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Autore: Soul of Paper    16/05/2021    6 recensioni
[Imma Tataranni - Sostituto procuratore]
Lo aveva baciato e gli aveva ordinato di dimenticarselo. Ma non poteva certo pretendere dagli altri ciò che non riusciva nemmeno a fare lei stessa. Imma Tataranni - Imma x Calogiuri
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nessun Alibi


Capitolo 60 - Ossa


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


Aprì la porta di casa, richiudendola dietro di sé rapidamente, sollevata di essere finalmente lì: il viaggio di ritorno con Mancini, trascorso in un silenzio tombale, era stato a dir poco imbarazzante.

 

Si levò il cappotto, gettò la borsa per terra e si diresse decisa verso il bagno: voleva buttare tutti i vestiti in lavatrice e poi farsi una doccia infinita, che ne aveva bisogno.

 

Si sentiva sporca, voleva lavare via tutto, soprattutto i pensieri.

 

Ma, come aprì la porta del bagno, due occhi gialli ed un fischio la colsero di sorpresa, mentre si trovò Ottavia in braccio.

 

Fece appena in tempo ad accendere la luce che la micia le annusò il maglione e riprese a soffiare e a gonfiarsi, incazzosissima, come non lo era mai stata con lei.

 

Per un attimo temette che le balzasse in faccia e la graffiasse.

 

Ma no, Ottavia smise di fischiare, la guardò in un modo che sembrò dirle so che cosa hai fatto! e poi saltò regalmente per terra e, altrettanto regalmente, le diede il sedere e se ne uscì dal bagno, facendo l’offesa.

 

Ma, prima di inseguirla, aveva proprio bisogno di levarsi quell’odore di dosso, e non solo per evitare gli artigli della testona.

 

Si strappò quasi via i vestiti, li mise nella lavatrice, la avviò e poi si piazzò sotto al getto ancora ghiacciato, che piano piano divenne caldo, ma i brividi non passavano.

 

Senza quasi rendersene conto, all’acqua si mischiarono le lacrime. Tirò un paio di manate alle piastrelle, fino a farsi male.

 

Non sapeva se fosse più arrabbiata con se stessa per aver ceduto alla rabbia ed alla sete di vendetta, o se per il senso di colpa che provava verso di lui.

 

Con Pietro non era stato così, mai. Certo, i sensi di colpa l’avevano tormentata per tutti i mesi di clandestinità e, ogni volta che si vedevano, poi doveva cancellare le prove ma… le era sempre dispiaciuto doversi levare di dosso l’odore di lui ed invece mo… il profumo di Mancini le dava la nausea.

 

Che c'aveva, per ridurla così, pure quando non c’era, dopo tutto quello che le aveva fatto? Mentre, come minimo, se la stava a spassare con la cara Irene, travestita da chissà che.

 

Ma lei ci soffriva lo stesso e capiva sempre di più Pietro, purtroppo.

 

Ci sarebbe voluta una vita per dimenticarlo, e forse non ci sarebbe mai riuscita, non del tutto almeno, ma doveva farlo per forza. C’aveva una figlia a cui pensare, una vita, e sua madre le aveva insegnato a resistere a tutto, a non spezzarsi mai.

 

Uscì dalla doccia quando ormai la pelle delle mani era praticamente lessa, ricordando le urla delle suore della colonia dove andava da piccola, che la levavano dall’acqua di mare a forza, mostrandole proprio le dita raggrinzite.

 

Si coprì con l’accappatoio ed un turbante messo stortissimo, ma più di così non riusciva.

 

Si infilò direttamente a letto, perché non aveva la testa per nient’altro, e le lacrime bastarde tornarono a scorrere.

 

E sentì un peso sulle caviglie, che poi le zampettò lungo il corpo, fino a leccarle le dita che ancora si coprivano il viso.

 

“Ottà…” sospirò, accarezzandola e stringendola forte, mentre Ottavia le asciugava le lacrime con musate tenere, “c’avevi ragione su Mancini, sai? Ma… pure io non è che ho fatto di meglio, anzi. Ma non ti preoccupare: qua non ci metterà più piede.”

 

Ottavia si produsse in una miagolata che poteva solo definirsi come soddisfatta, come se avesse capito tutto, ma proprio tutto. E poi le si mise sul petto ed iniziò a farle le fusa, in quel modo che la tranquillizzava sempre tantissimo.

 

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“Calogiuri… ma stai mangiando qualcosa? Sei magrissimo ed hai un colorito tremendo: sembri grigio!”

 

“Non riesco a mangiare tanto: ho male allo stomaco… e non solamente per i lividi… ma non ti devi preoccupare!” le rispose con un sospiro, facendola passare.

 

“Quello che ti ho portato adesso è leggero e lo devi finire. Non ti puoi lasciare andare così!”

 

“Ma non abbiamo niente per scagionarmi, niente! E... mi è arrivata quella!”

 

Irene prese in mano la lettera che le stava indicando.


“L’avviso di garanzia?” sospirò, riappoggiandola sul tavolino sbeccato, “Calogiuri, c’è ancora tempo per capire che cos’è successo, e controbattere a tutte le accuse di Santoro prima che si finisca a processo.”

 

“Tempo per cosa?! Ormai è quasi impossibile capire chi è stato! E pure se lo dovessimo capire, come le troviamo le prove mo, magari dopo anni? Sono spacciato e lo sai pure tu: perderò tutto, anzi, ho già perso tutto.”

 

“Ed io e Ranieri chi siamo allora? Lo so che… che non siamo Imma… ma noi ce la stiamo mettendo tutta e devi mettercela anche tu!”

 

Lo sapeva e si sentiva in colpa verso di lei ed il capitano, ma… non riusciva più a credere a niente, a sperare a niente.

 

Si sentiva come in un buco nero, dal quale non sarebbe mai riuscito ad uscire.

 

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Si sentiva stanchissima: nonostante il calore di Ottavia, non aveva quasi chiuso occhio.

 

Almeno, per fortuna, non aveva incrociato il procuratore capo per i corridoi.

 

Richiuse la porta dell’ufficio dietro di sé con forse troppa forza, mollò il cappotto sull’appendiabiti e si lasciò cadere sulla sedia.

 

Le ci volle un attimo per mettere a fuoco la scrivania, ma, quando lo fece, vide una busta posta al centro, che fino alla sera prima non ci stava.

 

Chiedendosi di cosa si trattasse, la aprì e riconobbe immediatamente l’incipit delle… letterine d’amore che preferiva.

 

Strano: non ricordava di avere chiesto un nuovo avviso di garanzia.

 

Distese il foglio ed il nome Ippazio Calogiuri fu come un pugno.

 

Merda!

 

Fece scorrere i fogli, gli occhi che saltarono da un capo di imputazione all’altro, fino ad arrivare alla firma di Santoro.

 

Lo sapeva che Calogiuri avrebbe dovuto subire un’inchiesta ma… il caro collega ci era andato giù pesante, pesantissimo, non si era risparmiato su niente, anzi.

 

E, per quanto potesse essere arrabbiata e delusa da Calogiuri, prima per la storia di Melita e mo pure per la cara Irene… non si meritava quello.

 

Doveva fare qualcosa, ma non sapeva che cosa. Non poteva esporsi lei in prima persona, anche perché non voleva rendere ancora più incazzoso Santoro - al cui confronto Ottavia era poco vendicativa - e peggiorare ulteriormente la posizione di Calogiuri.

 

Selezionò un contatto sul cellulare.

 

“Mariani? Oggi a pranzo è libera? Va bene, allora si consideri prenotata fin da ora.”

 

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“Come mai è voluta venire a pranzo qui?”

 

“In privato ci davamo del tu, no?” le ricordò Imma, tirando fuori dal sacchetto il panino che aveva appena preso al parco.


Faceva ancora freddo, ma c’era il sole a scaldarle e poi… era più al sicuro da orecchi indiscreti.

 

“Oggi ho trovato in una busta sulla scrivania l’avviso di garanzia che Santoro ha firmato nei confronti di Calogiuri. Tu ne sai niente?”

 

Mariani spalancò gli occhi.

 

“Dell’avviso di garanzia… sapevo che stava per arrivare anche se… Santoro non mi fa molto partecipare a quell’indagine, per via dell’amicizia con Calogiuri, preferisce Conti,” spiegò, dando anche lei un morso al suo di panino, “però non l’ho messo io sulla scrivania, se è questo che vuole- che vuoi sapere.”

 

Imma sospirò: chissà chi poteva essere stato.

 

“Appena hai finito il panino posso fartelo leggere ma… ci mancava solo che accusasse Calogiuri del riscaldamento globale, dei terremoti e della fame nel mondo, e poi eravamo al completo.”

 

Mariani fece un’espressione strana.


“Che c’è?”

 

“No… è che… pensavo fosse- cioè fossi arrabbiatissima con Calogiuri.”

 

“E lo sono, ma… un conto sono le cose personali ed il nostro rapporto, un conto è… vederlo accusato di cose che sicuramente non ha commesso. Forse… forse la carriera ormai se l’è giocata ma… che finisca in galera accusato delle peggiori infamità… non se lo merita, pure se è stato a letto con quella.”

 

“Ma io cosa posso fare?”

 

“Puoi cercare di capire come procedono le indagini di Santoro, e farmi sapere che cosa ha in mano. E, se senti Calogiuri-”

 

“No, non l’ho più sentito… dopo quello che ha fatto… pure io sono molto arrabbiata con lui. Ma… cercherò di farle- di farti avere le informazioni che vuoi.”

 

Sorrise: a parte il tu che non riusciva a darle, Mariani era proprio sempre una salvezza. Anche se era molto stupita dal fatto che avesse tagliato i ponti con Calogiuri.

 

Ma, tanto, lui c’aveva già chi lo consolava e pure molto bene.

 

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Stava per uscire dalla procura quando vide una figura, purtroppo familiare, uscire dalla PG.

 

Santoro.

 

Lui la notò e le lanciò un’occhiata a dir poco trionfante. Non solo, ma divenne pure più impettito, che pareva uno scimmione, pareva: ci mancava solo che si battesse il petto coi pugni.

 

“Buonasera, dottoressa. Giustizia finalmente comincia ad essere fatta, qua dentro, ma chissà che prima o poi non venga fatta del tutto…” pronunciò, tagliente e viscido allo stesso tempo.

 

“Credo che abbiamo due concezioni diverse di giustizia, dottor Santoro. E le consiglio di rilassarsi un poco, prima che le salti qualche bottone. Buona serata!”

 

Sentì le imprecazioni di lui fino a dopo aver superato le guardie, che sorridevano palesemente sotto i baffi.

 

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“Dottoressa….”

 

Alzò gli occhi verso la porta dell’ufficio e si trovò davanti Mariani, talmente pallida che pareva trasparente, un’espressione sconvolta sul viso, gli occhi rossi e tremante come una foglia.


“Mariani, che le è successo?” chiese, alzandosi in piedi ed andando verso di lei, preoccupatissima.

“Ho… ho delle novità su-”

 

“Calogiuri?” la interruppe, il cuore che le finiva in gola, la pelle improvvisamente umida di sudore gelido.


“No.”

 

Bastò quella sillaba per tranquillizzarsi, ma evidentemente qualcosa doveva essere accaduto e di molto grave.


“Si sieda, Mariani,” disse, facendola accomodare su una poltrona e prendendo posto sull’altra, “vuole… vuole qualcosa da bere? Un po’ di acqua e zucchero? Che sembra che abbia visto un fantasma.”


“Eh, magari, dottoressa, sarebbe stato molto meglio quello!” esclamò, facendo un attimo di pausa e poi aggiungendo, a fatica, “ho… ho trovato un video che… che pare proprio essere di Giulia ma… è molto forte e… quasi sono svenuta e… non so se sia il caso che lei lo veda.”

 

“Ma era con qualcuno? Nessuno l’ha aiutata?”

 

“No, no, volevo… volevo vederlo da sola ed ho fatto bene. Ci mancavano Carminati o Rosati con una cosa così e Conti oggi era via con Santoro.”

 

“Ormai sono pappa e ciccia, insomma. Però, tornando a quel video, non importa quanto sia duro da vedere… lo devo fare. Dove sta?”

 

Mariani estrasse il tablet dalla borsa, ci smanettò per un poco e poi glielo porse, insieme alle cuffie.

 

Capì subito perché fossero necessarie… mentre alla voglia di vomitare si unì una rabbia straripante.

 

Giulia era chiaramente incosciente sul letto della stanza incriminata, e c’erano due uomini con il volto mascherato che abusavano di lei, che si lamentava in quella specie di sonno innaturale, mentre loro le dicevano e facevano le peggio cose.

 

“Sono uomini,” disse a Mariani, mettendo il video in pausa, perché aveva visto più che abbastanza per desiderare di evitare tutto il genere maschile, ed al resto ci avrebbero pensato i periti.

 

“Beh, certo, il DNA sui vestiti della ragazza è maschile e-”

 

“Non in quel senso, Mariani. Sono due uomini adulti: i ragazzini non lo tengono questo tipo di fisico, pure se fossero fuori forma.”

 

“Sì, è vero, ha ragione. Quarantenni, come minimo.”

 

“Ed ecco perché il DNA non torna! Dobbiamo capire chi c’era a quella festa, oltre ai ragazzi. Ma dove ha trovato il video?”

 

“Su… su un’app di messaggistica… in un gruppo dove… ci sono uomini che condividono foto e video di ragazze minorenni, o comunque molto giovani. Alcuni dicono persino che… che sono video delle figlie. L’ho trovato tramite i social e sono riuscita ad entrare, spacciandomi per un uomo.”

 

Lo schifo, se possibile, incrementò ancora, anche se sapeva benissimo che al peggio non c’era mai fine.

 

“E com’è che sta gente che scrive queste cose sta ancora a piede libero?”

 

“Eh, dottoressa, a volte quelli della postale ci provano a chiudere i gruppi, tracciare gli IP a tappeto e a denunciare ma… questi gruppi sono come i funghi. Chiudi uno, ne apre subito un altro.”

 

Le venne un brivido, mentre un pensiero le esplose nella testa.


“E… e se quella dei padri di famiglia non fosse solo una storia, almeno non del tutto?”

 

“Che… che vuol dire?”

 

“Magari… magari si tratta del padre di uno dei ragazzi, magari lo stesso commercialista, che la casa la conosce benissimo: è casa sua.”

 

“Ma… in questo caso il DNA sui vestiti avrebbe dovuto essere compatibile con almeno uno dei DNA dei ragazzi. Nessuno di loro risulta adottato - certo magari qualcuna delle madri potrebbe avere avuto una storia parallela, ma il figlio del commercialista e il commercialista si somigliano molto di viso. Anche se non è detto, magari-”

 

“Prima di pensare a figli illegittimi… probabilmente uno dei due uomini è il padre, ma chi ha lasciato il DNA è qualcun altro. Un amico suo, forse. Certo, dobbiamo procurarci il DNA del commercialista ma… secondo me dobbiamo allargare il cerchio, ma agli amichetti suoi, non a quelli del figlio.”

 

“Ma non vedendo i volti… come facciamo?”

 

“Per intanto cerchi di avere più notizie possibile su chi le ha passato questo video. IP, tutto. E poi… se capiamo chi è… potrebbe provare a fingersi una ragazzina, sui social o in un altro gruppo e vedere se la contatta.”

 

“Dottoressa, io ci provo ma… potrebbe anche averlo trovato altrove e averlo soltanto ripostato. Ma faremo una ricerca accuratissima, glielo prometto.”

 

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Avrebbe preferito bussare alla porta di casa della sua ex suocera che a quella, ma sapeva che non si poteva più evitare.

 

Aveva scansato miracolosamente Mancini per tutti i giorni precedenti ma… gli doveva riferire gli sviluppi dei casi e chiedergli le nuove autorizzazioni. Non poteva rimandare per sempre, ne andava del suo lavoro e della sua professionalità.

 

“Avanti!”

 

Come la vide, Mancini sembrò sorpreso e pure imbarazzato.


“Dottoressa… come mai qui? Si accomodi, prego.”

 

Il tono di Mancini era esitante, timoroso, ma lei richiuse la porta alle spalle e si sedette su uno dei posti riservati ai visitatori.

 

Dire che l’atmosfera fosse pesante sarebbe stato un eufemismo, ma doveva rimanere calma, lucida e professionale.

 

“Ci sono alcuni sviluppi sul caso Angelucci, dottore. Ho qualcosa da mostrarle che… che Mariani è riuscita a reperire ma… dopo le spiego meglio. E le consiglio di usare le cuffie.”

 

Mancini avviò il video e prima spalancò gli occhi, poi divenne di un color rosso scuro che pareva gli sarebbe pigliato un colpo. Mise in pausa quasi subito, lasciando cadere il tablet sulla scrivania.


“Ma è-”

 

“La stanza è quella, dottore, con alcuni particolari che ricordava Giulia ed alcuni oggetti che abbiamo reperito in altre stanze, anche se in effetti alcuni sembrano mancare all’appello. La ripresa è stata fatta dall’alto. Giulia ricordava qualcosa sopra all’armadio. Probabilmente era il posto dove era posizionata la telecamera.”

 

“E… e come avete ottenuto questo video?”

 

Imma gli spiegò per filo e per segno tutto quanto e come pensava di procedere.

 

“Per me va bene, dottoressa. E faccia i miei complimenti a Mariani, anche se glieli farò personalmente, la prossima volta che la vedo. Ha avuto delle intuizioni davvero brillanti, sebbene ovviamente non paragonabili con le sue, dottoressa. Ma… è bello sapere che abbiamo anche dei marescialli di valore in questa procura.”

 

La frecciatina era stata assolutamente palese e l’espressione sul suo viso doveva esserla stata altrettanto, perché Mancini parve per un attimo spaventato e poi ancora più in imbarazzo.

 

Ma, in fondo, visto lo stato della sua faccia, poteva capire che Mancini non fosse esattamente il fan numero di uno di Calogiuri in quel momento. Per fortuna non l’aveva denunciato!

 

“Come va l’occhio, dottore? Il livido mi pare quasi sparito.”

 

“Molto meglio, per fortuna. Anche se ho fatto fare gli straordinari al mio oculista.”

 

E quella parola, oculista, le fece venire in mente Chiara Latronico. Sapeva che stava a Roma col figlio ma… non l’aveva più cercata ultimamente, a parte un messaggio dopo il casino al processo per dirle che se aveva bisogno lei c’era, ma capiva che forse non fosse ancora il caso di vedersi.

 

Avrebbe dovuto affrontare la situazione, prima o poi, tanto ormai tutto il mondo sapeva della loro parentela.


“Dottoressa?”

 

La voce di Mancini la riportò alla realtà.

 

“Tutto bene?”

 

“Sì, dottore, è... un periodo di… tanti pensieri. Ho finito col rapporto, se… se non ha altro da chiedermi.”

 

“In realtà… mi chiedevo, visto l’orario, se ti potevo accompagnare. E magari ci potevamo mangiare qualcosa, in un locale stavolta, che… che è meglio.”

 

Si sentì un poco avvampare, anche se non sapeva se, da un lato, apprezzare il coraggio di Mancini, o se esserne infastidita.

 

“Dottore, credo che… che sia meglio che evitiamo passaggi e cene nel prossimo futuro e… e forse pure oltre. Mi dispiace ma… non mi sentirei a mio agio.”

 

Mancini sospirò ma annuì, “dispiace anche a me, dottoressa, soprattutto di… di averla messa a disagio. Può andare ma… magari si faccia accompagnare da Mariani, se è ancora qua, o da qualcun altro.”

 

“Me la cavo anche da sola, lo sa. E poi i giornalisti hanno un poco mollato la presa ma… vedrò se Mariani è disponibile.”

 

E, con un ultimo saluto, si congedò da quell’ufficio, tirando un sospiro di sollievo non appena oltrepassò la soglia.

 

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“Si può?”

 

“Irene… finalmente! Finite le tue ferie?”

 

Era chiaro che, molto probabilmente, Giorgio sapesse, se non perfettamente, almeno a grandi linee, che stava lavorando con Ranieri e forse pure per quale motivo.


“Sì. Tu? Tutto bene? A parte l’occhio, ovviamente.”

 

“Noto che non ne sei sorpresa.”

 

“Eh, Giorgio, lo sai com’è… su cose come questa… le voci corrono. Dovresti stare molto più attento alle palle,” ironizzò, perché, come facevano da sempre, a questo giochetto potevano giocarci in due.

 

Ed, infatti, Giorgio smise di fare il finto tonto e giunse al punto.

 

“Se sei in contatto con… con il quasi ex maresciallo… devi stare attenta a non rovinarti la carriera! Rischi che ti tolgano il maxiprocesso e-”

 

“E forse tra noi due quella che si sta rovinando - e non solo la carriera - non sono io,” lo interruppe, avvicinandoglisi poi, per sedersi sulla scrivania accanto a lui, come aveva fatto mille volte, a parte nei primissimi anni della loro conoscenza, quando ancora non si osava, “lo sai che… che ti voglio bene, ma, quando sono arrivata a perdermi e a perdere la mia dignità per i sentimenti, tu mi hai avvertito quando stavo passando il limite. Di pensare a me stessa e alla mia carriera, che niente e nessuno valgono il tradire se stessi. Ti ricordi che cosa mi avevi detto? Che chi ti vuole te lo fa capire chiaramente, che non si possono forzare i sentimenti, altrimenti è come forzare aperta una cozza. L’unica cosa che ottieni è un mal di stomaco, se non peggio.”

 

Giorgio abbassò gli occhi - o almeno ci provò, con quello mezzo tumefatto. Sembrava in imbarazzo, colto in fallo, come non l’aveva forse mai visto.

 

“Me lo ricordo sì. Anche se… non sono sicuro che tu l’abbia imparato del tutto.”

 

“Ed invece sì, forse pure troppo. Ma ora lo dico a te: vai oltre e smettila di stare dietro a chi non ti può dare quello che vuoi, quando fuori c’hai la fila.”

 

Le sorrise, ma amaro, “come se non ce l’avessi anche tu la fila. E… invece… stai appresso ad uno che mi ha pure ridotto così.”

 

“Guarda che quello che provo per Calogiuri è molto diverso da quello che tu provi per Imma. E non ti devi preoccupare per me: io me la cavo sempre, lo sai.”

 

“Lo dice anche Imma.”

 

“Eh… visto che voi uomini passate il tempo a menarvi, invece che a risolvere i problemi, che ci tocca fare, se non cavarcela da sole? E comunque… mi sa che io ed Imma abbiamo due idee un poco diverse sul cavarcela.”

 

Quanto avrebbe avuto voglia di dirgliene quattro, ma pure otto, ad Imma, nonostante capisse fin troppo bene quanto si sentisse ferita. Ma la verità era che Imma uno come Calogiuri non se l’era mai meritato  e… non poteva sopportare che lui si riducesse così per lei e, soprattutto, il modo in cui lei lo aveva abbandonato a se stesso.

 

E poi... come si faceva a non credergli?

 

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Stava uscendo dall’ufficio per andare a casa.

 

Era un po’ prima del suo solito - quindi un orario normale per gli altri - ma cominciava davvero ad essere esausta, con tutta la stanchezza accumulata, e poi, oggettivamente, non c’erano novità o cose urgenti che le richiedessero di rimanere oltre.

 

Aveva fatto appena due passi quando la porta dell’ufficio della cara Irene si aprì e ne uscì proprio lei, come sempre bella come il sole.

 

Si voltò di scatto e la notò, lanciandole uno sguardo che sembrava volerla fulminare.

 

Certo che c’aveva un gran coraggio, con tutto quello che stava facendo e con chi, soprattutto!

 

Ricambiò con la sua occhiata peggiore, mentre notava che nemmeno il trucco impeccabile della gattamorta riusciva a nasconderle del tutto le occhiaie.

 

Un nucleo di rabbia le esplose dentro, perché immaginava benissimo, per esperienza personale, da che cosa fossero provocate.

 

E, quella sfrontata - per non dire tutti gli insulti ben peggiori che le stavano passando per la mente - si avvicinò pure, con un sopracciglio alzato e le braccia incrociate.

 

“Beh, allora? Passate bene le vacanze? Non mi sembra che siano state molto riposanti.”

 

“Avevo parecchie cose di cui occuparmi,” le rispose, con una nonchalance che le veniva voglia di strapparle i capelli uno ad uno.

 

“Immagino. E credo che… c’abbiamo parecchio di cui parlare noi due, o no?”

 

Irene parve per un secondo sorpresa, ma poi annuì e si riavviò verso il suo ufficio, senza dire altro.

 

Avrebbe voluto averlo lei il vantaggio di campo, ma tanto con la gattamorta non le serviva.

 

L’unica gatta contro cui poteva perdere era viva, vivissima, e dagli artigli molto affilati.

 

E mo era giunto il momento di prendere esempio.

 

Entrò pure lei nell’ufficio bianco ed impersonale di Irene e chiuse la porta dietro di sé, con molta energia, di proposito, fino a farla vibrare sui cardini.

 

Poi, con passo tranquillo, mentre Irene continuava a guardarla con quell’espressione da schiaffi, da dietro la scrivania, le si piazzò davanti, appoggiando le mani sulla superficie lucida ed immacolata, come lei non lo era mai stata, a dispetto del nome.

 

“Accomodati.”

 

“Non serve. E poi… non ti vorrei trattenere troppo a lungo, che chissà che impegni c’avrai stasera.”

 

“Bianca negli ultimi mesi sta andando meglio e posso pure rimanere un po’ di più.”

 

“Non sto parlando di Bianca, e lo sai benissimo,” sibilò, proiettandosi più in avanti, “non mi prendere per scema!”


“In che senso?”

 

“Nel senso che lo so benissimo che sei vicina, molto vicina, ad un certo maresciallo.”

 

Irene rimase perfettamente imperturbabile, in un modo che la fece incazzare ancora di più, ma poi la fulminò e mormorò, bassa e tagliente, “sto soltanto facendo quello che dovresti fare tu.”

 

“Ma per carità! Te lo puoi tenere e farci tutto quello che vuoi, ma-”

 

Irene, per tutta risposta, rise, rise - che voleva cavarle gli occhi se non la piantava subito! - ma poi scosse il capo.

 

“A parte che, anche se fosse come pensi tu, non avresti nulla da potergli recriminare, visto che lo hai mollato tu e che poi ti sei fatta scorazzare, fotografare e... non voglio sapere cos’altro da Giorgio, per tutto questo tempo. Ma, in ogni caso, sei proprio fuori strada, completamente.”

 

Ah, sì? Ma se ti ho vista con i miei occhi, uscire ad un orario improponibile dalla sua stanza, la mattina dopo che c’è stato lo scontro con Mancini, e non eri di certo vestita come se fossi in servizio, anzi, a meno che tu non abbia cambiato mestiere! Certo, con il leopardato e i capelli rossi… vai sul sicuro, no?!”

 

“Ma come ti permetti?! Io-”

 

“E poi ho sentito pure che parlavate della nottata appena trascorsa... e lui ti ha trascinata dietro la porta, presumo per un ultimo avvinghiamento. Che mi vuoi fare fessa a me?!”

 

“No, visto che tanto ci pensi già da sola! Che fai tutta la paladina della giustizia e della verità e poi, quando si tratta della persona che, fino a poco tempo fa, dicevi addirittura di voler sposare, ti fermi alle apparenze. Calogiuri mi stava solo abbracciando, per ringraziarmi. E, se mi hai vista ad orari improbabili quella sera, era perché Calogiuri, dopo lo scontro con Giorgio, è stato malissimo: si è ubriacato ed aveva l’addome che era tutto un livido. E sta ancora male, anzi, sta sempre peggio ed è colpa tua, che lo hai abbandonato nel momento del bisogno, pure se lo sai benissimo che è innocente e che sta perdendo tutto! Almeno io sto cercando di aiutarlo a scagionarsi, tu invece che hai fatto, eh?!”

 

Fu come uno schiaffo, perché si, stava lavorandoci su con Mariani ma… si era fatta accecare dalla rabbia e dal dolore forse troppo a lungo. Almeno su quello.

 

“Capisco l’orgoglio ferito ma, se in questi anni, piano piano, avevo cambiato idea su di te, in meglio - perché dopo aver saputo quanto avevi fatto soffrire Calogiuri a Matera, non ti davo un euro - ora devo tornare a pensare che la mia prima idea su di te era quella giusta. Che sei un’egoista e che Calogiuri non lo ami, tu ami solo te stessa. Perché, se metti prima il tuo orgoglio della salute fisica e mentale dell’uomo con il quale volevi, in teoria, passare la vita, non lo ami davvero, anzi, non gli vuoi neppure bene!”

 

Il secondo schiaffo: perché in parte poteva avere pure ragione ma… da che pulpito veniva la predica e come si permetteva anche solo di pensare che lei Calogiuri non lo amasse?

 

“Tu non sai niente di quello che provo io! Niente! Ed è facile mo, sputare sentenze e lavarti la coscienza dandomi addosso tutte le colpe, quando questo casino è in gran parte colpa tua, della tua brillante decisione di mandarlo sempre da solo con Melita e, soprattutto, della tua grandissima idea di copertura a Milano. Che è per colpa di quel bacio se Calogiuri si è fatto una certa reputazione e se lo hanno voluto incastrare! E voglio vedere cosa avresti fatto tu, al posto mio, sapendo che un’altra donna ha la mappatura dei nei del tuo uomo e poi trovandolo in piena notte in un hotel squallidissimo, con una che ci ha provato con lui in tutti i modi, vestita col filo interdentale!”

 

Irene fece una risatina amara e scosse il capo.

 

“Sull’ultima parte non raccolgo perché sono una signora, perché farsi criticare sull’abbigliamento da te è un complimento e perché, se solo ti ci sforzassi un attimo di essere razionale, capiresti come in un hotel del genere quello era il modo migliore di passare inosservata. Mentre sul resto… non lo so che cosa penserei trovandoci il mio uomo, ma so per certo che Calogiuri non ti tradirebbe mai. E poi... è così sincero, che non potrebbe fare neanche il ladro di merendine, figuriamoci mentire a te o sotto giuramento in tribunale. E, se lo so io, dovresti a maggior ragione saperlo tu, se solo non ti facessi accecare dalla gelosia! E ora me ne torno da Bianca, che sicuramente merita il mio tempo più di te, quindi, se mi vuoi scusare!”

 

Era nera, nera, livida, ma… ma strinse i pugni e, a passo marziale, uscì, sbattendo con ancora più forza la porta, il boato che rimbombò per tutti gli angoli della procura.

 

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Si liberò di giacca e borsa ed andò dritta verso la stanza da letto, per cambiarsi: da un lato era ancora furiosa - e poi detestava non avere l’ultima parola! - dall’altro però… c’era una parte di lei, una vocina interiore, che le dava il tormento ripetendole le parole della cara Irene.

 

Davvero non c’era niente tra lei e Calogiuri? In effetti… quando avevano parlato, subito prima e dopo lo scontro con Mancini… su Melita le era parso davvero sincero.

 

Era ormai in intimo e calze, quando l’occhio le cadde sul cassetto dove aveva infilato la cornice con le loro foto e la lettera che lui le aveva scritto.

 

Le aveva ignorate per tutto quel tempo, volutamente, ma in quel momento non riuscì più a trattenersi e, dopo un paio di rapide falcate, lo aprì e ne estrasse i pezzetti di quello che ormai era un puzzle.

 

La cornice però no, la lasciò a faccia in giù nel cassetto.

 

Con mano un poco tremante - forse perché in casa faceva un po’ fresco per come non era vestita - rimise insieme i pezzettoni, finché non ne ottenne un foglio stropicciato con la scrittura tondeggiante e dolce di Calogiuri, anche se molto più tremolante del solito.

 

Non l’aveva vista così dai primi tempi in cui lo conosceva, che a volte si agitava e scriveva tutto storto, lui che era sempre tanto preciso.

 

Imma,

 

lo so che sarai furiosa con me e credimi che avrei preferito morire, o finire in galera subito, che farti subire l’umiliazione che hai subito oggi.

 

Ma io ti giuro sulla mia vita e su quello che ho di più caro, cioè noi due, che con Melita non ho mai fatto niente, non mi è nemmeno passato di mente. Non so come sappia di quei nei, ma non c’è mai stato niente tra di noi e non mi sono mai spogliato davanti a lei.

 

Non ti tradirei mai, mai, perché sarebbe come tradire me stesso e perché voglio solo te e non avrei mai rischiato di perdere te, il nostro rapporto, la fiducia che hai in me e l’amore che mi hai dimostrato, per nessuna ragione al mondo, mai.


Ed invece sta succedendo lo stesso e questo mi terrorizza, come mi terrorizza vederti stare così male. Ma ti prometto che farò di tutto per scagionarmi e capire chi mi ha messo in questa situazione, e anche per salvare il maxiprocesso, che so quanta fatica ti è costato e quanto significa per te. E anche per me.

 

Spero che tu possa credermi, nonostante tutto, e darmi una mano a trovare la verità, insieme, come abbiamo sempre fatto.

 

Sempre e soltanto tuo,


Calogiuri

 

Deglutì a fatica, e poi sentì un brivido alle dita e si rese conto che una lacrima le era caduta sulla mano, ed ora stava scorrendo sul foglio.

 

Non sapeva definire il misto di sensazioni che lottavano nel suo petto e nel suo stomaco, ma era certa che doveva assolutamente vederlo e parlargli, faccia a faccia, guardandolo negli occhi.

 

Come avevano sempre fatto.

 

Di nuovo bagnato ma sull’altra mano, che stava sul materasso. Si voltò e trovò Ottavia che gliela leccava.

 

La accarezzò dietro le orecchie per un attimo, per ringraziarla per esserci sempre stata quando ne aveva bisogno.

 

Mentre lei… forse Irene tutti ma proprio tutti i torti non li aveva.

 

Ma era arrivato il momento di rimediare, in ogni caso, qualsiasi cosa fosse successa o non successa con Calogiuri, quell’aiuto glielo doveva e soprattutto glielo voleva dare.

 

Si alzò dal letto, aprì l’armadio e le balzò agli occhi il loro maglione rosso.

 

Se lo infilò, insieme ad una gonna leopardata lì vicina ed agli stivali, e si avviò verso la porta, seguita dai miagolii interrogativi di Ottavia.

 

Si girò sulla porta e le fece l’occhiolino, “tranquilla, Ottà, farò la brava. Falla pure tu, mi raccomando!”

 

*********************************************************************************************************

 

“Ma è sicura? Non è un bel posto, signò, non so se me la sento di lasciarla lì da sola. Tra poco stacco il turno, ma posso portarla in un altro hotel.”

 

La tassista che l’aveva accompagnata sembrava, comprensibilmente, ancora più preoccupata del collega maschio della volta precedente.

 

“Non si preoccupi: non sarò da sola.”

 

“Ma a me lei non sembra una che in un posto così ci lavora…” proclamò la donna, facendola ridere e scuotere il capo.

 

“No, ma conosco uno degli ospiti.”

 

“Nun me dica su marito, che se serve vengo a corcarlo di botte insieme a lei.”

 

“No, no, io-”

 

“Su fijo? Pure peggio!”

 

“No. Una persona che non si può permettere un alloggio migliore di questo e che voglio aiutare. Non si preoccupi, me la so cavare molto bene,” la rassicurò, allungandole i soldi e cercando di uscire dal taxi, ma la donna la fermò e si trovò con uno spray al pepe nella fessura del vetro tra la parte anteriore e quella posteriore del taxi.

 

“Ne tengo sempre uno di riserva, che non si sa mai!”

 

Tutta quella solidarietà femminile la fece sorridere, tanto che le passò anche, ad occhio, il costo dello spray al pepe, zittendo le proteste ed augurandole un buon riposo.

 

“Stia attenta!” fu l’ultima raccomandazione, prima di scendere e correre di nuovo verso l’ingresso ed oltre quel viscido del receptionist - che tanto ormai la stanza la conosceva e Mariani le aveva confermato che da lì non si era più spostato.

 

Fece nuovamente le scale a piedi ed arrivò con un poco di fiatone al secondo piano. Era ancora più squallido di quanto ricordasse.

 

Sentiva le gambe un poco molli ed instabili - per fortuna c’aveva gli stivali! - e non c’entravano i tacchi, ma l’agitazione, mano a mano che si avvicinava alla stanza 247.

 

Alla fine, si trovò davanti alla targhetta sbeccata ed alla porta, che ancora portava il segno di un pugno, o forse di un calcio, a metà altezza.

 

Sollevò la mano, esitando per un secondo, il cuore che le batteva all’impazzata e la bocca che pareva un deserto, prima di decidersi a bussare.

 

Tre volte, in modo deciso.

 

Niente, silenzio.

 

Poteva essere uscito?

 

Forse avrebbe dovuto chiedere a quello della reception, ma Mariani le aveva detto che il cellulare di Calogiuri, da quando aveva iniziato a controllarlo, non si era praticamente mai mosso da là.

 

E quindi bussò di nuovo, più forte ancora, per cinque volte.

 

E fu allora che sentì un “arrivo!” in una voce che le sembrò quella di Calogiuri, ma molto più flebile.

 

Forse le stanze erano, inaspettatamente, ben insonorizzate e-

 

Ed il pensiero si bloccò, insieme al respiro, quando la porta si aprì e vide… vide….

 

Oh madonna santa!

 

Pareva un barbone, pareva: barba e capelli lunghi, la pelle grigia, tirata sugli zigomi, una puzza tremenda di alcol e di chiuso ma… ma quegli occhi… erano gli occhi del suo Calogiuri, inconfondibili.

 

Solo che sembravano trapiantati sul viso di un altro.

 

Quelle iridi azzurre si spalancarono, ma lui rimase immobile, senza dire niente, e poi si sfregò le palpebre e la guardò in un modo talmente incredulo che fu un altro pugno nello stomaco.


“Imma? Ma… ma sei davvero tu o-”

 

“Ma certo che sono io! Ma che non mi vedi? Mi vedi, sì?” gli domandò, preoccupatissima, che c’avesse pure problemi di vista.

 

Per tutta risposta, lui scoppiò in un singhiozzo e due lacrime gli scesero dagli occhi fin dentro alla barba incolta.

 

Sentì un rumore alle sue spalle, una porta che si apriva, con una professionista che usciva da una stanza lì vicino, un uomo grasso ed orribile che le diede una pacca sul sedere, prima di allungarle dei soldi.

 

“Mi fai entrare?” lo esortò, in quello che però era quasi un ordine, e lui fece due passi troppo barcollanti di lato, facendola passare, e lei non perse tempo a chiudersi la porta alle spalle.

 

Il lieve sollievo durò il tempo di un secondo, il necessario per vedere le condizioni della stanza.

 

Non solo era tutto mezzo rotto e sbeccato, pieno di muffa ma… era anche pieno di sacchetti di carta appallottolati - probabilmente avanzi di cibo - lattine di birra vuote, qualche brick di pessimo vino, spacciato come delizioso da gente vestita come Romaniello, in pubblicità improbabili.

 

Il classico kit da alcolizzato.


Ed, in effetti, la stanza puzzava peggio di una distilleria.


“Ma… ma sei ubriaco?” gli chiese, perché era talmente instabile sulle gambe che… forse quasi c’era da sperare che lo fosse.

 

“No, no, sono giorni che non bevo… non…  non ci riesco più,” le rispose, e lei si avvicinò un attimo e, effettivamente, l’alito non puzzava di alcol ma… aveva l’odore di quello di sua madre, quando lei era piccola e saltava i pasti per non togliere il pane di bocca a lei.

 

“Da quant’è che non mangi?!” domandò, sempre più preoccupata, anzi, spaventata.


Calogiuri, per tutta risposta, scosse il capo e lei cercò di avvicinarsi di più, ma lui sbandò e, prima che riuscisse a fare qualsiasi cosa, cadde all’indietro.


“Calogiuri!”

 

Per fortuna, alle sue spalle c’era il letto, dove finì steso per metà, invece che schiantarsi a terra.

 

Provò ad afferrarlo per il braccio, per aiutarlo a tirarsi seduto, ma lui lo ritrasse e si mise a sedere da solo, guardandola in un modo che le causò un brivido, e non di quelli che le provocava di solito Calogiuri.


“E tu perché sei qua? Non… non lo sai quanto ti ho aspettata ma… ma non venivi mai, mai, e… perché adesso?!”

 

Sospirò e cercò di sedersi pure lei sul letto, ma lui allargò le braccia, per impedirglielo, di nuovo.

 

“Ho… ho parlato con Irene,” esordì e lui sembrò preoccupato, stranamente, “e… e ho letto la tua lettera, finalmente, e-”

 

“E quindi mi credi mo? Mi credi che non ti ho mai tradito?!” esclamò, guardandola in un modo febbrile, prima di esplodere in colpi di tosse fortissimi che lo scossero completamente.

 

“Ma che hai fatto?!” mormorò, ormai quasi terrorizzata, inginocchiandosi davanti a lui, visto che non poteva sedersi, per prendergli il viso e guardarlo negli occhi - che sembravano ancora più enormi in quel viso così magro - per poi urlargli, “ma lo vuoi capire o no che non me ne frega più niente se mi hai tradito o no?! Tu non ti puoi ridurre in queste condizioni per nessuno, nemmeno per me. Devi stare bene! Del resto non mi importa! Da quanto è che non ti fai una doccia, che non mangi, e-”

 

“E tanto a che serve!” gridò lui, levandole le mani dal viso con così tanta forza che lo graffiò inavvertitamente su una guancia, ma lui sembrò non rendersene nemmeno conto, nonostante il graffio cominciasse a sanguinare, “non ho più un lavoro, la mia vita è distrutta, tu non mi credi e c’hai pure un altro e-”

 

“E, pure se tutto quello che stai dicendo fosse vero, non è un buon motivo per ridursi così. Tu devi combattere, per te stesso, devi metterti al primo posto, sempre! Mo prendiamo le tue cose e vieni a casa con me, che devi curarti, subito e-”


“E io non la voglio la tua pietà!” urlò, allontanando le mani che lei, di nuovo, aveva provato a mettergli sulle spalle e quasi spingendola via, “non me ne faccio niente! Se non mi credi, lasciami in pace e tornatene pure da quel maiale di Mancini!”

 

Rimase per un attimo immobile, a guardarlo negli occhi, rabbioso come non lo aveva mai visto.

 

Non sapeva se fosse più la preoccupazione, la frustrazione o l’orgoglio per quel carattere che, pure in quelle condizioni, tirava sempre fuori.

 

“C’hai la testa più dura persino della mia,” sospirò, scuotendo il capo, continuando a guardarlo negli occhi e sperando che capisse tutto quello che non riusciva ancora a dirgli, perché non lo capiva del tutto nemmeno lei stessa.


“Sai che cosa mi fa più male?! Che… che non ci riesco nemmeno a tradirti, a stare con un’altra, neanche volendo! Ci… ci ho pure provato, quando… quando ho avuto lo scontro con Mancini e… e tu invece di preoccuparti per me, te ne sei rimasta con lui. Ero… ero ubriaco e… e arrabbiatissimo e… ed è arrivata Irene a soccorrermi e ho provato a baciarla.”

 

Fu peggio di uno schiaffo, mentre il ruggito della gelosia tornava a farsi sentire e-

 

“Ma… non ci sono riuscito, ad andare oltre a quello - a parte che è già tanto che non mi ha tirato un ceffone - ma… mi veniva da vomitare. E non perché ero ubriaco, ma perché mi sei venuta in mente tu e… e non ce l’ho fatta! E tu invece-”

 

Il ruggito si acquietò - mentre una parte di lei si annotò mentalmente che questa cosa la cara Irene non gliel’aveva detta, e che avrebbe dovuto capirne il motivo in un secondo momento - e fu investita da un’altra ondata di tenerezza e… e di amore, perché quello era, per quegli occhi lacrimanti e rabbiosi e-

 

“Ti credo,” pronunciò, senza quasi rendersene conto, interrompendolo, e Calogiuri spalancò gli occhi e si zittì, ancora prima che ribadisse, guardandolo negli occhi, “ti credo, veramente. Non serve che mi dici altro, ti credo.”

 

Qualche secondo di silenzio e poi Calogiuri emise un altro singhiozzo e scoppiò a piangere, che pareva una fontana, le lacrime che gli si mischiavano al rivolo di sangue del graffio sulla guancia.

 

Presa da un impulso ormai irrefrenabile, si sollevò leggermente e si proiettò in avanti per abbracciarlo, sospirando di sollievo quando lui non si ritrasse e glielo permise. Tanto che gli finì in braccio, a stringerlo per le spalle ed accarezzargli i capelli, la testa sulla sua spalla, sentendosi avvolta a sua volta in una stretta, ma meno forte del solito, e-

 

Ossa.

 

Le percepì improvvisamente, nelle braccia che la cingevano, sotto le dita, mentre scendeva sempre più in basso con le mani, non più solo per accarezzarlo ma per sentirgli la schiena, i fianchi.

 

Si staccò di botto e lui la guardò, preoccupato, ma lei lo ignorò, gli sollevò la felpa col cappuccio che aveva addosso e le mancò il respiro.

 

Non solo l’addome era ancora mezzo viola e verde - un’esplosione di rabbia verso Mancini che le torse lo stomaco - ma… era quasi pelle ed ossa, le costole visibili come non lo erano mai state.

 

“Amore mio… ma come ti sei ridotto?!” sussurrò, il senso di colpa e la paura come una morsa nel petto, alzando gli occhi per incontrare il suo sguardo, e poi sollevare le mani per prendergli il viso, “scusami, scusami, sono stata una stupida, scusami!”

 

Gli occhi di Calogiuri si spalancarono, come se fosse incredulo.


“Che c’è?”

 

“Che cosa hai detto?” le domandò, con voce roca e tremolante.


“Va bene che non lo faccio spesso, chiedere scusa, anzi, quasi mai, ma-”

 

“N-no, prima. Come mi hai chiamato?”

 

Solo in quel momento realizzò e si sentì avvampare, mentre una specie di strana sensazione, un misto tra gioia ed imbarazzo, le riempì il petto. Dopo tutti gli amò pronunciati a ripetizione con Pietro, finché quella parola aveva praticamente perso di significato… non le era mai più riuscito di chiamare Calogiuri così, ma in quel momento le era proprio uscito dal cuore, senza neanche accorgersene.

 

“Eh… eh va beh… è quello che sei,” gli rispose, sorridendo e commuovendosi all’incredula felicità di lui, “ma se provi di nuovo a ridurti in questo stato per chiunque, ti uccido io con le mie mani prima, e-”

 

Non riuscì a finire perché si ritrovò zittita da un rapido bacio e poi stritolata in un abbraccio che, ossa o non ossa, sapeva di casa, di sollievo e di-

 

Merda!

 

Si rese conto, nel giro di un secondo, che Calogiuri era stato del tutto sincero con lei, fino in fondo, mentre lei… lei aveva qualcosa che doveva dirgli, per forza.

 

“Calogiuri…” sussurrò, sollevando il viso dalla sua spalla e spingendolo leggermente all’indietro - mamma quanto era magro! - fino a riuscire a guardarlo di nuovo negli occhi.

 

La preoccupazione che ci lesse la intenerì di nuovo tantissimo e la fece sentire ancora di più in colpa.

 

“Ascoltami… tu sei stato sincero con me e voglio esserlo pure io con te. Riguardo a Mancini… non c’è niente tra me e lui ora, ma-”

 

“Ci credo, non ti devi giustificare,” le disse in un modo che… altro che senso di colpa, un macigno proprio.

 

“Ma… ma qualcosa c’è stato,” trovò il coraggio di dire e sentì le braccia di Calogiuri, che ancora la stringevano per la vita, irrigidirsi e poi lasciarla andare.

 

Andò in panico, e cercò di spiegargli, anche se la voce andava e veniva, “quando… quando vi siete picchiati… io… io volevo seguirti subito ma… ma sono rimasta con Mancini, perché volevo calmarlo e non volevo che ti denunciasse. E poi, dopo averlo medicato, lui è tornato a casa e… e ho provato a chiamarti, ma ho scoperto che mi avevi bloccato pure tu, e… e alla fine ce l’ho fatta a trovarti. Sono venuta qua, era piena notte, e… ho visto Irene che usciva dalla tua stanza, vestita che… va beh, lo sai pure tu com’era vestita, e poi… tu che la trascinavi in quello che ho pensato fosse un bacio, ma-”

 

“No, no, la stavo solamente abbracciando, come ringraziamento, perché mi ha aiutato mentre stavo male,” la interruppe lui, di nuovo preoccupato.

 

“Lo so, mo lo so, ma… ero arrabbiata, furiosa, pensavo che… che mi avevi tradito, non solo con Melita, ma pure con lei, di essere stata una scema a venirti a cercare e… mi sono fatta prendere dalla rabbia e… lo so che questo non mi giustifica ma… ma Mancini mi ha invitata a cena e… e sono andata a casa sua e….”

 

Il dolore e la delusione che lesse sul viso di Calogiuri furono peggio del pugno allo stomaco che si era preso per lei: si sentì una merda.

 

“L’ho baciato, nella rabbia, mi volevo vendicare, e stavamo per-”

 

“Non voglio sapere altro!” sputò fuori lui, lo sguardo basso e duro, come il tono di voce, allontanandosi ulteriormente da lei ed incrociando le braccia al petto.

 

Il panico che non fece altro che peggiorare, urlò, “ma non c’è altro! Non ce l’ho fatta, non ci sono riuscita ad andare fino in fondo. Mi sembrava di tradirti e… mi veniva piangere, e mi ha fatto schifo, tutto quanto, e… e da allora ho sempre tenuto le distanze da lui. Ma ho sbagliato e non voglio nascondertelo e… e se ce l’hai con me lo capisco, ma-”


Si trovò stretta in un altro abbraccio da levarle il fiato, il sollievo e poi i singhiozzi che non riusciva più a trattenere, così come le lacrime.

 

“Siamo due stupidi,” si sentì sussurrare all’orecchio e le venne da ridere, perché c’aveva ragione, c’aveva, mentre lo stringeva ancora più forte, bloccandosi però quando sentì un mugugno di dolore e staccandosi leggermente per accarezzargli il viso: parevano essersi presi un acquazzone tutti e due, tanto avevano le guance bagnate.


“Sì, proprio stupidi. Mo però, paghiamo sta stanza e vieni a casa con me, che devi mangiare, dormire e-” ignorò la vocetta di Diana nella sua testa che le disse e non diciamo che altro! ed aggiunse, “e farti una bella doccia.”

 

“Agli ordini, dottoressa,” la sfottè lui, ma il sorriso commosso non mentiva e le faceva capire che, per fortuna, pure lui non aspettava altro.

 

Non se lo meritava, forse, anzi, sicuramente non se lo meritava un uomo come Calogiuri, ma se lo abbracciò di nuovo e gli accarezzò i capelli.

 

Sì, aveva proprio bisogno di una doccia, pure due.

 

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Incespicò a fatica sul pianerottolo, reggendo in parte il peso - fin troppo lieve - di Calogiuri, che faticava molto a stare in equilibrio.

 

“Mi dispiace,” le sussurrò lui, per l’ennesima volta, tanto che lei si voltò per fulminarlo con un, “se osi ancora scusarti mi arrabbio davvero. Devi scusarti sì, ma con te stesso, non con me.”

 

Calogiuri abbassò il capo e si appoggiò al muro, per lasciarle la mano libera, per cercare la chiave nella borsa. Finalmente la trovò ed aprì la porta, trovandosi davanti alla più totale oscurità.

 

Accese la luce, rimanendone quasi accecata, e sentì un miagolio preoccupato ed un po’ rabbioso ai suoi piedi, due occhi gialli che le corsero incontro.


“Ottà, aspetta un attimo,” le disse, prima che potesse saltarle in braccio, “che le braccia mi servono libere e forse pure a te le zampe. Guarda chi c’è.”

 

Si voltò verso il pianerottolo e diede il braccio a Calogiuri che, sempre appoggiandosi al muro prima, e allo stipite poi, rimise finalmente piede a casa.

 

Guardò Ottavia, certa che gli sarebbe saltata in braccio, festosa - o, al massimo, avrebbe fatto l’offesa, per poi recuperare con le coccole più tardi - ma Ottavia prima emise un fischio da pentola a pressione, poi un balzo tremendo e cadde indietro sulla schiena. Infine, si rialzò di corsa e diede loro il sedere, ma non per allontanarsi regalmente, come faceva di solito, ma proprio scappando a gambe levate fin oltre l’angolo, roba da primato di velocità.

 

“Ottà! Che c’hai?” la chiamò, guardando Calogiuri e rendendosi conto, insieme a lui, che pareva mortificato, di quale fosse il problema.

 

“Ottà, ma che non mi riconosci?” le chiese Calogiuri, facendo qualche altro passo insieme a lei per chiudere la porta d’ingresso alle loro spalle, “Ottavia?”

 

Dopo il secondo richiamo, videro una testolina tigrata spuntare, le orecchie prima tutte indietro e poi tese. Poi il musetto si inclinò, come se lo stesse studiando. Dopo sbucò il corpo e, piano piano, diffidente ed un poco impaurita, si avvicinò a loro due, continuando a guardarlo fisso. Lo annusò, scarpe e pantaloni, e poi….

 

Una specie di squittio ripetuto, come un lamento, che era chiaramente un pianto, le spezzò il cuore, pure mentre la vedeva balzare sulle zampe posteriori e lanciarsi in aria verso Calogiuri - che per poco non persero l’equilibrio tutti e due - ma riuscì fortunosamente a prenderla in braccio, prima che cadesse all’indietro lei e pure loro.

 

Definire strazianti i lamenti di Ottavia sarebbe stato riduttivo, con lei che lo annusava e piangeva, piangeva e lo annusava, e poi gli si buttò al collo facendogli le fusa.

 

Calogiuri era una valle di lacrime e pure lei - mannaggia ad Ottavia, che avevano appena finito!

 

“Mi sa che a qualcuna è mancato molto papà,” cercò di sdrammatizzare, allungando la mano libera per accarezzarle la testolina ed incrociando le dita di Calogiuri, che faceva lo stesso.

 

E poi Ottavia smise di fare le fusa, si sollevò sulle zampe, per guardare in viso Calogiuri, ed iniziò a leccargli una guancia.

 

“Gli dai i bacini?” si intenerì, ma poi notò che il leccare divenne sempre più intenso, quasi furioso, come quando si-


“Mi sa che ti sta pulendo…” realizzò e Calogiuri sembrò ancora più desolato, guardandola in un un modo come a dire - ma sto messo così male?

 

Sospirò e prese Ottavia per la collottola, mettendosela in braccio, “mo papà si fa una bella doccia, stai tranquilla!”

 

La ruffiana però, testona come sempre, continuava a provare con le zampe ad attaccarsi a Calogiuri. E quindi, per evitare casini, con Ottavia di nuovo in braccio a lui, la valigia di lui in una mano e lui aggrappato all’altro braccio, andarono verso la loro stanza.


Finalmente.

 

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“Mamma mia!”

Le uscì con voce strozzata: non sapeva se fosse più forte il senso di colpa, la rabbia verso se stessa o verso di lui per essersi ridotto così.

 

Lo stava aiutando a spogliarsi per fare la doccia e… era sempre stato snello ma muscoloso, ora invece… le ossa sporgevano veramente in troppi punti.

 

“Mo ti dò una mano con la doccia e poi chiamiamo un medico.”


“Non serve: la doccia me la so fare da solo, il medico non è necessario e-”

 

“Non voglio sentire storie! La doccia insieme l’abbiamo già fatta, no? Anche se qua… altro che risparmio energetico!” esclamò, levandogli la felpa col cappuccio e buttandola sul pavimento, destinazione lavatrice, o forse inceneritore.

 

“E va beh… dottoressa… spesso iniziava così, no?” scherzò lui, facendole l’occhiolino e poi, quando provò a slacciargli i pantaloni della tuta - il cui laccio era strettissimo probabilmente per non farli cascare - si trovò attaccata a lui, che la baciò voracemente, in modo quasi disperato.

 

Per un secondo si scordò di tutto, presa da quelle sensazioni che solo lui le dava, da quel mondo parallelo in cui era sempre stato capace di farla perdere.

 

Ma poi lo sentì sbandare e riuscì a malapena a reggerlo, reggersi al muro e farlo sedere sulla toilette.

 

“Prima devi pensare a stare in piedi, maresciallo. Poi dopo ci possiamo preoccupare di che cosa fare stando in piedi. Che qua... altro che zabaione ti ci vuole!” gli sussurrò, scompigliandogli i capelli e spogliandosi a sua volta, prima di aiutarlo con i pantaloni e l’intimo ed entrare in doccia insieme.

 

Assurdamente, con tutto quello che ci avevano combinato in quel box, non si era mai sentita tanto in imbarazzo e, da come la guardava, con il viso basso ma gli occhi all’insù, era certa che anche per lui fosse lo stesso.

 

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“E allora, dottore?”

 

Era preoccupata, preoccupatissima, come poche volte in vita sua.

 

“E allora deve ricominciare piano piano a mangiare di più, in modo che il corpo non abbia una reazione peggiore, di rifiuto. Adesso le invio una dieta che consiglio di solito in casi come questo, c’è da aumentare di poco le quantità ogni giorno,” spiegò, rivolgendosi prima a lei e poi a Calogiuri, “e, maresciallo, deve smetterla di fare idiozie con il suo corpo. Vi manderò i risultati del prelievo di sangue ma… stava arrivando al limite del sottopeso normale, verso il sottopeso grave. Per qualche giorno almeno, segua la terapia e riposo assoluto. E, finché non si riprende, niente alcolici e niente caffeina.”

 

“Degli alcolici c’ho già la nausea,” sospirò Calogiuri ed il medico annuì con un “meglio così!”

 

Accompagnò il dottore alla porta, che si raccomandò di fargli rispettare la dieta alla lettera e, soprattutto, di farlo rimanere a letto finché non avesse ripreso le forze. E di cercare di fare in modo che non fosse da solo in quei primi giorni.

 

E poi se ne andò, lasciandola con un’ansia tremenda.

 

Tornò da Calogiuri, che le sembrò improvvisamente così piccolo in quel letto, nonostante l’altezza. Le fece un sorriso, ma si vedeva che era stanco.

 

Gli si sedette accanto.

 

“Mo ti riposi ed io aspetto le istruzioni del medico e faccio la spesa. Devi stare a letto per qualche giorno almeno, il più possibile.”

 

“E dove sta la novità?” sospirò lui, amaro.

 

Un’altra fitta di senso di colpa.


“Ed il fatto che ci sto pure io non conta niente?”

 

“Ma tu c’hai il lavoro e-”

 

“E domani è venerdì e posso prendermi un giorno di ferie, e poi nel fine settimana non vado da nessuna parte. Finché non ti rimetti un minimo in forze e non ti reggi in piedi non ti mollo. E ora aspettiamo di vedere sta dieta e-”

 

In quel momento lo squillo di due cellulari, sia il suo che quello di Calogiuri, la bloccò.

 

Era il medico.


Fece scorrere la dieta, e dire che fosse ospedaliera era dire poco. Le ricordava quella di Pietro dopo l’intossicazione alimentare, ma ancora più graduale nelle dosi.

 

“Ma… ma sono tutte cose tristissime!” commentò lui, ricordandole improvvisamente Noemi quando la si costringeva a mangiare le verdure al posto dei suoi amati dolci.

 

“Almeno la prossima volta ci pensi non due, ma dieci volte, prima di ridurti così!” esclamò, accarezzandogli però poi i capelli e stringendolo in un abbraccio, “mo vado a fare la spesa - e tu non ti muovi dal letto - e poi-”

 

Il suono di qualcosa di metallico ed un miagolio insistente la portò a staccarsi e a guardare verso il pavimento dal lato del letto di Calogiuri, da cui provenivano quei rumori.

 

E si trovò con Ottavia che spingeva con la testa una lattina al salmone, che chissà come aveva recuperato dalla dispensa, portandola sempre più vicina a Calogiuri, miagolando fortissimo, per poi ricominciare a spingere.

 

“Persino lei si preoccupa e ti vuole far mangiare!” commentò, incrociando lo sguardo di lui e vedendo che era commosso quanto lei.

 

Le scatolette al salmone erano le preferite di Ottavia, ma non gliele davano spessissimo perché erano pure le più care. Per offrirle a Calogiuri, gli doveva veramente volere un bene dell’anima e doveva pure essere preoccupatissima, a modo suo, ovviamente.

 

Calogiuri se la prese in braccio, accarezzandola e riempiendola di baci, mentre lei le grattò la testa con un, “tranquilla, Ottà, puoi tenere la scatoletta, mo lo compro io da mangiare a papà e per te… stasera salmone, doppia razione.”

 

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“Pronto?”

 

“Finalmente! Dove stai?! Non ti ho trovato e mi hanno detto che te ne sei andato e-”

 

Una fitta allo stomaco, e non di quelle che lo avevano preso nei giorni precedenti quando aveva cercato di mangiare un poco di più.

 

Irene

 

Si era completamente scordato di avvertirla, ed aveva appena notato le diverse chiamate perse, ma aveva messo il cellulare silenzioso per non svegliare Imma, che, finalmente, dormiva accanto a lui, e pure della grossa.

 

“Scusami, ma-”

 

“Ma perché sussurri? O c’hai qualcosa alla voce?”

 

“No, no,” la tranquillizzò, parlando però sempre più piano che poteva, “è che sono a casa, con Imma, che… che mi crede finalmente, mi crede. E mo sta dormendo, perché sono giorni che sta sveglia per aiutarmi e farmi mangiare.”

 

Sentì un sospiro dall’altro capo del telefono e poi Irene gli disse, in un tono un po’ strano, “sono sollevata che sia andato tutto bene e che abbiate smesso di fare i cretini. Ora riprenditi, che poi parleremo più seriamente del caso, anche con Imma.”

 

E mise giù.

 

Appoggiò il telefono, ripromettendosi di fare qualcosa per ringraziarla di tutto l’aiuto che gli aveva dato e per scusarsi dello spavento che le aveva fatto prendere.

 

Ma poi una cascata di ricci rossi si mosse a pochi centimetri dal suo viso ed Imma si voltò verso di lui.


Si preoccupò che si fosse svegliata, che non aveva dormito quasi niente ed aveva bisogno di riposare, ma per fortuna gli occhi erano ancora chiusi ed i ricci se li trovò sul petto, a fargli solletico al collo.

 

La abbracciò delicatamente, per non svegliarla, deglutendo il groppo in gola. Se sentirla chiamarlo amore era stata una delle emozioni più indescrivibili della sua vita, erano quelli i momenti che gli erano mancati più di tutti. I loro momenti, le cose semplici, di tutti i giorni, che lo facevano innamorare sempre di più di lei e della vita che avevano costruito insieme.

 

E che pensava di aver perso per sempre e invece… invece erano ancora lì, nonostante tutto e tutti.

 

Tanto che tutto il resto, pure l’idea di perdere il lavoro, del processo, stranamente non lo spaventavano più, perché con lei tutto diventava più semplice e si sentiva più tranquillo e più sereno, da sempre.

 

Le posò un bacio sulla fronte e poi chiuse gli occhi, inspirando il profumo dei suoi capelli e lasciandosi andare alla stanchezza.

 

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“Mo prova a camminare avanti e indietro.”

 

“E che devo fare, il modello?”

 

“Mi sa che sei troppo magro pure per quello mo. Dai, prova a stare in equilibrio su un piede solo.”

 

“Sì, e mo pure l’alcol test!”

 

“Fai meno lo spiritoso, maresciallo!” gli intimò, anche se l’umorismo era un ottimo segno, insieme alla camminata più stabile, che Calogiuri si stesse riprendendo - e poi le erano mancati tantissimo i loro battibecchi scherzosi.

 

Sull’alcol test però, Calogiuri sbandò un poco e dovette appoggiarsi al muro.

 

L’ironia lasciò lo spazio all’apprensione.

 

Si avvicinò, per aiutarlo a sedersi, ma lui, orgoglioso come sempre, sollevò una mano per fermarla e poi fece da solo.

 

“Sei sicuro di poter stare qua da solo? E se caschi?”

 

“A camminare non casco, e non devo mica mettermi a fare ginnastica, dottoressa.”

 

“Ci manca solo quello, ci manca! Il pranzo è in frigo e-”

 

“E il microonde lo so usare da me. E pure il forno. Tranquilla. E poi ho il cellulare e se ho bisogno ti chiamo. E pure la guardia del corpo.”

 

Ottavia li fissava dalla porta, preoccupata: nelle ultime notti era quasi sempre voluta rimanere con loro, ai piedi del letto e letteralmente sui piedi di Calogiuri, e non aveva avuto la forza di tenerla lontana.

 

Ma ora, sembrava agitata, forse perché l’aveva vista cambiarsi per andare al lavoro.

 

“Dai, dottoressa, che per me hai già saltato fin troppi giorni di lavoro. Vai e stendili tutti… anzi no, tranne uno - se non con un pugno, allora ti autorizzo.”

 

Le venne da ridere, ma si sentì di nuovo un po’ colpevole, per quanto successo con Mancini.

 

Ma, per fortuna, Calogiuri, nonostante ogni tanto facesse l’uomo del sud, era stato più che comprensivo e maturo - sicuramente più di quanto lo era stata lei al posto suo - le aveva creduto e l’aveva perdonata.

 

Perdonare se stessa sarebbe stato molto, ma molto più difficile.

 

“Va bene… ma se hai bisogno, qualsiasi cosa, mi chiami, chiaro?”

 

“Promesso!” garantì lui, con una mano sul cuore e lei rise e poi gli diede un ultimo bacio, prima di infilarsi le scarpe con il tacco ed avviarsi all’ingresso.

 

Come si mise il cappotto, Ottavia iniziò a miagolare fortissimo.

 

“Tranquilla, Ottà, vado solo al lavoro, mica scappo!” cercò di rassicurarla, prendendola in braccio per farle due coccole, “tu tieni d’occhio papà, va bene?”

 

Ottavia sembrò capire perché fece un miagolio prolungato, le leccò la mano e poi saltò giù e si avviò verso il corridoio della camera da letto.

 

La sua famiglia! - pensò, mentre gli occhi le pizzicavano.

 

Quanto le era mancata!

 

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Salì rapidamente le scale, cercando di fare meno casino coi tacchi del solito. Con la coda dell’occhio vide Mancini appena fuori dal suo ufficio, che parlava con la sua segretaria. Si avviò a passo spedito verso l’ufficio, sperando non l’avesse notata, perché non poteva e non voleva dirgli di Calogiuri, viste le indagini in corso, e sperava che avesse capito dall’ultimo incontro tra loro che preferiva tenere le distanze.

 

La speranza si infranse quando sentì alle sue spalle gli inconfondibili passi di Mancini, decisi ed atletici come il procuratore capo.

 

Aveva raggiunto la porta dell’ufficio e, se si fosse trattato di qualcun altro, gliel’avrebbe chiusa in faccia.

 

Ma non poteva farlo con il procuratore capo, purtroppo.

 

Quindi si voltò, con un “dottore…” che sperò risultasse sufficientemente freddo da farlo desistere, salvo si trattasse di cose di lavoro.

 

Mancini parve un poco sorpreso, ma la salutò e chiuse la porta alle loro spalle, lanciando poi un’occhiata verso la porta dell’ufficio di Asia, che però era chiusa.

 

Come minimo, quella scansafatiche ancora non era arrivata! Quando serviva di più non c’era mai.

 

“Dottoressa,” esordì Mancini con un tono ed uno sguardo tristi che ridussero un poco l’irritazione - anche perché ce l’aveva più con se stessa che con lui.

 

“So che venerdì ha preso un giorno di permesso, che non è da lei. E… e mi sembra chiaro che sta cercando di evitarmi. Capisco che… voglia tenere le distanze in ambito personale, ma almeno in ambito lavorativo… non vorrei che… che quello che è successo a casa mia… influisca negativamente sul suo lavoro e che non si senta a suo agio qua in procura.”

 

Sospirò, perché Mancini aveva sicuramente corso troppo e, sì, si era un po’ approfittato della situazione, ma… era stata lei ad invitarlo a casa sua, a voler fare la cenetta e poi a baciarlo, per rabbia. Pure lei lo aveva usato e non andava bene.


Ma non poteva dirgli il motivo reale né del permesso, né del perché lo preferisse tenere a distanza anche al lavoro, cioè che c’era una cosa enorme di cui non poteva parlargli. E lei a mentire ed omettere era diventata pure brava, ma non era una cosa che le piacesse fare, anzi.

 

“Dottore, ascolti, non ho mai lasciato che i problemi personali influissero sul lavoro e non vedo perché dovrei cominciare a farlo mo. Quindi collaborerò con lei, sulle questioni professionali, come ho sempre fatto, ma, come ha detto lei stesso, per il resto preferisco mantenere le distanze. Quindi... ha qualcosa di lavoro di cui parlarmi?”


“No, no, cioè… questo che le ho appena detto… ma… volevo dirle che… non deve temere altri inviti o… gesti da parte mia, salvo sia lei a dirmi esplicitamente che li gradisce. Io, come le ho già detto, posso aspettare tutto il tempo che serve e… mi dispiace per… per aver corso troppo.”

 

Per un secondo si mise nei suoi panni e… ed era proprio innamorato Mancini - anche se chissà che ci trovava in lei, dopo tutti i due di picche che gli aveva dato.

 

Ma, lo aveva imparato per esperienza, mica è facile levarsi qualcuno dalla testa, specie se ci hai a che fare costantemente.

 

Forse era giunto il momento di essere più decisa, più brutale, ma era la cosa più onesta da fare.

“Dottore, forse… non sono stata abbastanza chiara, ma non le voglio fare perdere tempo. Non si sceglie chi si ama, purtroppo e per fortuna e… se con Calogiuri all’epoca non sono riuscita a resistere, pur essendo impegnata… mentre con lei, pur essendo tecnicamente libera, non sono riuscita a lasciarmi andare, un motivo c’è.”

 

Mancini parve avere preso un altro cazzotto e deglutì un paio di volte.

 

“La… la ringrazio per la schiettezza, anche se… una parte di me spera ancora che, magari col tempo e… quando si sentirà libera davvero e non soltanto tecnicamente… possa tenermi in considerazione. Ma non la importunerò più, stia tranquilla.”

 

Lo vide voltarsi ed andarsene, ed il passo non era più baldanzoso, sembrava quasi un animale ferito.

 

L’amore era veramente pericoloso, anzi pericolosissimo.

 

Per fortuna con Calogiuri era arrivata in tempo o… non poteva nemmeno pensare all’alternativa, perché… un conto era sopravvivere senza Calogiuri, pensandolo comunque vivo, pur se con un’altra, un conto era….

 

Non sapeva se sarebbe riuscita ad andare avanti.

 

E, proprio in quel momento, in tutta la sua regale eleganza diurna, le apparve davanti Irene, che stava uscendo dal suo ufficio insieme a Conti, il quale la guardava sempre come se fosse una divinità scesa in terra, a graziare i comuni mortali, lui compreso.

 

Non era una dea, per lei, ma non era neanche il demonio e c’erano molte cose che aveva bisogno di sapere da lei.

 

Ma, come se le avesse letto nel pensiero, Irene le rivolse un, “Imma! Devo uscire con Conti ora ma… appena posso risolviamo quel discorso in sospeso, non ti preoccupare.”

 

Se fosse una promessa o una minaccia… quello era tutto da vedere. Ma nell’ambiguità nella quale Irene era una maestra a giostrarsi, di una cosa, una sola era sicura: la collega voleva bene a Calogiuri, davvero, moltissimo.

 

E questo la rendeva da un lato una potenziale alleata, dall’altro ancora più pericolosa.

 

Anche perché aveva un debito eterno di gratitudine con lei, per averlo aiutato e per averla spronata a credergli, a dargli una possibilità.

 

Imma aveva sempre odiato avere debiti con chiunque, in questo caso ancora di più. Ma la cosa che odiava di più era... non poterla più odiare, come aveva fatto in passato, anche se le stava ancora sul gozzo. Ma non riusciva più a pensare a lei solo come la gattamorta, o la cara Irene.

 

A volte rimpiangeva la vecchia Imma, che vedeva il mondo o bianco o nero, prima che arrivassero due occhi azzurri e teneri a sconvolgerle la vita, a farla cambiare senza rendersene conto.

 

Ma Calogiuri non le aveva insegnato solamente a vedere le sfumature di grigio - che per quelle di un certo tipo si sarebbe dovuto riprendere ancora parecchio - ma anche, e soprattutto, tutti quei colori bellissimi che si era sempre persa.

 

E questo valeva tutti i pericoli, i conflitti interiori e persino dover forse rivalutare una certa gattamorta.

 

L’amore era veramente pericolosissimo.

 

Ma la stava piano piano rendendo una persona migliore.



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci arrivati alla fine di questo sessantesimo capitolo, che è stato veramente un parto da scrivere. Mi scuso ancora per il ritardo, ma la vita reale ci si è messa di mezzo e ci tenevo tantissimo a questo capitolo e a scriverlo bene, e spero di esserci riuscita.

Imma e Calogiuri si sono finalmente ritrovati ma… ora hanno molti ostacoli da superare, insieme, per scagionare Calogiuri, risolvere il maxiprocesso, e da affrontare nella loro vita di coppia. Nel prossimo capitolo ci sarà molto giallo, molto rosa e… parecchie grane da risolvere e misteri da svelare.

Non posso credere di aver scritto sessanta capitoli, e vi ringrazio tantissimo per avermi seguita fin qui con così tanta costanza e passione. Spero che anche quest’ultima fase della storia, che ci porterà verso il tanto agognato lieto fine, possa piacervi e continuare ad essere interessante per voi.

Ringrazio tantissimo chi ha recensito e recensirà la mia storia: i vostri commenti sono un grande sprone per me, mi fanno un sacco piacere e mi aiutano sempre a capire come sta andando la scrittura e cosa c’è da limare.

Un grazie particolare anche a chi ha messo la mia storia nei seguiti o nei preferiti.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare tra due settimane, domenica 30 maggio. In caso di ritardi vi avviserò, come sempre, nella mia pagina autore.

Grazie mille ancora!

 
   
 
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