercavano il bambino che era precipitato giù dalla navicella spaziale durante il tragitto per tornare a casa.

Sapeva che era solo una bella storia, ma guardando il cielo stellato si sentiva più vicino a quegli esseri diversi da quelli sul pianeta in cui era nato e trovava conforto.

Quell'estate Romeo morì, avvelenato da Bianca dopo che Hayato l'aveva sorpresa a parlare di quanto lo amava davanti allo specchio. Anche lei forse era rimasta avvelenata, bruciata dall'acido che si respirava tra le mura della loro villa. Se ne rendeva conto, era troppo intelligente per fare finta di niente.

Avrebbe voluto parlarle, fermarla, ma ogni volta che incrociava il suo sguardo il suo stomaco andava in pezzi costringendolo a piegarsi a metà e questa era la versione migliore della conseguenza. C'erano stati episodi in cui era svenuto sul colpo, a volte sbattendo la testa, altre volte solo accasciandosi a terra lentamente dandosi la possibilità di sistemarsi.

Bianca non si era più avvicinata a lui dopo che lo avevano dovuto ricoverare. Non le era ancora chiara la dinamica, ma si convinse di essere un pericolo per il fratellino. Smise di preparargli ogni sorta di cibo per alleviare la sua sofferenza e si concentrò solo sulle sue cavie, Hayato non era mai stato in questa lista.

La vita lo aveva provato, non sapeva più come contenere il suo odio, la paura, la rabbia e in fondo credeva che fosse finita, che ci fosse un limite a quanto il mondo intero potesse prendersela con un bambino di sette anni.

Dovette ricredersi due volte nello stesso mese: la prima gli spezzò il respiro, la seconda il cuore.

Clara aprì la porta di quella stanza, quella stanza dove non entrava mai perché anche solo entrarci sarebbe significato qualcosa, Hayato ne vide solo l'ombra. Si trovò sollevato da terra, i piedi potevano solo sognare di sfiorare il pavimento, stretto dal colletto della camicia dal quale Clara lo stava tenendo, negli occhi della donna ribolliva odio puro.

"È colpa tua sai" disse con un tono tanto calmo da risultare inquietante, completamente in contrasto con l'espressione contrita sul suo viso.

"Se tu non ci fossi mai stato lui sarebbe ancora mio..." proseguì.

Hayato tossiva, si dimenava nel disperato tentativo di liberarsi, di non soffocare, ma invano.

Clara lo portò fuori, nel corridoio, lo lasciò cadere come se fosse un oggetto e Hayato si accasciò a terra cercando di riprendere fiato.

"Lui sarebbe ancora mio" ripeté Clara mettendosi le mani tra i capelli.

"Lui sarebbe ancora mio" urlò stringendosi appena in sé stessa.

"Ma sai, non finisce qui. Tu hai tolto l'amore a me e io l'ho tolto a te, tesoruccio della mamma. Ti ucciderei, ma preferisco che tu muoia lentamente, giorno dopo giorno in questa solitudine che ti stai costruendo così bene e che ti sta corrodendo, bravo bambino" mormorò con lo stesso tono in cui aveva parlato quando era entrata nella stanza interrompendo la sua contemplazione del cielo stellato.

Hayato a stento riusciva a credere alle sue orecchie, per tutta la vita aveva pensato che non fosse normale il modo in cui sua madre gli si rivolgeva, ma adesso ne aveva la conferma, lo odiava per davvero.

"Diventerai come me" disse Clara passando le sue unghie rosse sotto al piccolo mento di Hayato, aveva una manicure perfetta e con le dita simulava dei piccoli coltelli.

"Già inizi ad assomigliarmi così tanto" disse mettendosi le mani sul viso mostrando un entusiasmo malato.

"Dovrei essere già soddisfatta e invece... invece non mi basta" disse mentre il suo tono cresceva nel volume.

"Ti odio" cominciò a ripetere a raffica e quanto più lo diceva tanto più urlava.

Hayato si era rannicchiato contro il muro, tremava incapace di parlare e anche incapace di smettere di guardare. Nel suo inconscio voleva registrare tutto, dire a se stesso come stavano le cose così da non poter mai più avere dubbi in materia.

I corridoi di Villa Bianchi erano decorati con numerose statue e vasi dall'aspetto non solo costoso, ma anche fragile e pesante. Clara sollevò quello a sé più vicino, lo tenne tra le braccia per un istante come se fosse un bambino poi lo scagliò contro Hayato.

"Basta, mamma!" fece in tempo a sentire, si preparò all'impatto stringendosi in se stesso, ma niente di tutto questo avvenne.

La figura di Bianca lo aveva protetto, un lato della sua fronte sanguinava mentre cocci di ceramica erano sparpagliati sul pavimento.

"Bianca..." urlò Clara.

"Bianca, no... oh cielo la mia bambina" proseguì con lo stesso tono.

Numerosi servitori accorsero destati da tutto quel trambusto, persino alcuni membri della famiglia si riversarono nel corridoio come un fiume in piena, testimoni di ciò che era successo.

Daniele immobilizzò le mani di Clara dietro la schiena, alcune cameriere cercarono invano di dire "si calmi, signora."

"Hai visto che cosa hai fatto?!" strillò Clara cercando di dimenarsi.

"Sei la rovina di questa famiglia, ci hai distrutti uno ad uno."

Bianca si tenne la testa, con la punta del mignolo sfiorò una delle manine congelate di Hayato come se volesse rassicurarlo.

"Basta, mamma. Io non voglio odiarlo, tu non devi odiarlo. Lui non ha nessuna colpa, è solo un bambino" disse cercando di tenere un tono stabile.

A Daniele si aggiunsero gli altri uomini che pian piano iniziarono a trascinarla via.

Hayato riuscì a registrare qualcosa circa un reparto psichiatrico e l'avvertire il boss, ma l'unica cosa che riusciva a vedere era il sangue che dalla fronte di Bianca si abbatteva sul pavimento.

Forse c'era qualcuno che lo amava veramente, ma non voleva continuasse a ferirsi a causa sua.

"La mamma è malata" disse Bianca con sicurezza.

"Per questo ti odia, se non fosse malata saprebbe amarti, Hayato. Ti prego non credere a una sola parola che ti ha detto, qui nessuno ti odia, piccolo."

Un gruppetto di uomini subordinati primari di loro padre si avvicinò li aiutò ad alzarsi. Bianca fu portata di corsa in ospedale mentre Hayato venne lasciato alle cure di Elisa, con l'ordine specifico di non lasciarlo mai più da solo neanche per un istante.

Quella non chiuse occhio nemmeno per un istante, le parole e le immagini rieccheggiarobo nella sua mente e a nulla valsero le rassicurazioni. Era tutto sbagliato, forse lui sbagliato lo era davvero.

Non valeva niente, di questo si convinse giorni dopo giorno, ma ciò nonostante voleva comunque imparare a fare qualcosa, così da poter proteggere Bianca anche senza guardarla in faccia.

Shamal era un bugiardo, uno stronzo, un coglione, un donnaiolo pervertito e alcolizzato, ma una cosa buona gliela aveva lasciata, quella tecnica con la dinamite per autodifesa o perché no anche attacco.

Avrebbe affinato la sua mira perché non ci fossero mai più Andrea coinvolti, avrebbe continuato ad allenarsi.

Non voleva più essere Shamal, voleva essere solo Hayato Bianchi, assassino professionista indipendente.

Più il tempo passava più il risultato concreto era avere sprecato una foresta intera in aeroplanini di carta, senza riuscire a prenderne neanche uno.

Era frustrato, ormai aveva otto anni eppure non era ancora riuscito a imparare quella dannata tecnica.

Aveva persino trascorso tutto il giorno del suo compleanno ad allenarsi, ma con scarsi risultati.

Tuttavia era anche un bambino che nonostante tutto ciò che aveva subito riusciva ancora a trovare la gioia in piccolissime cose della vita. Per esempio una merenda golosa, di quelle preparate dalle numerose cuoche della Villa.

Dopotutto doveva avere qualche vantaggio essere così ricchi?

Per questo stava correndo verso la cucina principale, un aeroplano di carta ancora stretto tra le mani. Al pensiero di assaporare quel parfait alle fragole con la panna era persino riuscito a sorridere spensieratamente.

"Sono già passati cinque anni da allora" udì chiaramente la voce di una delle cameriere.

"Da quando?" domandò un'altra accanto a lei, stava allestendo un cabaret di dolci che faceva venire l'acquolina in bocca.

Hayato si sporse appena, la sua prima intenzione non era quella di origliare, ma di entrare senza che le giovani donne sì prendessero un colpo vedendolo apparire all'improvviso.

"Da quando è morta la madre del signorino Hayato" furono quelle parole che lo bloccarono con il corpo mezzo dentro e mezzo fuori la stanza.

Una giovane dai capelli castani si girò di scatto, teneva una scopa in una mano mentre con l'altra si era coperta la bocca.

"Il signorino Hayato non è figlio della nostra Madonna?" domandò.

Hayato fece giusto in tempo a schiacciarsi con la schiena contro il muro per non essere visto. I suoi occhi si sgranarono, un barlume di speranza li colse.

"No, Cettina, tu sei nuova qui quindi forse non te lo hanno ancora detto. Il signorino Hayato è il figlio che il boss ha avuto da una giovane pianista. Misteriosamente scomparsa cinque giorni dopo il terzo compleanno del signorino."

"Misteriosamente un corno. Il padrone l'ha uccisa, l'incidente stradale è stata solo una simulazione. La macchina è precipitata in un punto in cui era impossibile uscire fuori strada e sul sedile accanto al suo hanno trovato un pacchettino. Era un regalo per il signorino."

"Silenzio, Marisa! Il padrone ti farebbe giustiziare se ti sentisse."

"Dico solo le cose come stanno."

"Comunque qui lo sanno tutti, tranne il signorino, ovviamente. È una vecchia storia e la Signora ha fatto una confusione pazzesca per mettere a tacere le voci che la facevano passare per la cornuta della situazione."

"Oh cielo..."

Le voci delle servitrici che continuavano a spettegolare gli arrivavano sempre più soffuse e confuse.

Mia madre era una giovane pianista? era tutto ciò a cui riusciva a pensare.

Gli occhi sgranati e lucidi si annebbiarono quando di colpo venne travolto da una marea di ricordi che aveva provato disperatamente ad archiviare. Già erano amari, ma adesso ancora di più, avevano il sapore della menzogna perché nessuno era esente da colpa e un gusto talmente acre da dargli il volta stomaco.

Lui era figlio di una giovane pianista, era il figlio di Lavinia.

La bocca rimase aperta solo per permettergli di respirare mentre un urlo disumano si levava da quella gola. Il momento di realizzazione aveva lasciato il posto alla disperazione, lasciando fluire le lacrime che avevano preso il controllo.

Corse a perdifiato sbattendo contro una delle servitrici che stava portando una pila di piatti in cucina, riprese a correre ignorando i richiami della stessa e delle colleghe che si erano appena affacciate. Lasciò cadere ogni "signorino Hayato" nell'oblìo e continuò a muovere le gambe il più velocemente possibile senza una meta precisa.

Raggiunse l'entrata principale spalancando le porte a calci e pugni, continuando a sgolarsi mentre sempre più persone lo rincorrevano e cercavano di fermarlo.

Iniziò a lanciare loro dinamite, non gli importava. Potevano crepare tutti, dal primo all'ultimo e suo padre era in cima alla lista.

Scavalcò il cancello e si riposò solo per un istante, poi riprese a correre.

Finì la voce macinando chilometri e chilometri finché non si rese conto di essersi perso. Aveva così tante lacrime addosso e un viso in deturpato dalle stesse, pensava di averle finite, ma continuavano a uscire.

Si fermò in una piazza, tossì, sentì il petto contrarsi come se volesse spezzarsi a metà, poi improvvisamente riuscì a rilasciarlo.

Ogni pezzo del puzzle aveva trovato il suo posto e come aveva sempre pensato lui non c'entrava niente con quel disegno.

Avevano raggiunto la città, il centro di Palermo, ma non aveva intenzione di rispondere alle persone che preoccupate avevano iniziato a chiedergli dove fossero i genitori.

Riprese a correre e raggiunse un vicolo isolato, uno di quelli simili a dove si radunavano i teppisti.

Si sedette sul marciapiede respirò profondamente. Osservò il cielo tingersi di nero e la luna sorgere.

Chiuse gli occhi appoggiando la testa sull'asfalto e lasciò andare l'ultima lacrima di quel giorno.

"Non ci tornerò mai più, mamma, te lo prometto" mormorò a nessuno e si addormentò sfinito con la consapevolezza che almeno non era in un posto in cui avrebbero finto di amarlo.
   
 
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