Quello
che sono
«Shhht.» la interruppe lui:
«Ora noi restiamo a guardare per un po', Echo.»
La più piccola tacque,
limitandosi ad annuire; azzardò a scostarsi dal biondo solo quando vide la
maniglia della porta abbassarsi, segno che Gilbert stava rientrando - dato che
quella era la camere dei due.
Vincent allentò la presa
sulla sua vita, permettendole di alzarsi dalle proprie gambe e sistemarsi
lateralmente mentre Gilbert, varcata la soglia, si richiudeva la porta alle
spalle.
Quando spostò lo sguardo
sulla stanza, incrociò quello di Vincent: le gambe accavallate l'una
sull'altra, un braccio poggiato sulla gamba, l'altro piegato a sorreggere il
volto.
Un sorriso quasi infantile
- così simile al primo che gli aveva rivolto, e a tutti gli altri a seguire - gli
increspava le labbra.
«Bentornato, fratello.» lo
salutò, il tono vellutato quasi. Gilbert sentì un leggero brivido, ma dissimulò
la cosa avvicinandosi e avanzando nella stanza con un: «Grazie.» poco più che
mormorato. Il biondo non si mosse, limitandosi ad osservare i movimenti del
maggiore.
«Eri a studiare, Gil?»
domandò, il tono curioso come quello di un bambino.
Il moro, avvicinatosi al
letto annuì, togliendo la giacca della divisa: «Ho avuto un recupero con
Wayne.» replicò. Vincent ridacchiò: «Non sei proprio bravo a dire le bugie,
Gil, proprio come quando eravamo piccoli. Wayne non dà ripetizioni.» gli fece
notare.
Gilbert lo guardò smarrito
per un attimo: «Puoi chiedere al professore, se non mi credi.» commentò
burbero.
Vincent si stiracchiò,
coprendo uno sbadiglio con la mano: «Non glielo chiederò. Io mi fido di te,
Gil.» disse, una contraddizione con l'appunto rivolto al fratello un attimo
prima.
Il maggiore alzò appena gli
occhi al soffitto, senza farsi vedere e sospirando piano. Vincent era sempre
così: non importava che fosse suo fratello o che lo conoscesse da anni; non lo
capiva, era imperscrutabile e questo a Gilbert non piaceva.
Non era mai piaciuto;
inquietante prima, scomodo poi. Terrificante, a volte.
«Gil, cosa c'è che non va?»
mormorò, molto più vicino senza che lui se ne fosse accorto, visto il tono di
voce ora alle proprie spalle.
Anche questa sua mania di
avvicinarsi silenziosamente senza motivo era una cosa a cui Gilbert non si
sarebbe mai abituato. Si voltò bruscamente, già bofonchiando un
"niente" quando sentì che la propria mano era stata fermata vicino al
fianco da quella del fratello.
Lo osservò confuso, senza
capire, mentre Vincent portava la mano libera all'altezza del colletto della
camicia del maggiore: «Vince, cosa...?»
«Gil, è davvero un bene per
te avvicinarti di nuovo ai Bezarius?» sussurrò, il tono sottile che quasi si
insinuava direttamente nella sua testa. Gilbert sgranò appena gli occhi,
portando la mano che non era tenuta dall'altro ad afferrare il polso che era
praticamente all'altezza del suo collo.
«Questo che significa,
Vince?!» sbottò, nel tono quasi il timore di scoprire l'ennesimo colpo di testa
del minore.
Non sarebbe stata
certamente la prima volta.
Il biondo sorrise, pacato;
lo conosceva, quel modo di sorridere rivolgendo lo sguardo a lui, Gilbert.
Vide il viso del fratello
avvicinarsi impercettibilmente e, per riflesso, allentò la presa sul suo polso:
l'altro non raggiunse mai il volto del moro. Semplicemente, prese il nastro
della divisa tenuto sotto il colletto della camicia e lo tirò appena,
sciogliendo il nodo.
«Non significa nulla,
Gilbert. Solo, mi preoccupo per te.» replicò con naturalezza, allontanandosi da
lui e lasciandogli la mano.
Tirò appena su il nastro
che gli aveva tolto, come per segnalargli l'unico vero motivo dei suoi
movimenti: «Dovresti fare un bagno Gil, sembri davvero teso.» aggiunse poi.
Malgrado il tono non fosse
di scherno, Gilbert non poté fare a meno di sentirsi come se per l'ennesima
volta Vincent si fosse preso gioco di lui.
Echo era uscita dalla
stanza silenziosamente già da prima.
Occhieggiò il corridoio per
essere sicuro che non fosse troppo trafficato. Se non altro, la scelta di
tornare in dormitorio prima di cena era stata abbastanza sensata: solitamente
gli altri studenti approfittavano del pomeriggio - quando non avevano lezioni
di Musica o ripetizioni - per studiare o rilassarsi in giardino finché c'era
bel tempo.
Sospirò appena, facendo
capolino con la testa nel corridoio e percorrendolo per un po' fino a
raggiungere la porta della sua stanza.
L'aprì, scivolando nella
camera e richiudendo subito l'uscio alle proprie spalle; si poggiò contro la
superficie lignea con un sospiro lento, sollevato.
«Noah?»
...Ecco. Oz in camera era
un'eventualità che non aveva effettivamente preso in considerazione.
Alzò appena la testa,
cercando il biondo con lo sguardo ed individuandolo sul proprio letto:
probabilmente, fino ad un attimo prima era sdraiato, magari a riposare viste le
mani che facevano perno sul materasso per tenersi su.
«Scusami, riposavi?»
chiese, il tono con quel sottofondo divertito di sempre, solo appena più roco.
Lo sguardo abbastanza
allarmato di Oz gli suggerì che la penombra della stanza non aveva aiutato nel
suo intento di evitarsi delle domande sul suo stato. Il biondo, d'altra parte,
non era da biasimare: osservando con attenzione il viso di Noah, era stato
impossibile non notare il livido sullo zigomo sinistro che diventava lentamente
più evidente, né il sangue - seppure pochissimo - che usciva da labbro.
Decisamente malridotto.
«Che ti è successo?!»
chiese Oz, alzandosi del tutto e avvicinandosi al compagno, il tono e
l'espressione preoccupati. Noah abbozzò un sorrisetto: «Tranquillo, sto
bene...» borbottò.
Oz assunse un'aria fra
l'arrabbiato e quella sfumatura di preoccupazione di poco prima: «Come può
andare bene con la faccia in quello stato?!» gli fece notare quanto la sua
bugia fosse inutile data l'evidenza.
Lo sentì ridacchiare, ma in
breve divenne un tossicchiare leggero mentre Noah si avvicinava al proprio letto,
sedendovi quasi come fosse una liberazione.
«Va tutto bene, è un po' la
norma.» ammise, lasciando Oz di stucco.
Non era lì da molto, era
vero, e proprio per questo non poteva sapere cosa fosse normale e permesso a
Latowidge e cosa no; ma nemmeno nelle scuole di più basso livello il bullismo
era visto di buon occhio, perciò non capiva come fosse possibile che in una
scuola dove molti studenti avevano persino la guardia del corpo personale
potesse essere "la norma".
«...vado a chiedere del
ghiaccio in infermeria.» decise Oz, avvicinandosi alla porta ma sentendosi
trattenere per la giacca.
Noah ne aveva afferrato un
lembo ed ora lo fissava con l'espressione più seria che gli avesse mai rivolto
da quando Oz lo aveva conosciuto.
«Se vai in infermeria ci
mettiamo tutti nei guai. E non mi aiuteresti.» sottolineò. Tanto bastò ad Oz
per desistere e sostituire l'opzione ghiaccio ad un asciugamano bagnato con
l'acqua fredda nel bagno della loro stanza.
Quando ne uscì, lo porse a
Noah che si lasciò guidare fino al punto del viso offeso, tenendo poi lui
stesso il panno premuto contro lo zigomo.
Lasciando che se ne
occupasse da solo per essere certo di non fargli troppo male, Oz si ritrovò a
guardare le mani di Noah: non presentavano la minima sbucciatura, né erano arrossate
o davano in qualche modo ad intendere che oltre ad averle prese le avesse anche
date.
«Erano tanti?» domandò
prima di potersi zittire.
Noah lo guardò sorpreso,
chiedendosi forse da dove gli fosse uscita quella domanda, fra tante possibili:
«Non più del solito. Non sono mai più di tre o quattro, darebbero nell'occhio.»
replicò semplicemente.
Oz strinse appena i pugni:
«Non li picchi perché ti tengono fermo?» mormorò, la frangia che copriva lo
sguardo. Noah lo osservò, quasi studiandolo prima di dargli una risposta.
Sospirò piano - un leggero
gemito; i bastardi dovevano aver dato un colpo alle costole un po' più forte di
quanto si era aspettato - allungando la mano libera a scompigliargli appena i
capelli.
Quando Oz alzò lo sguardo,
lo vide sorridere con la solita sfumatura allegra negli occhi: «Non picchio con
le mani, ma questo non significa che i miei piedi non siano efficienti.
Comunque, sicuramente ne do meno di quante ne prendo. Ma va bene così.»
commentò.
Oz si sedette a sua volta,
osservandolo in silenzio per un po', Noah che di suo non diceva nulla: era
strano, vedere l'altro silenzioso quando normalmente era quello che spesso li
riuniva anche solo con una battuta particolarmente stupida.
L'altro si accorse dello
sguardo del biondo e lo incrociò volutamente con il proprio, sorridendo: «Cosa
vuoi sapere?» chiese, quasi leggendogli nel pensiero. Oz non se ne stupì
troppo, perché a conti fatti Noah era la persona che viveva più a contatto con
lui a Latowidge. Senza contare che si era dimostrato intuitivo fin dall'inizio.
«Non vorrei farti domande.
Tu non me ne hai fatte.» puntualizzò.
Noah scosse la testa: «Tu vuoi
farmi domande, ma vuoi sdebitarti perché io mi sono astenuto quando sono venuto
a prenderti in infermeria. E' diverso da "non volerle fare". Non mi
piace la falsa cortesia, Oz, quindi fammi tutte le domande che vuoi. Al
massimo, non ti risponderò, no?» gli fece notare, malgrado tutto una sfumatura
quasi divertita nel tono.
Oz abbozzò un sorriso per
riflesso più che per altro: «Hai detto che è la norma. Da quanto...?»
«Tipo da metà dell'anno
scorso.» replicò semplicemente, come se non riguardasse lui.
«Marcus lo sa?» fu, non
sapeva nemmeno lui perché, la cosa che gli venne spontaneo chiedere. Noah
ridacchiò appena, ma somigliava più ad un tic nervoso che non ad un'espressione
di divertimento.
«Lo sa eccome. Ti ricordi
che la prima volta che lo hai visto usciva dalla nostra stanza, con un
linguaggio da stalliere?» disse, ricordo al quale Oz annuì quasi subito: «Era
arrabbiato. Anche quel giorno mi avevano preso di mira, ma avevo appuntamento
con lui e quindi non hanno potuto fare grossi danni.» spiegò.
Oz, facendo mente locale,
ricordava che non aveva effettivamente segni visibili quel giorno.
Noah sospirò: «Si arrabbia
perché non le do indietro. E si infuria perché non gli permetto di pestarli al
mio posto.» concluse.
Il biondo lo osservò,
prestando la massima attenzione alle sue parole; gli sfuggivano ancora molte
cose però.
«Perché fai così? Perché ce
l'hanno con te?» domandò, quasi infantilmente forse. Noah si prese più tempo
per rispondere, pausa durante la quale tamponò un paio di volte lo zigomo.
«Non ti ho mai raccontato
di come siamo diventati fratellastri io e Marcus, vero?» chiese retoricamente,
apparentemente sembrava cambiare discorso. Oz optò per non insistere e lasciare
che parlasse solo delle cose che si sentiva di dirgli, quindi scosse la testa.
«Marcus è di buona, anzi
ottima famiglia. Mio padre e mia madre sono di origini modeste. Mia madre se
n'è andata di casa che avevo, boh... nove anni tipo.» iniziò, l'altro che non
interrompeva volutamente, pendendo dalle sue labbra come se quello fosse un
racconto estraneo ad entrambi.
«Papà ha sempre fatto il
fotografo. Ha conosciuto lei quando fu incaricato di fotografare dei suoi
quadri: mamma faceva la pittrice.» continuò: «Non sto a dirti come si sono
sposati perché è banale e noioso, erano due persone come tutte le altre. Lei
spesso doveva allontanarsi per dipingere cose nuove: voleva girare il mondo ed
erano un sacco giovani anche quando sono nato io, quindi diciamo che è
comprensibile.» ammise, come se mentre raccontava analizzasse per la prima
volta la situazione contemporaneamente al suo narrarla ad Oz.
Che, da parte sua, rimaneva
semplicemente in silenzio a guardarlo ed ascoltarlo.
«Quando i tuoi sono due che
dovrebbero viaggiare entrambi per il lavoro, le possibilità non sono tante. Ti
prendi una balia, uno dei due rinuncia oppure fai crescere tuo figlio dai
nonni.» fece notare.
Oz si chiedeva quale delle
tre opzioni fosse toccata a Noah; lui parve leggergli quella curiosità
dall'espressione che aveva in viso. Sorrise: «Papà prese una pausa e rimase a
casa.» chiarì.
«Però» riprese: «un bambino
non lo può crescere un genitore solo. Se ci sono problemi, come di tipo
economico, non ci puoi fare tanto. Ma non stavamo messi così male. Solo...
mamma è sempre stata una ragazzina egoista. Non è mai cresciuta, e di
sacrificare la felicità degli altri per la sua soddisfazione professionale, non
le è mai interessato. Tutto il mondo, per lei, valeva meno della sua stupida
arte.» disse, le parole più negative e severe che Oz gli avesse mai sentito
pronunciare.
Persino le invettive contro
la docente di Arte, sembravano commenti cattivi ma vuoi l'espressione buffa,
vuoi quel qualcosa di divertito sempre presente nel tono, non erano mai da
prendere seriamente.
Invece, notò Oz, non solo
il tono ma anche l'espressione lasciavano intendere che non c'era nulla di cui
ridere ora. Nulla su cui Noah stesse scherzando.
«Suo marito valeva meno.
Suo figlio, valeva meno.» ricominciò, ridestando l'attenzione di Oz: «E' andata
via che avevo nove anni. Se mi chiedono cosa ricordo di lei, io ricordo una
stronza che quando suo figlio le ha chiesto di restare gli ha voltato le
spalle, ha chiuso la porta e non è più tornata.» concluse, il tono risentito.
Sospirò piano, come se
cercasse lui stesso di ritrovare una certa imparzialità prima di proseguire.
Sembrò calmarsi in poco
tempo: «Papà mi ha cresciuto da solo e poi ha incontrato la mamma di Marcus. Di
suo padre non so molto, però. Comunque si piacciono e allora un giorno papà li
ha portati a casa. Marcus mi ha odiato per parecchio tempo: se diceva
"buongiorno", io e papà veneravamo almeno sei divinità di diverse
religioni ogni mattina.» ammise divertito.
Oz si ritrovò a ridacchiare
sommessamente, senza poterselo evitare: «Comunque ora andate d'accordo.» gli
fece notare. Noah annuì con un sorriso soddisfatto, e Oz non faticava a credere
ed immaginare che per molto tempo quella di piacere a Marcus fosse stata una
missione, per lui.
«Papà da quando sta con
Cecile, la mamma di Marcus, è felice. E anche a me la nuova famiglia piace.
Perciò, siccome sono qui per merito delle loro origini nobili, non voglio
essere di peso o farli vergognare di me.» ammise, un sorriso impacciato che Oz
vedeva per la prima volta.
Noah era sempre sembrato
uno che non si vergognava di nulla.
«Se mi metto a fare rissa,
sicuramente incolperanno me. Non importa anche se dico che non ho iniziato io.
Se mando Marcus a fare rissa, potrebbero non punirlo, ma il nome dei Wellesday
non penso ne gioverebbe. Perciò, le prendo e lascio stare. E ovviamente mi dico
che prima o poi si stancheranno da soli.» aggiunse, come un particolare ultimo
ma non meno importante del resto.
Oz era confuso tra la
sorpresa e l'assurdità della cosa.
«Ma perché dovrebbero
incolpare te?!» chiese, quasi all'improvviso. Noah ridacchiò: «Tu sei un tipo
onesto su queste cose, sennò non me lo chiederesti nemmeno.» esordì senza dare
una vera spiegazione sul momento.
«Perché c'è una gerarchia qui
dentro. Non sembra, e se non lo sai o non ci sei in mezzo non la vedi. Ma se ti
dicono che nelle scuole come questa trattano tutti nello stesso modo, allora
stai sicuro che ti raccontano una balla Oz. Qui dentro più è importante la tua
famiglia, più te la cavi. Specie l'anno scorso, che il capo dormitorio non era
Sirjan. Adesso con lui è un po' più vivibile.» ammise.
Oz, mentalmente,
riconsiderò Sirjan dopo il discorso avuto con Aedan in infermeria.
«Ma io sono di origini
umili e questo non cambia.»
«E questo che significa?!»
se ne uscì, irritato da quel punto di vista che sembrava venire in direttissima
dal Medioevo.
«Forse non ha importanza
per te.» gli fece notare, un sorriso quasi soddisfatto nel constatarlo: «Ma a
molti interessa. E le mie origini, non si cambiano in nessun modo, nemmeno se
Marcus ha un cognome che comprende anche il mio, o se i nostri genitori
risulteranno mai sposati e non solo come coppia che vive sotto lo stesso
tetto.» concluse.
Oz si morse appena il
labbro inferiore: giorno dopo giorno, scopriva cose di Latowidge che la
rendevano sempre più una scuola forse ritenuta fra le migliori, ma a che lui
sembrava quasi invivibile e piena solo di cose assurde e di regole altrettanto
insensate.
Tornò con lo sguardo su
Noah, titubante sul fargli o no la domanda che gli ronzava in testa; gli venne
però spontaneo: «Hai detto che senti tua madre... dopo le prime volte che ti
hanno preso di mira, non hai pensato di andare a vivere con lei e lasciare
Latowidge?» domandò.
Forse era una richiesta stupida,
o banale.
Noah scosse la testa: «Mai.
Non andrei mai a vivere con lei nemmeno per tutti i titoli nobiliari del mondo.
Io ero piccolo e visto quanto l'ho odiata man mano che crescevo, forse sono
quello che se l'è cavata meglio. Ma mio padre, lui era distrutto. E lei non si
è nemmeno mai preoccupata di chiedere come stava o come sarebbe stato se fosse
partita e lo avesse lasciato.» sbottò.
Quell'argomento, era
probabilmente l'unico davvero in grado di far arrabbiare Noah Keynes.
Oz stava quindi per cambiare
discorso con un'altra domanda che spostasse l'attenzione dalla donna, che Noah
lo precedette.
Si strinse istintivamente
nelle spalle: «Non dovrei arrabbiarmi ancora adesso, non se davvero la odiassi
come dico. Ma io rivedo mia madre anche quando lei non mi chiama al telefono e
la mia mente associa la voce ad un viso. La stupida capacità che gli altri
chiamano "dono", di tenere un pennello da pittura in mano e saperlo
usare decentemente per me è una maledizione. E' come se, continuamente, mi
dicessero: tu sei come tua madre.» se ne uscì, cogliendo Oz di sorpresa.
Quell'associazione di idee
tra due persone che probabilmente in comunque avevano solo l'aspetto, o come
nel caso di Noah un'abilità, gli faceva chiudere lo stomaco quasi fino a star
male: «Se puoi smettere... allora perché continui a dipingere?» domandò quasi
istintivamente, senza riflettere.
Noah parve sorpreso dalla
domanda, ma non a lungo.
Tolse l'asciugamano dal
viso, poggiandolo per terra alla meno peggio per non bagnare il materasso.
«Io odio l'arte. Ma tanto
più cerco di allontanarmi da essa, tanto più mi dico... che sono solo questo.
Io sono solo quello che so dipingere. Non so eccellere in nessun'altra cosa che
questa. E allora, anche se mi ricorda mia madre e quello che ha fatto, che ci
posso fare? Anche se mentre dipingo ogni tanto resto imbambolato a guardare un
quadro con la voglia di distruggerlo e rompere la tela, che ci posso fare?»
cominciò, e parlava talmente a ruota libera e le parole erano così sincere e
rassegnate al tempo stesso che anche volendo, Oz non lo avrebbe mai interrotto.
«So che in realtà sono come
lei. Mi spaventa pensare che potrei aver ereditato da lei anche questo, che un
giorno mi sveglierò e farò le valigie e anche io abbandonerò tutto e tutti come
un egoista. Ma... cosa potrei farci, ormai? Siamo già uguali. Abbiamo
già quella stessa passione.» mormorò, zittendosi come se non ricordasse cosa
veniva dopo.
Come se si fosse perso un
pezzo di storia.
«Tu però sei ancora qui.»
disse Oz, senza preavviso, cogliendo di sorpresa l'altro: «Anche se odi tua
madre, dipingi ancora. Anche se sarebbe più facile andarsene, tu sei qui
giusto?» chiarì, osservandolo serio, convinto delle proprie parole.
Noah, dopo un attimo di
smarrimento, abbozzò un sorriso: «Sì, sono qui.» replicò, il tono più
tranquillo, come se l'altro gli avesse appena mostrato una via d'uscita.
Oz sorrise incoraggiante:
essere depresso, non era mai stato da lui e non era adatto nemmeno all'amico.
«Vuol dire che hai una
ragione per rimanere.» concluse.
Noah, quasi
inaspettatamente ridacchiò: «Oh, sì che ce l'ho.» ammise divertito, come se Oz
con quelle parole gli avesse fatto tornare in mente un particolare piuttosto
interessante.
E diciamocelo: Oz Bezarius
e la curiosità andavano a passeggio insieme ogni giorno, praticamente.
«Cosa?» fu quindi l'ovvia
domanda.
Noah si sporse verso di lui
con fare complice, anche se non c'era nessun altro in stanza con loro:
«Modestamente, Marcus ha smesso di odiarmi quando l'ho beccato che mi osservava
mentre dipingevo.» se ne uscì.
Obiettivamente, non c’era
alcun dubbio sul fatto che tutta quell’ansia da parte sua fosse in qualche modo
patetica. Ma, come si soleva dire: l’importante era esserne coscienti.
E, in ogni caso, da quando aveva saputo che Oz avrebbe studiato a Latowidge
incontrandolo nell’atrio, Gilbert aveva messo in conto che di preoccuparsi per
il più piccolo non avrebbe potuto farne a meno.
Quando per molti anni servi
una famiglia e i suoi componenti, l’istinto di proteggerli rimaneva per sempre:
non bastava essere adottati e, improvvisamente, divenire un loro pari. Ed era
probabilmente questo uno dei principali motivi per cui era bastato sentir dire
a Noah – Ada gli aveva proposto di mangiare con loro, visto che Vincent non era
sceso in mensa – che Oz era rimasto in camera dicendo di non sentirsi tanto
bene, perché lui impiegasse ben poco a congedarsi dai compagni per tornare in
dormitorio.
E ora, il respiro appena
velocizzato dal passo svelto, sostava davanti alla porta della stanza del
biondo. La osservò come se dovesse fargli chissà quale confessione mistica,
dopodiché bussò piano, incerto. Il dubbio che Oz stesse già riposando c’era;
non colse nessuna risposta dall’interno.
Bussò appena più forte:
«Oz?» chiamò piano, il giusto perché si sentisse nella stanza.
Ci volle poco perché la
porta si socchiudesse aprendosi verso l’interno e la testa di Oz facesse
capolino, lo sguardo chiaro sorpreso di trovare il più grande lì: «Gil, che ci
fai qui?» chiese infatti.
Gilbert sorrise,
l’espressione innegabilmente sollevata: se era in piedi, non stava troppo male.
Oltretutto, per quel poco che vedeva con la luce del corridoio non era
eccessivamente pallido.
«Riposavi?» domandò. Oz
scosse la testa, aprendo un po’ di più la porta.
«Posso entrare?» chiese
quindi, mentre Oz si scostava già aprendo del tutto l’uscio per lasciarlo
passare. Prima di richiudere, il biondo accese la luce allungando la mano per
raggiungere l’interruttore.
Gilbert sbatté un paio di
volte le palpebre.
«Eri al buio?» osservò,
perplesso. Oz ridacchiò: «Perché, ancora ti spaventa come quando eravamo più
piccoli?» scherzò su prendendolo in giro e notando un inconfondibile rossore
sulle guance dell’altro.
Non commentò per chissà
quale miracolo.
«Come mai se qui, Gil?»
domandò invece, andandosi a sedere sul bordo del proprio letto facendo cenno
all’altro di imitarlo. Gilbert si sistemò ai piedi dello stesso materasso,
portando quindi lo sguardo sul biondo.
«Noah, il tuo compagno di
stanza.» disse inizialmente: «Ha detto che… non ti sentivi bene.» concluse. Oz
sorrise, chinandosi appena in avanti verso di lui.
Gilbert, osservandolo senza
capire, ebbe una sensazione di dejà-vu; strana, fu il modo in cui la etichettò.
Ricordava poco e in maniera piuttosto frammentaria gli ultimi anni a casa
Bezarius e quelli subito dopo, ma la sensazione che fosse un movimento abituale
quello di Oz era quasi una certezza. Prendendo in considerazione il se stesso
di allora, più timido e incerto – e certamente più incapace di adesso – non era
difficile immaginare che Oz usasse quel modo di sporgersi verso di lui quando,
troppo imbarazzato o mortificato, abbassava tanto lo sguardo e il capo da
rendere il viso poco visibile.
Ora, però, era diverso.
Benché lui, in qualche modo, fosse rimasto il Gilbert bambino e ansioso di un
tempo.
«Cosa c’è?» borbottò
fissando Oz di rimando. L’altro ridacchiò: «Ti stai di nuovo preoccupando
troppo, Gil. Vero?» disse in quella che, tuttavia, sembrava una domanda
retorica.
Nel chiederglielo, aveva
portato la mano sulla testa del moro, scompigliando quasi impercettibilmente i
capelli con quel vizio di invertire i ruoli che aveva sempre avuto, come se il
minore dei due fosse Gilbert e non Oz.
Sorrideva, Oz; lui
sorrideva sempre.
Poteva ingannare chiunque:
Noah, che lo conosceva da relativamente poco anche se meglio di qualunque altro
compagno lì a Latowidge. Alice, di cui Gilbert ancora non comprendeva il legame
con il biondo.
Oz mentiva, e lo faceva
bene: lui stesso era stato spesso raggirato e preso in giro bonariamente per la
sua incapacità di distinguere le sue bugie dalla verità.
Non aveva un senso logico,
dubitare adesso fra le tante volte che c’erano e ci sarebbero state: eppure,
l’afferrargli lentamente il polso, senza movimenti bruschi ma con fermezza, fu
un movimento del tutto naturale.
Oz ne fu inevitabilmente
sorpreso e sbatté le palpebre un paio di volte, l’espressione perplessa.
«…Cosa c’è, Gil?»
«Dimmelo tu. Cosa c’è, Oz?»
replicò serio, il tono calmo. Non era arrabbiato, solo confuso.
Oz, per contro, lo era
certamente più di lui: «Non c’è nulla che non va.»
«A parte che stai male?»
domandò, appena più un’insinuazione stavolta. Oz assunse un’aria contrariata:
non gli piaceva quando qualcuno era così guardingo nei suoi confronti.
Significava che le sue
bugie, la sua finzione e il suo “va tutto bene” avevano un falla da qualche
parte, e che lui non la vedeva.
«È solo un malore, Gil.»
Il moro sospirò fra il
rassegnato e il paziente. Fissò l’altro, lasciando che per qualche istante
regnasse il silenzio: «Cosa c’è?» chiese di nuovo, insistente forse.
Oz tacque, spostando lo
sguardo altrove; era inutile continuare a mentire con un Gilbert così
intestardito, anche se parlare non gli andava a genio per niente. Optò per un
compromesso accettabile.
Non era necessario
raccontare tutta la verità.
Ma, per contro, le parole
di Echo non lo avevano lasciato in pace per un attimo: in parte, anche l'aver
ascoltato il racconto di Noah, l'aver visto con cosa l'amico conviveva e come
lo faceva, lo aveva messo quasi a disagio.
La certezza dell'altro
nell'affermare chi fosse aveva scatenato troppe cose alle quali Oz aveva
sempre, vigliaccamente, evitato di pensare.
Cosa fosse in grado di fare
e cosa no, per esempio. Cosa volesse fare, così diverso da cosa si
doveva fare e dagli aspetti che un giovane di buona famiglia dovesse possedere
e dimostrare al resto del mondo. L'aspettativa, ad Oz non era mai piaciuta.
Le speranze che gli altri
riponevano in lui, le aveva sempre ignorate, fingendo di non conoscerle;
fuggire e non essere legati a nessun obiettivo era facile, lo era sempre stato.
Aveva iniziato a scappare
l'ultima volta in cui aveva cercato di rispondere positivamente a quello che ci
si aspettava da lui. Non avrebbe ricominciato.
Anche se significava non
avere alcun punto di arrivo, e improvvisare una vita intera nemmeno fosse un
gioco di cui si inventavano le regole sul momento.
«...Oz?» si sentì chiamare
nuovamente, tornando alla realtà e scuotendo appena la testa.
«Gil... non sono uno
studente normale, io?» se ne uscì, senza un senso logico o un motivo, senza
nemmeno rispondere alla domanda di Gilbert.
O almeno, non direttamente.
Il più grande lo osservò e
per un attimo sentì qualcosa di fastidioso, da qualche parte nella sua testa:
era una scena vista. Era un Oz che conosceva, quello che non lo guardava e gli
faceva domande che apparentemente non stavano né in cielo, né in terra.
Era un Oz che non voleva
rivedere, che poteva persino non piacergli - se solo lui fosse stato in
grado di provare quel tipo di sentimento negativo verso il biondo.
«Cosa vuol dire?» domandò
perplesso.
Ma bastava quella richiesta
semplice e legittima, per far sì che Oz alzasse fra loro lo stesso muro che non
aveva mai fatto avvicinare nessuno negli ultimi anni. Ridacchiò.
E significava sempre altre
bugie, questo.
«Lascia stare, non...»
«Perché quando si tratta di
me sembra quasi che io sia obbligato a risponderti e invece, quando sono io a
volere delle spiegazioni fai sempre così?!» sbottò il moro, fissandolo e
tirando leggermente il polso verso di sé, come ad enfatizzare quanto detto.
Oz alzò lo sguardo su di
lui, d'improvviso irritato senza sapere perché: «Così come?!» replicò,
fissandolo eloquentemente, come se fosse Gilbert a doversi scusare.
Per una volta il moro non
vacillò - così diverso dal passato e dal Gil bambino che si sarebbe certamente
scusato subito, mortificato addirittura: «Così come stai facendo. O menti, o
ridi, o non rispondi e basta. Cosa c'è da ridere dopo avermi chiesto se sei
normale?!» chiese quindi, ma nel tono che avrebbe dovuto essere almeno irritato
quanto il suo, Oz riconobbe la cosa che meno avrebbe voluto notarvi.
Gilbert era di nuovo
preoccupato a causa sua.
«E' solo...!» iniziò
convinto, facendo però il grave errore di soffermarsi col proprio sguardo su
quello di Gilbert. Non era più il bambino che, sebbene più grande di lui, era
facile da raggirare con un bugia ben architettata. E non era nemmeno più il
ragazzino, servitore di casa Bezarius, che si lasciava intimorire da quasi ogni
cosa.
Non era più qualcuno che
lui, Oz, potesse tenere lontano con quel muro invisibile che si portava dietro
da anni.
Spostò lo sguardo: era come
ammettere di essere stato in qualche modo sconfitto, stavolta.
«Perché sono qui a
Latowidge, Gil?» mormorò, il tono un misto di diverse cose, che Gilbert non
riuscì a riconoscere subito del tutto.
«Ma...?»
«E' perché sono di buona
famiglia? O deve esserci per forza un motivo particolare per ognuno di noi?»
continuò Oz, interrompendo qualsiasi domanda Gilbert avesse iniziato a porre.
«E' un collegio normale,
questo? Perché non sembra affatto. Regole che spuntano fuori dal nulla, guardie
del corpo che hanno la mia età e sono convinte che la loro vita non vale niente
se non per proteggere il padrone o chiunque decida di dargli ordini per un
motivo qualsiasi. Servitori che non sembrano nemmeno avere una personalità loro
e che mi dicono che non capisco, e che vengono a chiedermi perché sono
qui, come se...» fece una pausa, l'espressione che si era contratta in un
cipiglio che era un misto tra l'irritato, il confuso e il panico forse.
«Come se non fossi adatto
a starci. Come se... nessuno di loro si aspettasse uno come me qui.» concluse,
vergognandosi di un lato così debole e di esserselo lasciato sfuggire di mano.
Non era da lui lamentarsi,
non era da lui mostrarsi preoccupato, non importava quanto la situazione fosse
grave.
Gilbert aveva ascoltato con
attenzione, cercando di capire dove volesse andare a parare con quelle parole
ma, al tempo stesso, quasi perdendosi.
E la sua ultima frase, ai
suoi occhi era apparsa quasi come un'accusa: perché anche lui, vedendolo a
Latowidge, si era chiesto cosa ci facesse lì.
Forse con meno cattiveria,
sicuramente senza la minima intenzione di smuovere l'animo di Oz a quel modo,
ma ci aveva pensato.
«Gil, cosa mi stai
nascondendo?» se ne uscì il biondo, che in quella pausa in cui era calato il
silenzio aveva osservato il più grande fissare un punto imprecisato, senza
rispondere.
Gilbert portò lo sguardo su
di lui: «Oz, neanche io mi aspettavo che tu venissi a studiare qui.» rivelò in
un mormorio.
Oz, dopo un primo istante
di sgomento che non riuscì a non mostrare, tirò via la mano dall'ormai
indebolita presa di Gilbert: «Perché no?» domandò, nessun tremolio o simili
nella voce.
Il moro sospirò,
lentamente, abbassando appena lo sguardo: «E' solo che... anche Jack--»
«Non voglio ascoltare!» lo
interruppe bruscamente l'altro prima ancora che finisse la frase. Gilbert
tacque, l'espressione mortificata - dopotutto, non cambiava niente, mai.
Oz spostò lo sguardo
altrove, facendo per alzarsi: se era quello il punto, se era di quello che
voleva parlare, allora non aveva niente altro da dire a Gilbert. Avrebbe
riposato e il giorno dopo sarebbe tornato a lezione, lì a Latowidge. Non
importava quanti altri ancora avrebbero chiesto "perché era lì".
Gilbert lo aveva
immediatamente seguito con lo sguardo nel vederlo alzarsi, notandolo barcollare
poco dopo. Gli fu accanto praticamente subito, senza quasi accorgersi di quel
movimento venuto spontaneamente.
In piedi, sorresse il più
piccolo - le mani sulle spalle, per evitargli quel barcollare, la schiena di Oz
appena a contatto con il suo stomaco più o meno.
«Ehi.» chiamò piano,
vedendo l'altro restio a quel contatto muoversi in modo tale da allontanarsi.
Si accigliò, approfittando per una volta di avere più forza del biondo e
facendo pressione con la mano sulla spalla.
Lo voltò in modo tale da
guardarlo in viso, ma non ne aveva realmente bisogno: seppur goffamente, lo
aveva stretto in un abbraccio.
«Non sto dicendo che non
puoi stare qui, o che non ti voglio a Latowidge. Nessuno dice questo, Oz.»
borbottò. L'altro, rimasto immobile in quella stretta così "da
Gilbert", si rilassò lentamente per poi annuire, lasciando affondare il
viso nella stoffa della divisa del maggiore.
Inspirò lentamente, prima
di mormorare un: «Lo so...» il tono che lasciava intendere a Gilbert che, senza
ombra di dubbio, Oz si era imbronciato.
Si concesse un sorriso
sollevato, che Oz non poté vedere.
Nel silenzio della stanza,
la melodia lenta del pianoforte che si trovava a quello stesso piano
dell'edificio scolastico arrivava appena ovattata dalla distanza, ma non per
questo meno bella di quanto fosse.
Seduto accanto alla
finestra che, complice il buio anche all'esterno lasciava una volta tanto le
tende aperte senza il rischio che entrasse troppa luce, mantenne lo sguardo sul
giardino. Il "compagno" - era quasi ironico chiamarlo a quel modo, ma
non lo interessava più di tanto un semplice appellativo - taceva immobile e in
ascolto.
Incurvò le labbra in un
sorrisetto ironico, senza dire nulla comunque.
La melodia durò ancora
qualche attimo per poi avviarsi alla chiusura del brano ed, infine, cessare
ripristinando il silenzio.
Rimase immobile, di suo; fu
l'altro ad alzare appena il viso, spostando lo sguardo su di lui: «E' bella.»
commentò soltanto.
Si concesse uno sbuffo fra
l'annoiato e il sarcastico: «E' una musica di quasi dieci anni fa.» sottolineò,
come se questo ne sminuisse la bellezza. Dall'altro capo della stanza sentì
provenire un ridacchiare poco sommesso.
«E un semplice studente la
conosce?»
«E' un mio vecchio amico.»
ironizzò. L'altro schioccò le labbra e lui non se ne stupì: era sempre stato
permaloso e poco incline ad essere tenuto all'oscuro delle cose.
«Allora chi--»
«Taci.» ordinò
perentorio, benché nel tono non vi fossero sfumature seccate o irritate.
L'altro tacque, sebbene di malavoglia, e il compagno alla finestra tornò a
rilassarsi visibilmente. La melodia, da qualsiasi stanza provenisse, stava
ricominciando.
«Voglio ascoltare quanto
migliorerà fino a quel giorno.» spiegò, anche se l'altro non l’aveva domandato.
Ma sapeva lo stesso che una spiegazione la gradiva sempre.
«E' anche lui un umano
stupido.» fu l'irritato parere che venne dato come risposta.
«A questo proposito» disse,
richiamando a sé l'attenzione dell'altro - solo perché la melodia era stata
interrotta bruscamente dopo un passaggio completamente errato - senza
guardarlo: «voglio che mi liberi di qualcuno che mi sta seccando
particolarmente.» comunicò.
L'altro drizzò le orecchie:
finalmente qualcosa di vagamente interessante.
«Chi?»
«Vincent Nightray.»
Note
Per la vostra immensa gioia
(e per la mia che mi complico la vita, come se la trama fosse poco complessa di
suo *__*") il capitolo finisce così ù.ù
Non ci sono note
particolari per questo capitolo, a parte il mio invito a segnalarmi eventuali
OOC di Oz o Gil perché davvero, muoverli in questo capitolo è stato un parto
>.> (sarà che comincio ad accusare la stanchezza dello scrivere la notte
*come al solito*?)
Passiamo ai ringraziamenti
<3
Yoko891: ...come ho già detto, sull’IC di Gil (e Oz) non sono
molto convinta stavolta x° quindi mi affiderò al giudizio tuo e degli altri
lettori *-*”
Sono contenta per Rufus
<3 E anche che il precedente capitolo sia risultato scorrevole e per questo
piacevole da leggere. Spero che questo lo sia altrettanto X3
Gioielle: come ti accennai in altre sedi… la SirjanAedan no, per
l’amor di Dio *muore ripetutamente* Felice comunque che Aedan susciti interesse
(ai personaggi originali sono sempre affezionata. Le mie creature *coccola*) e
man mano sto cercando di dare spessore anche agli altri, come Noah in questo.
Per le scene GilOz… ce la
posso fare XD Dai che vi ho aggiunto quel-qualcosa-di-non-definito VinceGil XD *non
glielo aveva chiesto nessuno, ma vabbé*
Jack per ora almeno è stato
nominato, non c’era Marcus ma consoliamoci (?) c’era Noah XD
Ti ringrazio di seguirmi
sempre, spero che anche questo capitolo sia stato di tuo gradimento <3
LitaChan: e io non posso che ringraziare ogni commento ^^ come
detto, spero di aver sopperito un po’ almeno alla nostalgia per Noah ù.ù
Sempre gentilissima,
cuccati anche tu l’abbraccio da fan quale sei *-*
Un grazie particolare anche
a chi so che legge fisso (qui o in altre sedi) e mi supporta <3 Ally e Riza,
grazie <3