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Autore: NPC_Stories    05/06/2021    4 recensioni
Sequel di "Vampier's Diaries - Libro primo: la mia morte"
.
Sono sempre io, Erika Lesmiere, l'adorabile ragazza che avrebbe dovuto avere davanti a sé un brillante futuro. Avrei potuto fare una vita da nobildonna, o intraprendere una carriera militare, oppure avrei potuto ribellarmi alle tradizioni della mia famiglia e scegliere un percorso accademico come alchimista.
E invece no, mai una gioia. Mi sono ritrovata a diventare un vampiro.
Ma forse anche la non-vita mi riservava qualche sorpresa, dopo tutto. Forse finché siamo al mondo possiamo sempre trovare un po' di felicità.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Forgotten stories of the Forgotten Realms'
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Capitolo 8: La prima volta in cui vidi la morte (dopo la mia)


Vorrei davvero non dover raccontare di quella mia prima sessione di esami. Ci sono ricordi che sono dolorosi da affrontare, ma che senso ha tirarsi indietro dopo aver narrato la mia stessa morte? Nulla può essere peggio, no?
, questo è vero. Ma è anche il fulcro del problema.
Per poter spiegare da cosa nasce il mio disagio nel narrare questo evento, devo partire dal principio.

All’epoca, nei miei primi mesi di libertà, mi sembrava di esistere in una specie di terra di mezzo a metà fra la vita e la morte; ero innegabilmente morta, ma la mia esistenza procedeva quasi come se fossi stata viva. Ero una vampier molto più debole di quanto non lo sia adesso, perché il tempo che passa rende i non morti più potenti, più alieni. Non che i secoli abbiano radicalmente mutato la mia natura, ma all’epoca non rischiavo di spaccare una porta bussando, o di soggiogare la mente di qualcuno solo facendogli un sorriso. Ero una sorta di… umana con un qualcosa in più, l’immortalità, e con un qualcosa in meno, le funzioni corporali.
Non mentirò: era una ficata, come dicono i giovani d’oggi. La mia vita - se così posso chiamarla - la mia vita a Silverymoon era una vera ficata. Sì, c’era la preoccupazione per gli esami. C’era il timore che Yao Taman venisse a cercarmi, anche se i mesi passavano e io ero sempre più convinta che mi avesse data per morta. C’era mio zio che rompeva i cosiddetti, ma avevo sedici anni di allenamento nel tenerlo a bada. Dall’altra parte, c’era una quotidianità idilliaca fatta di libertà, studi interessanti e buone compagnie. O meglio, compagnia. Terrence era il mio unico amico, ma mi bastava.
Ricordo che a volte in pausa pranzo andavamo a studiare sulla sponda sud del fiume Rauvin, che oggi è urbanizzata quanto la sponda nord ma all’epoca ospitava solo qualche fattoria e un largo spiazzo per le carovane. C’era un bel prato incolto che digradava verso il fiume a destra e a sinistra del Ponte della Luna, dove oggi ci sono case e negozi. Molti studenti vi si recavano a studiare nelle belle giornate di sole e alcune madri portavano lì le loro nidiate di bambini per farli giocare. Il sole a picco sulla testa mi faceva sentire fiacca e debole, la vicinanza del fiume mi causava una sorta di nausea per l’inquietudine (noi creature vampiriche non andiamo d’accordo con l’acqua corrente), e quindi finivo sempre per addormentarmi, stremata, ma tranquilla che Terrence mi sarebbe rimasto accanto. Lui mi prendeva in giro dicendo che studiare all’aperto per me voleva dire non studiare affatto, ma io ci tenevo a fare quel tipo di cose da persona normale. Mi faceva sentire più umana. Percepivo già una sufficiente distanza dai viventi, provavo fastidio davanti ai loro sciocchi problemi e agli affanni delle loro vite brevi; non volevo che quella distanza aumentasse ancora.
Come nota a margine, avevo fatto pace con l’amica stupida di Terrence, più o meno. La prostituta bionda, che io sia dannata se ricorderò mai il suo nome. Si era messa in testa di essermi grata per averle diagnosticato il cancro con tanta precisione, e non le importava che rispondessi con freddezza ai suoi tentativi di fare amicizia: secondo lei il mio atteggiamento burbero era carino, mi chiamava piccoletta e ogni tanto mi portava del pane fresco o una torta.
Io non…
Boh.
Onestamente non so cosa dire. Era così e basta. Non volevo stare a spiegarle che non potevo mangiare il suo cibo, non potevo certo dire ‘niente di personale, ma io mi nutro di sangue’. Finivo sempre per regalare a qualcun altro le cose che lei mi portava, e se c’è una cosa che ho imparato in quel periodo, è che gli studenti universitari hanno sempre fame.

“Ti senti pronta per gli esami di domani?” Mi chiese Terrence un pomeriggio, a bassa voce perché eravamo in biblioteca.
Quel giorno non eravamo usciti a studiare all’aperto: pioveva, una pioggia leggera e insistente di inizio primavera. Il mythal che governa il clima di Silverymoon mantiene la temperatura mite e protegge la città dal ghiaccio e dalla neve, ma non dalla pioggia.
“Pronta per quanto posso esserlo… boh, diciamo di sì.”
“Brava. Un ultimo ripasso?” Propose, battendo la mano sulla pila di tomi che avevo appena chiuso.
“Ngk!” Mi uscì un verso strozzato davanti a quella prospettiva desolante.
Insomma, una vita quasi del tutto normale.

Il giorno dopo arrivò, perché il tempo è implacabile nel suo procedere sempre in avanti. Pronta o no, eccomi alla mia prima sessione d’esame.
Mi ero impegnata davvero, davvero, davvero a fondo nello studio. Mi ero esercitata. Avevo imparato a padroneggiare l’arte complessa dell’alchimia di base, che consiste soprattutto nel capire le temperature. Può sembrare una cosa sciocca, ma mantenere la giusta temperatura quando si scalda un composto è vitale, come anche accorgersi se una reazione chimica sta causando spontaneamente un surriscaldamento del composto. Questo era il mio grande ostacolo, in realtà: il mio senso del tatto non era completamente affidabile. Non lo è nemmeno ora.
Il problema è che i vampiri non amano il fuoco, eppure non sentono il dolore nello stesso modo in cui lo sentono gli umani. In alcuni casi avevo la sensazione che i miei preparati arrivassero alla temperatura giusta prima di quanto facessero in realtà, quindi restavano troppo freddi, oppure quando dovevano arrivare a temperature molto alte non ero in grado di cogliere la differenza fra ‘è caldo’ e ‘scotta’, perché la sensazione di calore non diventava immediatamente dolore, quindi i miei composti diventavano troppo caldi.
Al giorno d’oggi questi problemi sono superati grazie a invenzioni moderne come i termometri ad alcol, ma cinquecento anni fa eravamo praticamente all’età della pietra sotto questo aspetto: si doveva toccare con mano la superficie esterna del contenitore in cui si stava lavorando, e ricordare a memoria sulla base dell’esperienza che cosa significasse quella sensazione tattile, tenendo conto del materiale del contenitore e del suo spessore. Una caraffa di vetro ovviamente non conduceva il calore nello stesso modo di un calderone in peltro. Un alchimista sviluppava presto un eccellente senso del tatto e un’ancor più eccellente memoria, oppure prima o poi moriva in un tragico incidente.
Io mi ero esercitata. Ancora e ancora e ancora. Avevo anche memorizzato altri dettagli, come il colore e la consistenza e perfino l’odore che i composti da preparare nel corso dell’esame avrebbero dovuto avere. Usare l’olfatto era una mia prerogativa, un mio privilegio, perché un normale umano si sarebbe fritto il cervello se ci avesse provato.
Insomma, per farla breve, in qualche modo riuscii a superare l’esame pratico che era quello che mi preoccupava di più. Non dico che lo superai con voti brillanti, ma almeno era fatta.
C’era un giovanotto che stava sostenendo l’esame nel banco di lavoro accanto al mio. Il suo nome era Francis, lo ricordo perché qualche settimana prima si era presentato facendo il piacione. Era un tipo… né alto né basso, né magro né grasso, né simpatico né antipatico. Ad oggi non lo ricorderei nemmeno, se non fosse per ciò che è successo quel giorno.
Sbagliò qualcosa, e il suo composto arrivò al bollore troppo rapidamente. Era ciò che in gergo viene definito ‘un errore invisibile’, che produce un effetto visivo minimo finché non è troppo tardi. Lui non se ne accorse, e nemmeno io, troppo presa dal mio esame. Non se ne accorse nemmeno l’assistente di laboratorio che ci controllava, perché era uno solo per una decina di studenti. Il composto di Francis era denso al punto giusto, e quando una grossa bolla d’aria causata dall’aumento rapido di temperatura si sviluppò sul fondo e risalì verso l’alto, quel denso acido gli spruzzò in faccia e sulle mani. O almeno, questa fu la ricostruzione dei Maestri. Non mi accorsi del problema finché Francis non cacciò un grido lancinante.
Ho ricordi confusi di quello che accadde in seguito. L’unica immagine che per molto tempo rimase ad aleggiare nella mia mente fu Francis che si girava verso di me, con la faccia mezza sciolta e con il suo unico occhio rimasto, lanciandomi uno sguardo colmo di dolore indicibile e del terrore ancestrale di un mortale che vede arrivare la morte. Nella mia mente quello sguardo è durato secoli, ma in realtà sarà stato meno di un paio di secondi, perché i guaritori non sono riusciti a salvarlo nemmeno con la magia.
Non ricordo cosa accadde in seguito. Immagino che fuggii dal laboratorio, ricordo che a un certo punto mi rintanai in un luogo chiuso, sentire le pareti contro la schiena e contro le braccia mi faceva sentire più al sicuro. L’immagine di Francis che moriva nella paura e nel dolore mi rimbombava nella mente. Mi veniva da vomitare, ma non avevo niente nello stomaco e quindi non potevo. Ero sconvolta, anzi peggio, ero isterica e non sapevo perché. Non era tanto… la morte in sé. Non era nemmeno la faccia sciolta. Gli incidenti capitano, è la prima cosa che ti insegnano nei corsi pratici di magia e alchimia.
Era… la vita che raggiunge la fine. La consapevolezza, e quindi la paura.
Non era la morte. Sono una vampier, sono oltre la morte. Potrei camminare su un mucchio di cadaveri e non m’importerebbe. I cadaveri non mi fanno schifo, sono come oggetti vuoti.
Era il momento della morte. Il momento in cui una persona diventava una cosa. Quella terribile, schiacciante, insopportabile ingiustizia.
Il momento in cui mio padre aveva smesso di essere mio padre, per diventare un cadavere sul pavimento. Il momento - il lunghissimo, terrificante, odioso momento - in cui io avevo sentito la vita scivolare via, e avevo sofferto e avevo avuto paura, una paura folle, che non sarei più esistita come Erika. Quando ero morta sapevo già che mi attendeva la non morte, ma credevo che non sarei stata più io, e comunque è una reazione istintiva per un vivo provare paura mentre il proprio corpo inizia a non reagire più come prima.
Che cosa doveva aver provato Francis… non avevo bisogno di chiedermelo, perché io lo sapevo. Lo sapevo. Che cosa doveva provare ogni uomo, ogni donna, ogni creatura senziente in fin di vita. Quella paura che rende tutti uguali almeno per un momento.

Rimasi a tremare e a piangere in uno sgabuzzino per le scope finché non mi trovò un inserviente, quella sera. Non riuscì a tirarmi fuori. Per qualche momento riuscì a farmi tornare lucida, ma poi mi accorsi che era un vecchio, pensai che presto sarebbe morto anche lui e caddi di nuovo in quel gorgo di paranoia.
Non erano… che odio, non erano sentimenti miei. Non era paura per me stessa. Io ero oltre la morte. Se fossi stata un vampiro vero non me ne sarebbe importato niente, sarei stata immune a questo tipo di reazioni. D’accordo, avevo subito un trauma, e allora? Tutti i vampiri devono essere morti per diventare vampiri, eppure succhiano il sangue fino a uccidere le vittime e non si fanno problemi.
Era di nuovo a causa del composto alchemico di mio padre? Quale tipo di predatore si identifica con le sue potenziali prede e rivive il suo trauma ogni volta che una di esse muore? Perché non ero immune ai colpi bassi della mia stessa mente?
Mi accorsi che l’inserviente se n’era andato e poi era tornato, quando sentii il rumore di qualcosa che viene poggiato a terra. Era una tazza di infuso.
Una maledetta tazza di infuso. La panacea per tutti i mali dello spirito, così credono gli umani. Avrei voluto rovesciarla a terra e gridargli di andarsene, eppure allo stesso tempo quell’atto di inutile gentilezza mi colpì moltissimo. Gli umani fanno sempre di queste cose. Piccoli gesti inutili che vogliono dire soltanto io sono vivo e lo sei anche tu, gesti che dimostrano un desiderio di comunità, di familiarità, gesti che servono solo a mettere una piccola pezza sulla annichilente paura della morte che accompagna ogni loro momento. Che cos’è un atto di gentilezza, se non l’espressione della speranza che qualcun altro ci mostri un giorno la stessa gentilezza? In certe situazioni estreme, un atto gentile può a tutti gli effetti allungarti la vita.
Eppure quel gesto, in tutta la sua sciocca inutilità, riuscì a commuovermi proprio perché era vacuo e umano. Mi stava trattando come un essere umano, in un momento in cui io mi sentivo esattamente così, debole come una di loro. Ma non pensavo di avere diritto a un trattamento da umana, io ero già oltre la morte, non partecipavo alla loro stessa lotta, alla loro stessa paura.
Oppure sì?
Ero davvero oltre la morte? Non potevo forse essere distrutta? Il fuoco di una fornace, un paletto nel cuore, la decapitazione… non mi avrebbero forse uccisa, tutte quelle cose?
“Non voglio morire” sussurrai, prima di potermi fermare.
L’anziano inserviente incrociò il mio sguardo. Nel buio non ero certa del colore dei suoi occhi, ma vi brillò una scintilla di comprensione.
“Nessuno vuole morire, signorina. Su, siete troppo giovane per pensare alla morte.” Mi tese la mano, per invitarmi a uscire.
Troppo giovane? Ah. Mi sarei messa a ridere. Avevo già più esperienza della morte rispetto a lui.
“Uh… è un problema se resto qui un altro po’?” Domandai, recuperando la tazza di infuso dal pavimento.
“Prendetevi il tempo che vi serve, signorina” concesse, con un sospiro. “Ma potreste passarmi quella scopa dietro di voi?”
In quel momento mi resi conto di quanto doveva essere imbarazzante la mia posizione; una studentessa, una nobile, rannicchiata in un ripostiglio delle scope. Eppure non c’era nessun giudizio nella voce del vecchio, come se avesse già visto altri nella mia stessa posizione, innumerevoli volte.

Nei giorni seguenti pensai di cercare quell’uomo per ringraziarlo. Era stato gentile con me, una cosa che non ho mai dato per scontata… ma poi decisi di non farlo. Affezionarsi agli umani è pericoloso: alla fine muoiono, e io non volevo mai più vedere la morte sul volto di qualcun altro, come uno specchio della mia stessa morte.
Nel tempo ho maturato una convinzione: è una fortuna per i non morti, il fatto che di solito si lascino alle spalle la loro psiche umana. Il punto è che non sono - non siamo - molto bravi a guarire dai nostri traumi. I fantasmi ne sanno qualcosa, intrappolati nelle loro ossessioni. Per noi morti, cambiare è così dannatamente difficile. E io mi trovo ancora in questo limbo della mente, dopo più di cinquecento anni; una morta che ha paura di morire, ancora piena di paure umane che però non posso affrontare nel modo in cui lo fanno gli umani. Sono come un malato che non può guarire. Ma una cosa, dagli umani, l’ho imparata: distrazione.
È la panacea che gli umani usano per tutto - insieme alle tisane - per proteggersi la mente da ogni paura: dalla semplice ansia per una scadenza alla più profonda angoscia per la morte. Distrazione, perché quando un problema è inevitabile e irrisolvibile allora tanto vale non pensarci. La loro scusa è che la vita è breve, e va vissuta appieno. La mia scusa è… non lo so. La mia scusa è solo che non voglio che la mia esistenza faccia schifo. Forse è poca cosa, è una motivazione poco nobile, ma è tutto quello che ho.
E forse fu quello, a spingermi ancora di più fra le braccia di Terrence: l'amore è la miglior distrazione, e io avevo bisogno di amare, più di quanto avessi bisogno di essere amata. Mi serviva per riempirmi la mente con qualcosa che non fosse paura. Mi serviva un'ossessione positiva per scongiurarne una negativa.

   
 
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