Si
vis amari, ama
Un
raggio di luce verdastra mi fece lentamente aprire
gli occhi.
Il
vecchio mobile in mogano era fiaccamente illuminato
dai raggi di sole filtrati dall’acqua torbida del lago. Le
lenzuola mi attorcigliavano
le gambe, sintomo evidente del mio sonno irrequieto. Era
così dall’inizio dell’anno,
pensai, e la realtà tornò vivida.
Avvertì il familiare senso di nausea, la
bocca improvvisamente secca, feci istintivamente un respiro profondo
per non
cedere al panico. La stanza mi apparve immediatamente più
scura.
La
sala grande era praticamente vuota, i grandi tavoli
di legno erano occupati solo da qualche ragazzino del primo anno che
scribacchiava irrequieto qualche pergamena macchiata
d’inchiostro fresco, all’ultimo
momento prima delle lezioni. Qualche fantasma gironzolava sciatto, in
attesa
dell’arrivo di tutti gli studenti per scambiare chiacchiere e
fare scherzi.
Io
evitavo da mesi quei momenti. Non avevo più parlato
neppure con i miei compagni di casata, oltre le banalità di
scuola. Blaise e Theo
erano certi che li stessi evitando, mi avevano braccato più
volte all’uscita
delle lezioni chiedendomi cosa stessi combinando. Per il resto cercavo
di
incontrarli il meno possibile, sgattaiolavo fuori dalla nostra stanza
la
mattina presto, li guardavo per un secondo sulla soglia, ancora
infagottati sotto
i piumoni. Avrei voluto condividere questo peso che sedeva comodo sul
mio
stomaco con loro, avrei voluto far uscire la nebbia nera e densa che mi
riempiva il petto, ma non potevo. Era una mia
responsabilità, ero un uomo ormai,
l’unico uomo rimasto a vegliare sul nome della famiglia
Malfoy, non avevo più
nessuno da cui andare a piangere per i miei problemi. Mio padre mi
aveva avvertito
che prima o poi questo momento sarebbe arrivato, e aveva sempre tenuto
a
sottolineare che non sarei stato in grado di gestirlo, di essere forte
e fiero,
di camminare a testa alta anche con il fango che mi macchiava i
vestiti. Ora tutto
quel fango lo avevo ingoiato, lo stesso che quei maledetti buonisti
Grifondoro mi
avevano spalmato sulla faccia senza esitazione, non appena venuti a
conoscenza
della mia disgrazia.
Da
allora camminavo, da solo, algido, incurante del
peso che avvertivo sulle spalle e che se è possibile mi
faceva venir voglia di
tenerle ancora più dritte, ancora più larghe.
Avrei risolto tutto e mio padre
sarebbe stato fiero.
Dopo
la colazione in solitaria, imboccai il corridoio
per raggiungere l’Aula di Pozioni. Guardai il cielo
attraverso i porticati del
chiostro, il sole era alto e abbastanza caldo per una giornata
invernale, avrei
volentieri preferito andare al campo e passare qualche ora in alto
sulla scopa,
ma mi aspettava un inutile e noiosa lezione di pozioni, con
l’altrettanto inutile
e noioso professore Lumacorno. Ero eccellente in pozioni, ma quello
zotico
vecchio sembrava non rivolgermi nemmeno uno sguardo, tutto tronfio
com’era nel
suo panciotto a lodare Potter. Come non poter essere entusiasti di
sprecare un’ora
a sentire le prodezze e le magnificenze del Santo Sopravvissuto?
La
cosa peggiore erano però gli sguardi. Avevo sempre
adorato le attenzioni, essere ammirato o disprezzato non mi faceva
differenza, l’importante
era essere visto.
Da
quando mio padre era finito ad Azkaban però, ogni
occhiata mi rendeva furioso. Odiavo il giudizio riflesso in tutti gli
occhi che
incrociavano il mio sguardo e mi facevano sentire sporco, sconfitto,
prostrato.
Chiunque ad Hogwarts si sentiva in diritto di potermi fissare,
addirittura
avevo sentito qualche risolino al mio passaggio: naturalmente ero
andato fuori
di testa e avevo rotto il naso ad un Tassorosso, ma qualcuno poteva
biasimarmi?
I
miei amici avevano capito e nessuno a Serpeverde
aveva mai fatto parola di ciò che mi era successo. Quasi
tutti condividevamo un
destino simile, vittime delle scelte di persone che avrebbero dovuto
proteggerci, con tutto il mondo che ci vede come dei privilegiati senza
cervello, con la voglia metterci in ginocchio. Tra di noi ci facciamo
scudo, ci
aiutiamo a vicenda a costruirci la nostra armatura contro il bene che
ci
disprezza perché siamo male, ma chi di noi ha mai potuto
scegliere realmente tra
male e bene?
Siamo
il cliché più vecchio del mondo,
l’uccellino nella
gabbia dorata.
Entrai
svogliatamente nella grande e scura aula, regno
indiscusso di Piton per anni, ora sostituito da questo ometto grasso e
paffuto,
in piedi di fronte ad un calderone fumante. Entrai impettito senza
degnare di
un saluto e presi posto al tavolo infondo sulla destra, che di solito
condividevo con Blaise, in quei rari momenti in cui ancora frequentavo
qualcuno.
Non
c’era quasi nessuno in aula, a parte il professore
che continuava a rimescolare quella brodaglia, con le guance arrossate
ed il
suo solito sorriso sornione, irritante. L’aula aveva un odore
strano quella
mattina, un po' mi disturbava o forse no, non riuscivo a definire cosa
fosse né
se mi piacesse. Guardando svogliatamente in giro vidi una cascata di
ricci
color nocciola, abbastanza informe, che ricadeva su di un braccio
appoggiato,
la mano nei capelli faceva un dolce massaggio. Mi soffermai su quel
movimento ipnotico,
piccole circonferenze tracciate con incuranza. Sentivo le mie braccia
farsi più
leggere, rilassai tutti i muscoli tesi da tempo. Avevo voglia di
dormire
facendomi cullare da quella sensazione, pensai a mia madre e al suo
sguardo tenero
ogni volta che tornavo a casa per le vacanze di Natale. Mi sentivo
protetto, al
sicuro.
Il
rumore dei passi degli studenti che entravano in
aula interruppe quella magia e la mano si fermò. Il corpo
della ragazza cui
apparteneva si rimise dritto, perfettamente composto. Capì,
era la Granger,
eppure la consapevolezza di aver desiderato il suo tocco morbido tra i
capelli
non mi causò il solito ribrezzo. Era stata l’unica
ad astenersi completamente
da sguardi vittoriosi, battute sarcastiche, l’avevo sentita
addirittura
rimproverare Weasley per averlo fatto. Lei mi aveva semplicemente
ignorato,
senza disprezzo, senza compassione. Aveva fatto finta non esistessi e
non c’era
nulla che in quel momento apprezzassi di più.
«Finalmente
ti ho beccato.»
Mi
voltai verso il mio migliore amico Blaise Zabini con
espressione impenetrabile, mi aveva colto sul fatto, a fantasticare
sulle
carezze della Granger, per fortuna non mi stava guardando. La linea
della mascella
scura era indurita, teneva gli occhi fissi sulla borsa da cui
freneticamente
cacciava pergamene e libri stropicciati. Spostò lo sguardo
duro su di me una
frazione di secondi e poi ricominciò a rovistare nella borsa
floscia, scuotendo
la testa con aria di disapprovazione.
«Io
non riesco proprio a capirti, Draco. Ti comporti
come se non ci conoscessi nemmeno, cammini solo per i corridoi
all’alba e di
notte, sembri un cane con la rogna. Si può sapere cosa cazzo
hai nel cervello?»
L’aveva
detto tutto d’un fiato, fissando su di me i
suoi occhi profondi e blu, le nocche delle mani viola per la stretta
forte
intorno ai manici della borsa. Era ancora in piedi quindi la sua figura
muscolosa
torreggiava su di me. Non riuscì a guardarlo, non
riuscì a risponderli nulla. Bloccai
la lingua tra i denti fino a sentire un sapore metallico, non potevo
dirgli
nulla, era una mia responsabilità. Indurì lo
sguardo e tornai a guardare
ostinato dritto di fronte a me, verso Lumacorno che faceva sedere
Potter vicino
a lui in cattedra, ma la cosa non mi diede più
così fastidio.
Ero
perso nella nebbia nera e densa, sentivo sempre di
più venirmi meno il contatto con la realtà e
strinsi le mani ancora più forte,
i palmi mi facevano male per le unghie che si conficcavano dentro la
pelle
bianca, questa era l’unica sensazione che mi teneva ancorato
a tutto il resto. Dalla
nebbia uscivano immagini, ricordi, Voldemort che mi marchia, mia madre
che
piange, la risata folle e sguaiata di mia zia. Sentivo il panico
invadermi, dovevo
concentrarmi su qualsiasi altra cosa sennò avrei fatto una
scenata, non volevo
crollare davanti a tutti, non si sanguina davanti agli squali.
«Bene
ragazzi miei ci sono volontari per capire quale pozione
nasconde questo calderone fumante?»
Io
e la Granger alzammo quasi contemporaneamente la
mano. Questo fu abbastanza per distogliermi dai miei incubi.
Lumacorno
sembrò entusiasta di avere tutta questa
partecipazione e ci invitò calorosamente ad avvicinarci. Io
e la Granger ci
guardammo un istante negli occhi, quasi a chiederci un reciproco
permesso su
questa cosa, se stava bene ad entrambi. Lei fece il primo passo
alzandosi dal
banchetto in cui sedeva sola. Istintivamente apprezzai l’idea
che le stesse
bene fare qualcosa che comprendeva anche me, poi mi ricomposi ed
inserì la
modalità “faccia da stronzo”.
Passando
tra i banchi notai controvoglia che tutti ci
fissavano, mentre notai con più allegria la faccia furiosa
di Potter e Weaslay,
rossi entrambi in viso, qualcuno più del solito.
Arrivati
entrambi davanti la postazione di Lumacorno pensai
alla sua mano che ora era pericolosamente vicino alla mia, me la
strinsi subito
in un pugno nonostante i palmi ancora doloranti.
«Prego
ragazzi avvicinatevi, sapete dirmi di cosa si
tratta?»
«Amortensia.»
ancora una volta le nostre voci si erano
accavallate.
La
vedevo muoversi da un piede all’altro per
l’imbarazzo
di tutta questa strana situazione. Nemmeno io ero troppo a mio agio, ma
ero
comunque distratto dai miei pensieri, li avvertivo in lontananza e
questa
sensazione mi spingeva a concentrarmi ancora di più su di
lei.
«Benissimo!
Sapete dirmi la sua caratteristica?»
«E’
un filtro d’amore potentissimo, naturalmente non è
in grado di creare il vero amore, ma parliamo di una vera ossessione.
Ognuno di
noi ci sente un profumo diverso, rispetto a quello che ci attrae e che
amiamo.»
«Eccellente
Signorina Granger, assegno cinque bei
punti a Grifondoro, che ne pensi Harry?»
L’odore.
Quello che sento da quando sono nell’aula. Fino
a quel momento non ci avevo dato troppo peso, ora la voglia
irrefrenabile di sapere
di cosa sapesse ciò che mi attrae mi spinse a fare un passo
verso la scrivania
dov’era poggiato il calderone. Allo stesso modo fece la
Granger, perché le nostre
mani che prima erano semplicemente vicine ora si sfioravano. Ci
guardammo fissi
negli occhi, quegli occhi scuri che erano stati gli unici a non
giudicarmi per
qualcosa che non avrei nemmeno avuto il coraggio di scegliere, se
avessi
potuto.
Inspirammo
all’unisono
il vortice di fumo che si alzava. Sentì un odore che avevo
sentito per anni,
sul treno per Hogwarts, nelle aule, nella Sala Grande, sapevo
perfettamente a
chi appartenesse. Era vicina a me, la persona che per me aveva sempre
profumato
della cosa più bella, la possibilità di
scegliere. In lei vedevo la vita che
desideravo così tanto, l’amore che dimostrava alle
persone a cui teneva, la sua
gentilezza, la possibilità di decidere chi o cosa essere, il
giudizio degli
altri che si sarebbe poggiato su di me solo per ciò che sono
e non per qualcosa
che non ho voluto io, che mi terrorizza quanto terrorizza gli altri.
Mi accorsi in
quel preciso momento che lei odorava di libertà, la mia
libertà, quella che volevo
e che non avrei mai potuto avere.
In quel momento
capì anche la ragione del mio odio.