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Autore: edoardo811    22/05/2021    5 recensioni
La pace ha continuato a regnare al Campo Mezzosangue, gli Dei si sono goduti molti anni di tranquillità. Ma la pace non è eterna.
La regina degli dei Amaterasu intende dichiarare guerra agli Olimpi, mentre un antichissimo mostro ritornato in auge si muove nell'ombra, alla ricerca di Ama no Murakumo, la leggendaria Spada del Paradiso.
EDWARD ha trascorso l'intera vita fuggendo, tenuto dalla madre il più lontano possibile dal Campo Mezzosangue, per ragioni che lui non è in grado di spiegarsi, perseguitato da un passato oscuro da cui non può più evadere.
Non è facile essere figli di Ermes. Soprattutto, non è facile esserlo se non si è nemmeno come i propri fratelli. Per questo motivo THOMAS non si è mai sentito davvero accettato dagli altri semidei, ma vuole cambiare le cose.
STEPHANIE non è una semplicissima figlia di Demetra: un enorme potere scorre nelle sue vene, un potere di cui lei per prima ha paura. Purtroppo, sa anche che non potrà sopprimerlo per sempre.
Con la guerra alle porte e forze ignote che tramano alle spalle di tutti, la situazione sembra farsi sempre più tragica.
Riuscirà la nuova generazione di semidei a sventare la minaccia?
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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43

La notte senza fine

 

 

La punta della katana si avvicinò alla sua gola, costringendolo ad alzare la testa. Osservò il mezzo demone con rabbia, mentre quello continuava a sogghignare in quel modo irritante. «Che fine ha fatto il discorso dell’uccidere qualcuno che non può difendersi, Naito? Hai cambiato idea? Ti sei reso conto che se non facessi così non avresti nessuna possibilità contro di me?»

Naito non rispose, limitandosi a girare la lama, pungendogli il pomo d’Adamo e strappandogli un sussulto. Deglutì e si ritrovò la katana premuta con ancora più forza contro il collo, graffiandolo. Cominciò di nuovo a sudare, questa volta per la paura. Non aveva nessun modo di liberarsi da lì. Era con le spalle al muro, in tutti i sensi, ed era disarmato. Conosceva il mezzo demone, sapeva quanto fosse veloce, se avesse provato a scansare la spada per attaccarlo si sarebbe ritrovato con le mani mozzate in un batter di ciglia. 

«Quindi è questo che hai deciso?» domandò, quasi sputandogli in faccia quelle parole. «Dopo che Konnor ti ha risparmiato, hai comunque deciso di tornare qui per farci tutti fuori?»

Altro silenzio. L’espressione divertita di Naito non mutò di una virgola. Spinse ancora più forte la katana, facendolo indietreggiare, costringendolo a premersi contro gli armadietti. I loro sguardi si incrociarono di nuovo e Naito fece scomparire il ghigno, ma non smise di sorridere.

«Se vuoi uccidermi, ti consiglio di sbrigarti» sibilò infine Edward. «Non avrai occasione migliore.»

«Quanto parli» mugugnò infine Naito, allontanando di colpo la katana. «Non ti ricordavo così impavido, Edward. Al museo stavi per metterti a piangere come un neonato.» Indietreggiò, per poi rinfoderare l’arma sotto lo sguardo stupito del figlio di Apollo.

«Che… che significa?» domandò lui, massaggiandosi la gola. Non notò tracce di sangue.

Naito ridacchiò. «Non sono qui per combattere. Rilassati.» 

Edward sbatté le palpebre un paio di volte. Poi esplose. «Rilassarmi?! Mi hai puntato una spada alla gola!»

«Che noia che sei» borbottò Naito, mentre liquidava la faccenda con un gesto della mano. «Stavo solo giocando un po’. Smettila di piagnucolare.» 

Cominciò a camminare verso la porta e il figlio di Apollo continuò a seguirlo incredulo con gli occhi. Si fermò sull’uscio e tirò fuori la testa, guardandosi attorno circospetto, per poi voltarsi di nuovo verso di lui ed accennare con il mento all’uscita. «Vieni?»

Di nuovo, Edward sbatté le palpebre. «Ma… è uno scherzo, vero?»

«No, nessuno scherzo.»

«Allora è una trappola.»

«Hai solo un modo per scoprirlo.»

Il figlio di Apollo rimase immobile, non capendoci nulla e soprattutto domandandosi in che modo Naito credeva di poter arrivare lì, puntargli addosso un’arma e poi chiedergli di seguirlo senza aspettarsi che lui lo mandasse a quel paese. Doveva proprio essere fiducioso, od incredibilmente stupido. Tuttavia, se davvero avesse voluto fargli del male, lo avrebbe già fatto. Avrebbe potuto farlo prima, o addirittura mentre era impegnato a cercare l’ambrosia. E invece nulla. Forse davvero non voleva affrontare un avversario disarmato, o forse davvero non aveva cattive intenzioni. Edward assottigliò le labbra, indicando le sue spade. «Quelle devi per forza portartele dietro?»

«Sì.»

Chiaro e conciso. Edward rilassò le spalle. «Sappi che io sono disarmato, quindi se mi uccidessi sarebbe un gigantesco disonore, Naito.» Si staccò dal muro e lo seguì. «Ma proprio enorme disonore.»

«Sì, sì, ho capito. Ora muoviti.»

Camminò oltre la capanna Sette, avviandosi verso il bosco. Edward spense le luci e chiuse la porta, poi lo seguì con riluttanza. 

«Mi fa piacere scoprire che questa sera c’è ancora qualcuno che pensa a me» mugugnò mentre lo affiancava. «Credevo che si fossero tutti dimenticati della mia esistenza.»

Naito rispose con un sorrisetto. Il fruscio dell’erba schiacciata dai loro passi fu l’unico suono che li accompagnò, per quella manciata di metri durante la loro romantica camminata al chiaro di luna.

«Che cosa vuoi, Naito? Perché sei qui?» interrogò Edward, stanco del silenzio.

Il mezzo demone si fermò, incrociando le braccia mentre osservava il cielo. «Avevo bisogno di parlarti.» 

«Parlarmi? Parlarmi di cosa?» domandò Edward, cominciando davvero a credere che stesse per fargli una dichiarazione d’amore.

L’han’yō tornò ad osservarlo. Non c’era più alcuna traccia di divertimento nel suo sguardo. «Orochi. Non lavorava da solo. Un dio lo ha aiutato.»

«Aspetta, aspetta…» Edward lo frenò con un gesto della mano, confuso. «Che cosa?»

«Quando Orochi venne sconfitto, fu fatto a pezzi ed esiliato in un’altra dimensione, una prigione da cui non avrebbe più dovuto fare ritorno. Ma è comunque riuscito a tornare. Solo un dio può aver fatto ciò.»

«N-No, aspetta…» Il figlio di Apollo agitò entrambe le mani, con le orecchie che ronzavano. Quel tizio era passato da zero a cento in un lampo. «Perché mi stai dicendo questo?»

Naito abbassò lo sguardo, con un lungo sospiro. Fissò il suolo per quelle che parvero eternità, scuotendo lentamente la testa. «Ho… commesso degli errori, Edward. Ci ho riflettuto e… non ne vado fiero. Voglio riscattarmi.» Tornò ad osservarlo. «So che non è molto, ma nel mio piccolo, voglio cercare di essere di aiuto.»

«Ma… perché?» bisbigliò Edward, sempre più incredulo.

Un sorrisetto amaro nacque sul volto del mezzo demone. «Nessuno ha mai detto al tuo amico Konnor che potrebbe convincere un mostro a dedicarsi al lavoro nei campi?»

Edward abbassò le braccia. Un tiepido sorriso accarezzò anche il suo volto. Tipico Konnor con i suoi stupidi discorsetti motivazionali. Gli ritornò in mente la discussione che aveva avuto con lui e Thomas nel bar dell’aeroporto. Aveva lasciato andare Naito proprio per quel motivo, perché aveva capito che in lui c’era di più di quello che mostrava. Ancora una volta, quel maledetto ci aveva visto giusto.

«Quindi… vuoi aiutarci?» 

«Ti dirò quello che so. Di più non posso fare.»

Edward annuì. «D’accordo.»

Naito accennò con il braccio al sentiero di fronte a loro. «Camminiamo?»

«Sei fissato con questa storia. Vuoi anche che ci teniamo per mano?»

«Tenermi per mano? Perché?» domandò Naito, mentre riprendevano la marcia.

«Stavo solo scherzan… non importa. Ti ascolto.»

«Ho visto Orochi che parlava con qualcuno» riprese a dire Naito. «Era un uomo. Mortale di aspetto, ma sapevo che non era così. Emanava un potere diverso. Sono sicuro che fosse un dio.»

«Hai idea di chi fosse?»

«Ho una teoria.» Naito fissò di nuovo il cielo e serrò i pugni. «Non posso fare il suo nome. Mi sentirebbe. Ma se la regina degli dei è rappresentata dal sole, cosa credi che rappresenti il suo rivale più grande?»

Edward faticò a capirlo, un po’ perché l’inglese di Naito faceva alquanto schifo, un po’ perché era davvero confuso. Seguì il suo sguardo, realizzando quello che lui stava guardando. «La… la luna?»

«Già. Sole e luna. Giorno e notte. Sorella e fratello.»

Il figlio di Apollo schiuse le labbra. Non credeva affatto che Naito stesse parlando di suo padre e di Artemide, anche perché aveva menzionato la regina degli dei, che era Amaterasu, e poi aveva detto “sorella e fratello” riferendosi al sole e la luna, e Amaterasu era una donna. Da quello che Edward credeva di aver capito, il fratello di Amaterasu era Susanoo, e lui era il dio del mare e delle tempeste, non della luna. Ma forse… forse c’era un altro fratello. Uno che non era stato menzionato.

«Una volta ho sentito Hikaru che ne parlava con Bunzo. Lei conosceva qualcosa che noi non conoscevamo, diceva a tutti che Orochi era solo una marionetta in mezzo alla guerra tra gli dei. Chiunque fosse questo dio, ha liberato Orochi dalla sua prigione perché voleva che lo aiutasse. Voleva che si trasformasse e che lo aiutasse a rovesciare la regina. Ma Orochi non l’ha ascoltato e ha creato il suo esercito, mettendosi alla ricerca di Ama no Murakumo. Tutti gli dei dovevano morire per lui, incluso quello che lo aveva aiutato.»

Per un momento Edward sghignazzò. Quel tizio doveva essere un vero genio a pensare di potersi affidare ad uno come Orochi. Poteva soltanto immaginare la sua faccia dopo essere stato bidonato, per giunta dopo averlo aiutato. Oltre al danno la beffa.

«È tornato ancora qualche volta, per convincerlo a cambiare idea, ma Orochi non l’ha voluto ascoltare. Il suo aspetto era sempre diverso, ma era chiaro che fosse sempre lui. L’ultima volta che l’ho visto era a San Francisco, nel museo.»

«Anche Rosa ha detto di aver visto Orochi parlare con qualcuno» commentò Edward.

Non appena menzionò la ragazza, Naito si irrigidì. Si voltò verso di lui quasi allarmato. «Lei come sta?»

«Sta bene, non preoccuparti. Continua a camminare» gracchiò Edward, infastidito dal suo interesse.

Naito distolse lo sguardo, sembrando perfino imbarazzato. Fecero ancora qualche altro passo. «Comunque, dopo l’ultima volta non l’abbiamo più visto. Deve aver rinunciato a volere Orochi come alleato.» 

«Beh… allora il problema è risolto, no? Si è arreso dopo che il suo piano è naufragato ed è sparito per sempre» disse Edward fiducioso, sperando che Naito rispondesse: «Sì, certo, sicuramente quel tizio non lo vedremo mai più!»

Purtroppo, quello non era il mondo fatto di sogni e zucchero filato che avrebbe sperato. 

«Tornerà» rispose Naito, grave. «Vuole rovesciare la regina e sedersi al suo posto sul trono. Il suo piano di convincere Orochi è fallito, ma temo che fosse solo l’inizio. Non so cosa farà, ma non credo che sarà piacevole.»

«Grandioso. Davvero grandioso.»

«C’è dell’altro.» Naito gli lanciò un’occhiatina veloce. «Riguarda Kate Model.»

Edward si fermò di scatto, squadrandolo basito. «Mia… mia madre?»

Naito annuì. «Orochi non ti ha mentito su tutto. Ha davvero fatto ricerche su di lei. Ho sentito Hikaru che ne parlava con gli altri.»

«Perché c’è sempre lei di mezzo?» domandò Edward, titubante.

Il mezzo demone si strinse nelle spalle. «A me non dicevano mai nulla. Forse non si fidavano.» Fece un sorrisetto divertito. «Purtroppo per loro, ho sempre avuto un buon udito. In ogni caso, Kate Model è ancora viva. È da qualche parte in Giappone, tenuta prigioniera.»

Il tempo si fermò attorno ad Edward. Rimase a fissare Naito, paralizzato. In cuor suo aveva sempre sperato che Kate fosse viva. Come avrebbe non potuto? Un lato di lui, invece, era sempre stato convinto di averla persa per sempre. Scoprire la verità fu come svegliarsi sotto una pioggia di sassi. Era felice, sollevato e sconvolto tutto insieme.

«Da chi?» domandò con voce roca, pronto ad andare in Giappone anche a piedi se necessario e soprattutto pronto a fare a pezzi qualunque ostacolo sul suo percorso.

«Mi dispiace, ma non lo so» rispose Naito, scuotendo la testa. «Potrebbe sempre essere lo stesso dio, o qualcun altro che lavora per lui. Magari speravano di ottenere Ama no Murakumo da lei. Avrebbe senso.»

Calò il silenzio, mentre Edward abbassava la testa, assimilando le informazioni. Sciolse i pugni che non si era nemmeno reso conto di aver stretto. 

«Ti ho detto tutto quello che sapevo» concluse Naito, guardandolo con uno sguardo quasi apprensivo. «Ma se in Giappone scoprirò altro, verrò a riferirtelo.»

«Che vuoi dire?» domandò Edward, stupito.

L’han’yō fece uno strano sorriso. «Sto per partire. Ritorno a casa.»

«Intendi dire… in Giappone? Tra le montagne?»

Naito annuì ancora una volta. Il suo sorriso si smorzò. «Non torno là dal… dal giorno dell’incendio» ammise con voce flebile. Abbassò la testa. «Sembra passato così tanto tempo…»

Edward sentì una fitta allo stomaco. Naito aveva già mostrato il suo lato più umano, in quella conversazione e anche prima, in altre occasioni. Ma in quel momento, con quella frase, con lo sguardo basso e quell’espressione amara e triste lo sembrò molto di più. 

«Parti subito?» domandò Edward. 

Naito sollevò le spalle. «Non mi resta molto da fare qui, nei Gloriosi Stati dell’America Unita.»

Edward cercò di non ridere per quel nome assurdo. La cosa ancora più divertente era che sembrava convinto che fosse un nome reale. «Beh… potresti rimanere qui per qualche giorno.»

Il mezzo demone lo squadrò sorpreso. «Intendi qui… nel vostro campo?!»

«Ehi, si chiama Campo Mezzosangue, non Campo Semidei. Sono sicuro che se ne parlassi con Chirone lui capirebbe.»

Naito lo squadrò per alcuni lunghi, interminabili attimi, forse per capire se lo stava prendendo in giro o no. Edward non poteva davvero biasimarlo in realtà, farsi beffe di lui era diventato uno dei suoi hobby preferiti durante quei giorni di follia. Infine, l’han’yō sorrise di nuovo, in maniera più sincera. Scosse la testa. «Apprezzo l’offerta, ma questo posto… non mi appartiene. O meglio, io non appartengo a questo posto. Sono giapponese, non greco, devo rimanere nella mia fetta del mondo, con la mia gente e i miei simili. Ma… grazie per avermelo chiesto.» 

Si chinò, in segno di gratitudine. Edward abbozzò un sorrisetto. Quando si raddrizzò, Naito si fece di nuovo imbarazzato, distogliendo lo sguardo da lui. «Riguardo… riguardo quello che è successo con… con Rosa… potresti chiederle scusa da parte mia? Non volevo… non volevo farle del male. Non volevo metterla in pericolo. Mi dispiace…»

Edward assottigliò le labbra. «Perché non glielo dici di persona? Dì a lei e anche a tutti gli altri le stesse cose che hai detto a me. Saranno felici di sapere che non sei più contro di noi.» 

Naito fece un altro sorriso amaro, scuotendo la testa. «Non… non ho il coraggio di farmi di nuovo vedere, dopo tutto quello che ho fatto. Chiedi solo scusa a Rosa… a tutti quanti, da parte mia. Di loro che… che mi dispiace e che non devono più preoccuparsi di me. Non mi vedranno più. E… ringrazia anche Konnor per avermi risparmiato.»

L’idea che Naito vedesse ancora Rosa non faceva davvero impazzire Edward, ma sapeva che sarebbe stato più giusto se si fosse scusato di persona. Tuttavia, ormai pareva proprio che avesse preso la sua decisione e non fosse disposto a cambiarla. Poteva comprenderlo in realtà, dopotutto erano simili loro due: due giganteschi, cocciuti testoni inamovibili. 

Fin quando non arrivava Konnor a sgridarli. O finché Rosa non si trovava in pericolo.

«Va bene Naito, lo farò. Se…» Si interruppe, colpito da un’altra fitta di dolore allo stomaco. Si piegò di colpo, gemendo rumorosamente.

Izanami sogghignò di fronte a lui. «Ti renderai conto che la tua sofferenza è lungi dall’avere fine.» 

La sua risata si levò nelle sue orecchie, facendogli formicolare la spina dorsale. Cominciò a sentire il sangue che sgorgava dalle cicatrici, provocandogli un brivido gelato.

«Edward.» 

La voce ferma di Naito lo riportò alla realtà. L’han’yō gli posò una mano sulla spalla, facendolo sussultare. «Stai bene?»

Edward si raddrizzò, ansimante, toccandosi la pancia. Neanche una traccia di sangue. Inspirò ed espirò a lungo, poi osservò il mezzo demone. «Ti… ti devo chiedere una cosa.»

«Oh… va bene.»

Quando Edward gli mostrò la cicatrice sullo stomaco, l’espressione di Naito si fece atterrita. «E quella chi te l’ha fatta?»

Il semidio assottigliò le labbra. «Izanami.»

La terra sembrò sussultare non appena pronunciò quel nome. Per quanto possibile, Naito si fece ancora più incredulo. «Quindi… quindi sei morto davvero…»

Edward lasciò andare l’orlo della t-shirt, che scese di nuovo a coprire l’orripilante buco. Come aveva sospettato, Naito sapeva di cosa si trattava. 

«Sai come posso farla smettere di farmi male?» 

Naito non rispose subito. Fece vagare lo sguardo da lui al punto della maglietta sotto cui si trovava la cicatrice, ad intermittenza. «Come… come hai fatto a salvarti?»

«Quello non ha importanza. Dimmi solo se c’è qualcosa che posso fare per fermare il dolore.»

Dopo diversi attimi di esitazione, Naito scosse la testa. «Mi dispiace, ma Izanami si è presa un pezzo di te.»

«Sì, me ne sono accorto» rantolò Edward. «Mi mancano due centimetri di pelle…»

«Intendevo un pezzo della tua anima. Non… so cosa potresti fare. L’unica cosa che posso dirti è di sopportare. Non lasciarti piegare dal dolore, o potresti sprofondare di nuovo nello Yomi. Se riuscissi a resistere abbastanza a lungo, dovresti superarlo.»

Proprio il tipo di risposta di cui non aveva bisogno, sapere di essere ancora ad un passo dallo scivolare in quell’oblio. E soprattutto, Naito aveva usato il condizionale, quindi forse nemmeno resistere sarebbe bastato. Ora sì che l’espressione impietosita che Chirone gli aveva rivolto quella mattina aveva senso. Abbassò lo sguardo sconfortato. Forse era quello a cui Izanami si era riferita, quando gli aveva detto che avrebbe sofferto ancora. La profonda amarezza se non altro riuscì a fargli dimenticare il dolore.

«Sei forte, Edward. Molto più forte di quanto tu possa credere.»

Il figlio di Apollo drizzò la testa. Naito gli sorrise, rivolgendogli un cenno del capo. «Hai sconfitto da solo l’intero esercito di Orochi e Orochi stesso, sei morto e sei comunque riuscito a tornare indietro. Supererai anche questo.»

Un piccolo sorriso nacque anche sul volto di Edward, non solo perché Naito aveva cercato di rincuorarlo, ma perché era proprio lui ad averlo fatto. Aveva ragione. Aveva sconfitto la morte, non poteva aspettarsi che tutto fosse filato liscio. Ma avrebbe resistito e avrebbe prevalso, come sempre. «Grazie Naito, per le informazioni e per tutto il resto.» 

Gli tese una mano e Naito la guardò incuriosito. Incerto, gliela prese. «Dalle mie parti non si usa stringere la mano» spiegò, un po’ imbarazzato. «Di solito ci si inchina.»

«Sei a casa mia, quindi fai quello che decido io» ribatté Edward. «Guarda, è facile. Su e giù, così» disse, stringendogli la mano.

«Ok…» mormorò l’altro, mentre si faceva guidare come un bimbo. Edward si dispiacque di essere l’unico che poté vederlo così mansueto. 

«Suppongo che sia ora che vada, prima che mi notino e scoppi un putiferio» concluse Naito, quando si separarono. 

«Che cosa farai?» gli domandò Edward. 

Naito sollevò le spalle. «Non ne ho idea. Credo che abbandonerò l’idea di vendicarmi, comunque. Ho capito che tanto è tutto inutile.»

Ancora una volta, Edward sentì il petto stringersi in una morsa. Non era giusto. Non era giusto che i responsabili del suo male rimanessero impuniti, dei o mostri che fossero. «Forse… forse possiamo rendere giustizia a tua madre in altri modi. Se vuoi posso provare a parlare con il direttore del campo, magari lui può parlare con gli dei e…» 

«Edward.» Naito gli lanciò un ultimo, triste, sorriso. «Sono un mezzo demone. Nessun dio si batterà mai per uno come me, è escluso. Ma non importa. Mi… mi nasconderò e cercherò di ricominciare, in qualche modo. Non preoccuparti per me. Pensa a te stesso. Non lasciare che Izanami abbia la meglio. I tuoi amici e tua sorella hanno bisogno di te.»

Edward tacque. Avrebbe voluto rispondergli, dirgli che si sbagliava, ma in profondo, sapeva che purtroppo non c’era nulla che potesse fare. Susanoo gli aveva spiegato la storia di Naito. Nonostante fosse al corrente di quello che gli era successo, non aveva mai mosso un dito per aiutarlo. Nessuno aveva fatto niente di niente per lui.

Perché non sarebbe mai dovuto esistere. A quel pensiero, il figlio di Apollo strinse i pugni. «Forse gli dei non possono fare niente per te, Naito, ma tu… tu puoi ancora fare qualcosa. Continua a combattere per la giusta causa e dimostra a tutti, dei inclusi, che anche la tua specie vale. Se le parole non bastano, lascia che siano le azioni a parlare. Sei un guerriero formidabile, non ti devi arrendere così.»

Dopotutto, Naito era un mezzo demone, odiato e ripudiato da tutti, eppure Orochi aveva comunque visto abbastanza in lui da prenderlo nel suo esercito, e non solo, gli aveva perfino dato un ruolo al di sopra degli altri. Naito si era fatto temere e rispettare nonostante non piacesse e non era certo una cosa da poco. Rivolse un cenno all’han’yō, che lo scrutò sorpreso. Infine, Naito sorrise di nuovo, annuendo. «Dōmo arigatō.»

Anche Edward sorrise. Dopo quei lunghi giorni, Naito cominciò a brillare sotto una luce diversa di fronte ai suoi occhi. Non era più un mezzo demone: era un mezzo umano. E forse… poteva anche essere un alleato, o addirittura un amico. «Buona fortuna, Naito.»

«Ganbatte, chīsana eiyū.»

Il figlio di Apollo non capì una sola parola, ma immaginò che fosse il suo saluto.

Naito svanì nel bosco, mischiandosi con la notte, lasciandolo da solo con il suono dei grilli, della musica che arrivava in lontananza, del fruscio del vento tra le foglie i suoi tantissimi, rumorosissimi, pensieri.

 

***

 

Tornò indietro, passando di nuovo in mezzo alle capanne mentre il suo povero cervello continuava ad elaborare le informazioni che aveva ricevuto. 

Sua madre, Kate… era viva. Ed era in Giappone. Edward storse le labbra, fissando il suolo mentre camminava. Era una bella notizia, certo… ma a mente fredda che diamine poteva farsene? In Giappone non ci poteva arrivare con uno schiocco di dita. I mostri lo avrebbero assalito non appena avrebbe messo piede fuori dal campo. E da quanto ne sapeva, ciò che si trovava oltre i confini americani era pure più pericoloso di quello che avevano lì.

Allo stesso tempo, sapeva di doverci provare. In qualche modo, nei giorni, mesi a venire, avrebbe dovuto studiare qualcosa. Naito gli aveva detto che sarebbe tornato se avesse scoperto qualcosa in più. Lo avrebbe atteso. E se non si fosse più fatto vedere, avrebbe pensato a qualcos’altro. In ogni caso, non sarebbe rimasto con le mani in mano.

Riguardo la faccenda del dio misterioso… non sapeva cosa pensare. La teoria di Naito sembrava sensata, ma conosceva troppo poco degli dei orientali per poter dire se era fattibile oppure no. Non era nemmeno sicuro se la cosa poteva davvero riguardare loro. Se qualcuno voleva spodestare Amaterasu dal suo trono, perché la questione avrebbe dovuto intaccare anche i greci? Gli orientali se la sarebbero dovuta risolvere tra loro… no?

Era anche vero che c’era un accordo tra greci e orientali, ed Edward era il motivo per cui i due mondi erano entrati in contatto tanto per cominciare. Quindi probabilmente i problemi di Amaterasu sarebbero stati ancora una volta anche problemi loro.

Concluse che era inutile arrovellarsi in quel modo proprio in quel momento. L’indomani ne avrebbe parlato con gli altri e avrebbe sentito le loro opinioni. Per quella sera, ne aveva sul serio le scatole piene. Ormai non mancava molto alla fine della festa, voleva godersi le poche canzoni rimanenti in santa pace, senza rotture.

Mentre attraversava il campo, notò una capanna con la luce accesa. Per un momento pensò che si trattasse della Sette, ma era convinto di aver spento le luci e chiuso la porta. Poi realizzò che si trattava della Dieci. La casa di Afrodite.

Edward schiuse le labbra. Tutte le altre case erano spente, deserte, solo quella era illuminata. Non se n’era accorto prima, visto che stava quasi per crollare dal dolore, ma ora che era lucido osservò la capanna confuso. Non ci mise molto a fare due più due. Jane non si era vista da nessuna parte alla festa e la casa di cui era a capo aveva le luci accese. Si fermò lì davanti. Si guardò attorno e ancora una volta non notò anima viva, tutti quanti erano stipati sulla collina del padiglione della mensa. L’aria festiva che emanava quel luogo pareva quasi appartenente ad un’altra dimensione se vista da lì, in mezzo alle case deserte e silenziose.

Il figlio di Apollo riportò l’attenzione sulle pareti rosa shocking della capanna Dieci, le tendine bianche e i ghirigori a forma di cuoricini. Pensava che la casa/ospedale in cui abitava con i fratelli fosse brutta, ma avrebbe preferito quella cento volte rispetto a quella casetta per le bambole formato extralarge. Ci credeva che le figlie di Afrodite erano tutte fulminate di cervello, bastava vedere in che razza di posto alloggiavano. 

Sospirò pesantemente, sapendo in cuor suo di stare facendo un’idiozia, e andò a bussare alla porta. Ci volle qualche istante, e qualche altro colpetto deciso, ma alla fine qualcuno abbassò la maniglia. Come aveva immaginato, Jane apparve da uno spiraglio. 

«Oh… sei tu» mormorò, sembrando stupita di vederlo.

«Ehm… sì. Aspettavi qualcun altro?»

«No…» Jane spalancò la porta, mostrandogli per un momento l’interno della casa – confermando la sua teoria di casa per le bambole gigante – e soprattutto mostrandogli lo stupendo abito da sera rosso che aveva indosso e che dava davvero poco spazio alla fantasia, mostrando le linee sinuose del suo petto, delle sue gambe e dei suoi fianchi. Anche lei si era truccata ed era impeccabile, ovviamente. Doveva aver passato ore ed ore di fronte allo specchio. Aveva la pelle bianca e candida come neve, un filo di rossetto rosso sangue sopra le labbra sottili. I capelli biondo platino erano raccolti in una lunga treccia che scendeva lungo la sua spalla facendola sembrare la principessa di qualche fiaba. Per un secondo, osservandola, Edward si dimenticò perfino perché era andato lì. Poi, accorgendosi dello sguardo confuso di lei, si riscosse e si schiarì la voce.

«Non… non vieni alla festa?» domandò, titubante.

Una smorfia triste attraversò il volto della capocasa di Afrodite. «Non credo di essere la benvenuta, là.»

«Ma… e allora perché ti sei vestita elegante?»

«Elegante?» Jane abbassò lo sguardo sul suo abito, per poi ridacchiare tiepida. «Ma se questo è uno dei miei vestiti peggiori. E non mi sono neanche truccata per bene…» commentò poi, afferrandosi la treccia e iniziando a lisciarsela con fare nervoso. «… cosa ne sai tu dell’eleganza…»

Edward decise di ignorare la provocazione. Le abitudini erano dure a morire, lo sapeva bene. E comunque, Jane aveva ragione; la sua felpa distrutta e rattoppata alla bell’e meglio dalle driadi non era proprio l’ultimo grido in fatto di moda. Si appoggiò contro la porta, incrociando le braccia. La osservò meglio e sì, era assolutamente perfetta, a discapito di qualunque cosa avrebbe potuto dirgli. Non una perfezione come quella di Steph, però. Entrambe erano bellissime ragazze, ma la bellezza della figlia di Demetra era molto più spontanea e naturale; quella di Jane invece sembrava perlopiù dovuta alla maniacale ricerca della perfezione delle figlie di Afrodite. 

Rendendosi conto di stare di nuovo pensando a Steph, Edward serrò le labbra. «E allora che ci fai ancora sveglia?» domandò. Non poteva essere per via del concerto, la musica arrivava fino a lì, vero, ma era ovattata, distante, quasi rilassante da ascoltare.

Jane non rispose. Sembrò fare di tutto per evitare il suo sguardo. Edward la osservò meglio e notò i suoi occhi cerchiati di rosso. «Ehi, va tutto bene?»

La ragazza continuò a fissare per terra, torturandosi la treccia. Poi si raddrizzò e incrociò il suo sguardo. Sembrava avesse pianto. «Ho… ho litigato con Buck, dopo che ha perso oggi…» ammise, con voce flebile. «Non… non l’avevo mai visto così, prima. Era… era furioso.»

«Che è successo?»

«Voleva… voleva affrontare di nuovo Konnor. Voleva fare del male a lui, a te, a Thomas, a tutti quanti. Voleva anche che usassi la lingua ammaliatrice per convincere tutti che l’impresa è stata una farsa.»

Ne aveva sentite di cose folli, ma quella le batteva tutte. Edward non poteva crederci. «E tu hai rifiutato, suppongo.»

La figlia di Afrodite abbassò di nuovo lo sguardo e annuì. «Si è arrabbiato tantissimo. Mi… mi ha fatto paura…» sussurrò. «Gli… gli ho detto che se non si fosse calmato lo avrei mollato e lui… lui…»

Esitò, stringendosi con forza nelle braccia ed abbassando la testa. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Non come all’arena, però. Non erano lacrime di tristezza, erano lacrime di paura. «Mi… mi ha presa per il collo e… e…»

Si interruppe, gemendo spaventata. Edward si staccò dallo stipite di scatto, sentendosi pervadere da pura e semplice rabbia. «Dov’è quello stronzo?» rantolò, voltandosi verso la capanna numero Cinque. «Anche lui è a casa?»

La mano di Jane si strinse attorno al suo braccio. «Fermo.» 

Edward si voltò verso di lei, notando il suo sguardo implorante. La ragazza scosse la testa con forza. «Ti prego, non… non fare nulla. Non dirlo a nessuno. Ti prego.»

«Ti ha messo le mani addosso, Jane. Non puoi…»

«Peggioreresti solo le cose» lo fermò lei, stringendolo con forza. Altre lacrime solcarono le sue guance, guastando l’eyeliner. «Ti prego, Edward… non fare niente…»

Il figlio di Apollo posò una mano sopra quella di lei. Era morbida e fredda, liscia come seta. La allontanò con un gesto calmo dal suo braccio, osservandola dritta negli occhi. 

«E allora cosa vorresti fare?» domandò, con voce più morbida.

«Non… non lo so…» Jane abbandonò le braccia lungo i fianchi. «Ma… voglio occuparmene da sola. Sono… sono una semidea. Non devo avere paura.»

«Non si tratta di essere semidei, Jane» disse Edward, posandole una mano sulla spalla. La osservò dritta nei suoi occhi che ricordava azzurri, ma che in quel momento parevano di un altro colore. Forse erano verdi, forse marroni, a tratti parevano perfino viola. «Il fatto che tu sia una semidea significa che tu sia anche umana. Buck è… era il tuo ragazzo, ti fidavi di lui e lui ha tradito la tua fiducia. È normale che tu abbia paura. È normale che… che sia una situazione difficile, per te. Non significa che tu debba affrontarla da sola. Non sei da sola

Jane rimase in silenzio, a guardarlo. Le sue labbra fremettero, poi si avvicinò a lui e lo abbracciò con forza. Appoggiò la fronte contro il suo petto ed Edward ricambiò la stretta, avvolgendo il suo corpo magro e tremolante. Sembrava davvero scossa. 

«Lascia… lascia che ci provi» mormorò Jane, con voce incrinata. «Lascia che provi a… a parlare di nuovo con lui e a lasciarlo con le mie forze. Sono… sono stanca di nascondermi dietro gli altri.»

Edward le accarezzò la schiena. Non avrebbe voluto lasciarglielo fare. Dopo aver perso il posto di capocasa, da quando erano tornati dall’impresa in realtà, Buck era diventato decisamente instabile e fuori controllo. Però sapeva anche che non era la sua battaglia, quella. Se Jane voleva risolvere il problema da sola, gliel’avrebbe lasciato fare. Non avrebbe commesso lo stesso errore che aveva commesso il primo giorno al campo, non l’avrebbe fatta finire nei guai con la sua impulsività. «Va bene. Ma se dovesse farti ancora del male, la pagherà cara.»

La figlia di Afrodite annuì, senza rispondere. Rimasero stretti a lungo ed Edward continuò ad accarezzarle la schiena e i capelli. Era soffice come una nuvola e il suo profumo di vaniglia era quasi ipnotico. Quando si separarono, Jane gli sorrise tra le lacrime. Edward ricambiò, asciugandogliele con il pollice. Quella ragazza aveva commesso degli errori, ma chi non ne commetteva? Tutti quanti meritavano una seconda possibilità, lei inclusa. Anche Buck avrebbe potuto averla, prima di mettere le mani addosso ad una donna. Dopo un simile gesto, quell’essere poteva marcirsene nel Tartaro fino all’alba dei tempi. 

«Allora, vuoi venire alla festa o no?» domandò di nuovo, distendendo il sorriso. «Non preoccuparti per gli altri. Garantisco io per te.»

«Lo faresti davvero? Solo per me?» chiese lei, stupita.

Edward sollevò le spalle. «Non credo che qualcuno verrà a contestarmelo. Sono il grande eroe, ricordi?»

Jane ridacchiò. Gli prese entrambe le mani e strofinò i pollici sui suoi palmi, assorta. Rimasero così ancora per diversi istanti, durante i quali Edward cominciò ad avvertire una strana sensazione al proprio petto. 

Infine, Jane scosse la testa. «Ho passato l’ultima settimana a cercare di convincere il campo intero che avreste fallito. Non… non ho alcun diritto di presentarmi alla festa. È per voi. Voi che ci avete salvati. Ma… grazie per essere venuto a controllare come stessi. Sei… sei un bravo ragazzo, Edward. Grazie.» Le sue labbra si posarono contro l’angolo della sua bocca, in un rapido bacio che lo fece trasalire. Si separò da lui, veloce come si era avvicinata, rivolgendogli un sorriso così caloroso che Edward sentì un’altra fitta al petto. 

Il fatto che stesse pensando quello di sé stessa, di loro, gli fece capire che Jane stava davvero maturando. Si augurò che si ricordasse quello che le aveva detto: non era da sola. Poteva contare su di lui se ne avesse avuto bisogno. 

«Divertiti» disse infine Jane, lasciandogli andare le mani. 

Edward fu colpito da un altro strano formicolio alla schiena. Jane chiuse la porta prima che potesse dire altro. Rimase immobile, come una statua, a fissare la porta rosa della Capanna Dieci. Si sfiorò il punto in cui lei l’aveva baciato e fece un sorrisetto idiota. Scosse la testa con un sospiro, poi se ne tornò verso il padiglione.

 

***

 

«Edward!»

Thomas gli corse incontro non appena passò oltre le colonne della mensa, agitato. «Ma dov’eri finito?! Tua sorella stava dando di matto!»

Edward sollevò un sopracciglio. Si voltò verso il palco, dove Rosa stava continuando a suonare imperterrita una cover di Basket Case. Agitò un braccio, facendosi notare da lei. L’hermana lo individuò immediatamente e gli lanciò un’occhiataccia, senza smettere di cantare o di suonare, non mutando di una virgola la qualità della sua performance. Era davvero buffa da guardare.

«Ha fatto andare avanti Jonathan da solo per qualche minuto ed è venuta a chiederci se ti avevamo visto» spiegò di fretta Tommy. «Ha detto che sei corso via, che eri strano… va tutto bene Edward?»

Malgrado tutto, ad Edward venne da sorridere. Quella tenerona di Rosa si preoccupava per lui. L’avrebbe presa in giro per bene alla fine del concerto. Batté il pugno contro la spalla di Thomas, annuendo. 

«Bene? Sto alla grande, amico» disse con il suo classico sorrisetto, cercando di sembrare convincente. Non voleva caricare lui o gli altri di pensieri inutili, loro che almeno sembravano divertirsi in quella festa del cavolo.

Tommy si grattò dietro il collo imbarazzato. «Sei… sei sicuro?» 

Sembrava angosciato per lui. Edward si domandò da dove tutta quella preoccupazione improvvisa fosse arrivata. Era sparito per cinque minuti, mica per un’ora. Lo avevano ignorato tutta la sera e adesso che voleva solo starsene in santa pace dovevano tartassarlo?

«Amico mio, da qualche parte in questo padiglione ci sono due bellissime labbra italiane che aspettano solo te. Vuoi farle attendere ancora di più?»

Il figlio di Ermes avvampò. «B-Beh, no, però… se stai male non voglio lasciarti sol…»

«Sto bene. Sul serio.» Edward sorrise più sincero, rivolgendogli un cenno del capo. «Tranquillo. Dillo anche agli altri se li vedi.» 

Thomas storse le labbra. Anche lui, quello che sicuramente era il più semplice da convincere, non sembrò cascarci. Tuttavia, a differenza degli altri, sapeva anche quando era inutile insistere con lui. Gli diede un colpetto al braccio. «Se hai bisogno di qualcosa, non esitare a chiedere, ok?»

«Certo.»

Titubante, il piccoletto si dileguò. Esausto da quella notte che non sembrava avere fine, Edward si voltò verso il tavolo con gli stuzzichini e mugugnò: «Per fortuna ci sei tu.»

«Con chi ce l’hai?»

Edward sobbalzò, colto alla sprovvista da quella voce che arrivò all’improvviso alle sue spalle. Dopo la parentesi con Naito, non era per niente in vena di altri scherzi simili. Si voltò pronto ad incenerire il suo interlocutore, ma si ammansì all'istante quando notò lo sguardo divertito da figlia del dio dei ladri di Natalie.

«N-Natalie» disse, imbarazzato. Si augurò che non avesse sentito la sua dichiarazione di affetto verso il cibo. «Come va? Non badi più ai due marmocchi?»

«Sono riuscita a sbolognarli a Derek. Facciamo un po’ per uno, tipo coppietta divorziata» rispose lei, facendolo ridacchiare.

«Ehi, è carino il modo in cui ti prendi cura di loro» disse Edward, con un sorriso. «Si vede da lontano un chilometro che gli vuoi bene.»

«Non sono l’unica che vuole bene ai propri fratelli.» Natalie si postò una mano sul fianco e lo squadrò con un sorriso enigmatico. «Tommy mi ha raccontato le follie che hai fatto solo per salvare Rosa. Per non parlare poi di quando credevi di essere uno di noi e ti ficcavi nei guai solo per proteggerci.»

Edward si grattò la cicatrice sulla guancia, imbarazzato. Sì, ricordava bene quel periodo. Si era beccato una bella strigliata proprio da lei per quel motivo. «Eh già…» 

Natalie si avvicinò a lui. Edward incrociò il suo sguardo e sussultò leggermente. Non aveva idea del perché, ma quella ragazza gli faceva uno strano effetto. 

«Tommy mi ha raccontato tutto quello che è successo con Campe» disse la figlia di Ermes, avvicinando la mano alle sue cicatrici. Gliele sfiorò con delicatezza, un gesto che, proprio com’era accaduto con Jane quando gliele aveva accarezzate, gli infuse un piacevole sollievo. 

«Mi ha detto che l’hai fatto per proteggerlo. Grazie, Edward» sussurrò Natalie, prima di dargli un bacio sull’altra guancia. 

Edward sentì il viso andare a fuoco mentre le labbra carnose di Nat lasciavano il segno sulla sua pelle. L’avevano baciato due volte nel giro di cinque minuti. Doveva star sognando, o forse era il preambolo per qualcosa di terribile. Forse stava per essere inghiottito di nuovo nello Yomi. Sì, non c'erano altre spiegazioni.

Nat si staccò da lui e sorrise divertita, forse dalla sua espressione. Edward sentì le guance bruciare ancora più forte e distolse lo sguardo. Aveva abbracciato Jane poco prima, la semidea che a detta di chiunque era la più bella del campo, gli aveva perfino dato un bacio, eppure non aveva sentito nulla di vagamente simile a quello che stava sentendo in quel momento. Poi, rifletté per bene sulle parole di Nat e, per quanto possibile, si sentì ancora più in imbarazzo. «Un… un momento… Tommy… ti ha detto proprio tutto

Natalie si posò di nuovo una mano sul fianco, lanciandogli uno sguardo di sufficienza. «Ti riferisci alla parte in cui io ti faccio più paura di Campe? Sì, me l’ha detto.»

Edward temette che il suo volto potesse andare in combustione spontanea. Quel piccoletto con la lingua lunga gliel’avrebbe pagata, poteva starne certo. Natalie ridacchiò, facendolo ammansire. Non l’aveva mai sentita ridere. Era… davvero un bel suono. Si avvicinò di nuovo a lui. 

«Non preoccuparti, Edward…» cominciò a dire, per poi avvicinare la bocca al suo orecchio. «… fai bene a pensarla così» bisbigliò, suscitandogli una lunghissima scarica di brividi lungo la schiena. Quello era un esempio perfetto di “risposta sensoriale meridiana autonoma”. No, non aveva alcuna idea di come facesse a saperlo. Forse era il sangue di Apollo nelle sue vene a parlare.

Natalie si distanziò da lui e gli diede un buffetto sul naso, sempre con quel sorrisetto divertito. Si voltò e i suoi capelli gli sfiorarono il volto. Ancora intontito da quanto appena accaduto, Edward si riscosse.

«A-Aspetta» la fermò, afferrandole una mano. Ancora una volta sentì le guance bruciare mentre lei si voltava incuriosita. 

«Sì?»

«Ehm… ti va… di bere qualcosa assieme?» buttò fuori a fatica. Gli sembrò pazzesco come afferrare Izanami per il collo gli fosse sembrato molto, molto più semplice di quello. 

Per un momento, Natalie lo scrutò senza dire nulla. Ed Edward li trovò i secondi più agonizzanti della sua vita. E poi, la ragazza sorrise di nuovo. «Pensavo che non me l’avresti mai chiesto.»

Il cuore di Edward saltò di un battito per lo stupore. Subito dopo, Natalie lo trascinò in mezzo alla folla e lui si lasciò trasportare come una barchetta a vela in mezzo ad un mare tempestoso.

 

***

 

Rimasero seduti sulla panchina di un tavolo, a sorseggiare dai loro bicchieri che si riempivano da soli. Edward non aveva idea di cosa stesse succedendo, ma non voleva che finisse. Quella serata maledetta stava diventando la serata migliore della sua vita. 

Parlarono a lungo, nemmeno lui sapeva di cosa in realtà, sapeva solo che le parole uscivano dalla sua bocca, lei rispondeva, poi qualcuno faceva una battuta e ridevano insieme. Avrebbe potuto ascoltare il suono della sua risata per tutta la notte. Non aveva idea da dove gli stessero uscendo tutte quelle emozioni, ma non aveva importanza. Si lasciò trasportare dal momento, incurante, felice della sua compagnia. 

Nat non raccontò molto della sua vita privata, ma nemmeno indagò su quella di Edward, e a lui andò bene così. Si limitarono a raccontarsi cos’era successo in quei giorni, Edward parlò dell’impresa, dei mostri che aveva affrontato, dell’assurdo scontro tra Milù e le tre kamaitachi, di Fujinami, e Natalie rimase ad ascoltare incantata, sempre con quel sorriso rilassato sul suo volto. 

D’altra parte, lei raccontò quello che era successo durante la loro assenza, parlò dei momenti più divertenti vissuti nella capanna Undici e anche di come i semidei del campo avessero cercato di unire le forze nonostante le differenze. Fu piacevole sentire quelle storielle della bocca di qualcuno che le aveva vissute.

«E adesso che sei tornato, che programmi hai?» domandò lei.

Edward si strinse nelle spalle. «Non saprei… penso che mi concentrerò a diventare un bravo capocasa. Continuerò ad allenarmi, magari a tirare un po’ con l’arco. E soprattutto, voglio riposarmi…» mugugnò.

«Direi che te lo sei meritato» convenne Nat, sorridendogli di nuovo. «Rimarrai al campo tutto l’anno?»

«Non ho molta scelta» rispose Edward. Ripensò a quello che gli aveva detto Naito e posò il bicchiere, stringendo con forza il bordo della panchina con la mano libera.

«Tutto ok?»

La voce con vene di preoccupazione di Natalie lo fece voltare verso di lei. «Sembri… angosciato» gli spiegò. «Qualcosa non va?»

Edward cercò di non guardarla. «Sono… sono solo un po’ sovrappensiero. Sono successe tante cose, in questi giorni.»

La mano calda di Nat si posò sulla sua, facendogli venire un brivido. Tornò ad osservarla stupito, notando il suo sorriso gentile. «Se hai bisogno di parlare, io sono qui.»

Un piccolo sorriso apparve anche sul volto di Edward, mentre osservava le sue iridi scure. L’aveva vista sorridere così di rado quando aveva vissuto nella capanna Undici. Sembrava un’altra persona. Era… bello vederla sorridere. Stava per rispondere, ma una terza voce li fece voltare entrambi. «Ehi, pezzente.»

Buck era apparso dal nulla di fronte a loro, ringhiando come un rottweiler, contraendo i pugni. Naturalmente la sua presenza non passò inosservata. Una piccola folla di curiosi si radunò attorno a loro. Edward si diede dell’idiota per aver pensato che le cose stessero andando così tanto bene. Era ovvio, ovvio, che sarebbe successo qualcosa del genere.

«Che diamine vuoi, Buck?» sbottò Natalie prima che Edward potesse fare qualsiasi cosa. «Hai ancora il coraggio di farti vedere in giro dopo la batosta di oggi?»

«Chiudi la bocca, racchia» ribatté Buck, osservandola truce. Nat assottigliò le labbra. Fece ondeggiare il bicchiere che aveva ancora in mano, che si riempì di una strana sostanza non meglio identificata – gialla. 

«Non parlarle così» si oppose Edward, alzandosi per fronteggiarlo. Fece cenno a Natalie di non preoccuparsi e osservò Buck dritto negli occhi, senza nessun timore. «Che cosa vuoi?»

Per tutta risposta, quello lo afferrò per la maglietta, tirandolo verso di sé e offrendo una generosa panoramica del suo volto ancora coperto di lividi. «Credevi davvero che non me ne sarei accorto?!» sussurrò, mostrando i denti rovinati e inondandolo con un alito pestilenziale che sapeva di pneumatici bruciati. 

«Lascialo andare!» protestò Natalie, balzando in piedi.

Il figlio di Apollo storse il naso, afferrando la mano di Buck per cercare di allentare la presa. «Non ho idea di cosa tu stia parlando.»

«Ti ho visto mentre ci provavi con la mia ragazza» spiegò il figlio di Ares, stringendolo con ancora più forza. Edward spalancò gli occhi.

La voce di Natalie, atterrita, lo folgorò come una scarica da centomila volt: «Che cosa?»

«No, ascolta, è solo un malinteso» cercò di spiegare Edward, facendo vagare lo sguardo dall’uno all’altra. «Ero solo andato a controllare se stava bene, tutto qua. È stata lei ad abbracciarmi per prima. Non credevo che sarebbe successo.»

«Non lo credevi?» domandò Buck, con finta voce calma, per poi digrignare i denti all’improvviso. La sua mano chiusa a pugno si avvicinò al suo volto. Natalie gridò. 

E anche Buck grugnì per il dolore.

Edward si era divincolato, bloccandogli il pugno a mezz’aria e torcendogli il braccio dietro la schiena, costringendolo a rimanere piegato in ginocchio. Poteva ringraziare Rosa per avergli insegnato quel piccolo trucchetto di autodifesa. Osservò il semidio con rabbia, non riuscendo a credere alla sua sfortuna e al suo tempismo davvero schifoso. Poteva sorvolare il fatto che stesse chiaramente spiando Jane – no, in realtà non poteva, faceva accapponare la pelle – ma anche l’arrivare lì, guastare quel momento, insultare Nat, quello non lo avrebbe mai e poi mai tollerato.

«Stammi bene a sentire, stupido scimmione dopato» biascicò all’orecchio di Buck, mentre quello cercava di liberarsi dalla sua presa. Edward gli strinse il braccio e il figlio di Ares muggì di dolore ancora più forte. 

«Sono quasi morto prima di entrare nel campo, sono stato aggredito da sei scorpioni, mia sorella è stata rapita di fronte ai miei occhi, la mia faccia è stata dilaniata da Campe, una maledetta kitsune per poco non mi rinchiudeva in una gabbia, sono precipitato in un dirupo dentro ad un treno, quasi stato ucciso da dei grifoni, poi da un gigante e poi sono stato pugnalato alla schiena da un mostro millenario divora vergini che voleva uccidere mia sorella distruggere il mondo» sbottò, tutto d’un fiato, quasi espellendo quelle parole come una tossina dal proprio corpo. La sua voce si alzò senza che nemmeno se ne rendesse conto.

«E non vuoi sapere quello che mi è successo dopo. Credevo che durante questa festa avrei potuto rilassarmi, ma a quanto pare non mi è concesso nemmeno questo, perché tu dovevi mostrare la tua brutta faccia e attaccare briga con me proprio mentre ero assieme ad una bella ragazza. Beh, sai che c’è, Buck, sono stanco. Sono stanco di farmi mettere i piedi in testa in continuazione. Sono stanco di te e di quelli come te. Hai due opzioni ora, amigo, ti levi di torno prima che le cose prendano sul serio una brutta piega, oppure rimani, e lasci che ti faccia male per davvero. Io non sono Konnor, non sei mio fratello, quindi non ho nessun motivo di andarci piano con te. Ti posso garantire che quello che ti ha fatto lui non sarà nulla, nulla, in confronto a quello che ti farò io. Ci siamo capiti?»

Buck grugnì, rosso come un peperone mentre Edward faceva pressione sul suo braccio, ormai piegato in posizione innaturale. Se avesse continuato così, glielo avrebbe spezzato. 

«Ci siamo capiti?!» 

«S-Sì…»

«Non ho sentito, Buck. Parla più forte.»

«S-Sì! Ci siamo capiti!»

«Bravo ragazzo. Adesso chiedi scusa a Nat» proseguì, torcendogli ancora un po’ il braccio per incentivarlo.

«M-Mi dispiace!»

«Perfetto. Hai visto, non era così difficile.» Edward lo lasciò andare, spingendolo via. Buck cadde carponi con un grugnito.

«E per la cronaca, non c’ho provato con Jane. Ero preoccupato per lei e sono andato a controllare se stava bene. Aveva solo bisogno di qualcuno che la aiutasse in un momento difficile» spiegò Edward, duro. Avrebbe voluto aggiungere altro, ma la figlia di Afrodite gli aveva chiesto di non parlare con nessuno di quello che aveva scoperto, quindi tacque. Ma era sicuro che Buck aveva capito. 

«Ma visto che hai deciso di tirare in ballo la questione, lascia che metta le cose in chiaro: se ferisci o offendi ancora una volta me, Natalie, Thomas, Stephanie, Lisa, Konnor, Jane, Derek e chiunque altro, ti spezzerò tutte le ossa che hai nel corpo. Hai capito?»

Il figlio di Ares si rimise a fatica in piedi, tenendosi il braccio e fissandolo con odio. Si guardò attorno, notando gli sguardi di tutti i semidei che erano rimasti a godersi la scena e per una volta il suo cervello parve funzionare come avrebbe dovuto, perché intuì di essere non gradito, lì. 

Si fece largo tra la folla a spintoni e spallate, mugugnando come un animale ferito, e svanì dalla visuale. Vi fu un momento di silenzio, in cui tutti quanti osservarono Edward sbigottiti. Poi cominciarono ad applaudirlo e ad esultare. Il figlio di Apollo osservò quel gruppetto di semidei confuso. Se davvero erano felici per la lezione che aveva dato a Buck, perché se n’erano stati fermi a guardare? 

Decise di lasciar perdere. Non aveva più voglia di discutere con nessuno. Si voltò di nuovo verso di Natalie per scusarsi dell’inconveniente, ma le parole gli morirono in gola. Natalie se ne stava a braccia conserte, fissandolo con quello sguardo che già una volta aveva ricevuto da lei. Deglutì.

Oh-oh…

«Vieni con me» ordinò severa, cominciando a camminare senza nemmeno attenderlo. 

«A-Aspetta!» protestò Edward, incredulo, mentre i semidei si facevano da parte per lasciarli passare. Sapeva cosa stava per succedere. Sapeva che voleva strigliarlo, ma le corse comunque dietro, cercando di giustificarsi. «Andiamo, Nat! Quel tizio voleva tirarmi un pugno! Che cavolo dovevo fare secondo te?»

Natalie non rispose. Continuò a scendere la collina, dirigendosi verso le case. Voleva proprio fargli una lavata di capo da record se aveva bisogno di allontanarsi così tanto. Stava quasi pensando di smettere di seguirla e scappare via, ma sapeva che sarebbe stato inutile. E poi, non voleva fuggire. Se farsi strigliare da lei sarebbe stato il modo per poter ancora godere della sua compagnia in futuro, lo avrebbe fatto.

Quando si ritrovarono sul limitare del campo, Natalie si fermò e si voltò. Gli occhi della ragazza si piantarono su di lui, così penetranti da poter oltrepassare i suoi vestiti. Un formicolio pervase il suo corpo, scuotendolo dalla testa ai piedi.

Edward sollevò le mani in difesa. «Ok, senti, mi dispiace. Forse avrei potuto risolvere la cosa in maniera diversa. Sono stato impulsivo, ma…»

Le labbra di Natalie si premettero con forza sulle sue, rendendo il resto della frase solo un mugugno sorpreso. La ragazza lo afferrò per la felpa e lo tirò verso di sé, facendo aderire i loro corpi.

Edward spalancò gli occhi, sentendo la lingua di Nat che gli accarezzava le labbra e il suo respiro caldo che gli soffiava sul volto. Le dita di lei lo cinsero dietro la schiena, conficcandogli le unghie nella pelle, strappandogli un sussulto.

Gli morse un labbro e si separò da lui all’improvviso. Edward rimase immobile, troppo scosso per pensare. Lei gli sorrise di nuovo. Questa volta, però, non fu un sorriso come gli altri. Lo guardò con sicurezza, squadrandolo come una leonessa affamata di fronte alla sua preda. Si ributtò su di lui, afferrandolo dietro la nuca e tirandolo a sé senza troppi complimenti, dandogli un morso di cortesia prima di insinuare di nuovo la lingua tra le sue labbra, avida.

Edward poteva solo sentire il sapore delizioso di lei e le sue mani ferme sulla nuca che lo intrappolavano in una morsa da cui non voleva più liberarsi. Avvolse le braccia dietro la sua schiena, ricambiando la stretta e avvicinandola ancora di più, al punto che i loro denti sbatterono tra loro.

Nat si staccò di nuovo, i capelli scomposti e la bocca semiaperta. Quegli occhi carichi di desiderio lo trafissero come una lancia, paralizzandolo. La ragazza accennò con la testa alla capanna Undici, situata proprio accanto a loro. «Entra.»

«Ma… non posso entrare in una casa che…» 

Natalie affondò le dita nei suoi glutei, facendolo sobbalzare. Si spostò dietro di lui e si protese con le labbra al suo orecchio. «Ho detto entra.»

Il tono di voce di Edward salì di un paio di ottave, mentre un altro lungo brivido gli percorreva tutta la schiena. «… o-okay.»

Natalie sorrise di nuovo e lo prese per il polso, trascinandolo dentro.

«Woah!» riuscì a esclamare Edward, prima di ritrovarsi catapultato in quella casa dove pensava di non rimettere mai più piede.

   
 
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