Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: _Valchiria_    27/04/2021    3 recensioni
“Ehi!” – ripeté con un po’ di affanno quando gli fu vicino.
L’uomo si girò a guardarla e, a quel punto, a Mikasa tornò di nuovo quello strano senso di vertigine di poco prima, solo che quello che stava provando in quel momento era molto più disturbante del precedente.
Gli occhi di quello sconosciuto, di un verde impossibile e grandi, enormi, in quel momento le sembrarono irrazionalmente familiari, come se lei li conoscesse da sempre. Per sempre.
Come se li avesse visti specchiarsi nei suoi infinite volte. Come se li avesse incontrati di nuovo dopo un lungo sonno durato secoli.
Questo, però, non era possibile.
Quel ragazzo, che ora le stava di fronte, era un perfetto sconosciuto per lei. Prima di quel momento, loro due non si erano mai incontrati.
Allora perché sentiva il cuore batterle nel petto più forte di un tamburo? Che fosse avvenuto uno strano colpo di fulmine dovuto all’innegabile e avvenente aspetto dell’uomo?
[Eremika. Reincarnation AU. Leggeri spoiler per la fine del manga]
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eren Jaeger, Mikasa Ackerman
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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I was late but I arrived.



You see my face like a heart attack, don’t you mind.
[“Me” The 1975]
 
 
Quella mattina, Mikasa era ancora più di fretta del solito. La sera prima, a causa della stanchezza che aveva accumulato nei giorni precedenti, aveva dimenticato di impostare la sveglia e questo aveva determinato il suo attuale ritardo su tutta la linea.
E quella mattina non poteva permetterselo, dannazione!
Aveva un dannatissimo appuntamento con un nuovo paziente che le aveva chiesto di iniziare la terapia e lei doveva essere in ufficio almeno una ventina di minuti prima rispetto all’orario pattuito con il nuovo cliente; e invece, dannazione di una dannazione, erano già le sette e quaranta del mattino e lei era ancora ferma alla banchina del treno, aspettandolo.
Quella mattina, poi, faceva anche freddissimo e lei, nella fretta, aveva dimenticato persino di prendere una sciarpa ed un paio di guanti con cui coprirsi. Rabbrividì e si strinse meglio nel cappotto lungo e rosso che l’avvolgeva, mentre sentiva il treno arrivare veloce in banchina e la gente attorno a lei iniziare ad accalcarsi l’una sull’altra per sperare di occupare, se non un posto a sedere, almeno uno spazio meno congestionato rispetto ad un altro.
Come al solito, l’interno del vagone era estremamente pieno. Lei era riuscita a trovare un piccolo spazio tra la porta d’ingresso del vagone e varie schiene di sconosciuti che le facevano da scudo ogni volta che l’equilibrio le veniva meno. Mikasa fissò lo sguardo nel vetro sporco della porta scorrevole e sbuffò, contando mentalmente le fermate che la separavano dalla sua di destinazione.
Quel paziente sembrava avere una strana urgenza di iniziare al più presto il ciclo di incontri. Chissà come mai. Forse crede che così facendo, possa esorcizzare al più presto il male che lo affligge, pensò Mikasa, mentre cercava, ad ogni scossone del treno, di non perdere l’equilibrio.
Effettivamente, quel “J.E.”(il paziente si era firmato sempre e solo così ad ogni e-mail che le aveva inviato) le aveva chiesto insistentemente di poter essere ricevuto quanto prima. Per Mikasa non vi erano stati problemi a quella richiesta, in quanto la sua agenda, in quel periodo, non era fittissima di appuntamenti, quindi era riuscita ad accontentare la fretta di “J.E”. La cosa strana e che all’inizio non tornava a Mikasa, però, stava nel fatto che quella persona le aveva chiesto di non fissare l’appuntamento telefonicamente. Voleva fare tutto tramite e-mail, mantenendo, almeno in quella prima fase, l’anonimato. Di primo acchito, a quella strana richiesta, Mikasa si sentì agitata. Pensò subito che dietro quelle iniziali con cui si firmava il paziente e quella sua assurda richiesta si nascondesse un personaggio losco. Pensare certe cose era più che lecito, in quanto la situazione era sospetta.
Di fatti, Mikasa accettò l’incontro con quello strano soggetto (e le sue strane condizioni) solo dopo aver ricevuto una chiamata da un certo Zeke Jeager, un uomo che diceva di essere il tramite di quel tale,J.E.
Zeke Jaeger ci mise poco a confermarle la sua effettiva affinità con il paziente misterioso. Durante quella loro chiamata, quest’ultimo le dimostrò di essere a conoscenza dei dati anagrafici e personali dell’uomo che le aveva chiesto di iniziare il ciclo di sedute.
Garantisco io per lui, le aveva detto.
Così, avevano fissato l’appuntamento per quel giorno alle otto e trenta del mattino, orario che in quel momento, a telefono, le era sembrato perfetto ma che ora, compressa tra la schiena di uno sconosciuto e la porta scorrevole e lercia del vagone, in un clamoroso ritardo, le suonava come la più grossa cazzata del secolo.
L’autista del treno cambiò l’intensità della guida, virando energicamente a destra. Questo cambio repentino di ritmo interruppe i pensieri di Mikasa e distrusse l’equilibrio della ragazza e di quasi tutti i passeggeri nel vagone, che iniziarono a traballare e a cercare appiglio ovunque per non cadere.
Mikasa perse il conto di quante volte avesse chiesto scusa per aver involontariamente urtato la spalla a qualcuno, o per aver pestato il piede a qualcun altro.
Per fortuna, riuscì a trovare di nuovo il suo equilibrio divaricando le gambe sul posto ed il suo viaggio continuò ancora per qualche fermata.
La sua sarebbe stata la prossima ed era anche quella in cui scendeva e risaliva sempre tanta gente, in un continuo riciclo di volti e di abitudini.
Finalmente, le porte si aprirono e una fiumana di persone iniziò a defluire verso l’uscita. Mikasa bramava l’aria esterna e non viziata, che invece c’era lì dentro, con tutta se stessa. Stava per uscire dalla porta quando vide cadere una sciarpa rossa a terra.
Era sicuramente di quel ragazzo che le stava davanti, anche se la folla attorno a loro, intenta ad uscire, le aveva un po’ coperto la visuale.
Mikasa si chinò a raccoglierla e nel momento in cui le sue dita toccarono quel pezzo di stoffa, sentì il proprio corpo venire pervaso da una strana vertigine. Un mal di testa improvviso e penetrante le avvolse le tempie e lei, d’istinto, si portò una mano a massaggiarne una. L’azione, vista dall’esterno, fu rapidissima ma lei sentì, invece, come se fosse passata un’intera eternità condensata in quell’unico gesto.
Che diavolo era successo?
Forse si era abbassata verso terra troppo velocemente e la pressione bassa le aveva giocato un tiro mancino; o forse l’aria viziata di quel vagone stava iniziando a farle un cattivo effetto.
Mikasa scosse la testa, cercando di allontanare quella strana sensazione da sé, e si rimise in piedi, tenendo la sciarpa tra le mani. Riuscì finalmente ad uscire dal vagone.
“Ehi! Scusami!” – i suoi tacchi risuonarono contro il pavimento della banchina mentre cercava di affrettare il passo per restituire quella sciarpa al proprietario.
Evitando qualche passante qua e là, riuscì a raggiungere la sagoma dell’uomo da cui le era sembrata che fosse caduta la sciarpa.
“Ehi!” – ripeté con un po’ di affanno quando gli fu vicino.
L’uomo si girò a guardarla e, a quel punto, a Mikasa tornò di nuovo quello strano senso di vertigine di poco prima, solo che quello che stava provando in quel momento era molto più disturbante del precedente.
Gli occhi di quello sconosciuto, di un verde impossibile e grandi, enormi, in quel momento le sembrarono irrazionalmente familiari, come se lei li conoscesse da sempre. Per sempre.
Come se li avesse visti specchiarsi nei suoi infinite volte. Come se li avesse incontrati di nuovo dopo un lungo sonno durato secoli.
Questo, però, non era possibile.
Quel ragazzo, che ora le stava di fronte, era un perfetto sconosciuto per lei. Prima di quel momento, loro due non si erano mai incontrati.
Allora perché sentiva il cuore batterle nel petto più forte di un tamburo? Che fosse avvenuto uno strano colpo di fulmine dovuto all’innegabile e avvenente aspetto dell’uomo?
No, improbabile. Mikasa non era quel tipo di persona che dava adito a certi luoghi comuni e fantasticherie.
Mentre negava a se stessa certi pensieri, Mikasa sentì addirittura la necessità di collegare un nome a quelle iridi, nome che non aveva mai sentito prima e che, invece, in quel momento aveva iniziato a rimbombarle nella testa mentre lo guardava.
Eren.
Eren.
Eren.
Eren?
Chi diavolo era Eren?
E perché quel nome le faceva sentire il cuore stretto in una morsa improvvisa di felicità mista a paura?
Mikasa si sentì di nuovo stranita e arricciò il naso, cercando di recuperare una certa compostezza giusto per non spaventare l’uomo d fronte a sé che lei aveva appena fermato e che ora stava guardando insistentemente da qualche minuto come una sciocca.
Lo sconosciuto sembrò contraccambiare per un attimo il suo sguardo stralunato e sorpreso. Mikasa, però, giurò di esserselo immaginata, in quanto quelle espressioni durarono poco sul volto del ragazzo.
“Credo che questa sia tua.” – Mikasa lo disse improvvisamente, ponendo fine a quell’imbarazzante silenzio e gioco di sguardi insistenti.
Il ragazzo la guardò indecifrabile ancora per qualche istante. Poi abbassò lo sguardo sulla sciarpa che Mikasa gli stava mostrando. Ancora, rialzò lo sguardo e lo puntò di nuovo negli occhi della ragazza. Le sorrise con gentilezza e Mikasa giurò di aver visto delle lievi fossette solcargli le guance.
“Sì, lo è. Grazie.” – rispose.
Anche la voce dello sconosciuto, lenta e controllata, le sembrò familiare.
Anche questa le provocò strane reazioni.
Doveva uscire da quel luogo chiuso e affollato. Stava iniziando a dare i numeri.
Mikasa annuì e gliela porse. Lo sconosciuto le annuì di rimando e poi le fece un cenno con la testa a mo’ di saluto, riprendendo di nuovo il suo cammino verso l’uscita.
Quella che si era appena conclusa, era stata una classica scena che poteva svolgersi tra due perfetti estranei in un qualsiasi luogo del mondo.
Peccato che Mikasa stesse osservando immobile e confusa, quasi nostalgica, come la schiena di quel tipo si allontanasse gradualmente dalla sua visuale. In un ulteriore moto irrazionale pensò ‘lo stai facendo di nuovo.’
Ma cosa, esattamente?
 
̃  ˳    ̃


Le era servito un caffè bello forte per poter mettere a tacere quello strano ronzio che le stava attanagliando la testa da quando aveva toccato quella sciarpa rossa.
L’aveva preso di corsa ed in piedi al bancone del bar della stazione, perché non aveva tempo per sedersi ad un tavolino e rilassarsi. Era in ritardo e doveva sbrigarsi.
Alle otto e quindici minuti, Mikasa mise finalmente piede nel suo ufficio.
Era incredibile come fosse riuscita ad arrivare quasi in orario a lavoro.
Prese lo specchietto che portava nella borsetta e controllò un po’ in che condizioni fosse il suo aspetto. Mikasa non era vanitosa, però ci teneva ad essere presentabile ed elegante, soprattutto quando doveva incontrare i pazienti nuovi.
Accettabile, si disse.
Ripose lo specchietto dov’era e cominciò a sistemare la scrivania; accese il computer e si sedette sulla sedia foderata in eco pelle nera, aspettando che quello strano J.E. arrivasse come pattuito.
Era intenta a controllare le e-mail al computer, quando sentì qualcuno bussare con le nocche della mano alla porta.
Mikasa, senza staccare gli occhi dal monitor, diede il consenso per entrare.
“Buongiorno, dottoressa.”
Al suono di quella voce, gli occhi di Mikasa saettarono verso il proprietario di essa.
In piedi davanti a lei e con la porta del suo ufficio alle spalle, se ne stava il ragazzo della sciarpa.
Mikasa rimase per qualche secondo in silenzio, probabilmente con un’espressione da stupida stampata in volto.
Senza volerlo, si portò una mano alla tempia destra, nel vano tentativo di scacciare quello strano mal di testa che sembrava esserle ritornato proprio ora.
Dannazione, che cosa poco professionale.
Il ragazzo attese una sua risposta senza battere ciglio.
Mikasa si ricompose, cercando di ignorare quelle strane fitte e di fare bene il suo lavoro.
“Salve. Lei deve essere il signor J.E. . Prego, si segga.”
L’uomo annuì e si accomodò sulla sedia di fronte alla sua scrivania.
“Preferisce che io la chiami ancora con le iniziali del suo nome e cognome o-“
“Sono Eren Jaeger.”
Eren.
Mikasa sentì qualcosa nel suo stomaco fare le capriole. Il ragazzo della sciarpa, anzi no, J.E. ,si chiamava effettivamente Eren.
Eren.
Il nome che lei aveva sentito rotolarle sulla punta della lingua poco prima quando l’aveva incontrato nel treno.
J.E.
Jaeger Eren.
Eren.
Il suo mal di testa iniziò a peggiorare mentre pensava che quella fosse davvero una strana coincidenza.
“Eren Jaeger, molto bene.”
Quell’Eren iniziò a guardala ancora più insistentemente, inchiodandola con il suo sguardo di un verde impossibile.
In tutta onestà, in anni di carriera come psicoterapeuta, a Mikasa Ackerman non era mai successo di sentirsi a disagio mentre un paziente la guardava; nemmeno quando aveva dovuto avere a che fare con gli individui più strani ed inquietanti che avesse mai esaminato.
In quel momento, però, Eren Jaeger ed il suo sguardo più verde di un bosco rigoglioso, la stava mettendo in imbarazzo e la cosa assurda risiedeva nel fatto che Mikasa non capisse il perché di questa sensazione. Anzi, ancor peggio, che la sua mente, in una maniera totalmente irrazionale, le suggerisse che quella persona fosse per lei familiare.
Mikasa si schiarì la voce.
“Perfetto, Eren. Mi parli di lei. Se preferisce, può anche iniziare a stendersi su quel lettino accanto alla finestra, mentre io recupero un taccuino ed una penna.”
“Certo.”
Mikasa osservò con la coda dell’occhio come quell’Eren Jaeger facesse quanto gli era stato detto. Notò che il ragazzo portava i capelli raccolti in uno chignon basso e disordinato.
Recuperato il taccuino e la penna, Mikasa prese posto sulla sedia accanto al lettino da seduta su cui era steso il suo cliente.
Eren Jaeger aveva portato le mani incrociate sull’ addome e faceva girare entrambi i pollici tra di loro in maniera casuale; lo sguardo, invece, era fisso al soffitto e sembrava quasi assorto.
Mikasa aspettò che il ragazzo iniziasse a parlare, evitando di soffermarsi a guardarlo troppo.
Non dovette aspettare molto.
“Mi chiamo Eren Jaeger. Ho ventitré anni e per lungo tempo ho sognato sempre lo stesso e identico volto di donna che mi chiedeva di rincontrarci. Questo sogno mi ha accompagnato da che ne ho memoria, e negli ultimi periodi in cui l’ho fatto, sono riuscito ad associare un nome a quel volto di donna.” – Eren Jaeger smise di guardare il soffitto e rivolse di nuovo il suo sguardo verso quello di Mikasa. Era serio, inchiodante.
Mikasa iniziò ad annotare qualcosa sul suo taccuino. Poi parlò.
“Crede di aver visto quella donna almeno una volta nella sua vita? Magari da molto piccolo e quindi ne ha un ricordo sfuocato …”
“In effetti sì, credo di averla vista in passato.” – Eren riportò lo sguardo al soffitto chiaro dello studio e gli comparve uno strano sorriso triste sul volto.
Mikasa, forte dei suoi anni di esperienza, immaginò che il ragazzo avesse evocato alla mente un ricordo doloroso e che stesse cercando le parole adatte per parlarne con lei.
Era un comportamento comune e Mikasa aveva imparato a gestire i tempi dei suoi pazienti con pazienza e professionalità. Per lei, le sedute che somministrava ai suoi clienti dovevano assomigliare più a delle chiacchierate volte a esorcizzare gli infiniti vagoni di pensieri che affollavano le menti dei suoi pazienti, più che a veri e propri interrogatori analitici e psicologici.
Perciò, Mikasa aspettò che fosse Eren Jaeger a continuare il suo racconto. Si limitò solo a chiedergli se si ricordasse quando l’avesse incontrata.
A quella richiesta, Eren Jaeger chiuse gli occhi e sbuffò una risata bassa ed amara dal naso. Poi, girò di nuovo la testa verso la sua psicoterapeuta e la guardò sorridendole.
Mikasa sentì il proprio cuore perdere di nuovo un battito. Uno strano senso di aspettativa aveva iniziato a scuoterle le viscere.
“Lei è una psicoterapeuta, giusto? È abituata a sentire anche le stramberie …”
“Abbastanza, sì.”
“Allora non si scandalizzerà troppo nel sentire la mia, di stramberia.”
Mentre lo diceva Eren Jaeger aveva gli occhi tristi.
Era così doloroso questo ricordo?
E perché Mikasa sentiva il suo stomaco corroso dall’ansia? Dove era finito il suo distacco emotivo?
“La prego, continui il suo racconto.” – disse.
Il ragazzo, prima di iniziare di nuovo a parlare, sospirò.
“Dottoressa, è vero. Quella donna l’avevo già incontrata in passato, anche se avevo creduto per tanto tempo che, invece, ella fosse il solo frutto di una mia ossessione, di una mia fantasia. Ho realizzato di averlo fatto solo questa mattina.”
“Come?”
“Questo non posso ancora dirglielo, è troppo presto.”
Mikasa annuì e decise di non forzare la mano. Dopotutto, quella era solo la loro prima seduta.
“La sentivo reale ma non la trovavo, non c’era nel mio mondo. Stavo impazzendo, vederla solo nei miei sogni, sentire la sua voce solo lì, mi stava provocando dei problemi. Mi serviva un aiuto per esorcizzarla o per ritrovarla. Per questo mi sono rivolto a lei.” – continuò Eren Jaeger.
“Come crede che io possa aiutarla, dunque.”
“Lei può ascoltarmi. Può aiutarmi ad esorcizzarla e a farla uscire fuori dalla mia testa. Lei mi parla.”
Eren pronunciò quest’ultima frase con una maggiore enfasi.
Inoltre, a Mikasa suonò ambigua. Chi gli parlava? La donna del sogno? O lei, la sua psicoterapeuta?
“Bene, Eren. Mi racconti dei suoi sogni, allora.”
Dunque, Eren Jaeger iniziò il suo racconto.
 
 
̃  ˳    ̃
 


La donna nei sogni di Eren Jager aveva i capelli neri e raccolti in una coda morbida e bassa. I suoi occhi erano scuri e taglienti ed estremamente espressivi. Aveva degli abiti strani, quasi come se vestisse con una moda di altri tempi: gonne lunghe, maglie accollate, scarpe e calze dalla fattura insolita. Al collo portava una sciarpa rossa e spessa, che stringeva tra le dita e che portava al naso in un gesto elegantemente tenero.
All’inizio, Eren l’aveva sognata con un aspetto da bambina; poi, gli era capitato più spesso di sognarla con un aspetto da giovane donna.
Nei suoi sogni, la ragazza non faceva niente di che. Spesso era seduta su di un prato verde, all’ombra di un grosso e robusto albero; il paesaggio urbano che circondava quello spazio verde onirico, sembrava un fermo immagine di una cartolina d’altri tempi. Non aveva niente in comune con i panorami moderni della sua città. Ad Eren quel luogo era familiare e gli faceva stringere il cuore in una morsa strana, anche se razionalmente e da sveglio non sapeva che posto fosse o dove si trovasse. Quella giovane donna, comunque, ogni volta che Eren entrava in quello scenario onirico, gli faceva cenno con la mano sul prato di sedersi accanto a lei. Poi, gli sorrideva e appena Eren le si sedeva accanto, i suoi occhi neri si facevano lucidi.
‘Perché piangi? Sono qui, ora’, era quello che Eren le diceva sempre.
Era la risposta più ovvia che le potesse dare ed anche quella che istintivamente la sua bocca e la sua lingua formulavano. La ragazza, però, non gli dava nessuna particolare risposta né sembrava sentisse quello che Eren le diceva, perché l’unica cosa che si limitava a dirgli sempre, quasi fosse una litania, era un’unica e semplice richiesta.
‘Eren, vorrei tanto incontrarti di nuovo.’
Ma Eren era lì, dove avrebbe voluto incontrarlo se non in un sogno?

.

Durante l’infanzia, Eren non aveva dato tanto peso a certi sogni. Certo, ogni tanto gli causavano uno strano senso di agitazione e di tristezza ogni qual volta li faceva ma la sua mente di bambino aveva altri pensieri a cui badare; c’erano gli amici, il calcetto e la scuola a distrarlo e questo gli bastava.
Durante l’adolescenza, però, le cose iniziarono a cambiare. I sogni diventarono sempre più frequenti e la tristezza che affliggeva la ragazza, contagiò anche Eren. Il ragazzo sentiva una sorta di senso di colpa ed era quasi sicuro che lei fosse triste a causa sua, anche se non capiva il perché.
In quel mondo onirico, forse l’aveva offesa e non ne conservava memoria al risveglio.
(Eren si prese una piccola pausa dal suo racconto per osservare come la sua analista si fosse portata, di nuovo, una mano alla tempia nella speranza di scacciare via un improvviso e molesto mal di testa. Quelli erano dei chiari segnali. O almeno, Eren sperava fosse così.)
Gli occhi tristi di quella ragazza gli provocavano a sua volta dispiacere. Voleva accontentarla, provare ad incontrarla e a tirarla su di morale ma non sapeva come fare.
‘Sono qui, mi vedi?’, le diceva. La ragazza, però, non smetteva di sorridergli triste e di chiedergli di nuovo la stessa cosa di sempre.
‘Eren, vorrei tanto incontrarti di nuovo.’
‘Ma io sono qui, perché continui a dire che vuoi vedermi se io sono qui?’
Nulla, nessuna risposta.
Poi, Eren si svegliava.
Si svegliava, e di quel prato verde e di quegli occhi neri non restava niente, se non una nebbia fatta di sonno ad appesantirgli gli occhi.
A Eren non piaceva quella situazione, lo faceva sentire impotente.
Un giorno, dopo aver fatto sempre quello strano sogno, Eren decise di comprare per sé una sciarpa rossa. Metterla al collo gli creava l’illusione che fosse riuscito a sentirla più vicino, ad incontrarla almeno a metà strada.
Il tempo passava, Eren cresceva e quel sogno diventava sempre più nitido e non lo abbandonava mai. Anzi, ad esso si aggiungevano dei particolari.
Un profumo che Eren non aveva mai sentito da sveglio ma che nel sogno gli ricordava casa; una data che aveva senso solo se pronunciata sotto l’ombra di quell’albero maestoso; ed infine un nome. Il nome che finalmente era riuscito ad associare a quel volto.
Mikasa.
Mikasa Ackerman.
(L’analista chiese ad Eren quale nome sentisse nei suoi sogni, pronta ad annotarlo sul suo taccuino. La dottoressa aveva la fronte corrugata e da poco aveva scostato la mano destra dalla tempia. Eren la guardò e sperò, di nuovo, che quello che stava facendo avesse un senso; sperò di non essersi sbagliato e di aver trovato la giusta strada. Prima di riprendere il suo racconto, però, le disse che quel nome non gliel’avrebbe detto in quel momento. Non ancora, pensò.).
Dopo aver appreso il nome della ragazza che incontrava nei suoi sogni, Eren si decise ancor di più a ritrovarla.
Nella sua testa iniziarono ad affollarsi alcune domande ed alcune ipotesi circa quell’esperienza che stava vivendo. Alcune erano concrete, altre erano al limite della follia.
Le ‘idee concrete’ furono le prime ad essere messe in pratica dal ragazzo.
La prima cosa (ed anche la più ovvia) che Eren pensò di fare, fu quella di cercare quella Mikasa Ackerman al di fuori del suo mondo onirico, ovvero nella vita reale. Digitò il nome della ragazza su qualsiasi motore di ricerca online, su qualsiasi social network lui conoscesse; i risultati, però, oltre a consegnargli delle omonimie di nomi, non gli davano altro.
Dove sei?
Chi sei?
Erano queste le domande che perseguitavano Eren nottetempo.
Peccato, però, che ‘Mikasa Ackerman’ sembrasse essere davvero solo un nome legato ad un’identità inesistente.
Eren era scoraggiato.
Quella ragazza sembrava davvero un fantasma relegato al solo mondo dei suoi sogni.
Eren non era mai stato un ragazzo credente, né era mai stato interessato a determinati concetti spirituali o deterministici, che magari portavano l’individuo a credere che ci fosse un destino dietro ogni gesto compiuto da una persona. Quello che gli stava succedendo, però, non poteva essere il solo frutto della sua immaginazione. Doveva significare molto di più.
Perciò, dopo alcuni giorni di sconforto, Eren si fece coraggio e iniziò a dare ascolto anche a quella parte di ipotesi e di idee che lui stesso aveva reputato infattibili e folli e che aveva messo da parte.
Decise di dare ascolto ad una di quelle ‘idee’ confuse che aveva cercato di scacciare via dalla sua mente per lungo tempo; iniziò a credere che si potesse trattare di un caso di reincarnazione. Era assurdo da pensare, certo, ma erano troppi gli indizi che si collegavano perfettamente a questo fenomeno.
Ad esempio, Eren vedeva il volto nitido di una persona che non esisteva (o che almeno lui non aveva ancora trovato) oltre la realtà onirica che lui viveva ogni notte; sentiva profumi e vedeva luoghi che al risveglio non lo conducevano a niente ma che nel sogno erano veri e tangibili quanto la pelle del suo corpo. Tutte quelle variabili erano pezzi di un puzzle scomposto che lui stava cercando di mettere faticosamente insieme.
Era assurdo per la sua mente credere a questa cosa ma ormai non aveva più nulla da perdere, quindi perché non approfondire questa via?
Eren aveva bisogno solo di un’altra piccola conferma e poi avrebbe continuato le sue ricerche in quel verso.
Così, durante una di quelle notti in cui faceva quel sogno, Eren seguì perfettamente il solito copione di sempre; osservò Mikasa sorridergli e fargli cenno di sedersi accanto a lei. Sedutosi su quel prato soffice e verde, Eren aspettò qualche secondo prima di parlarle.
‘Perché siamo qui?’ – le chiese
La ragazza continuò a giocare con la sciarpa rossa che aveva al collo e a guardare davanti a sé, sorridendo. Poi gli rispose.
‘Per una seconda possibilità, presumo.’
A quella risposta, Eren sentì il suo cuore battergli forte nel petto. Quei sogni erano sempre stati estremamente lucidi ma quella volta sentì che lo fossero ancora più del solito.
‘Quindi è vero che ci siamo reincarnati? Sei da sempre nei miei sogni per questo, vero?’ – le chiese.
Mikasa si girò a guardarlo e gli sorrise ancora di più. Questa volta la sua espressione sembrava essere felice e sollevata. Era come se gli stesse dicendo con gli occhi ‘Eren, finalmente te ne sei accorto’.
Mikasa gli annuì. Poi si sporse verso di lui e gli baciò le labbra.
Quel contatto fu per Eren il tramite da cui apprendere tutto ciò che c’era da sapere sulla sua vita passata. In un attimo, gli passarono davanti agli occhi scorci di una vita che gli era appartenuta un tempo e che ora stava rivivendo e che stava riacquisendo.
Mura come prigioni. Mura come case. Giganti. Guarnigioni di uomini. Urla. Morti. Bambini soldati. Lame sporche di sangue. Urla. Mostri abbattuti. Promesse di libertà. Sacrificio. Mikasa. Armin. I suoi amici. Urla. Sua madre. Suo padre ed una siringa. I sentieri. La fine.
Ad occhi aperti, osservò come la ragazza si allontanasse dal suo viso e lo guardasse.
Eren sentì una lacrima rigargli il viso.
Sì, ora ricordava tutto. La sua anima aveva ricevuto una seconda possibilità e a lui non importava se il suo raziocinio gli stesse urlando che tutto quello fosse assurdo.
La voce flebile della ragazza attirò la sua attenzione.
‘Eren, cercami. Io ci sono. Cercami.’ – gli sorrideva mentre i suoi contorni si stavano sbiadendo.
‘Dimmi dove posso farlo, allora. Non ti trovo da nessuna parte!’
Eren lo disse con un tono ansioso.  Sentiva che il suo corpo stava per svegliarsi ma non voleva che accadesse.
Non ora! Non ora!
‘Mikasa! Dimmi dove sei nel mondo reale! Mikasa, mi senti?!’ – urlò.
Le fece di nuovo quella domanda ma ormai il sogno stava svanendo. L’ultima cosa che sentì prima di svegliarsi fu ‘Eren, vorrei tanto incontrarti di nuovo’.
Poi, più nulla.

.

Da quel momento in poi, Eren non fece più quel sogno. Era strano non sognare più quel prato, non vedere più quel panorama atipico; era alienante non sentire più certi profumi o non vedere più il volto di Mikasa. Già, Mikasa. Aveva finalmente ben chiaro chi fosse lei e chi fosse stato lui: due ragazzi giovani che erano stati investiti da un destino più grande di loro. Lui, in particolare, aveva dovuto rinunciare a tutto ciò che aveva amato per salvare quel mondo in cui aveva vissuto e che lo aveva fatto crescere troppo velocemente.
Per quella ragione, le ricerche di Mikasa, della sua anima, di tutto ciò che fosse lei, si infittirono. Eren era arrivato ad una consapevolezza: l’avrebbe riconosciuta tra mille, anche se avesse avuto un altro aspetto.

.

A ventitré anni, Eren non era ancora riuscito a ritrovare Mikasa. Erano passati anni dall’ultima volta che l’aveva sognata e questo dettaglio lo stava convincendo sempre di più del fatto che quell’ultimo sogno, in cui lei gli chiedeva di cercarlo e che gli confermava che erano due anime reincarnate, non l’avesse mai fatto.
Era mentalmente esausto e sempre più scoraggiato.
Mikasa, in quel sogno, gli aveva detto che era stata data loro una seconda possibilità; peccato che Eren non la vedesse affatto così. Ora che aveva capito il senso di quei sogni, che aveva ricordato, il non riuscire a sapere dove fosse la sua Mikasa, lo faceva soffrire e basta. Non ci vedeva nessuna benedizione in quello che stava vivendo.
E se fosse dall’altra parte del mondo? E se si fosse reincarnata in un animale? No, questo no, me lo avrebbe detto. Mikasa, dannazione, dove sei? , pensava.
Stava impazzendo.
Fu suo fratello Zeke a innestare il momento di svolta in tutta quella faccenda.
Eren non gli aveva raccontato della ‘questione reincarnazione’ perché se lui, che ci era dentro fino al collo, ancora stentava a crederci, non osava immaginare come avesse potuto reagire suo fratello venendo a conoscenza di quella cosa, essendo esterno ai fatti.
Gli aveva dato spiegazioni velate alle domande che Zeke gli faceva quando si accorgeva che il fratello era davvero giù di morale.
‘Faccio degli incubi terribili, Zeke. Da sempre. Avrei bisogno di uno psicoterapeuta’, era questo quello che Eren gli diceva sempre, magari sorridendo amaro.
Quando diceva di aver bisogno di quel tipo di specialista, Eren non era né troppo serio, né un bugiardo.
In ogni caso, Zeke lo prese sul serio e senza troppi giri di parole, gli presentò un bigliettino da visita (che aveva recuperato in centro città, in una di quelle zone piene di uffici e grattacieli) con sopra il nome dello specialista, il numero di telefono e l’indirizzo dell’ufficio. Glielo diede una mattina mentre stavano facendo colazione insieme, adducendo un ‘penso che questo faccia al caso tuo’.
Quando Eren lesse il nome dello psicoterapeuta sul bigliettino, saltò in piedi dalla sedia. Sentiva i battiti del suo cuore fin dentro le orecchie e un forte senso di speranza irradiarsi in tutto il suo corpo.
Mikasa Ackerman.
Mikasa.
Fu così che Eren decise di iniziare la sua terapia, sperando di recuperare sia la sua sanità mentale, sia la donna a cui aveva dovuto rinunciare per secoli.
‘Fa che sia la nostra seconda possibilità’, pensò.
 

̃  ˳    ̃


Eren Jager aveva da poco finito di spiegare a Mikasa la serie di sogni che lo avevano accompagnato durante la sua vita.
L’uomo era steso sul lettino ed il suo sguardo si spostava alterno dal soffitto chiaro dello studio, alle mani della donna che avevano retto la penna ed il taccuino e che avevano preso appunti. E che in quel momento stavano tremando, anche se impercettibilmente.
Notando quel particolare, lo sguardo di Eren salì al volto della donna, che trovò contratto in una smorfia di fastidio e leggermente chinato in avanti; alcuni ciuffi di capelli neri e leggermente più lunghi le coprivano di poco il viso.
Durante tutto il racconto, il mal di testa di Mikasa aveva deciso di non darle tregua; più l’uomo parlava di sé e più Mikasa sentiva che quello stesse peggiorando.
Proprio come stamattina nel treno, pensò.
“Dottoressa, si sente bene?” – chiese Eren.
Mikasa era pallida ed un leggero sudore freddo aveva iniziato ad imperlarle la fronte.
L’uomo si mise a sedere sul lettino e fece per avvicinarsi a Mikasa ma quest’ultima frappose una mano tra loro, facendogli segno di non preoccuparsi.
Improvvisamente, Mikasa sentiva tutti i suoni che la circondavano, compresa la voce di Eren, ovattati e distorti.
No, quest’episodio di emicrania è più grave di quello di stamattina, pensò con fatica.
Mikasa, quasi non più padrona delle sue azioni, si alzò di scatto dalla sedia, facendo cadere per terra la penna ed il taccuino che teneva sulle gambe e che fino a poco fa stava usando.
Maledizione, mi scoppia la testa. Fischia, pulsa, mi uccide!
Sentiva delle voci.
… Delle urla?
Erano nella sua testa o forse il suo paziente le stava parlando?
Mikasa non riusciva più a capirlo. Più passavano i minuti e più la testa le scoppiava. Non riusciva a tenere nemmeno gli occhi aperti, aveva bisogno di sedersi.
“Mi- mi serve un analgesico…” – disse Mikasa, mentre si reggeva con una mano alla scrivana e poi si girava di trequarti per sedervisi sopra.
“Dottoressa?”
“Mi prenda la borsa, per cortesia … è appesa all’attaccapanni.” – Mikasa lo disse mentre si portava anche l’altra mano alla testa e teneva quest’ultima tra le mani.
Che scena poco professionale! Che figuraccia! Ma che diavolo le stava prendendo!
Sentì l’uomo camminare verso la porta (dove era l’attaccapanni), prendere la borsa e porgergliela.
“Mikasa …”
“Tranquillo, non si preoccupi.” – glissò la donna, iniziando a scavare nella sua borsa alla ricerca delle sue compresse analgesiche. Ringraziò la sua accortezza nel portarsi dietro sempre un sacchetto con i medicinali d’emergenza. “Non so cosa mi sia preso ma starò sicuramente meglio tra qualche minuto, giusto il tempo di prendere questa compressa e aspettare che faccia effetto.”
Mikasa non sentì arrivare nessuna risposta da parte dell’uomo. Perciò, alzò lo sguardo e lo vide fermo davanti a lei e con lo sguardo chino in avanti. Stringeva i pugni stesi lungo i fianchi e le sue braccia tremavano leggermente.
“Vorrei capire una cosa.” – disse, infine, Eren.
Mikasa alzò lo guardò perplessa. Simultaneamente, recuperò il sacchetto di medicinali e prese l’analgesico.
“Perché devo essere l’unico ad avere questi ricordi?” – gli occhi verdi di Eren si concentrarono di nuovo su di lei.
A quelle parole, Mikasa ebbe un’altra fitta alla testa. Traballante, allungò la mano sulla scrivana e prese la bottiglietta d’acqua, che aprì e bevve insieme alla compressa per il mal di testa.
“Si riferisce ai suoi sogni? Mi dia qualche minuto per riprendermi, così potremo di nuovo riaffrontare l’argomento.”
Eren la guardò piccato. Poi sospirò.
“Proprio non ricordi niente ed io non sono mai stato bravo con le parole, in nessuna delle due vite …”
A quelle affermazioni, Mikasa sentì il suo cuore perdere un battito.
Ma di cosa stava parlando, Eren? Lei cosa c’entrava con i suoi sogni e con le storie che le aveva raccontato?
E perché una parte di lei sembrava che non aspettasse altro che l’arrivo del momento che stava appena vivendo? Di quelle frasi apparentemente sconclusionate ma che, in realtà, le sembravano inconfutabili?
Possibile che tutto quello che le stava succedendo in quella giornata (dallo strano episodio della sciarpa, a quello che Eren Jaeger le stava dicendo) non fosse una coincidenza?
“Io lo so che sei tu, Mikasa. Ti potrei riconoscere tra mille altre anime o persone. Il fatto che tu non lo abbia fatto con me, probabilmente è una punizione per i mali che ho causato nella mia vita passata.”
Sentendo quelle parole, Mikasa strabuzzò gli occhi. Non si curò nemmeno del cambio di registro che l’uomo aveva applicato, passando dal formale ‘lei’, al colloquiale ‘tu’. La sua attenzione era rivolta a ben altro, ovvero a quello che Eren Jager le stava dicendo in quel momento.
“Però sono stufo di nascondermi dietro a questo pretesto. I tuoi mal di testa devono significare qualcosa.”
Quale pretesto?
Mikasa non ci capiva più nulla. I mal di testa stavano peggiorando. Il suo paziente, anzi, Eren le stava dicendo cose assurde ma che le provocavano continue palpitazioni al cuore; in più, una piccola e sommessa voce nella sua testa aveva iniziato a sussurrarle ‘Eren ti ha trovata, finalmente!’
Mikasa prese il capo tra le mani e lo scosse, confusa.
“Eren, non so davvero cosa sia tutto questo! Non capisco, io-“
“Mikasa Ackerman.”
La donna sollevò il capo verso Eren e lo guardò sconvolta. Sentiva i suoi occhi riempirsi di lacrime.
“Non-“
“Il nome della donna dei miei sogni è Mikasa Ackerman. Quando ho letto il tuo nome sul bigliettino da visita, quasi sono morto dalla gioia. Ho insistito per avere questo appuntamento solo per incontrarti e per accertarmi che fossi davvero tu la Mikasa che stavo cercando da sempre. E sai qual è la cosa ancora più incredibile in tutta questa storia? Non avrei mai pensato che la ragazza del treno di stamattina che ha raccolto la mia sciarpa rossa fossi tu, la mia analista. Mikasa, sono certo che anche tu abbia sentito qualcosa quando mi hai visto. Tutto questo non può essere capitato per caso.” – Eren era nervoso mentre le diceva quelle cose.
Quello che le stava dicendo era da matti e lo sapeva. Temeva di essersi sbagliato, di aver colto male i segnali che i gesti di Mikasa gli stavano suggerendo e che la donna, infastidita e spaventata dal suo comportamento, avesse scelto poi di cacciarlo a calci dalla stanza o peggio, che avesse potuto chiamare la polizia.
Ormai, però, Eren era in ballo; tanto valeva provarci fino alla fine.
Dopo aver sentito quella dichiarazione, Mikasa sentì come se il mondo avesse iniziato a vorticarle intorno in maniera frenetica. Una parte di sé faceva fatica a credere a tutte quelle strane cose che stava sentendo ma l’altra parte, quella che quella mattina le aveva gridato a gran voce il nome del ragazzo nel cuore e nelle orecchie, la confondeva e la incitava a togliersi quel velo di raziocinio che le stava continuando ad appannare gli occhi.
Mikasa strinse gli occhi ed i denti, sconfitta dal mal di testa e da una serie di ricordi che stavano iniziando a nascere dietro le sue palpebre chiuse in concomitanza con le parole di Eren e che lei non ricordava le appartenessero.
Le voci che le era parso di sentire poco prima, si infittirono e divennero sempre più nitide. Sentì nomi, urla, rumori e schiocchi di spada.
Immagini confuse le si palesarono dietro gli occhi chiusi. Un prato verde posto all’ombra di un grosso albero; tre ragazzini piccoli e spensierati che sognavano un mondo libero; Eren e la sua immensa voglia di vivere. Poi una battaglia contro dei mostri più grandi di loro, spaventosi; eserciti, morte, urla e poi sempre Eren Eren Eren Eren! E infine lei, seduta all’ombra di quello stesso prato verde che vegliava su una piccola tomba che sapeva appartenesse a quel ragazzo dagli occhi troppo grandi e troppo verdi per essere veri.
Basta! Ricorda. Basta! Ricorda. Basta!
“Mikasa? Ehi, Mikasa, guardami …” – Eren le si avvicinò cauto e le prese piano i polsi tra le mani. La ragazza tremava e scuoteva il capo ed Eren, sempre con estrema delicatezza, gli scostò le mani dal viso.
“Ehi …” – le disse di nuovo, sorridendole incerto.
Mikasa lo guardò e nel momento in cui i suoi occhi scuri si immersero di nuovo in quelli chiari e lucidi di Eren, qualcosa dentro di lei cambiò. Sentì come se un grosso peso le si fosse spostato dal cuore, come se fino a quel momento lei avesse vissuto a metà, nell’attesa di quell’incontro.
“Eren, tu … sei tu? Sei davvero tornato?” – la voce le tremava dal pianto e ormai le lacrime le bagnavano copiose il viso.
Eren le sorrise luminoso ed annuì piano, stringendole di poco i polsi per sincerarsi che quel momento non fosse solo un altro dei suoi sogni sconclusionati ma che fosse effettivamente la realtà. Mikasa era vera, non era solo una proiezione della sua mente.
“Sì, Mikasa. Ti ho ritrovata. Non potevo farti aspettare ancora, vero?”
Mikasa rise nel pianto ed annuì. Poi, gli si fiondò tra le braccia e proruppe in un pianto fragoroso e liberatorio, sollevata dal fatto che Eren la stesse stringendo di nuovo a sé dopo secoli.
Non riusciva ancora a crederci. Era successo tutto così velocemente e senza che lei potesse fare nulla per controllare quegli eventi. Però, non le importava molto. Essere di nuovo tra le braccia di Eren, ormai familiari e non più estranee, era la cosa più bella che potesse capitarle. Era come ritornare a casa dopo un lungo viaggio in terre straniere. Era tutto. Pianse ancora tra le sue braccia, cullata dal battito del suo cuore. Eren era vivo. Eren era di nuovo suo.
Eren le posò una mano dietro la nuca per premersela di più contro il suo petto e le lasciò un bacio tra i capelli. Chiuse gli occhi e una lacrima gli rotolò giù, lungo la guancia destra.
Questa è la nostra seconda possibilità, pensò.
Non sarebbe stata sprecata.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note dell’autore
Buonasera. Piacere, sono _Valchiria_ e sono abbastanza emozionata nel postare questa ff su questo fandom lolol
Questa OS interminabile che avete appena finito di leggere (chi ci è riuscito, ovvio, sono seimila centocinquantotto parole di word lol) è il mio primo contributo al fandom italiano di Shingeki. Seguo questo manga da circa cinque anni ma prima d’ora non avevo scritto nulla per esso. Non avrei mai pensato di esordire con un Eremika, in realtà lol E invece, eccomi qui, reduce dal finale straziante dell’opera.
Ho lavorato a questa OS per circa due mesi. Nella mia testa aveva senso, spero che ne abbia ugualmente su “carta” e soprattutto per voi lettori ^^’
È una Reincarnation Au, anche se io la vedo molto più come un What If. Mi spiego meglio: nonostante l’ambientazione sia chiaramente moderna, non succede nulla di straordinario o di nuovo rispetto al canonverse, a parte l’incontro tra i due e il pretesto di Eren di andare da Mikasa terapista per poterla incontrare di nuovo.
Il finale non mi convince perché è aperto ed io, da lettrice, odio leggere questo tipo di finali. Però, scrivendo, mi sono resa conto che non potesse andare bene un finale diverso da questo. Non mi andava di forzare le cose con baci e promesse d’amore improvvise. Mikasa aveva bisogno del suo tempo per metabolizzare la scoperta, cosa che Eren, invece, aveva già fatto in quei lunghi anni di presa di coscienza. In più, non mi andava di rendere questa OS troppo pesante (più di quello che è già? lol) o addirittura una mini-long. Nella mia testa era una oneshot e tale volevo che rimanesse lol
Spero di essermi mantenuta quanto più IC possibile, anche se questa ff ha pochi dialoghi ed è estremamente introspettiva. Mi sono cimentata anche in nuovi tipi di focus narrativi, spero che la cosa non sia uscita fuori troppo disturbante ^^’
Spero comunque che vi possa piacere e che vogliate farmi sapere cosa ne pensate a riguardo, che sia un parere positivo, neutro o negativo ;)
Prima di lasciarvi, voglio specificare che non sono betata, quindi mi scuso per gli eventuali errori/refusi di qualsiasi genere che eventualmente troverete qua e là.
Ora vi lascio e vi mando un bacio
Alla prossima
_Valchiria_
  
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