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Autore: PerseoeAndromeda    31/05/2021    1 recensioni
Ed era quello che Eren non riusciva ad accettare, c’era una voce dentro di lui che gli parlava, che urlava fino a fargli sentire male al petto: se c’è qualcuno tra noi che deve vivere… vivere fino in fondo, fino alla fine di tutto… quello è Armin! Niente e nessuno dovrà strappare Armin a questo mondo!
[Fanfic partecipante alla challenge “You raised me up” del gruppo Hurt/Comfort Italia - Fanart and Fanfiction - GRUPPO NUOVO]
Genere: Drammatico, Guerra, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Armin Arlart, Eren Jaeger, Jean Kirshtein, Keith Shadis, Reiner Braun
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Fanfic partecipante alla challenge “You raised me up” del gruppo Hurt/Comfort Italia - Fanart and Fanfiction - GRUPPO NUOVO
 
Fandom: Attack on titan
Autrice: PerseoeAndromeda – Heatherchan
Titolo e prompt: Debolezza
3frasific scelta: Eren imprecò quando vide Armin barcollare in seguito all’allenamento massacrante e abbandonò la propria postazione per raggiungerlo, un attimo prima che crollasse a terra.
Si inginocchiò tenendolo stretto, gli occhi fissi sul viso impregnato di sudore e polvere, la carnagione pallida arrossata dal sole e dalla fatica.
Scostò con delicatezza la frangia dorata dalla fronte e gemette di frustrazione:
«Scotti per la febbre… di nuovo. Ma perché sei un tale testone, Armin? Perché non sei scappato? Vorrei così tanto saperti al sicuro».
Personaggi: Armin, Eren, Keith Shadis, comparse di Jean, Reiner, Mikasa, Connie, Sasha
Generi: Hurt/Comfort sullo sfondo di uno scenario di guerra (reclute, addestramenti, cadetti e cose varie XD)
Rating: giallo
 
 
DEBOLEZZA
 
Al sorgere di ogni nuova alba, quando tutti loro dovevano uscire dal letto e dare il via ad un’altra giornata di massacranti addestramenti, Eren rimproverava se stesso per non avere insistito, nel momento in cui Armin aveva esposto la propria decisione di arruolarsi.
Se avesse potuto tornare indietro gli si sarebbe messo davanti, gli avrebbe posato le mani sulle spalle e lo avrebbe fissato, con i suoi occhi che da sempre avevano un ascendente come nessun altro sul piccolo amico, poi glielo avrebbe ordinato:
“No, Armin… tu no! Non entrerai nell’esercito, tu ti terrai fuori da tutta questa storia, tu rimarrai al sicuro!”.
Invece non l’aveva fatto.
Armin sembrava così deciso, la sua volontà così ferrea, gli era apparso così coraggioso…
Che diritto aveva, lui, di dirgli che non poteva, che era troppo debole, che…
Che avrebbe fallito?
Era per amore che non glielo aveva impedito, quindi? Perché temeva di ferirlo?
O perché, in alcuni momenti, Armin gli sembrava tanto più grande e maturo di lui?
O perché non voleva lasciarlo indietro, perché sapeva che Armin detestava il pensiero di essere lasciato indietro.
O, più semplicemente, perché al sicuro non ci sarebbe stato comunque: era completamente solo, come lui e Mikasa, non aveva più nessuno al mondo e se anche loro lo avessero lasciato, quella sua solitudine lo avrebbe fatto stare tanto male.
“E avrebbe fatto stare male me” si disse Eren. “La verità è che anche io lo voglio al mio fianco… sono egoista, perché lo voglio con me”.
Erano questi i suoi pensieri, mentre si vestiva per uscire, lasciando che i suoi occhi scrutassero il compagno poco distante.
Quella notte Armin gli si era appiccicato più del solito.
Erano vicini di letto, capitava spesso che si stringessero l’uno all’altro, lo avevano fatto anche quando erano fuggiti da Shiganshina e avevano vissuto da profughi.
Ma quella notte non era stata bella per Armin. Eren lo aveva sentito lamentarsi nel sonno ed era strisciato un po’ più vicino a lui, pronto a dargli conforto, sia che si trattasse di un momento di tristezza, che di qualche incubo spaventoso.
Invece era stato Armin, dopo aver percepito la sua presenza, ad accoccolarglisi addosso, facendosi così piccolo contro di lui che Eren poté avvolgerlo tutto nel proprio abbraccio. Lo aveva sentito tremare e gli aveva sussurrato qualche parola di conforto, gli aveva massaggiato la schiena e baciato la nuca: non c’era niente di sconveniente in simili gesti, tra loro, erano sempre stati naturali, spontanei ed entrambi ne avevano un bisogno estremo.
Armin si era calmato, ma anche per Eren era stato bello, si era sentito bene nel tenerlo così stretto a sé.
Giunto il momento del risveglio, però, era stato colto da quest’urgenza di non perderlo d’occhio, quasi sentisse che il piccolo amico si trovava in un momento delicato e Eren si sentiva più che mai titubante al pensiero di separarsi da lui, quella mattina.
Gli addestramenti tra i cadetti erano spesso differenziati, non sempre potevano stare fianco a fianco e questo, ad Eren, non piaceva, non gli piaceva mai quando le circostanze gli impedivano di mantenere il controllo sulle due persone che per lui contavano di più al mondo.
In realtà, nel caso di Mikasa era un po’ diverso: era lei stessa così ossessiva nei suoi confronti, così presa dalla brama di proteggerlo, che Eren, spesso, cercava di sgusciare via dalle sue attenzioni.
Ma Armin, sempre così discreto, Armin che dava l’idea di volersi staccare da loro per dimostrare che se la sarebbe cavata, ma che in realtà era così fragile e spesso indifeso, stimolava al contrario, in lui, un istinto di protezione tale che lo faceva a tratti sentire in colpa.
Si arrabbiava con Mikasa, per la sua ossessione.
Ma lui non faceva esattamente la stessa cosa, con Armin?
Forse per questo si tratteneva, faceva finta di nulla e lo lasciava andare, suo malgrado, tentava di non pensarci, ma gli era davvero difficile a volte.
Quando ebbe finito di vestirsi si avvicinò al compagno che, invece, era più lento del solito: Eren aveva la sensazione che barcollasse un po’ mentre indossava i pantaloni e, nel tirarseli in vita, cadde all’indietro, ritrovandosi seduto sul letto.
«Armin» lo chiamò.
Il ragazzino arrossì quando si rese conto che l’amico non aveva mai smesso di osservarlo, il suo volto si tenne basso e rispose, come se volesse minimizzare ogni cosa, con ostentato disinteresse:
«Mi sono diventati stretti… forse sono un po’ ingrassato».
Eren fece una smorfia, a metà strada tra la tentazione di ridere e quella di strillargli contro: Armin era sempre stato minuto, di costituzione delicata, nei periodi più difficili perdeva l’appetito e rasentava il sottopeso. E ad Eren sembrava, piuttosto, uno di quei periodi. Non gli era sfuggito che a cena non aveva mangiato quasi nulla.
Non gli aveva detto niente: tra loro due c’era sempre stato un accordo di reciproca fiducia, che li rendeva discreti l’uno nei confronti dell’altro, il timore che Eren aveva di umiliare Armin e mettere a nudo le sue debolezze, spesso superava il bisogno di proteggerlo.
Ma quel mattino non riuscì a tacere:
«Non dire scemenze, ho visto benissimo che hai perso l’equilibrio e non è per i pantaloni stretti».
Il rossore di Armin si accentuò, la testa si rifugiò tra le spalle.
«Sono ancora un po’ assonnato» borbottò.
Eren gli si sedette vicino, le spalle si toccavano e tentò di accostare i loro visi, per poter scorgere meglio quello di Armin, che cercava di nascondersi.
«Non hai avuto una bella notte».
Quelle parole provocarono un sussulto nel ragazzino biondo, sembrò che solo in quel momento un barlume di ricordo si affacciasse alla sua memoria e Eren vide i suoi occhi, grandi e persino spaventati, fissi nei suoi:
«Mi dispiace… non ti ho lasciato dormire!».
«Io ho dormito benissimo!» esclamò Eren con convinzione. Era vero, d’altronde, lui era stato proprio bene.
Armin si rimise in piedi, si sistemò i pantaloni e, ancora a petto nudo, ebbe un evidente brivido, che lo spinse a stringere le braccia al petto.
«Hai freddo? Com’è possibile? Non fa freddo».
«Lo sai che sono freddoloso!» sbottò Armin con un moto di impazienza e Eren temette di essersi spinto troppo oltre con le proprie preoccupazioni.
Eppure, era più forte di lui, Armin non sembrava in forma, la sua salute cagionevole faceva spesso brutti scherzi e adesso stava tirando su col naso: si chiese come fosse possibile che fosse sempre raffreddato, con quel naso sempre rosso, irritato e prossimo allo starnuto.
«Ti ho sentito tossire stanotte».
Era vero…
Non tanto, ma Armin aveva starnutito due o tre volte e aveva dato qualche colpetto di tosse, segno che era prossimo ad una nuova infreddatura e ad un nuovo crollo fisico.
Il ragazzino sbuffò, forse fu anche sul punto di dare una rispostaccia, ma in quel momento Jean e Reiner si affacciarono sulla soglia del dormitorio.
«Allora, ci siete?» esordì Jean.
«Armin» gli fece eco Reiner «devi ancora finire di vestirti? L’istruttore sta perdendo la pazienza, mancate solo voi due! Preparatevi ad una punizione se tardate ancora un po’!».
«Scusate!» scattò Armin.
In evidente disagio per essere stato colto in fallo, si alzò con troppa fretta e Eren, che lo seguiva con gli occhi, non ebbe dubbi nel momento in cui lo vide ancora barcollare: non si trattava solo di stanchezza e mancanza di sonno, Armin non stava affatto bene.
Fu tentato di chiedergli se avesse bisogno di una mano mentre terminava di indossare la divisa ed allacciare le numerose cinghie che completavano l’equipaggiamento, ma temeva che, a quel punto, Armin non l’avrebbe presa bene: lo aveva fatto innervosire abbastanza.
«Vai avanti Eren, io arrivo!».
Il tono non ammetteva ulteriori intromissioni e Eren sospirò rassegnato:
«Ti aspetto fuori».
«Non ce n’è bisogno, vai a fare colazione, io vi raggiungo».
In tutto questo, l’amico non lo degnava di uno sguardo: Eren lo conosceva abbastanza bene da sapere che si trattava di una fuga, del tentativo di nascondersi e non destare attenzione.
Rimase qualche istante a fissare la sua schiena che si muoveva con lentezza, le mani che tremavano mentre sistemavano le fibbie, sbagliando più volte i fori.
Si chiese cosa avrebbe dovuto fare.
Insistere?
Dargli ascolto?
Non era sempre facile capire quale fosse l’approccio giusto con Armin, aveva una sensibilità spiccata e a volte volubile, si correva facilmente il rischio di farlo stare peggio e favorire il suo senso di inadeguatezza.
Scosse il capo, sospirò ancora e si decise a oltrepassare la soglia del dormitorio, chiudendosi la porta alle spalle, non prima di aver lanciato all’amico un’ultima, ansiosa occhiata, che il piccolo cadetto si guardò bene dal ricambiare.
 
***
 
Lo aspettò invano a colazione.
Anche i compagni si preoccuparono e riempirono Eren di domande.
«È successo qualcosa tra te e Armin?» fu il primo sospetto insinuato da Jean. «Avete litigato?».
«Ma va!».
Eren sbottò senza rendersi conto dell’incredulità che aveva infuso in quell’esclamazione.
«Chi? Eren e Armin? Ma quando mai?».
Connie… l’ingenua voce della verità.
«Armin aveva qualcosa di strano, comunque, me ne sono accorto mentre gli dicevo di sbrigarsi» rifletté Reiner, poi portò il proprio sguardo su Eren. «Per caso non stava bene? Ho notato che avete dormito vicini stanotte».
Suo malgrado, Eren arrossì, senza neanche capire il perché. Certo che aveva dormito vicino ad Armin, era normale, lo facevano spesso, ma le battutine dei compagni riguardo questa loro abitudine, a volte, li mettevano entrambi a disagio.
Si chiede cosa avrebbe dovuto rispondere.
Armin cosa avrebbe preferito? Che tacesse e minimizzasse?
E cosa sarebbe stato giusto fare per il suo bene?
Prima che potesse formulare una frase sensata, l’istruttore si affacciò per richiamarli all’ordine e per far notare quanto la colazione si stesse protraendo più del necessario.
Tutti scattarono in piedi in un istante.
Solo Sasha dovette farsi trascinare da Connie: era irresistibilmente attratta da una pagnotta lasciata incustodita su uno dei tavoli.
Ma il terrore che le incuteva Keith Shadis era in grado di superare l’amore per il cibo, così finì anche lei per catapultarsi fuori e per mettersi in riga insieme agli altri.
Gli occhi di Eren vagarono alla ricerca di Armin: non si era presentato nella sala mensa, ma sperava che almeno fosse uscito dal dormitorio, anche se il fatto che non avesse mangiato nulla non lo rendeva affatto tranquillo.
«Vedrai che arriva».
Mikasa cercava di rassicuralo, ma non era meno inquieta: anche il suo sguardo si spostava da una parte all’altra e si illuminò di sollievo quando poté posarsi sul ragazzino biondo che stava giungendo di corsa.
Era accaldato e sudato ma, sotto al rossore delle gote, si intravvedeva un pallore che non trasmetteva nulla di buono.
«Il cadetto Arlert è stato più sollecito di tutti voi oggi e ha già terminato alcuni giri di corsa, mentre voi perdevate tempo a gozzovigliare».
Le parole di Shadis fecero sussultare Eren, che fissò Armin con espressione quasi sgomenta, mentre intorno si levavano mormorii e anche qualche incredula risatina.
Dal canto suo, il minuto cadetto era rimasto immobile, al suo posto, sull’attenti e lo sguardo puntato davanti a sé, risoluto, con l’evidente intento di darsi un tono, ma sia Eren che Mikasa, e anche qualcuno tra i cadetti che conoscevano bene Armin, non si lasciarono ingannare: quando il ragazzino si comportava in modi così bizzarri e poco da lui, significava che nascondeva qualcosa, o che mentiva a tutti e a se stesso.
Eren avrebbe voluto dargli una gomitata e sussurrargli in un orecchio cosa gli stesse accadendo, ma Armin sembrava essersi studiato bene anche il modo di tenersi lontano da lui il più possibile: si era messo in riga tra compagni con i quali non aveva un rapporto strettissimo e Eren fece una smorfia, riflettendo su quanto sapesse essere subdolo il suo amico quando voleva fare di testa sua.
E, in quel caso, aveva chiaramente deciso di sottrarsi ad ogni possibile attenzione o preoccupazione di tutti coloro che tenevano più a lui, visto che il suo stato precario non riusciva a nasconderlo del tutto neanche con il suo atteggiamento orgoglioso.
Eren soffocò a malapena un ringhio, mentre stringeva i pugni senza riuscire a togliergli gli occhi di dosso, tanto che alla fine Armin non poté non accorgersene. Ma la sua reazione fece infuriare il ragazzo dagli occhi verdi ancora di più: lo vide distogliere lo sguardo da lui, senza neanche un cenno, senza un sorriso, senza un saluto.
«Merda, Armin, sei odioso quando fai così!».
Non si era accorto che la sua frustrazione si era mutata in un sussurro tra i denti e, ancor meno, si era accorto che l’istruttore si era fermato proprio davanti a lui, le mani intrecciate dietro la schiena e lo sovrastava con l’espressione più truce:
«Qualcosa non va, Yeager?».
Eren ebbe un brivido, cercò di sostenere lo sguardo, aprì la bocca, ma uscì un solo balbettio confuso: non che fosse particolarmente intimidito, ma davvero non sapeva cosa dire, era stupito da se stesso e dal modo in cui Armin gli facesse perdere il controllo persino sulla propria volontà.
«Devi dire qualcosa a qualcuno?» continuò Shadis, implacabile.
Certo che doveva dire qualcosa a qualcuno.
Doveva andare da Armin, prenderlo di forza e riportarlo a letto, ma certo non era quello che poteva affermare così, davanti a tutti.
Perciò abbassò gli occhi e mormorò, appena udibile:
«Mi scusi… ero distratto».
«Già, vedo».
Mikasa seguiva la scena senza nascondere una certa irrequietudine e qualche cadetto si lasciò di nuovo andare a risate sotto i baffi. Altri sbiancarono, aspettandosi chissà quale mostruosa punizione sarebbe piombata addosso al povero Eren e tra questi c’era Armin, ora in preda ad un evidente senso di colpa.
Invece, Shadis si limitò a grugnire qualcosa, poi passò oltre, permettendo ai muscoli del ragazzo di rilassarsi, in virtù del sospiro di sollievo che gli uscì dai polmoni.
Seguì una descrizione dettagliata della tipologia di addestramento che si sarebbe svolto quella mattina.
Le esercitazioni prevedevano una divisione in gruppi ed Eren sperò ardentemente che sarebbe capitato nel medesimo gruppo di Armin: più l’occhio cadeva sull’amico, più gli sembrava evidente che le sue condizioni stessero peggiorando.
Lo aveva anche sentito starnutire, tossire, lo aveva visto barcollare, passarsi la mano sulla fronte come a cacciare una stanchezza sempre più ingestibile, vedeva il naso arrossarsi sempre di più e gocciolare senza sosta. E quella mano, dalla fronte scendeva a strofinarselo, un gesto che lo rendeva così simile a un bambino piccolo che Eren faticava sempre di più a resistere. Il bisogno di avvicinarsi a lui, di aiutarlo, sostenerlo, risparmiargli la durezza delle loro giornate, almeno finché non si fosse ripreso, diventava prioritario.
Ma gli andò male.
Shadis aveva organizzato una seduta d’addestramento speciale per le reclute meno dotate, ovvero tutti coloro che avevano sempre ottenuto risultati pessimi o scarsi quando si era trattato di mettere alla prova la propria prestanza e le proprie abilità pratiche sul campo: purtroppo Armin era tra questi.
Eren non si arrese e tentò un approccio con l’istruttore, ponendoglisi davanti proprio mentre questi stava illustrando le prove che avrebbero caratterizzato l’addestramento speciale.
«Signore, permette?».
L’uomo interruppe di botto le proprie spiegazioni e, a bocca ancora aperta, abbassò il volto, squadrando il ragazzino dall’alto della sua statura: pareva chiedersi se davvero il moccioso avesse osato interromperlo in quel modo.
«Yaeger?» sputò fuori poi, con tono che avrebbe fatto tremare chiunque, ma che non fece indietreggiare neanche di un passo lo spavaldo cadetto di Shiganshina.
Anzi, Eren si erse più che poté, quasi in punta di piedi per non sfigurare del tutto e, con coraggio, ma senza dimenticare il rispetto, espresse il suo desiderio:
«Signore, io… credo di dovermi allenare con i cadetti più deboli oggi, non sono concentrato, gli ultimi giorni sono stato distratto…».
Gli sembrò di sentire su di sé gli occhi sgranati di Armin e non si sbagliava: il piccolo amico lo fissava con uno stupore che conteneva un sacco di emozioni contrastanti, che andavano dall’imbarazzo, al nervosismo, alla gratitudine più autentica.
«Yaeger» si levò la voce di Shadis, così calma da trasmettere gelo e risultare ancor più terrorizzante.
Persino Eren non poté impedirsi un tremito e il suo tono si fece più incerto:
«S-sì… signore…».
«Ti ordino di raggiungere la tua postazione. Non tra un minuto, non tra dieci secondi, non tra tre…». L’istruttore si fermò un istante, quel che gli bastò per prendere fiato e alzare il volume di qualche tonalità: «BENSI’ ORA, YEAGER, IMMEDIATAMENTE, SPARISCI DALLA MIA VISTA NELL’ARCO DI UN MIO BATTITTO DI CIGLIA. SE ALLA FINE DI QUESTO BATTITO SARAI ANCORA QUI…».
Ammutolì nel vedere Armin staccarsi dal gruppo, raggiungere Eren e posargli le piccole mani sulla schiena, per spingerlo via più in fretta che poteva, ignorandone del tutto le proteste.
In quel momento, più di un cadetto giurò di aver scorto l’ombra di un sorriso sulle labbra dell’istruttore, subito nascosto dal pugno che si portò alla bocca con la scusa di arginare un colpo di tosse.
«Armin, che diavolo…» fece ancora in tempo a sibilare Eren, cercando di voltarsi per sottrarsi alle grinfie dell’amico che stava immettendo, nello spingerlo via, una forza impensabile nel suo corpicino quasi etereo.
«Obbedisci all’istruttore e sparisci o ci farai punire tutti! Avrò già una giornata difficile e non ho nessuna intenzione di dover affrontare un Keith Shadis nervoso perché tu hai deciso di essere indisciplinato!».
«Di essere…» sbottò Eren girando su se stesso e strappandosi a quelle infide, minuscole mani.
Interruppe tuttavia la protesta sul nascere, consapevole che avrebbe peggiorato la situazione, che avrebbe attirato su di loro le attenzioni non solo dell’istruttore, ma di altri superiori e di fin troppi cadetti, che quello che stava dando non era certo uno spettacolo edificante.
Avrebbe voluto gridare ad Armin che si comportava così perché era preoccupato per lui, perché vedeva che non stava bene e avrebbe desiderato che la smettesse di negarlo a lui e a se stesso.
Invece si limitò a sbuffare e a ringhiare un rassegnato “va bene!” prima di girare i tacchi e allontanarsi verso la sua postazione.
 
***
 
Eren provò con tutto se stesso a concentrarsi, a lasciarsi trascinare dall’impeto e dall’adrenalina della lotta corpo a corpo e a non pensare ad altro.
Ma lo sguardo continuava a fuggire in direzione del gruppo sottoposto all’addestramento speciale.
Shadis non aveva risparmiato nessuno dei più fragili, sembrava che quel giorno si fosse messo in testa di farli crollare definitivamente o forse, sperava Eren, tutta quella durezza era per capire fin dove avrebbero potuto spingersi, fin dove i loro corpi, poco propensi alle attività fisiche, avrebbero loro permesso di resistere in caso di pericolo… lo faceva per il loro bene… questo sperava Eren.
Eppure, non poteva esimersi dal provare rabbia nei confronti dell’istruttore mentre vedeva Armin correre, sulle sue piccole gambe, con sempre più fatica, senza che gli venisse permesso di fermarsi e riposare, con sulle spalle uno zaino più pesante di lui.
«Eren, non ti distrarre!».
Schivò all’ultimo momento il pugno di Reiner… o, più probabilmente, all’ultimo momento Reiner evitò di colpirlo.
«Scusa» borbottò.
«Oggi non c’è gusto» brontolò Reiner. «Sei da un’altra parte e io so benissimo dove».
Eren arrossì e lo guardò in tralice, cercando di cogliere, nell’espressione enigmatica del compagno più anziano, cosa stesse pensando.
Si stupì nel vedere che anche gli occhi di Reiner puntarono lontano, verso l’altro gruppo, le mani che si posarono sui fianchi:
«Sono preoccupato anch’io a dire il vero. Armin è strano da ieri sera».
Eren sospirò. Trovare in Reiner un appoggio nella sua preoccupazione gli dava un senso di sollievo:
«Però è un testone, non vuole…».
«Il tuo aiuto… né quello di nessuno. È evidente, vero?».
Eren abbassò il capo e si morse le labbra:
«Io lo capisco… ma…».
La mano di Reiner si posò sulla sua spalla e la strinse con fare incoraggiante:
«Lo so, è frustrante. Armin riesce ad essere tanto fragile e tanto forte al tempo stesso che non si sa come comportarsi con lui a volte… ma… sai…».
Eren sollevò il viso a guardarlo.
Reiner invece guardava ancora davanti a sé, probabilmente stava ancora tenendo d’occhio Armin:
«È solo senso del dovere il suo, il bisogno di dimostrare a se stesso che può non dipendere da nessuno».
Alcune parole dette da Armin quando aveva comunicato a lui e Mikasa la decisione di arruolarsi gli balenarono nella mente:
“Morirò prima di essere un peso”.
Deglutì e il cuore gli balzò in gola, perché sapeva perfettamente che quelle parole erano impregnate di realtà: prima di chiedere aiuto, Armin si sarebbe lasciato morire.
Ed era quello che Eren non riusciva ad accettare, c’era una voce dentro di lui che gli parlava, che urlava fino a fargli sentire male al petto: se c’è qualcuno tra noi che deve vivere… vivere fino in fondo, fino alla fine di tutto… quello è Armin! Niente e nessuno dovrà strappare Armin a questo mondo!
Si voltò di scatto, conscio che non lo avrebbe permesso, non avrebbe mai potuto permetterlo.
Poté così rendersi conto che la risoluzione definitiva era giunta appena in tempo.
Eren imprecò quando vide Armin barcollare in seguito all’allenamento massacrante e abbandonò la propria postazione per raggiungerlo, un attimo prima che crollasse a terra.
Si inginocchiò tenendolo stretto, gli occhi fissi sul viso impregnato di sudore e polvere, la carnagione pallida arrossata dal sole e dalla fatica.
Scostò con delicatezza la frangia dorata dalla fronte e gemette di frustrazione:
«Scotti per la febbre… di nuovo. Ma perché sei un tale testone, Armin? Perché non sei scappato? Vorrei così tanto saperti al sicuro».
«E… ren… scappare… non… non posso».
Non lo mandò via questa volta, ma la risoluzione a non arrendersi, evidentemente, non era affatto svanita.
Shadis torreggiò sopra di loro e Eren temette che sarebbe giunto un tonante rimprovero e l’imposizione a tornare ciascuno al proprio posto.
Invece l’istruttore si chinò e liberò la schiena di Armin dal pesante bagaglio.
«Non mi ero accorto della febbre così alta, è stato fin troppo bravo».
Il cuore di Eren prese a martellare con più forza, in un impeto d’orgoglio, le sue braccia si strinsero protettive intorno al piccolo tremante.
«Certo che è bravo» prese a dire, con voce rotta da un’emozione che non sarebbe stata altrettanto intensa se il complimento fosse stato rivolto a lui. «È il più bravo e il più coraggioso del mondo».
Lo sentì tremare nella sua stretta e, quando si abbassò a guardarlo, vide quegli occhi tanto azzurri e tanto lucidi, proprio come spesso aveva immaginato il mare e come il cielo non riusciva ad essere.
Anche se adesso era la febbre a renderli tanto lucidi e le lacrime di commozione che il piccolo stava versando.
Le mani di Armin, minuscole e tremanti, scivolarono sul petto di Eren e si aggrapparono alla sua divisa, poi gli occhi si chiusero e il viso scomparve nell’abbraccio, lasciando a suo ricordo solo la visione del caschetto biondo ora arruffato per il sudore.
«Portalo a letto, Yaeger. Oggi è esonerato dall’addestramento… e lo sei anche tu, so che tanto non combineresti niente di buono».
Eren ringraziò, il suo sguardo si fece dolce, così come il sorriso, ma non li rivolse all’istruttore, bensì a quel caschetto biondo e a quelle minuscole mani che si aggrappavano a lui.
   
 
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