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Autore: Shichan    30/08/2009    4 recensioni
«Non è cosa che ci riguardi. Latowidge vede studenti arrivare e studenti andarsene.»
«Quello è uno studente che non deve stare affatto qui.»
«Lo consideri una minaccia?» lo sfotté palesemente, sebbene il tono sembrava rimanere comunque piuttosto pacato, come poco prima. Un nuovo verso stizzito, simile ad uno schiocco di labbra che con la scarsa illuminazione non gli era possibile scorgere con lo sguardo.
Ma dopotutto, non aveva bisogno di vedere. Erano compagni da molti anni; sapeva “osservare” anche solo ascoltando.
«Non incrocerà la tua strada. E nemmeno la mia.» assicurò, concedendosi infine di chiudere gli occhi.

[Personaggi: Un po' tutti]
Genere: Drammatico, Sovrannaturale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: AU | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Quello che sono

Quello che sono

 

 

«Shhht.» la interruppe lui: «Ora noi restiamo a guardare per un po', Echo.»

La più piccola tacque, limitandosi ad annuire; azzardò a scostarsi dal biondo solo quando vide la maniglia della porta abbassarsi, segno che Gilbert stava rientrando - dato che quella era la camere dei due.

Vincent allentò la presa sulla sua vita, permettendole di alzarsi dalle proprie gambe e sistemarsi lateralmente mentre Gilbert, varcata la soglia, si richiudeva la porta alle spalle.

Quando spostò lo sguardo sulla stanza, incrociò quello di Vincent: le gambe accavallate l'una sull'altra, un braccio poggiato sulla gamba, l'altro piegato a sorreggere il volto.

Un sorriso quasi infantile - così simile al primo che gli aveva rivolto, e a tutti gli altri a seguire - gli increspava le labbra.

«Bentornato, fratello.» lo salutò, il tono vellutato quasi. Gilbert sentì un leggero brivido, ma dissimulò la cosa avvicinandosi e avanzando nella stanza con un: «Grazie.» poco più che mormorato. Il biondo non si mosse, limitandosi ad osservare i movimenti del maggiore.

«Eri a studiare, Gil?» domandò, il tono curioso come quello di un bambino.

Il moro, avvicinatosi al letto annuì, togliendo la giacca della divisa: «Ho avuto un recupero con Wayne.» replicò. Vincent ridacchiò: «Non sei proprio bravo a dire le bugie, Gil, proprio come quando eravamo piccoli. Wayne non dà ripetizioni.» gli fece notare.

Gilbert lo guardò smarrito per un attimo: «Puoi chiedere al professore, se non mi credi.» commentò burbero.

Vincent si stiracchiò, coprendo uno sbadiglio con la mano: «Non glielo chiederò. Io mi fido di te, Gil.» disse, una contraddizione con l'appunto rivolto al fratello un attimo prima.

Il maggiore alzò appena gli occhi al soffitto, senza farsi vedere e sospirando piano. Vincent era sempre così: non importava che fosse suo fratello o che lo conoscesse da anni; non lo capiva, era imperscrutabile e questo a Gilbert non piaceva.

Non era mai piaciuto; inquietante prima, scomodo poi. Terrificante, a volte.

«Gil, cosa c'è che non va?» mormorò, molto più vicino senza che lui se ne fosse accorto, visto il tono di voce ora alle proprie spalle.

Anche questa sua mania di avvicinarsi silenziosamente senza motivo era una cosa a cui Gilbert non si sarebbe mai abituato. Si voltò bruscamente, già bofonchiando un "niente" quando sentì che la propria mano era stata fermata vicino al fianco da quella del fratello.

Lo osservò confuso, senza capire, mentre Vincent portava la mano libera all'altezza del colletto della camicia del maggiore: «Vince, cosa...?»

«Gil, è davvero un bene per te avvicinarti di nuovo ai Bezarius?» sussurrò, il tono sottile che quasi si insinuava direttamente nella sua testa. Gilbert sgranò appena gli occhi, portando la mano che non era tenuta dall'altro ad afferrare il polso che era praticamente all'altezza del suo collo.

«Questo che significa, Vince?!» sbottò, nel tono quasi il timore di scoprire l'ennesimo colpo di testa del minore.

Non sarebbe stata certamente la prima volta.

Il biondo sorrise, pacato; lo conosceva, quel modo di sorridere rivolgendo lo sguardo a lui, Gilbert.

Vide il viso del fratello avvicinarsi impercettibilmente e, per riflesso, allentò la presa sul suo polso: l'altro non raggiunse mai il volto del moro. Semplicemente, prese il nastro della divisa tenuto sotto il colletto della camicia e lo tirò appena, sciogliendo il nodo.

«Non significa nulla, Gilbert. Solo, mi preoccupo per te.» replicò con naturalezza, allontanandosi da lui e lasciandogli la mano.

Tirò appena su il nastro che gli aveva tolto, come per segnalargli l'unico vero motivo dei suoi movimenti: «Dovresti fare un bagno Gil, sembri davvero teso.» aggiunse poi.

Malgrado il tono non fosse di scherno, Gilbert non poté fare a meno di sentirsi come se per l'ennesima volta Vincent si fosse preso gioco di lui.

Echo era uscita dalla stanza silenziosamente già da prima.

 

 

 

Occhieggiò il corridoio per essere sicuro che non fosse troppo trafficato. Se non altro, la scelta di tornare in dormitorio prima di cena era stata abbastanza sensata: solitamente gli altri studenti approfittavano del pomeriggio - quando non avevano lezioni di Musica o ripetizioni - per studiare o rilassarsi in giardino finché c'era bel tempo.

Sospirò appena, facendo capolino con la testa nel corridoio e percorrendolo per un po' fino a raggiungere la porta della sua stanza.

L'aprì, scivolando nella camera e richiudendo subito l'uscio alle proprie spalle; si poggiò contro la superficie lignea con un sospiro lento, sollevato.

«Noah?»

...Ecco. Oz in camera era un'eventualità che non aveva effettivamente preso in considerazione.

Alzò appena la testa, cercando il biondo con lo sguardo ed individuandolo sul proprio letto: probabilmente, fino ad un attimo prima era sdraiato, magari a riposare viste le mani che facevano perno sul materasso per tenersi su.

«Scusami, riposavi?» chiese, il tono con quel sottofondo divertito di sempre, solo appena più roco.

Lo sguardo abbastanza allarmato di Oz gli suggerì che la penombra della stanza non aveva aiutato nel suo intento di evitarsi delle domande sul suo stato. Il biondo, d'altra parte, non era da biasimare: osservando con attenzione il viso di Noah, era stato impossibile non notare il livido sullo zigomo sinistro che diventava lentamente più evidente, né il sangue - seppure pochissimo - che usciva da labbro.

Decisamente malridotto.

«Che ti è successo?!» chiese Oz, alzandosi del tutto e avvicinandosi al compagno, il tono e l'espressione preoccupati. Noah abbozzò un sorrisetto: «Tranquillo, sto bene...» borbottò.

Oz assunse un'aria fra l'arrabbiato e quella sfumatura di preoccupazione di poco prima: «Come può andare bene con la faccia in quello stato?!» gli fece notare quanto la sua bugia fosse inutile data l'evidenza.

Lo sentì ridacchiare, ma in breve divenne un tossicchiare leggero mentre Noah si avvicinava al proprio letto, sedendovi quasi come fosse una liberazione.

«Va tutto bene, è un po' la norma.» ammise, lasciando Oz di stucco.

Non era lì da molto, era vero, e proprio per questo non poteva sapere cosa fosse normale e permesso a Latowidge e cosa no; ma nemmeno nelle scuole di più basso livello il bullismo era visto di buon occhio, perciò non capiva come fosse possibile che in una scuola dove molti studenti avevano persino la guardia del corpo personale potesse essere "la norma".

«...vado a chiedere del ghiaccio in infermeria.» decise Oz, avvicinandosi alla porta ma sentendosi trattenere per la giacca.

Noah ne aveva afferrato un lembo ed ora lo fissava con l'espressione più seria che gli avesse mai rivolto da quando Oz lo aveva conosciuto.

«Se vai in infermeria ci mettiamo tutti nei guai. E non mi aiuteresti.» sottolineò. Tanto bastò ad Oz per desistere e sostituire l'opzione ghiaccio ad un asciugamano bagnato con l'acqua fredda nel bagno della loro stanza.

Quando ne uscì, lo porse a Noah che si lasciò guidare fino al punto del viso offeso, tenendo poi lui stesso il panno premuto contro lo zigomo.

Lasciando che se ne occupasse da solo per essere certo di non fargli troppo male, Oz si ritrovò a guardare le mani di Noah: non presentavano la minima sbucciatura, né erano arrossate o davano in qualche modo ad intendere che oltre ad averle prese le avesse anche date.

«Erano tanti?» domandò prima di potersi zittire.

Noah lo guardò sorpreso, chiedendosi forse da dove gli fosse uscita quella domanda, fra tante possibili: «Non più del solito. Non sono mai più di tre o quattro, darebbero nell'occhio.» replicò semplicemente.

Oz strinse appena i pugni: «Non li picchi perché ti tengono fermo?» mormorò, la frangia che copriva lo sguardo. Noah lo osservò, quasi studiandolo prima di dargli una risposta.

Sospirò piano - un leggero gemito; i bastardi dovevano aver dato un colpo alle costole un po' più forte di quanto si era aspettato - allungando la mano libera a scompigliargli appena i capelli.

Quando Oz alzò lo sguardo, lo vide sorridere con la solita sfumatura allegra negli occhi: «Non picchio con le mani, ma questo non significa che i miei piedi non siano efficienti. Comunque, sicuramente ne do meno di quante ne prendo. Ma va bene così.» commentò.

Oz si sedette a sua volta, osservandolo in silenzio per un po', Noah che di suo non diceva nulla: era strano, vedere l'altro silenzioso quando normalmente era quello che spesso li riuniva anche solo con una battuta particolarmente stupida.

L'altro si accorse dello sguardo del biondo e lo incrociò volutamente con il proprio, sorridendo: «Cosa vuoi sapere?» chiese, quasi leggendogli nel pensiero. Oz non se ne stupì troppo, perché a conti fatti Noah era la persona che viveva più a contatto con lui a Latowidge. Senza contare che si era dimostrato intuitivo fin dall'inizio.

«Non vorrei farti domande. Tu non me ne hai fatte.» puntualizzò.

Noah scosse la testa: «Tu vuoi farmi domande, ma vuoi sdebitarti perché io mi sono astenuto quando sono venuto a prenderti in infermeria. E' diverso da "non volerle fare". Non mi piace la falsa cortesia, Oz, quindi fammi tutte le domande che vuoi. Al massimo, non ti risponderò, no?» gli fece notare, malgrado tutto una sfumatura quasi divertita nel tono.

Oz abbozzò un sorriso per riflesso più che per altro: «Hai detto che è la norma. Da quanto...?»

«Tipo da metà dell'anno scorso.» replicò semplicemente, come se non riguardasse lui.

«Marcus lo sa?» fu, non sapeva nemmeno lui perché, la cosa che gli venne spontaneo chiedere. Noah ridacchiò appena, ma somigliava più ad un tic nervoso che non ad un'espressione di divertimento.

«Lo sa eccome. Ti ricordi che la prima volta che lo hai visto usciva dalla nostra stanza, con un linguaggio da stalliere?» disse, ricordo al quale Oz annuì quasi subito: «Era arrabbiato. Anche quel giorno mi avevano preso di mira, ma avevo appuntamento con lui e quindi non hanno potuto fare grossi danni.» spiegò.

Oz, facendo mente locale, ricordava che non aveva effettivamente segni visibili quel giorno.

Noah sospirò: «Si arrabbia perché non le do indietro. E si infuria perché non gli permetto di pestarli al mio posto.» concluse.

Il biondo lo osservò, prestando la massima attenzione alle sue parole; gli sfuggivano ancora molte cose però.

«Perché fai così? Perché ce l'hanno con te?» domandò, quasi infantilmente forse. Noah si prese più tempo per rispondere, pausa durante la quale tamponò un paio di volte lo zigomo.

«Non ti ho mai raccontato di come siamo diventati fratellastri io e Marcus, vero?» chiese retoricamente, apparentemente sembrava cambiare discorso. Oz optò per non insistere e lasciare che parlasse solo delle cose che si sentiva di dirgli, quindi scosse la testa.

«Marcus è di buona, anzi ottima famiglia. Mio padre e mia madre sono di origini modeste. Mia madre se n'è andata di casa che avevo, boh... nove anni tipo.» iniziò, l'altro che non interrompeva volutamente, pendendo dalle sue labbra come se quello fosse un racconto estraneo ad entrambi.

«Papà ha sempre fatto il fotografo. Ha conosciuto lei quando fu incaricato di fotografare dei suoi quadri: mamma faceva la pittrice.» continuò: «Non sto a dirti come si sono sposati perché è banale e noioso, erano due persone come tutte le altre. Lei spesso doveva allontanarsi per dipingere cose nuove: voleva girare il mondo ed erano un sacco giovani anche quando sono nato io, quindi diciamo che è comprensibile.» ammise, come se mentre raccontava analizzasse per la prima volta la situazione contemporaneamente al suo narrarla ad Oz.

Che, da parte sua, rimaneva semplicemente in silenzio a guardarlo ed ascoltarlo.

«Quando i tuoi sono due che dovrebbero viaggiare entrambi per il lavoro, le possibilità non sono tante. Ti prendi una balia, uno dei due rinuncia oppure fai crescere tuo figlio dai nonni.» fece notare.

Oz si chiedeva quale delle tre opzioni fosse toccata a Noah; lui parve leggergli quella curiosità dall'espressione che aveva in viso. Sorrise: «Papà prese una pausa e rimase a casa.» chiarì.

«Però» riprese: «un bambino non lo può crescere un genitore solo. Se ci sono problemi, come di tipo economico, non ci puoi fare tanto. Ma non stavamo messi così male. Solo... mamma è sempre stata una ragazzina egoista. Non è mai cresciuta, e di sacrificare la felicità degli altri per la sua soddisfazione professionale, non le è mai interessato. Tutto il mondo, per lei, valeva meno della sua stupida arte.» disse, le parole più negative e severe che Oz gli avesse mai sentito pronunciare.

Persino le invettive contro la docente di Arte, sembravano commenti cattivi ma vuoi l'espressione buffa, vuoi quel qualcosa di divertito sempre presente nel tono, non erano mai da prendere seriamente.

Invece, notò Oz, non solo il tono ma anche l'espressione lasciavano intendere che non c'era nulla di cui ridere ora. Nulla su cui Noah stesse scherzando.

«Suo marito valeva meno. Suo figlio, valeva meno.» ricominciò, ridestando l'attenzione di Oz: «E' andata via che avevo nove anni. Se mi chiedono cosa ricordo di lei, io ricordo una stronza che quando suo figlio le ha chiesto di restare gli ha voltato le spalle, ha chiuso la porta e non è più tornata.» concluse, il tono risentito.

Sospirò piano, come se cercasse lui stesso di ritrovare una certa imparzialità prima di proseguire.

Sembrò calmarsi in poco tempo: «Papà mi ha cresciuto da solo e poi ha incontrato la mamma di Marcus. Di suo padre non so molto, però. Comunque si piacciono e allora un giorno papà li ha portati a casa. Marcus mi ha odiato per parecchio tempo: se diceva "buongiorno", io e papà veneravamo almeno sei divinità di diverse religioni ogni mattina.» ammise divertito.

Oz si ritrovò a ridacchiare sommessamente, senza poterselo evitare: «Comunque ora andate d'accordo.» gli fece notare. Noah annuì con un sorriso soddisfatto, e Oz non faticava a credere ed immaginare che per molto tempo quella di piacere a Marcus fosse stata una missione, per lui.

«Papà da quando sta con Cecile, la mamma di Marcus, è felice. E anche a me la nuova famiglia piace. Perciò, siccome sono qui per merito delle loro origini nobili, non voglio essere di peso o farli vergognare di me.» ammise, un sorriso impacciato che Oz vedeva per la prima volta.

Noah era sempre sembrato uno che non si vergognava di nulla.

«Se mi metto a fare rissa, sicuramente incolperanno me. Non importa anche se dico che non ho iniziato io. Se mando Marcus a fare rissa, potrebbero non punirlo, ma il nome dei Wellesday non penso ne gioverebbe. Perciò, le prendo e lascio stare. E ovviamente mi dico che prima o poi si stancheranno da soli.» aggiunse, come un particolare ultimo ma non meno importante del resto.

Oz era confuso tra la sorpresa e l'assurdità della cosa.

«Ma perché dovrebbero incolpare te?!» chiese, quasi all'improvviso. Noah ridacchiò: «Tu sei un tipo onesto su queste cose, sennò non me lo chiederesti nemmeno.» esordì senza dare una vera spiegazione sul momento.

«Perché c'è una gerarchia qui dentro. Non sembra, e se non lo sai o non ci sei in mezzo non la vedi. Ma se ti dicono che nelle scuole come questa trattano tutti nello stesso modo, allora stai sicuro che ti raccontano una balla Oz. Qui dentro più è importante la tua famiglia, più te la cavi. Specie l'anno scorso, che il capo dormitorio non era Sirjan. Adesso con lui è un po' più vivibile.» ammise.

Oz, mentalmente, riconsiderò Sirjan dopo il discorso avuto con Aedan in infermeria.

«Ma io sono di origini umili e questo non cambia.»

«E questo che significa?!» se ne uscì, irritato da quel punto di vista che sembrava venire in direttissima dal Medioevo.

«Forse non ha importanza per te.» gli fece notare, un sorriso quasi soddisfatto nel constatarlo: «Ma a molti interessa. E le mie origini, non si cambiano in nessun modo, nemmeno se Marcus ha un cognome che comprende anche il mio, o se i nostri genitori risulteranno mai sposati e non solo come coppia che vive sotto lo stesso tetto.» concluse.

Oz si morse appena il labbro inferiore: giorno dopo giorno, scopriva cose di Latowidge che la rendevano sempre più una scuola forse ritenuta fra le migliori, ma a che lui sembrava quasi invivibile e piena solo di cose assurde e di regole altrettanto insensate.

Tornò con lo sguardo su Noah, titubante sul fargli o no la domanda che gli ronzava in testa; gli venne però spontaneo: «Hai detto che senti tua madre... dopo le prime volte che ti hanno preso di mira, non hai pensato di andare a vivere con lei e lasciare Latowidge?» domandò.

Forse era una richiesta stupida, o banale.

Noah scosse la testa: «Mai. Non andrei mai a vivere con lei nemmeno per tutti i titoli nobiliari del mondo. Io ero piccolo e visto quanto l'ho odiata man mano che crescevo, forse sono quello che se l'è cavata meglio. Ma mio padre, lui era distrutto. E lei non si è nemmeno mai preoccupata di chiedere come stava o come sarebbe stato se fosse partita e lo avesse lasciato.» sbottò.

Quell'argomento, era probabilmente l'unico davvero in grado di far arrabbiare Noah Keynes.

Oz stava quindi per cambiare discorso con un'altra domanda che spostasse l'attenzione dalla donna, che Noah lo precedette.

Si strinse istintivamente nelle spalle: «Non dovrei arrabbiarmi ancora adesso, non se davvero la odiassi come dico. Ma io rivedo mia madre anche quando lei non mi chiama al telefono e la mia mente associa la voce ad un viso. La stupida capacità che gli altri chiamano "dono", di tenere un pennello da pittura in mano e saperlo usare decentemente per me è una maledizione. E' come se, continuamente, mi dicessero: tu sei come tua madre.» se ne uscì, cogliendo Oz di sorpresa.

Quell'associazione di idee tra due persone che probabilmente in comunque avevano solo l'aspetto, o come nel caso di Noah un'abilità, gli faceva chiudere lo stomaco quasi fino a star male: «Se puoi smettere... allora perché continui a dipingere?» domandò quasi istintivamente, senza riflettere.

Noah parve sorpreso dalla domanda, ma non a lungo.

Tolse l'asciugamano dal viso, poggiandolo per terra alla meno peggio per non bagnare il materasso.

«Io odio l'arte. Ma tanto più cerco di allontanarmi da essa, tanto più mi dico... che sono solo questo. Io sono solo quello che so dipingere. Non so eccellere in nessun'altra cosa che questa. E allora, anche se mi ricorda mia madre e quello che ha fatto, che ci posso fare? Anche se mentre dipingo ogni tanto resto imbambolato a guardare un quadro con la voglia di distruggerlo e rompere la tela, che ci posso fare?» cominciò, e parlava talmente a ruota libera e le parole erano così sincere e rassegnate al tempo stesso che anche volendo, Oz non lo avrebbe mai interrotto.

«So che in realtà sono come lei. Mi spaventa pensare che potrei aver ereditato da lei anche questo, che un giorno mi sveglierò e farò le valigie e anche io abbandonerò tutto e tutti come un egoista. Ma... cosa potrei farci, ormai? Siamo già uguali. Abbiamo già quella stessa passione.» mormorò, zittendosi come se non ricordasse cosa veniva dopo.

Come se si fosse perso un pezzo di storia.

«Tu però sei ancora qui.» disse Oz, senza preavviso, cogliendo di sorpresa l'altro: «Anche se odi tua madre, dipingi ancora. Anche se sarebbe più facile andarsene, tu sei qui giusto?» chiarì, osservandolo serio, convinto delle proprie parole.

Noah, dopo un attimo di smarrimento, abbozzò un sorriso: «Sì, sono qui.» replicò, il tono più tranquillo, come se l'altro gli avesse appena mostrato una via d'uscita.

Oz sorrise incoraggiante: essere depresso, non era mai stato da lui e non era adatto nemmeno all'amico.

«Vuol dire che hai una ragione per rimanere.» concluse.

Noah, quasi inaspettatamente ridacchiò: «Oh, sì che ce l'ho.» ammise divertito, come se Oz con quelle parole gli avesse fatto tornare in mente un particolare piuttosto interessante.

E diciamocelo: Oz Bezarius e la curiosità andavano a passeggio insieme ogni giorno, praticamente.

«Cosa?» fu quindi l'ovvia domanda.

Noah si sporse verso di lui con fare complice, anche se non c'era nessun altro in stanza con loro: «Modestamente, Marcus ha smesso di odiarmi quando l'ho beccato che mi osservava mentre dipingevo.» se ne uscì.

 

 

Obiettivamente, non c’era alcun dubbio sul fatto che tutta quell’ansia da parte sua fosse in qualche modo patetica. Ma, come si soleva dire: l’importante era esserne coscienti. E, in ogni caso, da quando aveva saputo che Oz avrebbe studiato a Latowidge incontrandolo nell’atrio, Gilbert aveva messo in conto che di preoccuparsi per il più piccolo non avrebbe potuto farne a meno.

Quando per molti anni servi una famiglia e i suoi componenti, l’istinto di proteggerli rimaneva per sempre: non bastava essere adottati e, improvvisamente, divenire un loro pari. Ed era probabilmente questo uno dei principali motivi per cui era bastato sentir dire a Noah – Ada gli aveva proposto di mangiare con loro, visto che Vincent non era sceso in mensa – che Oz era rimasto in camera dicendo di non sentirsi tanto bene, perché lui impiegasse ben poco a congedarsi dai compagni per tornare in dormitorio.

E ora, il respiro appena velocizzato dal passo svelto, sostava davanti alla porta della stanza del biondo. La osservò come se dovesse fargli chissà quale confessione mistica, dopodiché bussò piano, incerto. Il dubbio che Oz stesse già riposando c’era; non colse nessuna risposta dall’interno.

Bussò appena più forte: «Oz?» chiamò piano, il giusto perché si sentisse nella stanza.

Ci volle poco perché la porta si socchiudesse aprendosi verso l’interno e la testa di Oz facesse capolino, lo sguardo chiaro sorpreso di trovare il più grande lì: «Gil, che ci fai qui?» chiese infatti.

Gilbert sorrise, l’espressione innegabilmente sollevata: se era in piedi, non stava troppo male. Oltretutto, per quel poco che vedeva con la luce del corridoio non era eccessivamente pallido.

«Riposavi?» domandò. Oz scosse la testa, aprendo un po’ di più la porta.

«Posso entrare?» chiese quindi, mentre Oz si scostava già aprendo del tutto l’uscio per lasciarlo passare. Prima di richiudere, il biondo accese la luce allungando la mano per raggiungere l’interruttore.

Gilbert sbatté un paio di volte le palpebre.

«Eri al buio?» osservò, perplesso. Oz ridacchiò: «Perché, ancora ti spaventa come quando eravamo più piccoli?» scherzò su prendendolo in giro e notando un inconfondibile rossore sulle guance dell’altro.

Non commentò per chissà quale miracolo.

«Come mai se qui, Gil?» domandò invece, andandosi a sedere sul bordo del proprio letto facendo cenno all’altro di imitarlo. Gilbert si sistemò ai piedi dello stesso materasso, portando quindi lo sguardo sul biondo.

«Noah, il tuo compagno di stanza.» disse inizialmente: «Ha detto che… non ti sentivi bene.» concluse. Oz sorrise, chinandosi appena in avanti verso di lui.

Gilbert, osservandolo senza capire, ebbe una sensazione di dejà-vu; strana, fu il modo in cui la etichettò. Ricordava poco e in maniera piuttosto frammentaria gli ultimi anni a casa Bezarius e quelli subito dopo, ma la sensazione che fosse un movimento abituale quello di Oz era quasi una certezza. Prendendo in considerazione il se stesso di allora, più timido e incerto – e certamente più incapace di adesso – non era difficile immaginare che Oz usasse quel modo di sporgersi verso di lui quando, troppo imbarazzato o mortificato, abbassava tanto lo sguardo e il capo da rendere il viso poco visibile.

Ora, però, era diverso. Benché lui, in qualche modo, fosse rimasto il Gilbert bambino e ansioso di un tempo.

«Cosa c’è?» borbottò fissando Oz di rimando. L’altro ridacchiò: «Ti stai di nuovo preoccupando troppo, Gil. Vero?» disse in quella che, tuttavia, sembrava una domanda retorica.

Nel chiederglielo, aveva portato la mano sulla testa del moro, scompigliando quasi impercettibilmente i capelli con quel vizio di invertire i ruoli che aveva sempre avuto, come se il minore dei due fosse Gilbert e non Oz.

Sorrideva, Oz; lui sorrideva sempre.

Poteva ingannare chiunque: Noah, che lo conosceva da relativamente poco anche se meglio di qualunque altro compagno lì a Latowidge. Alice, di cui Gilbert ancora non comprendeva il legame con il biondo.

Oz mentiva, e lo faceva bene: lui stesso era stato spesso raggirato e preso in giro bonariamente per la sua incapacità di distinguere le sue bugie dalla verità.

Non aveva un senso logico, dubitare adesso fra le tante volte che c’erano e ci sarebbero state: eppure, l’afferrargli lentamente il polso, senza movimenti bruschi ma con fermezza, fu un movimento del tutto naturale.

Oz ne fu inevitabilmente sorpreso e sbatté le palpebre un paio di volte, l’espressione perplessa.

«…Cosa c’è, Gil?»

«Dimmelo tu. Cosa c’è, Oz?» replicò serio, il tono calmo. Non era arrabbiato, solo confuso.

Oz, per contro, lo era certamente più di lui: «Non c’è nulla che non va.»

«A parte che stai male?» domandò, appena più un’insinuazione stavolta. Oz assunse un’aria contrariata: non gli piaceva quando qualcuno era così guardingo nei suoi confronti.

Significava che le sue bugie, la sua finzione e il suo “va tutto bene” avevano un falla da qualche parte, e che lui non la vedeva.

«È solo un malore, Gil.»

Il moro sospirò fra il rassegnato e il paziente. Fissò l’altro, lasciando che per qualche istante regnasse il silenzio: «Cosa c’è?» chiese di nuovo, insistente forse.

Oz tacque, spostando lo sguardo altrove; era inutile continuare a mentire con un Gilbert così intestardito, anche se parlare non gli andava a genio per niente. Optò per un compromesso accettabile.

Non era necessario raccontare tutta la verità.

Ma, per contro, le parole di Echo non lo avevano lasciato in pace per un attimo: in parte, anche l'aver ascoltato il racconto di Noah, l'aver visto con cosa l'amico conviveva e come lo faceva, lo aveva messo quasi a disagio.

La certezza dell'altro nell'affermare chi fosse aveva scatenato troppe cose alle quali Oz aveva sempre, vigliaccamente, evitato di pensare.

Cosa fosse in grado di fare e cosa no, per esempio. Cosa volesse fare, così diverso da cosa si doveva fare e dagli aspetti che un giovane di buona famiglia dovesse possedere e dimostrare al resto del mondo. L'aspettativa, ad Oz non era mai piaciuta.

Le speranze che gli altri riponevano in lui, le aveva sempre ignorate, fingendo di non conoscerle; fuggire e non essere legati a nessun obiettivo era facile, lo era sempre stato.

Aveva iniziato a scappare l'ultima volta in cui aveva cercato di rispondere positivamente a quello che ci si aspettava da lui. Non avrebbe ricominciato.

Anche se significava non avere alcun punto di arrivo, e improvvisare una vita intera nemmeno fosse un gioco di cui si inventavano le regole sul momento.

«...Oz?» si sentì chiamare nuovamente, tornando alla realtà e scuotendo appena la testa.

«Gil... non sono uno studente normale, io?» se ne uscì, senza un senso logico o un motivo, senza nemmeno rispondere alla domanda di Gilbert.

O almeno, non direttamente.

Il più grande lo osservò e per un attimo sentì qualcosa di fastidioso, da qualche parte nella sua testa: era una scena vista. Era un Oz che conosceva, quello che non lo guardava e gli faceva domande che apparentemente non stavano né in cielo, né in terra.

Era un Oz che non voleva rivedere, che poteva persino non piacergli - se solo lui fosse stato in grado di provare quel tipo di sentimento negativo verso il biondo.

«Cosa vuol dire?» domandò perplesso.

Ma bastava quella richiesta semplice e legittima, per far sì che Oz alzasse fra loro lo stesso muro che non aveva mai fatto avvicinare nessuno negli ultimi anni. Ridacchiò.

E significava sempre altre bugie, questo.

«Lascia stare, non...»

«Perché quando si tratta di me sembra quasi che io sia obbligato a risponderti e invece, quando sono io a volere delle spiegazioni fai sempre così?!» sbottò il moro, fissandolo e tirando leggermente il polso verso di sé, come ad enfatizzare quanto detto.

Oz alzò lo sguardo su di lui, d'improvviso irritato senza sapere perché: «Così come?!» replicò, fissandolo eloquentemente, come se fosse Gilbert a doversi scusare.

Per una volta il moro non vacillò - così diverso dal passato e dal Gil bambino che si sarebbe certamente scusato subito, mortificato addirittura: «Così come stai facendo. O menti, o ridi, o non rispondi e basta. Cosa c'è da ridere dopo avermi chiesto se sei normale?!» chiese quindi, ma nel tono che avrebbe dovuto essere almeno irritato quanto il suo, Oz riconobbe la cosa che meno avrebbe voluto notarvi.

Gilbert era di nuovo preoccupato a causa sua.

«E' solo...!» iniziò convinto, facendo però il grave errore di soffermarsi col proprio sguardo su quello di Gilbert. Non era più il bambino che, sebbene più grande di lui, era facile da raggirare con un bugia ben architettata. E non era nemmeno più il ragazzino, servitore di casa Bezarius, che si lasciava intimorire da quasi ogni cosa.

Non era più qualcuno che lui, Oz, potesse tenere lontano con quel muro invisibile che si portava dietro da anni.

Spostò lo sguardo: era come ammettere di essere stato in qualche modo sconfitto, stavolta.

«Perché sono qui a Latowidge, Gil?» mormorò, il tono un misto di diverse cose, che Gilbert non riuscì a riconoscere subito del tutto.

«Ma...?»

«E' perché sono di buona famiglia? O deve esserci per forza un motivo particolare per ognuno di noi?» continuò Oz, interrompendo qualsiasi domanda Gilbert avesse iniziato a porre.

«E' un collegio normale, questo? Perché non sembra affatto. Regole che spuntano fuori dal nulla, guardie del corpo che hanno la mia età e sono convinte che la loro vita non vale niente se non per proteggere il padrone o chiunque decida di dargli ordini per un motivo qualsiasi. Servitori che non sembrano nemmeno avere una personalità loro e che mi dicono che non capisco, e che vengono a chiedermi perché sono qui, come se...» fece una pausa, l'espressione che si era contratta in un cipiglio che era un misto tra l'irritato, il confuso e il panico forse.

«Come se non fossi adatto a starci. Come se... nessuno di loro si aspettasse uno come me qui.» concluse, vergognandosi di un lato così debole e di esserselo lasciato sfuggire di mano.

Non era da lui lamentarsi, non era da lui mostrarsi preoccupato, non importava quanto la situazione fosse grave.

Gilbert aveva ascoltato con attenzione, cercando di capire dove volesse andare a parare con quelle parole ma, al tempo stesso, quasi perdendosi.

E la sua ultima frase, ai suoi occhi era apparsa quasi come un'accusa: perché anche lui, vedendolo a Latowidge, si era chiesto cosa ci facesse lì.

Forse con meno cattiveria, sicuramente senza la minima intenzione di smuovere l'animo di Oz a quel modo, ma ci aveva pensato.

«Gil, cosa mi stai nascondendo?» se ne uscì il biondo, che in quella pausa in cui era calato il silenzio aveva osservato il più grande fissare un punto imprecisato, senza rispondere.

Gilbert portò lo sguardo su di lui: «Oz, neanche io mi aspettavo che tu venissi a studiare qui.» rivelò in un mormorio.

Oz, dopo un primo istante di sgomento che non riuscì a non mostrare, tirò via la mano dall'ormai indebolita presa di Gilbert: «Perché no?» domandò, nessun tremolio o simili nella voce.

Il moro sospirò, lentamente, abbassando appena lo sguardo: «E' solo che... anche Jack--»

«Non voglio ascoltare!» lo interruppe bruscamente l'altro prima ancora che finisse la frase. Gilbert tacque, l'espressione mortificata - dopotutto, non cambiava niente, mai.

Oz spostò lo sguardo altrove, facendo per alzarsi: se era quello il punto, se era di quello che voleva parlare, allora non aveva niente altro da dire a Gilbert. Avrebbe riposato e il giorno dopo sarebbe tornato a lezione, lì a Latowidge. Non importava quanti altri ancora avrebbero chiesto "perché era lì".

Gilbert lo aveva immediatamente seguito con lo sguardo nel vederlo alzarsi, notandolo barcollare poco dopo. Gli fu accanto praticamente subito, senza quasi accorgersi di quel movimento venuto spontaneamente.

In piedi, sorresse il più piccolo - le mani sulle spalle, per evitargli quel barcollare, la schiena di Oz appena a contatto con il suo stomaco più o meno.

«Ehi.» chiamò piano, vedendo l'altro restio a quel contatto muoversi in modo tale da allontanarsi. Si accigliò, approfittando per una volta di avere più forza del biondo e facendo pressione con la mano sulla spalla.

Lo voltò in modo tale da guardarlo in viso, ma non ne aveva realmente bisogno: seppur goffamente, lo aveva stretto in un abbraccio.

«Non sto dicendo che non puoi stare qui, o che non ti voglio a Latowidge. Nessuno dice questo, Oz.» borbottò. L'altro, rimasto immobile in quella stretta così "da Gilbert", si rilassò lentamente per poi annuire, lasciando affondare il viso nella stoffa della divisa del maggiore.

Inspirò lentamente, prima di mormorare un: «Lo so...» il tono che lasciava intendere a Gilbert che, senza ombra di dubbio, Oz si era imbronciato.

Si concesse un sorriso sollevato, che Oz non poté vedere.

 

 

Nel silenzio della stanza, la melodia lenta del pianoforte che si trovava a quello stesso piano dell'edificio scolastico arrivava appena ovattata dalla distanza, ma non per questo meno bella di quanto fosse.

Seduto accanto alla finestra che, complice il buio anche all'esterno lasciava una volta tanto le tende aperte senza il rischio che entrasse troppa luce, mantenne lo sguardo sul giardino. Il "compagno" - era quasi ironico chiamarlo a quel modo, ma non lo interessava più di tanto un semplice appellativo - taceva immobile e in ascolto.

Incurvò le labbra in un sorrisetto ironico, senza dire nulla comunque.

La melodia durò ancora qualche attimo per poi avviarsi alla chiusura del brano ed, infine, cessare ripristinando il silenzio.

Rimase immobile, di suo; fu l'altro ad alzare appena il viso, spostando lo sguardo su di lui: «E' bella.» commentò soltanto.

Si concesse uno sbuffo fra l'annoiato e il sarcastico: «E' una musica di quasi dieci anni fa.» sottolineò, come se questo ne sminuisse la bellezza. Dall'altro capo della stanza sentì provenire un ridacchiare poco sommesso.

«E un semplice studente la conosce?»

«E' un mio vecchio amico.» ironizzò. L'altro schioccò le labbra e lui non se ne stupì: era sempre stato permaloso e poco incline ad essere tenuto all'oscuro delle cose.

«Allora chi--»

«Taci.» ordinò perentorio, benché nel tono non vi fossero sfumature seccate o irritate. L'altro tacque, sebbene di malavoglia, e il compagno alla finestra tornò a rilassarsi visibilmente. La melodia, da qualsiasi stanza provenisse, stava ricominciando.

«Voglio ascoltare quanto migliorerà fino a quel giorno.» spiegò, anche se l'altro non l’aveva domandato. Ma sapeva lo stesso che una spiegazione la gradiva sempre.

«E' anche lui un umano stupido.» fu l'irritato parere che venne dato come risposta.

«A questo proposito» disse, richiamando a sé l'attenzione dell'altro - solo perché la melodia era stata interrotta bruscamente dopo un passaggio completamente errato - senza guardarlo: «voglio che mi liberi di qualcuno che mi sta seccando particolarmente.» comunicò.

L'altro drizzò le orecchie: finalmente qualcosa di vagamente interessante.

«Chi?»

«Vincent Nightray.»

 

 

 

 

Note

Per la vostra immensa gioia (e per la mia che mi complico la vita, come se la trama fosse poco complessa di suo *__*") il capitolo finisce così ù.ù

Non ci sono note particolari per questo capitolo, a parte il mio invito a segnalarmi eventuali OOC di Oz o Gil perché davvero, muoverli in questo capitolo è stato un parto >.> (sarà che comincio ad accusare la stanchezza dello scrivere la notte *come al solito*?)

 

Passiamo ai ringraziamenti <3

 

Yoko891: ...come ho già detto, sull’IC di Gil (e Oz) non sono molto convinta stavolta x° quindi mi affiderò al giudizio tuo e degli altri lettori *-*”

Sono contenta per Rufus <3 E anche che il precedente capitolo sia risultato scorrevole e per questo piacevole da leggere. Spero che questo lo sia altrettanto X3

 

Gioielle: come ti accennai in altre sedi… la SirjanAedan no, per l’amor di Dio *muore ripetutamente* Felice comunque che Aedan susciti interesse (ai personaggi originali sono sempre affezionata. Le mie creature *coccola*) e man mano sto cercando di dare spessore anche agli altri, come Noah in questo.

Per le scene GilOz… ce la posso fare XD Dai che vi ho aggiunto quel-qualcosa-di-non-definito VinceGil XD *non glielo aveva chiesto nessuno, ma vabbé*

Jack per ora almeno è stato nominato, non c’era Marcus ma consoliamoci (?) c’era Noah XD

Ti ringrazio di seguirmi sempre, spero che anche questo capitolo sia stato di tuo gradimento <3

 

 

LitaChan: e io non posso che ringraziare ogni commento ^^ come detto, spero di aver sopperito un po’ almeno alla nostalgia per Noah ù.ù

Sempre gentilissima, cuccati anche tu l’abbraccio da fan quale sei *-*

 

 

Un grazie particolare anche a chi so che legge fisso (qui o in altre sedi) e mi supporta <3 Ally e Riza, grazie <3

   
 
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