Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
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Autore: Vitani    08/06/2021    0 recensioni
Dopo la sconfitta di Gargoyle, i superstiti del Nuovo Nautilus cercano lentamente di far tornare alla normalità le proprie esistenze. Non è semplice, quando si è vissuta un'avventura come la loro.
Electra ha visto morire l'uomo che amava e si trova da sola con un bambino da crescere. Nadia non riesce a smettere di guardare al passato nonostante abbia ormai la vita che desidera.
Presto, troppo presto, l'incubo di Atlantide torna ad addensarsi sul futuro.
E, stavolta, sembra esigere la vita dei suoi Figli.
Basteranno a salvarli l'abnegazione di una madre, il legame di una sorella e di un fratello?
Basterà il comandamento di un padre, "vivi"?
Basterà l'amore?
"Nadia, noi non siamo obbligati a dare o ricevere amore. Noi siamo amore."
Genere: Science-fiction, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Medina Ra Lugensius, Nadia Ra Arwol, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L’ESPOSIZIONE UNIVERSALE
 
 
 
Le Havre, estate 1900
 
 
«Mamma!»
Etienne era esaltato.
«Sono troppo felice di essere qui.»
Electra sorrise.
«Mi fa piacere.»
Erano seduti nel piccolo salotto di casa Lartigue ed Etienne sorseggiava un succo di frutta gentilmente offerto dalla padrona di casa. Nadia, come suo solito, andava e veniva. C’era sempre qualcosa da fare, sosteneva, piatti da sistemare, panni da lavare. In verità sembrava solo nervosa perché Jean, in quel periodo, si vedeva in casa meno che mai e aveva preso l’abitudine di portare il piccolo Philippe, che aveva solo tre anni, con sé nelle sue scorribande.
È un talento, diceva, diventerà un grande inventore!
Nadia sbuffò.
«Come se uno in casa non fosse già abbastanza!»
Raoul, seduto accanto a Etienne, ridacchiò.
«Problemi con Jean, Nadia?»
Nadia si lasciò sfuggire il suo miglior sorrisetto sarcastico.
«Come ti viene in mente?»
Servì agli ospiti una crostata di ciliegie e si sedette vicino a Electra, sistemando le gonne del lungo abito rosa da casa che indossava.
«C’è l’Esposizione Universale e non sta più nella pelle, è da un anno che lavora all’ennesima aeromobile e qualcosa mi dice che sarà un fiasco come le precedenti.»
«Jean è un grande meccanico», puntualizzò Raoul, «ma quando si tratta di costruire qualcosa da zero perde di vista la funzionalità.»
Anche lui, dovette ammetterlo, era emozionato all’idea di vedere un’Esposizione Universale. Non ne aveva mai avuto l’occasione e questa sarebbe forse stata l’ultima opportunità. Cominciava a non avere più l’età per certe cose e per questo aveva deciso di attraversare il Mediterraneo ancora una volta, fino in Francia.
Era anche molto felice di vedere Nadia. La trovò in forma, quei battibecchi erano sempre stati la normalità fra lei e il marito, il vecchio capo-macchinista non dubitava che i due andassero ancora d’amore e d’accordo. Era normale, dopo tutto quello che avevano rischiato quand’erano solo dei ragazzini…
La porta d’ingresso s’aprì all’improvviso e ne emerse Jean, bagnato di sudore e con Philippe in braccio.
«Nadia, hai qualcosa di fresco da bere? Si muore di caldo nel laboratorio… oh, ragazzi! Siete già arrivati?»
Rise e poggiò Philippe a terra.
«Non ricordavo che arrivaste oggi, scusate, coi preparativi per l’Esposizione ho perso il senso del tempo.»
Risero tutti, eccettuata Nadia che gli mise in mano un bicchiere d’acqua senza tanti complimenti.
«Bevi e fila a renderti presentabile.»
Jean obbedì senza discutere e corse verso la stanza da bagno, portandosi dietro Philippe che era sporco di olio da motore quanto lui.
Nadia sospirò, con fare melodrammatico.
«Lo so che dovrei impedirgli di coinvolgere Philippe nelle sue ossessioni, ma hanno lo stesso identico carattere e davvero non so più come fermarli.»
Le veniva da piangere ma, sotto sotto, era piuttosto divertita. Amava davvero Jean.
«Vado un attimo su a vestire Philippe e torno. Se conosco Jean, sarebbe capace di mettergli la camicia al contrario.»
Tornarono tutti e tre una mezz’oretta dopo, Philippe mano nella mano con la mamma. Era un bel bambino, identico a Jean se si eccettuavano gli occhi verdi e la carnagione un po’ scura. Vide Etienne e il suo sguardo si illuminò.
«Ciaooo!»
Si divincolò dalla stretta della madre e corse sul divano ad abbracciare Etienne, che rise.
«Ciao, Phil! Come stai?»
Il bimbo rise.
«Bene! Con papà costruiamo un aereo!»
«Grande! Poi me lo fai vedere?»
«Sì sì!»
Etienne si mise Philippe sulle ginocchia.
«Ora facciamo merenda», disse, e gli passò un pezzetto di crostata.
Jean e Nadia si accomodarono a loro volta e Jean bevve un sorso di succo di frutta.
«Tu come stai, Etí?»
Il bambino sorrise.
«Bene. Non vado più a scuola.»
Perché avesse deciso di esordire proprio con quella notizia, Electra non lo capì mai. Fatto sta che ritenne giusto intervenire, per spiegare almeno un po’ la situazione ai suoi compagni.
«Aveva problemi con gli altri bambini. Ora lo seguo io a casa.»
Etienne non sembrava uno che avesse difficoltà a relazionarsi con la gente. Anche in quel momento sorrideva come se non avesse avuto un problema al mondo. Nadia lo osservò a lungo ma non ebbe cuore di chiedere che tipo di guai avesse avuto.
Raoul, a sua volta, osservava il bambino che s’era messo a giocare con Philippe, gli faceva fare cavalluccio sulle gambe. Lui aveva parlato a lungo con Electra, avevano ragionato su quale fosse la cosa migliore da fare a lungo termine. Raoul, in particolare, aveva pensato a Nemo. Etienne certo non era un ragazzino come gli altri, per quello aveva problemi a inserirsi.
Raoul non avrebbe saputo dire da dove originasse una tale difficoltà. Etienne gli era sempre sembrato un bambino simpatico, gioviale. Non riusciva a capire come avesse potuto non fare amicizie e perché preferisse trascorrere il suo tempo con gli adulti. Ne aveva parlato a Electra, che gli aveva sorriso.
“È il motivo per cui faccio fatica anch’io”, aveva detto. “Io ho fatto e visto troppe cose ormai, vivo una vita tranquilla ma non sarò mai davvero a mio agio nella società cosiddetta normale. Etienne, be’… avrei voluto che vivesse in pace, con la spensieratezza che io non ho mai conosciuto. Lui però è intelligente. Anche volendo tenerlo all’oscuro di tutto, avrà sempre più domande da porre. Sulle sue origini, su suo padre. È figlio di Elusys, Raoul. Piuttosto che vederlo divorarsi nell’incertezza, preferisco spiegargli tutto.”
Raoul aveva sospirato.
“Che faremo se dovesse venire intrappolato anche lui nella spirale dell’odio?”
Electra aveva chiuso gli occhi, Raoul le aveva letto la preoccupazione in volto.
“Speriamo che non succeda”, era stato tutto ciò che lei era stata in grado di rispondere.
Non era successo, ora Raoul poteva dirlo.
Etienne aveva ascoltato, aveva compreso, era andato da lui per farsi raccontare del padre e di tutto il resto. Aveva fatto molte domande, a cui erano seguite altrettante risposte.
Sembrava essere andato tutto bene.
Etienne era un bel bambino di dieci anni, coi capelli scuri del padre, la pelle bronzea e gli occhi blu, sorridente e tranquillo. Esaurite le sue domande, aveva iniziato a studiare con foga tutto quello che la madre gli suggeriva e aveva ottenuto risultati brillanti. Era incredibile una tale sveltezza in un bambino così piccolo. Raoul non avrebbe saputo dire se gli derivava dal sangue di Atlantide o dall’essere figlio di Electra o, be’, da entrambe le cose.
 
“Nonno Raoul?”
“Sì?”

“Papà mi voleva bene?”
Il vecchio annuisce.
“Tantissimo. Ti ha voluto bene dal primo momento.”
“Allora perché ha deciso di salvare Nadia quella volta?”
Raoul trasalisce. Non sa chi gliel’abbia detto. Non sa se sia stata Electra. Sa perfettamente a che cosa il bambino si stia riferendo. Pensa bene a come gli può rispondere.
“Etienne”, dice infine, “se tu fossi stato al posto suo, avresti lasciato morire tua sorella?”
Etienne spalanca gli occhi, sbatte le palpebre più volte, come se mai avesse pensato a quell’eventualità.
“No”, risponde, ed è sincero.
Raoul sospira di sollievo.
Non ha più dubbi, Etienne è un bambino dolce, che non coltiva alcuna traccia di malizia.
Di entrambi i suoi genitori ha preso il meglio.
 
 
«Vi va di andare a vedere l’aereo che ho costruito?» propone Jean. «Siamo pronti per il volo di collaudo.»
«Volentieri!»
 
Il “Nadia X” era un velivolo monoposto progettato per essere veloce e facilmente manovrabile.
Non era un biplano, come al solito di Jean che sosteneva che il futuro sarebbe appartenuto ai monoplani, e aveva un motore alimentato a combustibile – quale, Jean non aveva voluto rivelarlo – che lo rendeva più stabile dei prototipi di velivolo attualmente in circolazione.
Jean controllò la fusoliera, la saldatura delle placche metalliche che rivestivano lo scafo.
Il serbatoio era pieno.
«A posto», disse. «Possiamo provare a farlo partire.»
Etienne, con Philippe attaccato alla gamba, osservava affascinato.
«Posso salirci?» chiese.
Jean annuì.
«Certo.»
«Mamma?»
Electra guardò il figlio, poi annuì a sua volta. Era inutile provare a fermarlo.
Etienne sorrise, poi si arrampicò fino al sedile.
Jean saltò su una delle ali, per mettere a punto le ultime cose.
«È facile da pilotare», disse, «c’è un’unica leva con cui direzionare il timone e prendere o diminuire di quota, questo pulsante serve per attivare gli stabilizzatori che facilitano l’atterraggio, servono soprattutto in caso di vento o brutto tempo. C’è anche un paracadute in caso di manovre… burrascose. Pensi di aver capito?»
«Sì.»
Nadia, che osservava la scena, sussurrò a un orecchio di Electra: «Se Jean riesce a pilotare, ce la può fare anche Etienne.»
Electra sorrise.
«Non ho dubbi.»
Jean, intanto, era sceso.
«Comincio a dare i giri all’elica», disse.
Etienne annuì.
 
 
«Avevo dieci anni la prima volta che sono salito su un velivolo. Era uno di quelli costruiti da Jean, si chiamava Nadia-qualcosa. Ricordo di aver pregato che non avesse il caratteraccio di mia sorella, o mi sarei schiantato dopo il primo metro. Ricordo che Jean diede i giri all’elica, poi mi urlò di tirare verso di me la leva di comando in modo da prendere quota.
Io obbedii e, be’, il Nadia-qualcosa funzionò.
Non dimenticherò mai la sensazione di quando mi staccai da terra, il velivolo che mi tremava intorno per l’attrito.
Guardai sotto di me e c’erano tutti, mi salutavano.
Feci una curva ampia sopra la casa di Jean, poi decisi di azzardare e presi quota, col terrore che mia madre mi sgridasse una volta sceso.
Ricordo la sensazione, però.
Ero libero.
Mi sentivo come mai m’ero sentito in vita mia.
Leggero, felice.
Ho alzato gli occhi e sopra di me c’era un cielo blu immenso, sconfinato, punteggiato da qualche nuvola bianca come zucchero filato.
L’ho adorato.
All’epoca non avrei mai immaginato che il volo per me sarebbe diventato quasi una professione.
Non avrei immaginato neppure che non poter più volare sarebbe stato il mio più grande rimpianto.
A un certo punto, proprio mentre iniziavo a godermi il vento, il motore iniziò a fare uno strano rumore.
Aumentò la pressione interna, capii d’intuito che la struttura rischiava di spezzarsi.
Scesi, atterrai non so come tutto intero.
Mi vennero tutti incontro e io ridevo.
Ridevo come non ho mai più riso in vita mia.
“Sono atterrato in orizzontale!” urlavo.»
 
 
«Devi trovare il modo di far reggere il velivolo alla pressione, Jean. Hai visto cos’è successo a Etienne, no? Appena ha preso quota le rivettature hanno rischiato di saltare.»
Erano sul treno che li avrebbe portati a Parigi, all’Esposizione Universale. Raoul stava discutendo con Jean sul modo migliore di sistemare il “Nadia X” in vista della gara che si sarebbe tenuta nel pomeriggio.
«Ma è costruito per essere veloce, non per salire a quote alte!»
«Veloce lo è», si intromise Electra, «o forse è solo colpa di mio figlio che è uno spericolato.»
Etienne, accanto a lei, stava aiutando Philippe a mangiare la pappa tenendolo sulle ginocchia.
«Non sono spericolato», rispose. «E poi sono atterrato tutto intero o no?»
«Fammi vedere i progetti, Jean», disse Raoul. «Vediamo che possiamo fare tenendo conto del poco tempo.»
Dieci anni prima erano riusciti a far volare una nave spaziale, non c’era motivo per cui non potessero farcela adesso con un piccolo velivolo monoposto.
Trascorsero un’ora buona a passarsi i progetti di mano in mano.
«La fusoliera va alleggerita», disse Raoul, «in questo modo guadagniamo in velocità.»
«Inoltre la struttura delle ali va modificata», aggiunse Electra. «Ve lo ricordate l’Exelion? Le placche delle ali gli conferivano manovrabilità. Qui sono ancora troppo rigide, per questo rischiano di spezzarsi.»
«Non stiamo parlando di una nave spaziale.»
«Lo so, ma diventerà più stabile.»
«Infine», puntualizzò Jean, «ci serve un pilota. Avevo intenzione di salire io, ma credo che sarò più utile con una chiave inglese in mano.»
«Vado io», si offrì Etienne. «Se mi dici qual è il percorso posso memorizzarlo.»
«Il giro è semplice, si parte dal ponte Alexandre III, si percorre il lungosenna e si fa un giro intorno alla Tour Eiffel, il tutto nel minor tempo possibile.»
«E che si vince?»
«Una coppa e soprattutto soldi.»
«Affare fatto. Mi dai la metà?»
«Etienne.»
Electra li interruppe. Che suo figlio volesse pilotare quel trabiccolo andava ancora bene, ma che si mettesse a estorcere denaro era inconcepibile.
«Ops.»
Il bambino sfoderò il suo miglior sorriso.
«Posso, mamma? Per favore?»
«Vedremo.»
«E dai!»
«Silenzio.»
«Scherzi a parte te la senti, Etienne?» chiese Jean.
Lui annuì.
«Certo.»
S’era talmente divertito che non vedeva l’ora di riprovare.
 
Raggiunsero Parigi che era già ora di pranzo. Avevano mangiato dei panini in treno, quindi andarono direttamente alla sede della gara davanti al Grand Palais.
«L’aeroplano l’ho fatto spedire, dovrebbe essere già arrivato.»
Mentre Jean andava a parlare col gestore dell’evento, Nadia si guardava intorno.
«Questa atmosfera mi riporta in mente un sacco di cose. È stato a una fiera come questa che ho incontrato Jean ed è iniziato il nostro viaggio.»
Si voltò verso Electra, Raoul ed Etienne, che teneva Philippe per mano.
Il bambino, ipnotizzato dai colori vivaci dei velivoli, sorrideva e cercava di togliersi i piccoli occhiali che indossava.
Jean tornò, sventolando un foglietto: «Mi hanno dato il numero del box e l’ordine di gara, siamo quarantaseiesimi!»
Raoul guardò l’orologio: «Cioè finiremo a pomeriggio inoltrato.»
«Quand’è così», sorrise Nadia «vi va di fare un giro?»
«Perché no», rispose Electra. «Jean e Raoul però è meglio che restino qui e inizino la messa a punto.»
«Ma…»
«Niente ma, Jean.»
Il tono che usò fu così assertivo che nessuno osò opporsi. Raoul, accanto a lei, sorrise.
«Agli ordini, vicecomandante.»
 
Percorrevano il lungosenna, Nadia per mano con Philippe ed Electra con Etienne poco più indietro. Dovevano stare attenti a non perdersi di vista, perché la folla era incalcolabile. L’Esposizione, che segnava la fine di un secolo e l’avvento di un altro, aveva attirato gente da ogni parte del mondo. Chiunque potesse permettersi il viaggio era là, a Parigi, quell’estate.
Etienne insistette per provare il trottoir roulant, un marciapiede mobile che percorreva il tracciato dell’Esposizione per millecinquecento metri, ma risolse ben presto che era troppo lento per i suoi gusti. Volle prendere un gelato, che divise con Philippe, poi iniziò a scalpitare per arrivare al Champ de Mars.
«Voglio vedere il Palazzo dell’Elettricità!»
«C’è ancora il sole, vedrai ben poco», rispose Nadia. «Ci andiamo dopo cena, tanto ne avremo per tutto il giorno.»
«Viene anche Marie?»
Quella domanda posta all’improvviso sorprese Nadia. Etienne l’aveva chiesto sottovoce, in modo quasi timido, ed evitava di guardarla in faccia.
«Sì, andiamo tutti insieme a mangiare da Maxim’s.»
Etienne alzò le spalle.
«Se viene anche Marie allora va bene.»
Nadia sorrise. Poteva sbagliare, ma le sembrava di aver visto il fratellino arrossire. Eh sì, il piccolo Etí stava proprio crescendo.
 
Tornarono da Jean e Raoul dopo aver fatto il giro sulla riva destra della Senna, dove era stata ricostruita una bizzarra Parigi medievale di legno. Proprio sotto la Torre Eiffel, invece, una struttura in ferro e vetro allestita per l’occasione esponeva ogni nuovo ritrovato riguardante l’agricoltura. Al di là del ponte di Iéna, invece, vicino al Trocadéro, l’Esposizione riguardava Cina e Giappone. S’erano fermati a prendere un tè in un perfetto giardino giapponese ricostruito.
Jean, dal canto suo, ultimata la messa a punto osservava il suo Nadia X con grande soddisfazione.
Electra inarcò le sopracciglia e guardò il figlio.
«Sei sicuro di quello che fai, Etienne?»
Forse l’avrebbe davvero dovuto fermare. Etienne, vicino a lei, non sembrava minimamente preoccupato.
«Se proprio precipito vedrò di farlo in acqua», fu tutto quello che ebbe da dire.
Era una frase che Electra l’avrebbe sentito pronunciare spesso.
«Sei sicuro di avere capito come si pilota?»
«È facile.»
Electra si arrese.
 
Guarda suo figlio, un ragazzo di ormai vent’anni.
Ha i capelli un po’ troppo lunghi, bisogna proprio che glieli tagli.
«Il gruppo dei piloti lo comando io», dice.
Lei finge di non sentire.
«Dopo non ti chiederò mai più niente.»
 
Guardò Etienne che saliva sul velivolo e Jean che lo aiutava a memorizzare gli ultimi tratti del percorso. Era breve, in verità. Tre giri intorno alla Torre Eiffel, chi avesse impiegato meno tempo, o fosse tornato intero, avrebbe vinto.
«Non lo fermi?» le chiese Nadia.
«No», rispose lei.
Probabilmente era da stupidi, ma la verità era che lei una tale luce negli occhi di suo figlio non l’aveva mai vista. Fargli cambiare idea sarebbe stato impossibile e lui non gliel’avrebbe mai perdonato.
«Numero 46!»
Toccava a loro.
Etienne era già posizionato sulla rampa di lancio.
«Tre…»
Jean diede i giri all’elica.
«Due…»
Il motore si avviò.
«Uno…»
Partito. Etienne salì immediatamente di quota e virò a sinistra. Primo scoglio, i tetti delle case, superato. Secondo scoglio, il vento. Erano distanti dal mare e nonostante questo una corrente d’aria s’incuneava sul fiume, costringendo il motore – qualunque motore – a uno sforzo supplementare. Inoltre, il velivolo era leggero. Guadagnava in velocità ma perdeva in stabilità.
Etienne avrebbe potuto perderne il controllo come niente.
Electra lo guardò finché fu visibile, prima che il fiume curvasse leggermente.
Era lassù, da solo, col vento a fischiargli nelle orecchie.
Non aveva bisogno di un cronometro per capire che Etienne era veloce.
Abbassò lo sguardo solo quando il Nadia X fu al di là dei tetti.
Chiuse gli occhi, respirò a fondo.
Attese di sentirlo ritornare, nel silenzio dentro di lei.
Udì il rombo del motore, un po’ lontano ma costante.
Aveva superato il primo giro.
L’ombra del velivolo passò su di loro, li superò, ed Etienne virò con una naturalezza impossibile.
Ecco perché lei non l’aveva fermato anche se, a conti fatti, tutta quella situazione era spericolata e inutile. Sembrava che suo figlio fosse nato per stare là sopra. Nessuno avrebbe detto che pilotava solo da poche ore. Electra non avrebbe dovuto stupirsene: quel bambino aveva sempre avuto facoltà che superavano la normale percezione. Magari si trattava soltanto di talento, magari no, magari non l’avrebbero mai scoperto.
Electra sperò soltanto che il vento non giocasse brutti scherzi.
 
Etienne aveva appena iniziato l’ultimo giro quando il motore iniziò a perdere colpi.
“No…” sussurrò.
Venne sbalzato in avanti dalle vibrazioni e istintivamente cercò di alzarsi di quota.
Il motore sembrò riprendersi.
Jean trattenne il respiro. Riusciva a vedere il Nadia X che tornava indietro sul tracciato del fiume, notò l’andatura strana e capì che c’era un problema al motore. Eppure, era sicuro di aver sistemato tutto! Osservò Electra, con la coda dell’occhio, e non riuscì a capire se lei se ne fosse accorta. Pregò che fosse solo un falso allarme, che non succedesse niente. Se fosse accaduto qualcosa a Etienne, la sua vita avrebbe potuto dirsi conclusa.
Etienne, in alto, si sforzò di pensare.
Il motore stava rallentando e temeva di non sbagliare immaginando che a breve si sarebbe spento del tutto. Era ancora abbastanza in quota, col vento a spingerlo, e aveva tutte le intenzioni di finire la gara e di uscirne intero.
Il velivolo sobbalzò e si abbassò di qualche metro.
Etienne riuscì a non mollare la cloche, malgrado lo sbalzo e il senso di vertigine.
Mancava poco, davvero.
Non mollare, pensò, non mollare, non mollare.
Pregò che il vento gli desse una mano, vedeva la linea del traguardo davanti a sé.
Chiuse gli occhi, strinse la cloche, provò a dare gas.
Trattenne il fiato.
 
Il pubblico osserva il velivolo abbassarsi, miracolosamente in orizzontale, perché il vento lo asseconda.
Plana giù verso la Senna, rapido, atterra con uno schiaffo sull’acqua.
Etienne è incolume.
Bagnato fradicio, ma incolume.
Ride.
 
Lo portarono a riva su una chiatta, ancora rideva.
«Visto che sono atterrato in orizzontale anche stavolta?»
Electra, dal canto suo, era molto meno divertita.
«Hai rischiato la vita. Ma stupida sono stata io a lasciartelo fare.»
Avrebbe voluto abbracciarlo, ma non lo fece. Rimase a braccia conserte, a guardarlo grondare acqua con gli occhi brillanti e l’aria ribelle.
Non era arrivato al traguardo per pochi metri, ma se l’avesse fatto avrebbe vinto.
E lo sapeva.
Electra sospirò.
«Bene, ma ora come facciamo? Tra un paio d’ore dobbiamo andare a cena da Maxim’s, non puoi presentarti conciato in questo modo.»
Etienne abbassò lo sguardo, notò la pozza d’acqua maleodorante che s’era formata ai suoi piedi.
Mortificato, arrossì.
Raoul, dietro di lui, ridacchiò.
«Torniamo in albergo.»
 
Etienne era nella vasca da bagno, Electra lo sentiva borbottare fra sé.
«Non ho davvero idea di cosa sia andato storto.»
Non riusciva a darsi pace per la mancata vittoria. Anzi, non per la vittoria, per il traguardo.
«Sei atterrato tutto intero, a me basta e avanza questo», rispose.
«Non capisci. Avevo il traguardo davanti.»
Suo figlio sbucò dalla stanza da bagno avvolto in un asciugamano.
«Avanti», disse Electra, «ti aiuto ad asciugarti i capelli.»
Etienne sbuffò.
«Faccio da solo. Ormai sono grande.»
Sì, era grande ma ancora aveva problemi ad allacciarsi le camicie. E si era ostinato a volerne indossare una color avorio, quella sera. Con un fiocco blu di seta intorno al collo, intonato ai suoi occhi, e pantaloni, gilet e giacca da sera blu scuro.
Electra lo aiutò ad abbottonarsi e ad annodarsi il fiocco, poi gli pettinò i capelli.
Li portava corti, con la riga laterale, un ciuffo scuro gli ricadeva sugli occhi blu.
Più passava il tempo più sembrava assomigliare al padre.
Non si trattava soltanto di una somiglianza fisica. Etienne, talvolta, aveva lo sguardo di un adulto.
Aveva lo sguardo di Nemo quando, sul ponte del Nautilus, si perdeva a guardare le stelle.
Electra fingeva di non notarlo. Avrebbe voluto chiedere a suo figlio che cosa pensasse in quei momenti, ma aveva paura di conoscere le risposte.
Così si accontentava di vederlo ridere, come quel giorno.
«Avrai caldo», gli disse.
«In caso mi tolgo la giacca.»
Era preso a guardarsi allo specchio, con le labbra carnose atteggiate in una smorfia, come se qualcosa nella sua immagine non gli andasse a genio. Poi ci rinunciò.
Electra sorrise. In dieci anni sarebbe diventato un bellissimo ragazzo.
«Andiamo», disse.
 
Maxim’s era uno dei ristoranti più famosi di Parigi, un’istituzione in Rue Royale nonostante avesse aperto da pochi anni.
Si incontrarono tutti davanti all’ingresso, una facciata in legno decorato che non passava inosservata fra i palazzi della via. Marie arrivò con Nadia, che era andata a prenderla, e corse a salutare Electra. Etienne, invece, sembrava intenzionato a rimanere sulle sue e osservava Marie con la coda dell’occhio. Fu Electra a fargli cenno di farsi avanti, perché era curiosa di godersi la scena.
Marie portava un bell’abito giallo che, pur accollato, metteva in risalto un abbozzo di forme.
Aveva ormai quattordici anni e stava diventando una bella ragazzina
Salutò Etienne col più gentile dei sorrisi.
«Ciao, Etienne!»
Lui, con gran divertimento di Electra, non seppe che rispondere. La osservava guardingo, con le labbra atteggiate in una smorfia, come se avesse avuto di fronte un qualche animaletto sconosciuto.
«C… ciao», mormorò infine.
«Come stai?»
«Bene, tu?»
Oh, be’, almeno non aveva dimenticato come si parlava. Spinto probabilmente da un moto di amor proprio, il bambino drizzò il mento e offrì a Marie il braccio mentre entravano. La ragazza, non senza una risata divertita, lo accettò.
«Sei davvero carino, Etienne.»
Etienne nascose l’imbarazzo dietro una smorfia di disgusto.
«Gra… grazie», si costrinse a rispondere.
Sedettero allo stesso tavolo, insieme a Philippe che aveva insistito per stare con loro, mentre gli adulti ne occupavano un altro qualche metro più in là. Marie, la più grande, sentiva la responsabilità di quella prima cena “da adulti”. Non era certo la prima volta che usciva a cena, le era capitato spesso anche con sua zia Julie, ma era la prima volta che sedeva a un tavolo tutto suo. Lisciò la tovaglia candida, in un moto di nervosismo, e si guardò intorno. La sala era gremita, gli specchi tondi alle pareti amplificavano lo spazio e restituivano l’illusione di un ambiente molto ampio.
Un cameriere servì loro da bere e poco dopo arrivarono gli antipasti freddi.
Marie tagliò le verdure per Philippe, consentendogli di mangiare con le mani un pezzetto di carota, poi chiese a Etienne come si fosse sentito alla gara.
«Bene!» rispose lui, «È stato incredibile! Senti addosso il vento come se fosse una cosa viva. Peccato il finale, ma la prossima volta farò meglio.»
«Ti è piaciuto davvero volare, eh?»
«Già. E tu? Come stai?»
Marie alzò le spalle.
«Come al solito. Gli zii hanno deciso di mandarmi a studiare in una buona scuola per signorine. Sono fortunata.»
«Io ho smesso di andare a scuola.»
«Davvero? Come mai?»
«Mi prendevano in giro perché non ho il papà.»
«Che cosa orrenda.»
Neanche Marie aveva i genitori, ma non era mai stata presa in giro per questo. Neanche li ricordava più, ormai. Solo qualche sprazzo talvolta, simile a un sogno.
«Però mamma è brava, mi insegna lei.»
«Sì, ricordo che quand’ero piccola ed eravamo sul Nautilus dava lezioni anche a me. Era un po’ severa, però.»
Etienne rise.
«Non sai quanto.»
La cena proseguì tranquillamente, coi secondi di carne – il celeberrimo agnello Belle Otero andava assaggiato – e coi dolci. Philippe, tornato dalla madre a metà cena, cercava di resistere al sonno e fu ben felice di essere svegliato da una spumosa crêpe Veuve joyeuse servita con frutta fresca.
«Ti piace, Philippe?»
«Tanto!»
Nadia, mentre aiutava Philippe a mangiare, lanciò un’occhiata a Etienne e Marie. La conversazione sembrava procedere spedita, ma il chiacchiericcio dei commensali e il viavai dei camerieri non aiutavano a capire di che stessero parlando.
«Però sono carini insieme», commentò Nadia.
Electra, seduta di fronte a lei, ridacchiò.
«Mi dispiace per Etienne, ma non credo che Marie sia interessata.»
Nadia alzò le spalle.
«Non si può mai dire. Nemmeno io ero interessata a Jean, all’inizio.»
Ignorò l’occhiata offesa che le lanciò Jean.
«Marie andrà a studiare in collegio il prossimo anno», continuò. «Si è fatta grande. Sembra ieri che l’abbiamo salvata.»
«Che farà dopo gli studi?» chiese Electra.
Nadia sospirò.
«Non ne ho idea. Troverà un marito, suppongo. Come tutte.»
Finse di non notare il silenzio di Electra, il fatto che avesse abbassato lo sguardo. “Come tutte”, aveva detto. No, non come tutte. Non come la donna che aveva di fronte.
«E tu?» chiese. Che farai tu?
C’erano sottintesi in quella domanda, sottintesi che Electra ben comprese ma a cui non aveva ancora intenzione di dare risposta. Non sapeva, semplicemente. Quelli erano pensieri che non le appartenevano.
 
 
Tangeri, estate 1900
 
 
Omar chiuse il libro a metà, infilando un segnalibro rosso tra le pagine.
Aveva chiesto a suo padre di procurargli quei libri con la scusa di una ricerca da fare. Erano scritti da una giornalista che viveva a Le Havre e aveva studiato a Londra e, prima ancora, si guadagnava da vivere come artista circense. Nadia Ra Arwol, si chiamava. Lo stesso cognome di Etienne.
I libri, due volumi, raccontavano la storia della giornalista nei dettagli. Raccontavano di lei, principessa del perduto regno di Atlantide senza memoria delle sue vere origini, della Pietra Azzurra che aveva sempre con sé, di come tutto fosse iniziato quando un trio di sgangherati delinquenti aveva iniziato a darle la caccia. Era stata aiutata dall’equipaggio di un sottomarino chiamato Nautilus, responsabile dell’affondamento di numerose navi e sulle prime scambiato per un qualche gigantesco mostro marino.
Omar ricordava vagamente quella questione. Era piccolo all’epoca, aveva solo tre anni, ma i mostri marini esercitano un certo fascino sulla mente di un bambino. Suo padre, un funzionario governativo, certamente ne aveva parlato a casa.
Nel libro si raccontava anche della battaglia infuriata su Parigi, in cui la prima Torre Eiffel era andata distrutta. Corrispondeva con quel che Etienne aveva raccontato. Certo, era possibile che anche lui avesse letto i libri e ne avesse tratto spunto per le sue menzogne, ma compariva pure un personaggio che somigliava molto alla madre, Medina.
Insomma, per quel che aveva potuto ricostruire, i dati storici coincidevano e, per quanto riguardava i protagonisti, c’erano degli innegabili punti in comune fra i racconti di Etienne e le parole scritte nei libri. I due volumi non avevano avuto un gran successo, erano piuttosto difficili da reperire, ma per suo padre non era stato un problema procurarglieli.
Inoltre c’era la questione del cognome. Ra Arwol, senz’altro non un cognome comune.
Che la giornalista fosse parente di Etienne?
Omar non avrebbe saputo dire cosa lo interessasse tanto di quella faccenda.
Forse era solo la voglia di farla pagare a Etienne.
Il piccoletto era in Francia e comunque non andava più a scuola ma, Omar lo giurò, si sarebbe vendicato in ogni caso. L’avrebbe rincorso fino a Parigi, se necessario. Tanto era comunque lì che sarebbe andato l’anno successivo, per completare gli studi e poi iscriversi all’Ecole militaire.
Si alzò in piedi, scosse la sabbia dalla tunica.
Era andato sulla spiaggia, in cerca di un po’ di quiete per leggere, ma era ormai tempo di tornare a casa poiché il sole iniziava a calare.
Avrebbe parlato con suo padre e l’avrebbe messo a parte dei suoi piani futuri.
Chissà, magari un giorno sarebbe stato proprio lui, Omar El Yamiq, a sconfiggere gli alieni cattivi.
Chissà.
   
 
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