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Autore: shatiaslove    04/05/2021    0 recensioni
«Buon anno nuovo, Rain!» alza il suo bicchiere di plastica al cielo, facendo dondolare così tanto il liquido al suo interno che mi finisce in testa.
«Che schifo» dico solamente.
Che il 2017 cominci. Facendo schifo.
Genere: Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Calum Hood, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chapter Two

 
 
 
Quando credo che la mia vita non possa andare peggio, ecco che accade qualcosa che mi ricorda che la vita può sempre andare peggio, anche se di per sé fa già schifo.
Il peggio del peggio, nel mio caso, si tratta di un invito ad una festa di Capodanno, perché quella per attendere il primo dell’anno non bastava.
«Per favore, Rain, vieni! Sasha sta ancora vomitando da ieri sera e non me la sento di andare da sola con Calum e i suoi amici» urla al telefono la mia cosiddetta amica, nonché Laila, facendomi venire un mal di testa così forte che preferirei dare cento picchi al secondo contro il muro, trasformandomi in Picchiarello.
«Va bene» borbotto, stanca delle sue preghiere. Un altro urlo mi fa sobbalzare sul letto, facendomi rischiare di cadere per terra. Quasi ci speravo, di cadere, e magari prendere una botta con la testa e morire.
«Michael passerà a prenderti stasera alle dieci» dice, prima di chiudere la chiamata e lasciarmi basita.
Michael, Michael, Michael… chi cazzo è Michael?
Spero il ragazzo bellissimo con i capelli biondi e gli occhi azzurri, lo spero davvero.
 
 
 
«Dove vai?» chiede mia madre entrando in camera mia, vedendomi di fronte allo specchio con due vestiti in mano, insicura su quale dei due indossare per la festa di stasera.
«Ad una festa» sbuffo, lanciando i vestiti sul letto e sedendomi per terra, fissando in cagnesco la mia figura allo specchio, le borse ben visibili sotto agli occhi e la stanchezza palpabile sull’intero volto.
«Quello nero.»
«Dici?» incrocio lo sguardo di mia madre, che annuisce immediatamente, prendendo il vestito nero tra le sue mani. È corto, ma non troppo. Nero, ma tanto nero. Bello, ma non bellissimo.
«Con chi ci andrai?» domanda, mettendosi a sedere sul mio letto, mentre io indosso il vestito, così semplice che un sacco della spazzatura farebbe la sua stessa figura.
«Amici» faccio spallucce e mi sistemo velocemente i capelli, mossi e castano scuro, cui punte mi sfiorano la schiena, solleticandomela.
«Ricordati di non bere troppo, sai gli effetti dell’alcol su di te» mi ricorda, prima di alzarsi e fare per uscire dalla stanza.
«Mamma, perché proprio io?» mi lagno, mentre una smorfia spunta con naturalezza sul mio viso.
«Si tratta di sangue, e il tuo è perfetto» accenna un sorriso ed esce dalla stanza, lasciandomi sola coi miei pensieri.
Io non sono brava ad avere delle responsabilità, non sono brava ad occuparmi delle cose. Non sono neppure in grado di lavare i piatti senza romperli, figuriamoci.
Ma il sangue non mente e di certo il mio non può farlo.
 
 
 
«Ciao.»
Rimango delusa quando alla guida della macchina nera, parcheggiata fuori casa mia, trovo il ragazzo che mi ha fatto cadere l’alcol addosso, anziché il dio greco di cui ogni ragazza si innamorerebbe. Ma i miei genitori mi hanno insegnato ad essere educata, perciò rispondo al suo saluto con un cenno e uno sbuffo. Non posso fare di meglio. O forse non voglio.
«Andiamo?» chiedo dopo qualche minuto, visto che è rimasto a fissarmi in modo inquietante, anziché mettere in moto la sua macchina nera.
«Rain, giusto?» annuisco, confusa, e incrocio il suo sguardo. Ha gli occhi d’un verde in grado d’illuminare il suo intero volto e i capelli biondi e sfibrati, sparati in tutte le direzioni, come se avesse preso la scossa prima di uscire di casa. «Ecco, Rain, c’è un problema» si gratta la nuca, imbarazzato.
«Che problema?»
«Diciamo che ho dimenticato di fare benzina.»
«Dimmi che stai scherzando, ti prego» imploro, ma il suo sguardo dispiaciuto mi fa capire che non sta scherzando e io non posso fare a meno di fare una faccia disperata, con tanto di mani a coprirla e piagnucolii lamentosi. Oltre a tutti gli insulti rivolti verso Michael borbottati sottovoce, ovviamente.
«Casa di Ashton dista solo mezz’ora a piedi da qui, dai!» prova ad usare un tono rassicurante, ma riesce solo a farmi disperare ancora di più. Esco dall’auto e aspetto che lo faccia anche lui, lanciandogli più occhiatacce fulminanti appena i nostri occhi si incrociano.
Iniziamo a camminare spalla contro spalla, gli unici suoni sono i nostri respiri e i passi strascicati per terra. I miei più dei suoi, perché i tacchi fanno più rumore. E rimaniamo in silenzio per quelle che sembrano ore, ma guardando l’orario sul mio cellulare scopro essere passati solo dieci minuti. Non arriveremo mai.
«Allora…» dico d’un tratto, nella speranza che un dialogo possa far passare il tempo più tranquillamente.
«Cosa?»
«Non lo so, non hai nulla da dire?» chiedo, chiudendo la cerniera del giubbotto pesante che sto indossando, prendendo le sembianze dell’omino Michelin (in versione dark), ma con le gambe lunghe e bianche color mozzarella, in netto contrasto col giubbotto nero.
«Scusami?» prova a dire, messo in difficoltà dalla mia richiesta.
«Non intendevo quello» passo una mano sul viso, facendogli capire che è tutto passato. In realtà, no, ma odiarlo non cambierebbe la situazione. Non al momento, perlomeno.
«E allora cosa?»
«Trova un argomento interessante, suvvia. Possibile tu non abbia nulla di cui parlare?» inarco le sopracciglia e incrocio le braccia al petto, nonostante il giubbotto mi permetta di farlo solo in parte.
«Ti piacciono gli AC/DC?» chiede entusiasta.
«Non proprio.»
«I Metallica
«Neanche.»
«Sei noiosa» alzo gli occhi al cielo e trattengo il mio dito medio dall’alzarsi di fronte al suo viso per mandarlo a quel paese.
«Tu di più.»
«Che musica ascolti?» domanda allora, puntando i suoi occhi su di me, apparendo quasi interessato a ciò che a me piace.
«I Mayday Parade» rispondo velocemente. Evito di fargli sapere che ascolto anche musica antica, inizialmente tramandata a voce dai miei nonni, perché poi dovrei spiegargli altre cose che sarebbe meglio evitare.
«Non hai la faccia da Mayday Parade
«E tu non hai la faccia da Metallica» ribadisco. Mi sorride e gli sorrido. Questo scambio di sorrisi mi distrae così tanto che inciampo sui miei stessi piedi, finendo per terra, sul marciapiede freddo e duro. Michael scoppia a ridere, così forte che non riesce neppure a porgermi una mano per aiutarmi a rialzarmi. Lo faccio da sola, sbuffando e brontolando altri insulti nei suoi confronti. Mi trattengo dal dargli quattrocento pugni sul bel faccino che si ritrova e riprendo il mio cammino, lasciando le sue risate alle mie spalle.
«Aspettami!» urla, dopo essersi ripreso, mentre sento i suoi passi farsi sempre più vicini, il fiatone per aver corso neanche due metri.
«No» rispondo quando me lo ritrovo al mio fianco, mettendo su un’espressione imperscrutabile.
«Ti sei fatta male?» trattiene altre risate al ricordo della mia caduta e mi fa alzare gli occhi al cielo, esasperata. Laila me la pagherà cara. La renderò mia schiava a vita, lo giuro su quanto è vero che mi chiamo Pioggia, cioè, Rain.
«No.»
«Continuerai a dirmi “no” per tutta la serata?»
Mi trovo di fronte ad un bivio, insicura su cosa rispondere. Se gli rispondessi di “no”, automaticamente gli direi che non continuerò a farlo per tutta la serata, ma se gli rispondessi di “sì”, smetterei di dirgli di “no” e allora il tutto sarebbe inutile. Decido di non rispondergli e guardare la strada di fronte a me, sperando di non inciampare ancora una volta.
«Rain…» mormora, ma non gli rispondo. «Rain» dice ancora una volta, ma non gli rispondo di nuovo. «Rain!» mi giro nella sua direzione e gli lancio un’occhiataccia. È rimasto indietro e non capisco perché si sia fermato.
«Cosa?» sbotto all’improvviso, per poi maledirmi per avergli rivolto altre parole oltre “no”.
«Casa di Ashton è questa qui» indica la villa di fronte a sé e accenna un sorriso in risposta al mio sguardo infastidito. Lo raggiungo, senza dire altro, e mi dirigo verso l’entrata della casa. Suono il campanello e spero che Ashton - chiunque egli sia – mi apra prima che Michael provi anche solo ad aprire la bocca per rivolgermi la parola.
«Eccovi qui, finalmente!» l’entusiasmo di quello che suppongo essere Ashton è facilmente percepibile, così come il suo alito che già puzza di alcol e fumo.
«Scusa il ritardo, abbiamo avuto alcuni problemi con la mia auto» Michael entra in casa, piegando la schiena dietro le pacche poco delicate del suo amico ubriaco.
«Tranquillo, amico. Sarà la festa migliore della vostra vita, lo prometto!»
 
 
 
Due ore dopo e la festa è una noia mortale, tant’è che la maggior parte degli invitati è già andata via e l’alcol è praticamente finito da un pezzo, se non per poche bottiglie rimaste. Ashton continua a ridere a crepapelle a chiunque gli si pari davanti e Michael continua a stare in un angolo insieme ad una ragazza che non conosco. Il dio greco, che ho scoperto chiamarsi Luke, sta su uno dei divani del salotto con la sua ragazza in braccio, e, solo a guardarli, mi prendo d’ansia; ho paura che la ragazza gli spezzi gli stuzzicadenti che ha per gambe, nonostante lei pesi quanto una piuma. Calum, invece, è seduto accanto a me, la testa poggiata sulla mia spalla, e gli occhi chiusi. Non ho idea se stia dormendo o meno, ma sinceramente poco m’importa. Laila è chissà dove, chissà con chi, e la sto insultando in così tante lingue che potrebbe morire da un momento all’altro, sempre se non sia già morta.
«Rain» biascica Calum, alzando la testa e puntando i suoi occhi scuri nei miei.
«Sì?»
«Come sta il tuo cane?»
«Bene.»
«Sono felice di saperlo» biascica ancora, prima di poggiare nuovamente la testa sulla mia spalla e chiudere gli occhi.
 
 
 
Tre ore dopo e la festa si è conclusa. In casa siamo rimasti solamente io, Laila – che ha salutato con un bacio appassionato la ragazza che è riuscita a conquistare durante la serata –, Calum, Luke, la ragazza di quest’ultimo di cui non ricordo il nome, Michael e ovviamente Ashton, il padrone di casa.
Siamo disposti a cerchio tra i divani e il pavimento del salotto, l’unica bottiglia di Vodka rimasta al centro, così stretti e vicini che neanche durante un’orgia.
«Spero non vogliate giocare al gioco della bottiglia» borbotta la ragazza di Luke, facendo una smorfia seccata, e rinvigorendo la massa di capelli ricci che si ritrova.
«No?» Michael guarda Ashton spaesato e un broncio gli si pone sul viso.
«Vi prego, no» li imploro, portando le dita a massaggiarmi le tempie, sperando di riuscire ad eliminare i ricordi della serata. Mai vissuta una così pessima. Più o meno.
«Va bene…» sussurra Michael, prendendo un sorso di Vodka.
«E se giocassimo a Non ho mai?» propone Laila, le labbra rosse e gonfie, dopo i mille baci scambiati con la sua conquista, e la voce biascicante dopo tutto l’alcol ingerito.
«No» ribadisco. «Non faremo nessun gioco stupido.»
«E se giocassimo a Monopoly
«Sì!» dicono tutti all’unisono, lasciandomi basita. Sono finita in un gruppo di bambini.
«Il primo che perde beve la Vodka rimasta nella bottiglia» esclama Ashton. Il mio sguardo si punta sulla bottiglia, metà piena o metà vuota – in base ai punti di vista –, e prego di non perdere.
Ovviamente Dio mi odia, se non si fosse capito.



 
   
 
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