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Autore: sacrogral    01/05/2021    8 recensioni
…in cui il cavaliere innamorato proverà sulla sua pelle cosa può fare il Maudit e si sentirà lontano dai Lumi del secolo, il ragazzino si mostrerà per quello che è, mentre il boia si farà uomo, e il poeta starà fermo a guardare; intanto la donna mostrerà di essere sempre la creatura più potente dell’universo.
Intanto la trama ristagna, ma non troppo.
Questa storia è il continuo di una storia, contiene riferimenti ad altre mie storie, e nasce come sempre dalla fantasia di Madame Ikeda, alla quale tutti ci inchiniamo.
È un po’ di tempo che non ringrazio i lettori: grazie, lettori! E in particolare madamigella Anna23, che un giorno mi scrisse: “Io sono sempre felice di leggere riferimenti a storie precedenti, mi piace la tua capacità di ricreare un mondo riconoscibile, ma personale”. E per Barbara1018, splendida dama: Gobemouche ci prova coi versi, da vostro consiglio, ma non c’è niente da fare, zoppicano.
Genere: Avventura, Dark, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Tutte le stelle già dell’altro polo

 

…in cui il cavaliere innamorato proverà sulla sua pelle cosa può fare il Maudit e si sentirà lontano dai Lumi del secolo, il ragazzino si mostrerà per quello che è, mentre il boia si farà uomo, e il poeta starà fermo a guardare; intanto la donna mostrerà di essere sempre la creatura più potente dell’universo.

Intanto la trama ristagna, ma non troppo.

 

Non sapeva neppure dove sentiva dolore. Al volto, lo zigomo era andato. Allo sterno, una costola incrinata, a occhio. Alla testa, un dolore sordo. 

Il viso macchiato di sangue e di vino, e l’odore del vino addosso.

Il ricordo sgradevole del vino mandato giù a forza, col naso tappato a forza e risate non buone a circondarlo, cercando lei e trovandola sempre meno, sempre più sfocata. 

“Solo un attimo, per riprendere fiato, Oscar. Solo un attimo e sono da te” mormorò alla stanza vuota, rimettendosi in piedi a fatica. Razionalizzò. Non era la prima la volta che buttava giù una bottiglia di rosso, anche se la tempistica, di solito, era diversa. Pensò che forse non era poi il caso di lamentarsi troppo quando si stava da soli a un tavolo, a crogiolarsi nella propria eterna insoddisfazione, ad affrontare i propri demoni che urlano per uscire; perché può sempre andare peggio e di solito di lì a poco peggio va. 

Ma ora, che andava peggio, solo il tempo di rimettersi in piedi, trasformare qualcosa in un’arma, prendere il coltello dallo stivale, abbattere la porta e sbarazzarsi dei tre uomini di guardia alla porta stessa, e poi cercare lei. Tutto molto semplice. E non scordarsi di lasciare un segno di gratitudine a quel pazzo prima di andarsene, per pura cortesia.

Neanche per un istante, concentrato su di lei com’era, pensò che quello che aveva bevuto era Maudit

Si guardò attorno, vide che la “stanza degli ospiti” era davvero una stanza degli ospiti. Cosa si era aspettato, si chiese confuso, un antro delle torture, una cella, sporcizia e lerciume? Più raffinato era, quel figlio del suo tempo e pure di buona donna. André Grandier non aveva creduto a una sola parola, non avrebbe più creduto a una sola parola. Ricordò se stesso, a togliere schegge di vetro dal braccio di quell’uomo che raccontava la sua storia: “Questa era l’ultima, signore” e poi “Vi credo”. Poter tornare indietro, lo avrebbe abbattuto come si ammazza un coniglio. 

E quello che più gli aveva fatto male era stata l’allusione di quell’uomo che si era permesso di toccare Oscar: “Irresistibile per voi, vero?”. E dato che il sangue gli si era rimescolato, e non solo per la rabbia, e malgrado tutto, solo vedendo un lembo in più della pelle di Oscar, gli era chiaro che avesse ragione. Lo avrebbe ammazzato, decise, sentendo salire un’onda di furore e ascoltando il suo demone, risvegliato, che gli sussurrava all’orecchio grandi cose. Ma lucido ancora non era, e la stanchezza aumentava di minuto in minuto, anziché svanire. 

“Solo un attimo, Oscar, solo un attimo per riprendere fiato” mormorò ancora, buttandosi sul letto. Si addormentò di colpo.

 

 

Joss, con uno sguardo in tralice, fece cenno a Foret, che lesto suonò il campanaccio della Disperazione. Gli avventori erano seccati, quel posto stava diventando – come dicevano gli inglesi? – snob, apriva e chiudeva alla cazzo di cane – così pensavano, alla lettera – e allora diventava difficile anche pianificare, o regolare, o anche mettersi a un tavolo ad aspettare la morte che fosse però una morte lenta. E poi, da quando era apparso un secondo dipinto – che pur non reggendo il confronto col Trionfo menagramo, dove la Morte sorridente si portava dietro al suo violino giovani e vecchi, donne e uomini, preti e bestemmiatori  – ecco che adesso, con quella ragazza in mezzo alle rose che quasi faceva piangere anche i depravati con le mani nere e i disperati cui mancava una gamba, stai a vedere che il posto diventava un covo per artisti incompresi, che poi quando sono incompresi un perché ci sarà, o almeno così tutti pensavano osservando Gobemouche e avvicinandosi a lui o standogli lontani, a seconda della faccia che aveva; e comunque, già quando arrivava Bernard Chatelet con le sue teorie e la sua ragion pura, lo sapeva anche il gatto che si doveva alzare i tacchi ed era pure meglio, però, in summa, dove doveva recarsi allora un disgraziato, un disperato per scambiare quelle due o tre chiacchiere che gli avrebbero fatto riempire poi la pancia anche l’indomani? E nemmeno Louise la zoppa chiedeva nulla, usciva e basta, e chi aveva una certa voglia era pure bene che si sbrigasse a seguirla, che sennò se ne andava a casa sua con l’alterigia di una dama, capace pure di dire che aveva mal di testa a un cliente che si era sempre comportato bene. Si vivevano strani giorni.

Nessuno però fece motto, tutti a lanciare occhiate a monsieur Sanson (corna facendo) che da qualche tempo pareva anche più cupo del solito, al suo tavolo solitario ma sempre libero per lui, pur trovando sempre modo di visitare i condannati la sera prima dell’esecuzione, almeno così si diceva, a bassa voce;  perché là dove si rifiuta il prete nessuno rifiuta il boia, chissà perché – doveva averne sentite di storie, lui, il boia di Parigi, anima dannata – e anche a fra Etienne che, nulla si poteva dire, ché alla bisogna lo trovavi sempre a lavorare nell’Eden, povero in canna e con muscoli da far invidia a un giovanotto, o a borbottare qualche salmo – e speriamo che fossero salmi – o a parlare per via diretta col Figlio in persona, appeso a quella croce di legno e pure scolpito da un dilettante –  però nemmeno stava bene che quella sottana, un uomo di Dio, facesse casa alla Disperazione, perché sennò cosa rimane alle anime nere? Ma questo se lo domandavano solo gli ingenui, quelli che alla Disperazione arrivavano un po’ per caso, un po’ per destino, ma non avevano ancora capito bene le regole. E poi, mentre tutti uscivano, all’unisono e guidati da un’impropria cortesia, tutti fecero spazio al dottor Lassone che invece entrava, frettoloso e con la borsa dei ferri dietro, e levandosi pure il cappello, eppur non ce n’era uno che fosse rispettabile e tutti avevano fatto almeno sette cose illegali prima di approdare alla Disperazione, ma non ce n’era uno che non avesse un malato in casa e non ce n’era uno che potesse dire che il medico non era venuto a visitarlo, lui, con quelle occhiaie che fra un po’ gli arrivavano al mento e vai a sapere quando dormiva.

E fu così che il dottor Lassone si trovò davanti chi si aspettava di trovare, quella Compagnia dei Buoni che Gobemouche aveva battezzato così con un filo di ironia e uno di superbia, ma forse anche con l’aspirazione ad esserlo, si disse il dottore: cos’erano, alla fine, il bene e il male? si domandò, asciugandosi la fronte col fazzoletto di seta, ignorando in quanti, in quelle ore, si stessero facendo la medesima domanda.

 

Joss versò con liberalità birra, e grappa a fra Etienne, c’era da chiedersi se l’oste, famoso per la tirchieria, si fosse d’improvviso convertito, e senza dire una parola, con gli occhi un po’ lucidi, guardò Gobemouche.

Il poeta degli stracci e delle cause perse abbassò le palpebre. Pensava: “Sotto l’angelo della morte ride/ l’Amor che più forte si mostra/ e all’ombra della notte che tutto avvolge/sol io lo vedo Amor silente./ Solo e pien d’affanno, al baratro che allide/ nel tempo ch’ogni dolor involve / oppongo fango e silenzio di chiostra./ Nella nebbia, nessuno mi sente/ vorrei urlarlo a Amor che si prostra”.

 Niente da fare, non funzionavano. 

“Mia sorella sta male e non ci son notizie del vostro comandante” disse infine, sputando le parole “Che si fa?”

“Si fa” rispose il dottore, pacato “che si aspetta. È passato un giorno, dicevi che le avresti tre giorni”.

“Si aspetta e si prega, boia d’un Giuda!” e voltandosi come sempre un po’ contrito “Abbiate pazienza, monsieur Sanson, è solo un modo di dire”. 

“Va tutto bene!” quasi gridò Gobemouche “Ma adesso dico che un giorno è anche troppo. Se mia sorella dovesse passare a miglior vita – e chissà poi perché si dice miglior vita – non me lo perdonerei mai, d’esser stato qui, con le mani in mano!”

“Tua sorella non rischia, Michel. Sei tu che sei impaziente. Deve solo eliminare quello che le ha avvelenato gli spiriti vitali. Vuoi fidarti oppure no?” chiese secco Lassone, che tanto tempo non aveva e comunque era dispiaciuto per la ragazza. 

“Sarà, dottore!” gridò stavolta, Gobemouche “Ma io di famiglia ne ho una sola, ed è minima, ho due sorelle e basta, e se una continua a vomitare roba verde e a dire cose… cose che non dovrebbe dire, e nemmeno dovrebbe conoscere, con tutto il rispetto per la vostra scienza, io di cosa fidarmi non lo so!” 

“È il Maligno!” si espose fra Etienne “Ma ci vuol tanto a capirlo? Bisogna rivolgersi a un cardinale, praticare un esorcismo. La Bestia che l’ha provocato è ancora in vita, è vittoriosa ed esulta, e il suo numero è 666” disse, esaltato e angustiato, e sfidando il dottore con lo sguardo.

“Però forse” intervenne Foret  il topolino d’improvviso, sbucato da chissà dove “forse dovremmo chiedere alla Signora. Lei sa”.

Joss gli allungò uno scappellotto.

“Devi smetterla di dire sciocchezze, Foret.  Gobemouche è preoccupato per una persona che gli sta a cuore. E qui non c’è nessuna signora, figuriamoci”.

Foret, con quegli occhi quasi trasparenti, col suo cervello di un neonato, incassò il colpo e guardò il boia, come sempre silenzioso.

“Cos’è, Joss” disse Gobemouche, con aria cattiva e bisognoso di prendersela con qualcuno, chiunque fosse “ Cos’è, Joss, ti senti in colpa? O forse hai qualche mira su mia sorella, che ha un terzo dei tuoi anni, e che è un fiore di campo? Dovresti ancora dirmi, oste, perché hai dato quella merda di vino alla persona più cara che ho al mondo. Sicuro, tu, che non ne sapevi nulla?”

Joss le petit, due metri di bruttezza repellente, la faccia pelosa ancora butterata dal vaiolo cui da piccolo era scampato per miracolo e grazie al padre del dottor Lassone, arrossì come un cucciolo e posò gli occhi a terra, incapace pure di balbettare una difesa. Era lo stesso uomo che, la settimana prima, aveva fatto volare fuori dalla Disperazione, tenendone uno per braccio e dicendo cose irripetibili sulle loro madri, due tizi che erano il doppio di Gobemouche.

“Datti una regolata, poeta dei cenci” disse monsieur Sanson, le prime parole che pronunciava “Joss non c’entra nulla con questa storia, è andato alla gendarmerie contro i suoi interessi. Il dottor Lassone sa quel che dice e Foret è un bravo ragazzo”.

“Parla il boia, parla il bourreau, è quasi un evento!” gridò Michel Gobemouche “E voi, tutti imbalsamati, a pendere dalle labbra di uno che sta zitto perché non ha niente da dire, ad ascoltare uno che si intende di morte e non di vita! E dalle labbra di un ragazzino!” completò, mordendosi la lingua. Non sapeva se era la disperazione, o se fossero gli effetti del Maudit ancora da tenere a freno, ma aveva un desiderio incontrollabile di dire qualcosa di cattivo, di ferire qualcuno. Ma non Foret, sentì una voce nel cervello, Foret no.

“Madamigella Oscar è in pericolo” gli rispose il ragazzino, col viso rosso e sorprendendosi della sua audacia, perché lo sapeva di dover stare al suo posto “Lei è in pericolo perché ha creduto a noi. E ora quel marchese prima la mangerà e poi le farà del male, perché c’è una Bestia in quella casa e poiché ha ragione fra Etienne. E noi a lei non pensiamo e a monsieur André neppure, perciocché è come noi e pure buono”. 

“Ma cosa vai ciarlando, Foret, che mi sembri una comare al mercato” si innervosì ancora Gobemouche “E voi, prete, non avete anche voi qualcosa da dire? A me, questa idea del Maligno, comincia a entrare in testa. Se volete convertirmi, è il momento buono!”

E mentre Joss continuava a guardare in terra, e nel pavimento della Disperazione fetida vedeva i suoi sensi di colpa danzare e si chiedeva come aveva potuto dare da bere il Maudit alla bimba, lui avrebbe dovuto intuire che quel vino era maledetto, e si chiedeva anche come aveva potuto sperare di pensare che avrebbe potuto un giorno dire a se stesso quanto era bella la sorella minore di Gobemouche, quanto era cresciuta florida nel fango parigino – mentre Joss era dunque estraneo a tutto e a tutti, fra Etienne, impassibile, rispose:

“Io guardo monsieur Sanson. E guardo Foret che guarda monsieur Sanson”.

E tutti, compreso Gobemouche, si voltarono a guardare il boia, che a sua volta fissava un punto indistinto nel vuoto, cupo, e mormorava al nulla: “È vero, maledetta? La ragazza bionda è in pericolo? Dobbiamo intervenire? Dimmelo, razza di lupa vorace, vecchia cagna tagliagole, dimmelo. Non ti chiedo mai niente, ti do da mangiare tutti i giorni. Dimmelo”.

E Foret, che si era avvicinato al boia e gli aveva preso la mano e Sanson se l’era fatta prendere  –nessuno toccava mai Sanson e lui non toccava mai nessuno, men che meno i ragazzini –, intervenne: “Per favore, bella Signora, aiutateci”.

La Disperazione divenne fredda. Joss alzò gli occhi, il dottor Lassone alzò il bavero della giacca, e fra Etienne si fece, senza motivo, il segno della croce. Di fatto c’erano solo Charles Henri Sanson e Foret il bastardo che fissavano il medesimo punto di niente; ma c’era qualcosa nell’aria, che fece tremare Gobemouche, e gli riportò alla mente, di schianto e con un brivido, la faccia gonfia del bel Marcel ripescato dalla Senna, e il soldato che lo copriva e scuoteva il capo dispiaciuto, e lui sudato, dopo la corsa forsennata, con quel biglietto d’addio lasciatogli a notte fonda – Tu sei geniale, mon amì, adieu – e nulla più, neanche una riga su cui tirare un paio di madonne ben articolate, solo morte, e maledizione all’arte e alle vittime innocenti della mancanza di talento.

Sanson non l’avrebbe mai detto e nessuno glielo avrebbe mai chiesto, ma per la prima volta vedeva gli occhi della Morte, che per lui aveva alzato il velo, e la fissava terrorizzato senza voler mostrare il suo terrore, la Morte innamorata, che solo per lui parlava.

Dopo un tempo che nemmeno il dottore avrebbe saputo calcolare, neanche con qualche grafico di sua invenzione, tanto il tempo si era congelato, si voltarono entrambi:

“Non dobbiamo fare un accidenti di niente. Datti pace, Gobemouche, e aspetta”.

E si chiuse in un mutismo pesante, più pesante del consueto. Buttò giù la sua birra d’un fiato e non fissò l’affresco.

“Ci aiuterà la di lei sorella” esplose Foret “Ci aiuterà la sorella della bella Signora”.

“Ma di chi parli, Foret?” chiese Michel Gobemouche, spaventato dal nulla, desideroso di andarsene e anche, paradossalmente, tranquillizzato.

“Lo ha promesso a monsieur Sanson! Sua sorella ci aiuterà!” gridò Foret, e si inchinò al nulla.

Nel gelo ineffabile che aveva attanagliato la Disperazione, fra Etienne si fece il segno della croce e cominciò a pregare.

 

Si risvegliò in un giardino. Non sentiva più alcun dolore e poi – se ne accorse con stupore, con incredulità – ci vedeva benissimo, e l’occhio sinistro gli rimandava immagini nitide, distinte. Ebbe quasi difficoltà a riabituarsi a una prospettiva doppia, esultava ma gli sembrava giusto e normale, come l’essere lì; e felice e inconsapevole girava la testa a destra e a sinistra, a bere con lo sguardo una massa incontrollata di fiori e erbe che pareva crescere sotto i suoi occhi, nel momento in cui vi posava lo sguardo sopra. E anche lui nasceva nel sole, in quel bagno di luce pura che lo inondava. Nasceva nel mezzo del cammin di sua vita, coi sensi destati bruscamente e rapito dal cielo e dalla terra felice che sussurrava per lui parole incomprensibili e dolci. Quel giardino era un tempio e gli alberi erano pilastri, tutto lo riempiva d’estasi e lui era fresco e pulito, vivo come i fili d’erba che si scostavano al suo passaggio. Tutto il suo corpo entrava in possesso di quella natura rigogliosa e amante, e le sue labbra la bevevano, le sue narici la respiravano, e tratteneva tutto nei suoi occhi, nelle sue orecchie. Stava dritto, ascoltava il vento che gli muoveva i capelli nerissimi e vividi, espirava dal petto largo e libero, le spalle erano rilassate. Non sorrideva, stava in riposo, l’espressione grave e dolce, gli occhi verdissimi, sovrani. 

“Com’è buona la luce” disse infine, cercando di mangiarla, di morderla, come un infante che deve ancora imparare ogni cosa. I fiori di ogni tipo, distese di viole e di gelsomini, di anemoni e gigli purissimi, fuori controllo e fuori da ogni stagione, che gli crescevano attorno e parevano a lui inchinarsi, sembravano spingerlo in una direzione precisa, insieme ai fili d’erba che gli abbracciavano e accarezzavano le caviglie, solleticandolo. Gli sembrava normale non indossare gli stivali, camminare a piedi nudi.

“Va bene, va bene, obbedisco” rideva fra sé, e se qualcuno gli avesse detto che esisteva un posto chiamato Parigi, dove la pioggia cade sui selciati d’autunno e una chiesa chiamata Notre Dame svetta con le sue campane e i suoi grotesche, non avrebbe compreso neppure le singole parole.

E infine si trovò dove tutto doveva condurlo e tutto si fermò. E vide Oscar.

Nell’impalpabile polvere di luce, ella era sotto le rose. Le sue mani di alabastro e avorio sfogliavano, oziose, le rose che trovava vicino. Sembrava provare una gioia tutta sua nel farlo, che la illuminava da dentro. Un tralcio enorme di rose pendeva sopra di lei a incorniciarla, la sfiorava e le metteva rose sui capelli e sul collo nudo, sulle spalle libere, e sulle spalle le gettava un manto di rose. Su di lei cadeva una pioggia di petali di rosa, come una neve viva, e già le ricoprivano i piedi nudi, e i petali morbidi e molli avevano una forma purissima e rotonda, come – pensò lui – seni di fanciulla vergine. Le rose scendevano e salivano su di lei, riempivano la veste candida che indossava, erano ornamento alla pelle, alle forme di lei quasi visibili sotto il tessuto leggero e lei stessa era una rosa, la più bianca e profumata.

Quasi spaventato nel vederla e trovarla lì, aspettò che fosse lei a voltarsi, a osservarlo con quei pezzi di specchio che riflettevano il cielo che abbagliava.

“Ti aspettavo” gli disse, e gli gettò addosso le rose che aveva in mano, così che lui restò imbambolato, con le rose negli occhi e nella bocca, e i petali che gli scivolavano lungo il corpo, rimanendogli attaccati qua e là, ed erano petali bianchi e petali rossi, e lui sentiva purezza e amore allo stesso modo travolgerlo. 

Terminava di nascere grazie a quel gesto di lei, viveva la pienezza della vita. Si inginocchiò: “Tu sei nata adesso per me” delirava “sei uscita dal mio cuore, ti ho sentita, e adesso sei tiepida, fragrante e morbida, e tu stessa mi hai svegliato, prendendo il mio cuore. Non c’è goccia del mio sangue che non tremi, conosco i segni dell’antica fiamma” e la guardava dal basso verso l’alto, adorante e pieno del profumo delle sue rose.

“Lo sai dove siamo, André?” gli chiese, prendendogli le mani per farlo alzare. Lui si sentiva ridicolo e felice, guardava la pelle di lei sbocciata come un fiore, lei che era naturalmente bella come lo sono gli alberi o il cielo azzurro, in quella fioritura pazza d’amore. Tanta era la voglia che aveva di stringerla e baciarla che non si muoveva, restava con le mani legate a quelle di lei, mentre i petali continuavano a cadere. Scosse la testa, come a dire che non lo sapeva e non gli importava.  

Oscar sorrise birichina, pensò lui, innamoratissimo. Aveva l’espressione vezzosa, che non poteva assolutamente essere sua, si disse, perché lei non era donna da vezzi e smorfiette, ma, come si suol dire, se ne fregò.

Neppure si chiese perché si trovasse lì, immemore di tutto, ma consapevole di lei perfino nei particolari che aveva quotidianamente annotato nella personale rubrica del suo cervello e del suo cuore che andava sotto il nome di ‘Oscar’.

“Vorrei baciarti, adesso” le disse, e gli venne così spontaneo che gli venne da sorridere, e sorrideva fino al verde degli occhi che rifletteva il verde della natura, occhi vividi, vedenti.

Lei rise, guardandolo fisso.

“Siamo nell’Eden” gli disse “Questo è il posto progettato da Dio per la vita degli uomini, dove loro avrebbero potuto essere felici. Noi siamo come Adamo ed Eva. Ogni cosa è nuova e siamo noi a dover battezzare le cose, perché prendano vita. Perché non esiste vita senza nome, per quanto qualcuno pensi l’esatto contrario” e rise ancora.

“Sì, Oscar” disse lui, soggiogato e affascinato “Vorrei tanto baciarti adesso”.

“Guarda quell’albero, André, quello con la chioma al contrario. Quello è l’albero del Bene e del Male. È per quello che gli uomini sono stati esiliati da qui e adesso Dio è disgustato del posto, e lo ha regalato a me, a quelli come me. Io vivo qui quando sono addormentata. Credo che Dio ami anche me, e quelli come me, anche se non mi piace pensarlo. Lo stai tenendo a mente, André?”

“Sì, Oscar” disse lui, troppo felice per prestarle completa attenzione “Sei così bella. Non esiste una donna, non esiste una creatura più bella. Tutto ciò che sei e hai ti rende perfetta. Le tue labbra son più rosse delle fragole mature, hanno l’odore delle fragole rosse” poetò.

“André, la vedi quella ragazzina che siede sotto l’Albero?”

“No, Oscar. Vedo solo te, è tutto sparito. Lascia che ti baci. Sono vissuto per questo”.

Senza lasciargli le mani, perché ebbe compassione di lui e perché le piaceva sentirne il calore, lo ammonì.

“Guardala, invece, perché devi tenerla a mente. Non dovrebbe essere qui. Si chiamava Thèrése, e le è stata fatta una grande ingiustizia, e chiede vendetta per quella ingiustizia. E adesso, cavaliere innamorato” disse Oscar con tono diverso, e intanto i suoi occhi cambiarono colore, fino a diventare prima scuri e poi neri (1), e sembrava che anche il giardino fosse cambiato, si fosse incupito; ora, se André Grandier avesse voluto lasciarle le mani, non avrebbe potuto. “Adesso tu, cavaliere innamorato, mi devi ascoltare con attenzione, perché io ti racconterò una storia, e dal fatto che tu tenga o meno a mente le mie parole dipende la fine della storia stessa. Il demiurgo di questa vicenda non è una cattiva persona, si vanta di non rinunciare al lieto fine, ma è umorale, inaffidabile, bambino, e con lui non si sa mai. Non è detto che sia sempre magnifico. Quindi tu mi dovrai ascoltare con attenzione, se ci tieni alla tua Oscar e se ci tieni alla tua vita”.

Sentiva riacquistare poco a poco consapevolezza di sé.

André Grandier, quasi sano di mente, ebbe certezza di trovarsi un luogo che non aveva mai visto e che possedeva una malìa antica, un fascino capace di piegare le ginocchia a tempre più forti della sua, e prese fiato; senza lasciare quelle mani alabastrine, capì con una fitta al cuore che Oscar non era, e che doveva sforzarsi di sospendere l’incredulità, e soprattutto doveva sforzarsi di tenere a mente anche le virgole di quello che lei era in procinto di dire.

“Vi ascolto, madame, avete tutta la mia attenzione. Voi e la piccola Thèrése”.

E avvicinando il volto al suo, parlando piano al suo orecchio -  tanto che lui, sentendo il profumo di Oscar, quasi credette di perdere i sensi e ripiombare nell’atmosfera onirica da cui era appena uscito - lei iniziò a parlare e lui si sforzò di ascoltare.

 

1.       Chi ha letto Lei arriva coi fulmini nel cielo sereno sa di chi e di cosa sto parlando. Chi non l’ha letta, può andare a occhio (e per le fan di André: perdonate, è solo un modo di dire).

 


 
  
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