Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
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Autore: Vitani    04/09/2021    0 recensioni
Dopo la sconfitta di Gargoyle, i superstiti del Nuovo Nautilus cercano lentamente di far tornare alla normalità le proprie esistenze. Non è semplice, quando si è vissuta un'avventura come la loro.
Electra ha visto morire l'uomo che amava e si trova da sola con un bambino da crescere. Nadia non riesce a smettere di guardare al passato nonostante abbia ormai la vita che desidera.
Presto, troppo presto, l'incubo di Atlantide torna ad addensarsi sul futuro.
E, stavolta, sembra esigere la vita dei suoi Figli.
Basteranno a salvarli l'abnegazione di una madre, il legame di una sorella e di un fratello?
Basterà il comandamento di un padre, "vivi"?
Basterà l'amore?
"Nadia, noi non siamo obbligati a dare o ricevere amore. Noi siamo amore."
Genere: Science-fiction, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Medina Ra Lugensius, Nadia Ra Arwol, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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MARIE

 
 
Parigi, 1902
 
 
Cara Grandis,
mi fa piacere che tu mi abbia scritto. Qui va tutto bene, ormai mi sono abituata alla vita in collegio.
Le giornate scorrono tranquille, sempre piuttosto uguali a dire il vero, abbiamo le lezioni al mattino e il pomeriggio lo dedichiamo a fare i compiti e, qualche volta, a uscire fra amiche.
Ti avevo parlato di due di loro, Rebecca ed Elise. Sono piuttosto simpatiche, una è figlia di un industriale, l’altra di un politico. Sembra impossibile che io, nata nella lontana Capo Verde, sia finita a studiare in mezzo a persone di così buona famiglia. È proprio vero che la vita cambia!
Tu come stai? Spero bene. Sei ancora in Italia, vero? Come ti trovi e quanto ti fermerai?
A proposito, ho ricevuto un telegramma di Sanson ieri.
Mi dice di dover passare per lavoro a Parigi, e che gli farebbe piacere vedermi.
Anche io sono molto contenta di rincontrarlo, dopo tutto questo tempo. Ci vediamo raramente, è vero, ma è sempre un gran gentiluomo con me.
Gli manderò i tuoi saluti, anche se penso che tu lo senta più spesso di me.
Dammi tue notizie.
 
A presto,
Marie
 
Marie rilesse la lettera, chiuse i fogli in una busta e appose francobollo e indirizzo.
Scriveva regolarmente a Grandis per aggiornarla sulla sua vita e su come trascorreva le giornate. Non che avesse molto da dire. Pur essendo a Parigi, nel pieno fervore della cosiddetta Belle Époque, aveva ben pochi svaghi e conduceva una vita molto riservata. Le regole del collegio erano piuttosto severe in tal senso, la sera aveva il coprifuoco e doveva comunicare con chi usciva e dove andava.
Aveva informato la direttrice che l’indomani sarebbe uscita con un suo conoscente di vecchia data e che sarebbe rientrata in tempo per la cena. La direttrice, fortunatamente, non aveva mosso obiezioni.
Marie iniziò a pensare a che vestito avrebbe indossato. Non aveva chissà che ampia scelta, tutti vestiti molto sobri tra l’altro, ma ci teneva a essere carina. Dopotutto, si disse, era la prima volta che usciva da sola con un uomo.
 

Sanson le aveva dato appuntamento al Bois de Boulogne. Erano belle giornate di primavera, l’ideale per fare due passi e ammirare la fioritura delle rose. Non la vedeva da anni, doveva essere diventata una bellissima ragazza. Le aveva dato appuntamento nel roseto dentro al Parc de Bagatelle, e si sentiva stranamente agitato. Passeggiò per un po’, era in anticipo. Sentiva caldo, fin troppo per una giornata tutto sommato mite.
«Ciao, Sanson!»
La voce di lei lo fece sobbalzare.
«C-ciao, Marie!»
Non se l’aspettava. Marie gli era apparsa alle spalle come una visione, ed era… carina, perfino più di quanto Sanson immaginasse. Indossava un abito color pastello, stretto in vita da un corsetto, e portava i capelli lunghi e arricciati alle punte. Non erano più del rosso acceso dell’infanzia, ma si erano scuriti in un bel mogano. Le lentiggini c’erano sempre, però, così come la luce furbetta nello sguardo. Ebbe timore di come sarebbe apparso ai suoi occhi, ormai invecchiato e già oltre la soglia dei quarant’anni. Lei ne aveva solo diciassette, ancora una ragazzina!
«Come stai? Sono felicissima di vederti!»
«Anch’io. Sto bene, solo un po’ invecchiato come puoi vedere.»
Lei rise.
«Ma non è vero, sei uguale a una volta!»
Sanson tossì per l’imbarazzo, ma Marie s’era già avvicinata alle rose.
«Ma che meraviglia!»
Le ammirava e accarezzava i petali, annusandone il profumo.
«Sono bellissime!»
A pensarci bene fu il sorriso di lei in quel momento, smagliante, luminoso, spontaneo, pioggia fresca in un giorno d’estate.
Fu il sorriso di lei.
Trascorsero un pomeriggio piacevole, passeggiando a braccetto. Marie parlava e parlava, ricordava come si erano conosciuti e le mille altre avventure. Cercava conferme ai suoi ricordi di bambina, talvolta vaghi, talvolta incredibilmente vividi. Certo aveva perso i suoi genitori, ma si era divertita. Era stata la grande avventura della sua vita.
«Per certi versi è un peccato averla vissuta a quattro anni. Certe volte penso che ora me la sarei goduta di più!»
«Abbiamo rischiato la vita, però.»
«Ma credo che ne sia valsa la pena.»
Ne era valsa la pena? Sì, Sanson poteva dirlo. Era stata un’esperienza di quelle che capitano una sola volta nella vita. Una di quelle che cambiano la vita.
Quel pomeriggio l’avevano ripercorsa tutta, passo dopo passo e davanti a una tazza di tè, finché non era stata l’ora di riaccompagnare Marie al dormitorio.
Camminavano piano, ancora a braccetto, come se non avessero voglia di separarsi.
Non ne avevano alcuna, in realtà.
Quando si fermarono davanti ai cancelli il sole stava ormai tramontando e incendiava i capelli di Marie.
«Sono stata bene oggi.»
Lei sorrideva ancora, ma era un sorriso più tirato, quasi triste.
«Quanto ti fermi ancora a Parigi?» gli chiese.
«Parto fra un paio di giorni. Per le prossime due notti mi fermo al Ritz.»
Una luce negli occhi azzurri di Marie, speranza forse?
«Allora ci potremmo vedere domani! O… hai da fare? Che dici?»
Sanson sorrise.
«Perché no? Ti permettono di uscire la sera? Potremmo vederci agli Champs-Elysées e poi cenare insieme.»
«Volentieri! Trovo il modo!»
A Sanson piacque vedere Marie che si illuminava e quasi saltava dalla gioia, gli piacque pensare che fosse a causa sua. Sorrise di rimando.
«Allora, a domani.»
Fu in quel momento che accadde. Marie gli si avvicinò, lo abbracciò come per salutarlo, poi lo guardò con quei grandi occhi azzurri quasi con esitazione.
«Scusa, è che… vorrei che questo pomeriggio fosse durato un po’ di più.»
Sanson non seppe mai cosa gli prese, cosa lo spinse.
Si abbassò, la strinse appena, badando a non farle troppo male.
La baciò.
Se ne pentì subito.
 

Era stato un bacio rapido, appena uno sfiorare di labbra, qualcosa che il donnaiolo Sanson non avrebbe nemmeno dovuto prendere in considerazione.
Dopo si era scusato, agitatissimo, ma Marie non aveva battuto ciglio e anzi, nell’aprire il cancello, gli aveva urlato un “ci vediamo domani”. Lui era corso via, camminando alla massima velocità che le sue gambe lunghe gli consentissero, col cuore che gli batteva all’impazzata neanche fosse stato un ragazzino.
Che cosa ho fatto, si disse. Cosa ho fatto.
Cosa aveva fatto?
Aveva rubato il primo bacio a Marie, alla bambina che aveva tenuto in braccio!
Non sarebbe più riuscito a guardarsi allo specchio.
Perché l’aveva fatto, poi? Sì, certo, Marie era diventata una bellissima ragazza, ma Sanson non doveva dimenticare che era tanto più piccola di lui e…
Era stato quel sorriso.
Gli balenò in mente, un istante, un ricordo luminoso.
Avrebbe voluto sempre vederla sorridere, aveva sempre voluto vederla sorridere fin da quando l’aveva conosciuta. Una bambina allegra, spensierata pur nelle difficoltà che aveva dovuto affrontare, diventata una ragazza sicura di sé che sicuramente meritava di meglio nella vita rispetto a uno come lui, scapolo senza particolari prospettive e per di più ormai avviato lungo il viale del tramonto.
Aveva quarant’anni, quasi. Lei a malapena diciassette.
Più di vent’anni di differenza.
Era un disgraziato anche solo a pensare che fra loro avrebbe mai potuto esserci qualcosa.
Certo, a pensarci bene al Capitano Nemo era successo lo stesso.
Alla fine s’era innamorato di una ragazza che aveva vent’anni meno di lui e che aveva cresciuto come una figlia, in una situazione talmente precaria che perfino vivere sembrava impossibile. Per un istante si chiese come dovesse essersi sentito, quell’uomo così orgoglioso e onorevole, se si fosse mai sentito fragile com’era Sanson in quel momento. Se si fosse mai chiesto se stesse facendo o meno la cosa giusta. C’erano poi cose giuste quando si parlava di sentimenti? Le rare volte che aveva visto Electra non le aveva mai menzionato Nemo, per rispetto nei loro confronti. Era un argomento delicato, qualcosa che, Sanson ne era certo, bruciava ancora dopo dodici anni. Nemo era stato l’uomo più grande che Sanson avesse mai conosciuto e certamente non poteva essere dimenticato così in fretta.
Lui, ecco, lui non era Nemo.
Non ne aveva lo spessore, non ne aveva il carattere. Era un uomo leale, era stato bello in gioventù, s’era divertito e non aveva mai davvero messo la testa a posto. Ormai sospettava che fosse tardi.
E poi non era detto che quel bacio significasse niente.
Certo, Marie gli piaceva, ma lei forse l’avrebbe vissuto come uno scherzo da parte di un vecchio amico d’infanzia e nulla più.
Già, forse era meglio chiuderla lì, quella cosa che era nata, in qualsiasi modo avessero voluto chiamarla.
Ammesso, poi, che qualcosa fosse nato per davvero.
 

Il pomeriggio del giorno dopo il tempo volgeva al brutto. La mattina aveva piovuto, uno scroscio d’acqua ventosa che aveva fatto temere a Marie che l’appuntamento del giorno saltasse.
Invece, fortunatamente, aveva smesso di piovere. Certo era parecchio nuvoloso ma, se il destino fosse stato dalla sua parte – e doveva esserlo! – sarebbe andato tutto bene.
Marie era ancora emozionata, se ripensava a quel che era accaduto la sera precedente non poteva fare a meno di sorridere e arrossire. Sanson l’aveva baciata! Certo non era stato come quei baci di cui leggeva, di nascosto, nei romanzi che si passavano sottobanco fra ragazze al collegio. Era stato uno sfiorare di labbra garbato, ma che aveva acceso in lei sentimenti mai provati prima.
Era felice, non vedeva l’ora di rivederlo.
Certo Sanson le era sempre piaciuto, era quello che le piaceva più di tutti delle persone che stavano sul Nautilus.
Non credeva, però, che fosse possibile emozionarsi tanto al solo pensare a lui.
S’era fatta carina, per l’occasione aveva chiesto a una sua amica di prestarle il rossetto, e s’era avviata per tempo in modo da arrivare puntuale.
Invece eccola lì, vicino all’ Arco di Trionfo, addirittura in anticipo!
«Ah, Sanson!» si disse «In anticipo non arriverei per nessun altro, sentiti onorato!»
Osservò l’ora sul suo orologio da polso e attese.
 
Marie attende, per minuti e minuti.
Passano dieci minuti dall’ora stabilita, si consola pensando che lui debba aver avuto un contrattempo.
Passano venti minuti, c’è traffico per strada.
Passa mezz’ora, un’ora.
Marie piange.

 
«Ti odio, Sanson!»
Ancora con le lacrime agli occhi, ma stavolta dal nervosismo, Marie resisteva alla tentazione di prendere a calci fioriere, marciapiede e qualsiasi altra cosa le capitasse a tiro. Le ragazze perbene non si comportavano in quel modo.
Come si permetteva Sanson di non presentarsi senza nemmeno avvisare?
Che comportamento era? Non da uomo, di sicuro. E lei come aveva potuto credere di… di… di provare qualcosa per un tale vigliacco?
Ah, avrebbe volentieri sbattuto la testa contro il muro se fosse servito a qualcosa.
Rallentò l’andatura, fermandosi a guardare una vetrina.
Era una scusa per guardare il suo riflesso, in realtà.
Vide gli occhi pesti, il rossetto sbavato, i capelli spettinati sotto al cappellino che indossava. Con che diritto Sanson la riduceva in quel modo? Si diede della stupida.
In quel momento, nel guardare il riflesso di una ragazza arrabbiata e delusa, si sentì male come mai le era capitato prima. No, doveva reagire. Doveva reagire o non sarebbe stata più Marie. Non era da lei arrendersi. Aveva superato di peggio quand’era ancora una bambina.
Dov’è che alloggiava Sanson? Al Ritz? Ebbene sarebbe andata là, se non altro a chiedere notizie.
 

Sanson osservava il cielo fuori dalla finestra della sua stanza d’albergo, sopra piazza Vendôme. Era nuvoloso e si stava alzando il vento, avrebbe piovuto a breve.
Sospirò.
Si sentiva un vero bastardo. Perché, poi, non presentarsi? Non era mica successo niente di male. Si sarebbe trattato soltanto di un’uscita tra vecchi amici, niente più.
Sperò che anche Marie non si fosse presentata, avendo visto il tempo incerto.
Almeno si sarebbe sentito meno in colpa.
Almeno non avrebbe avuto la sensazione di aver perso qualcosa di bello, forse l’unica cosa bella che la vita avesse ancora da offrirgli. Era invecchiato, Sanson. Erano finiti i tempi baldanzosi della gioventù, i tempi in cui inseguiva Grandis come un’ombra fedele. Ormai era un semplice impiegato d’ufficio in un’azienda, scapolo alla soglia dei quarant’anni, senza più prospettive né avventure.
L’aver lasciato andare Marie gli bruciava un po’, perché era la prima volta da tanto che aveva sentito animarsi qualcosa nel cuore. C’era un po’ di rimpianto, già, per qualcosa che forse non sarebbe mai neppure davvero nato.
Si sentì ancora di più uno stupido, un sentimentale, un vergognoso…
«Idiota!»
Quell’alta voce femminile per un attimo gli sembrò quella di Grandis, quasi fu colto dal riflesso di sobbalzare sull’attenti come avrebbe fatto ai vecchi tempi.
Ma no, non era Grandis, non poteva essere Grandis che in quel momento si trovava in Inghilterra.
Guardò giù.
Proprio sotto la sua finestra, di fronte all’ingresso dell’hotel, stava una ragazzina dai capelli rossi e gli occhi azzurri accesi di rabbia. La ragazzina, lentiggini e il vestito più bello che aveva, gli stava urlando insulti degni di un portuale. Marie.
Sentì di meritarseli tutti, quegli insulti.
«Scendi giù!»
Gli altri ospiti dell’hotel, attratti dalle urla, si stavano affacciando alle finestre. Perfino qualche passante si stava già fermando a guardare. Oh, che non si dicesse che Sanson era un codardo! Non era mai stato un codardo. In più, in cuor suo, provava un sollievo indescrivibile. Aveva capito, ormai, e non poteva fare a meno di esserne felice.
Scese.
La prima cosa che sentì fu la mano di lei che gli piombava in faccia e gli dava uno schiaffo.
Incassò, perché si meritava anche quello. 
«Non hai niente da dire?»
Lei non era arrabbiata, era furibonda. E lui no, non aveva niente da dire. Avrebbe voluto. Davvero, avrebbe voluto dirle che lei gli piaceva davvero e che le era grato anche solo di esistere, ma le parole gli morivano in gola.
«Marie…»
Cominciò a piovere. Prima una, poi un’altra, grosse gocce lasciavano la loro impronta sulla piazza.
«Sei un vigliacco! Dov’è il Sanson coraggioso che ricordo?»
Le gocce di pioggia si confondevano su quel viso di fanciulla con lacrime che s’erano formate gli angoli degli occhi e indugiavano lì, fermate dalla rabbia e da un moto di orgoglio.
«Mi sei sempre piaciuto», lei disse. «Mi piaci ancora tanto. Però non ti permetto di trattarmi così!»
Furono le sue ultime parole. Poi si girò, si allontanò di corsa, il ticchettio delle scarpette che battevano la strada si confuse con quello della pioggia che cadeva.
Sanson rimase impietrito, a guardare il punto dov’era stata lei.
C’era solo un’assenza, adesso, un buco.
Un vuoto.
No, Sanson si disse. Io non sono mai stato un codardo.
Le corse dietro, sotto la pioggia, pregando che la folla di Parigi non fosse così numerosa da averla ingoiata.
«Marie!» chiamò. «Marie!»
Percorse i viali, i vicoli. Oltrepassò chiese, bancarelle, negozi. Domandò ai passanti.
L’avete vista? Una ragazza di diciassette anni, coi capelli rossi. Sì, è da sola. No, non sono suo parente. Lo so che è sconveniente. Vi prego…
Lo presero per pazzo, probabilmente.
Si sentiva pazzo anche lui.
 
La trova, infine.
Accucciata in una stradina secondaria, che ancora piange.
Ha riconosciuto il colore del suo vestito.
E dei capelli, quegli inconfondibili bei capelli rossi come il fuoco.
 
«Marie?»
Forse lei neppure gli avrebbe parlato. Stava seduta, piangeva con le braccia sulle ginocchia e la testa affondata nella gonna.
Sanson sorrise.
«Ti sporcherai il vestito.»
Lei tirò su col naso ed emise un verso, una sorta di sbuffo mal trattenuto. Era ancora arrabbiata.
«Che me ne importa del vestito.»
«Avanti», disse Sanson. «Ti aiuto ad alzarti.»
«Non ho bisogno del tuo aiuto.»
Marie si alzò e fece per sistemarsi la gonna, ma infangata e zuppa d’acqua com’era riuscì solo a sporcarsi ancora di più. Guardò Sanson con un po’ di imbarazzo, ma lui continuò a sorridere.
«Mi dispiace, non ho portato l’ombrello.»
Le offrì il braccio, che lei accettò.
«Andiamo, ti accompagno al collegio.»
«No.»
«Che?»
«Non mi va di andare al collegio. Non subito. Alla fine siamo usciti insieme, no?»
A sua volta, Marie gli sorrise.
«Sono ancora arrabbiata con te, ma forse riesco a farmela passare.»
«In ogni caso dobbiamo ripararci, non puoi stare in giro così bagnata.»
Sanson si tolse la giacca e gliela mise sulle spalle.
«Passiamo un attimo in albergo da me, così ti asciughi e ti riscaldi un po’. Ti prenderai una polmonite altrimenti.»
L’aveva proposto senza alcun tipo di secondo fine, anche col senno di poi avrebbe potuto giurarlo.
 

 
 
Parigi, qualche mese dopo
 
Cara Grandis,
non so come dirtelo. Aspetto un bambino.
Il padre è Sanson. Non so bene cosa fare.
Tua, Marie
 
Il primo desiderio di Grandis era stato quello di accoltellare Sanson.
Di prenderlo, appenderlo al soffitto e utilizzarlo come sacco per la boxe.
Che cosa gli passava per la testa?
Ammesso che avesse una testa, cosa di cui Grandis aveva sempre dubitato.
Invece respirò profondamente e lo chiamò al telefono.
«Ma sei scemo?!» gli urlò.
«Eh?» rispose lui.
«Sei un cretino, un pazzo, un disgraziato. Io ti ammazzo se ti prendo, mi hai capito?! Avresti dovuto stare attento, se proprio dovevi farlo, imbecille. Hai quarant’anni, non dodici!»
«Ma che ho fatto?»
«Devo anche dirtelo? Hai la memoria così corta? Ho sempre saputo che eri tutto muscoli e niente cervello, ma adesso stai esagerando!»
Ma niente, lui non capiva.
«Hai messo incinta Marie, razza di capra.»
Il silenzio che fece seguito a quell'affermazione fu tombale. Grandis poté quasi percepire lo sconcerto e l'incredulità che s'impadronirono di Sanson, poté immaginare la pelle d'oca, la confusione che d'improvviso si faceva strada nella vuota scatola cranica del suo ex sottoposto. Poi un botto, neanche attutito, proprio uno schianto di quelli da precipizio, come un vaso buttato giù dal terzo piano. Chissà, magari era svenuto. O magari era morto, e meglio di no perché visto che la frittata era stata fatta ora era necessario che ognuno si prendesse le proprie responsabilità.
Sanson, come minimo inciampato, ci mise un po’ a rimettersi in piedi.
Passarono lunghi minuti, dopodiché: «Che… che… che…».
Grandis attese.
«Che faccio?»
Grandis inalò a fondo ed esalò lentamente un respiro.
«Come che fai, razza di somaro! Ti prendi le tue responsabilità! La sposi!»
 

Marie stava china sulla scrivania, con le lacrime agli occhi.
Non incolpava Sanson per quello che era successo, anzi. A lei Sanson piaceva e sarebbe stata felice di crescere il suo bambino. Non gli voleva imporre la presenza sua e di un figlio, però. Lui era un uomo adulto, non poteva certo sobbarcarsi una ragazzina. Quel che era successo era stato, be’… non un errore, non l’avrebbe mai definito tale, quanto più una conseguenza del fatto che si volevano bene. Quello era poco ma sicuro. Ci pensò su. Non voleva sbarazzarsi del bambino ed era l’unica certezza che avesse. Certo era giovane, ma avrebbe potuto trovarsi un lavoro. Dubitava che gli zii avrebbero accettato di mantenerla ancora, vista la situazione.
Chissà come stava Nadia, a proposito. Ed Electra, era tanto che non aveva sue notizie.
Già, si disse. Era circondata da donne forti. Avrebbe dovuto essere forte anche lei come loro.
Farò come Electra, pensò. Crescerò il bambino da sola.
Se ce l’aveva fatta lei, potevano farcela entrambe.
Aveva scritto una lettera anche a Nadia, per avvertirla, e l’amica s’era subito precipitata a Parigi per rassicurarla e farle coraggio. Non l’avrebbero mai lasciata sola e se le fosse servito aiuto per affrontare i suoi zii non aveva che da chiederlo. Anche Jean era rimasto molto sorpreso, aveva detto Nadia, ma questo non intaccava di una virgola la stima che nutriva verso Sanson o verso Marie stessa. Erano tutti buoni amici, si volevano bene. Aveva accennato a Nadia di voler crescere il bambino o la bambina per conto proprio, e Nadia aveva cercato di dissuaderla. Sanson era un brav’uomo, non l’avrebbe abbandonata. Marie, però, non avrebbe proprio voluto parlargliene. Sosteneva che non ce ne fosse bisogno, che non poteva accollargli un peso simile. Nadia aveva ribattuto che Sanson non l’avrebbe mai considerata un peso e che sbagliava a fidarsi di lui così poco. Marie, però, si sentiva davvero confusa.
Qualsiasi decisione avesse preso, temeva di sbagliare.


Electra aveva pensato a lungo a quale fosse la cosa migliore da fare.
Nadia le aveva detto di Marie nella sua ultima lettera e lei era rimasta piuttosto sorpresa. Ricordava bene che Marie e Sanson erano sempre andati d’accordo, fin da quando lei era solo una bambina, ma mai avrebbe pensato che… oh, d’altra parte lei era proprio l’ultima persona a poter giudicare Marie, dal momento che s’era innamorata di Nemo quand’era appena adolescente.
Anche per questo Nadia s’era rivolta a lei, per lettera, chiedendole di parlare con Marie.
A quanto pareva, aveva intenzione di crescere da sola il bambino.
“Farò come la signorina Electra”, aveva detto.
“Ti prego”, aveva scritto Nadia nella lettera, “convincila tu a parlare con Sanson. Lei non è te. non ce la farebbe da sola. È ancora una bambina.”
Nadia aveva ragione, certo. Lei, Electra, era sempre stata un caso a parte. Nemo, ne era certa, in quelle ultime drammatiche ore aveva preso le sue decisioni anche sapendo che lei, in qualunque modo fosse finita, ce l’avrebbe fatta. Marie invece, pur avendo vissuto molte avventure, era davvero ancora poco più che una bambina. Cos’avrebbe mai potuto fare da sola? In primis, una volta che la cosa si fosse saputa, l’avrebbero cacciata dal collegio. Electra non conosceva i suoi parenti ma c’era da immaginare che non l’avrebbero presa bene. E Parigi… chi a Parigi avrebbe mai dato da lavorare a una ragazza madre? Forse le fabbriche, giusto quelle. Una ben triste fine per una ragazza come Marie.
No, si disse, Nadia aveva ragione. Bisognava che le parlasse.
Andò al telefono, compose il numero e attese che passassero la chiamata.
«Marie?» disse.
«Signorina Electra!» esclamò Marie.
Sembrava sorpresa ma felice di sentirla. Electra sorrise.
«Come stai?»
La sentì esitare.
«Bene, grazie. Tutto bene.»
Electra pensò a come entrare in argomento senza risultare troppo invadente. Erano cose delicate, le sarebbe dispiaciuto ferirla o farle capire che Nadia le aveva parlato alle spalle. Fu, inaspettatamente, proprio Marie a trarla d’impaccio.
«Nadia te ne ha già parlato, vero? Altrimenti non mi avresti chiamato direttamente.»
«Se ti riferisci a Sanson, sì, mi ha detto tutto. Scusala, è molto preoccupata per te.»
Marie tirò su col naso, come se stesse cercando di trattenere le lacrime.
«Nessun problema.»
Electra sorrise fra sé.
«Sono molto felice per te, lo sai? Un bambino è una bella cosa.»
«Lo so.»
«Etienne è stato la mia salvezza. Non mi vergogno a dire che non so cosa ne sarebbe stato di me se non avessi avuto lui.»
«Io però non voglio che Sanson…»
«Marie.»
Electra la interruppe. Sapeva perfettamente cos’aveva intenzione di dire, che aveva intenzione di crescere il figlio da sola eccetera. Marie, all’altro capo del Mediterraneo, tratteneva il fiato. Electra aveva usato, senza volere, il tono assertivo del comandante. S’addolcì, capendo che Marie temeva un rimprovero.
«Te l’ho detto, sono sinceramente felice per te. Per voi. Anche per Sanson. È una brava persona e merita di veder crescere suo figlio. E il bambino merita di avere il suo papà vicino. Etienne non ha mai conosciuto suo padre e comunque ne sente terribilmente la mancanza. Perciò ascoltami, Marie: tu sei fortunata ad avere l’uomo che ami accanto. Io questa fortuna non l’ho avuta. Non fare la sciocca e parla con Sanson.»
S’accorse di avere le lacrime agli occhi, le asciugò mentre parlava.
Marie stette in silenzio per un po’, poi sospirò.
«Grazie.»
 

S’erano sposati qualche mese dopo, con la pancia di Marie che già s’intravedeva sotto al vestito. Electra aveva ricevuto la partecipazione ma non era riuscita ad andare di persona. Nadia, comunque, le aveva fatto un bel resoconto. Marie era raggiante, Sanson, emozionato, aveva perfino pianto.
Gli zii di lei, dopo averlo conosciuto, l’avevano accettato. Certo la differenza d’età era molta, ma lui aveva fatto una buona impressione e Marie ne era davvero innamorata. Inoltre c’era quella donna inquietante, quella Grandis, che si era detta pronta a ucciderlo se avesse anche solo torto un capello a moglie o figlio in arrivo. A quanto pareva, Marie era in buone mani.
Il bambino, alla fine, s’era rivelato una bambina a cui era stato dato il nome di Anita.
Insomma s’era risolto tutto per il meglio.
Bene così, e avanti tutta.
 

 
 
Da qualche parte, in un altro emisfero, è in corso una festa di Natale.
Poco importa che faccia caldo e che siano in mezzo al nulla, Natale è Natale, e a qualcuno è venuta l’idea di organizzare una festa con tanto di ballo, alcool, Etienne al pianoforte e qualche altro musicista sparso fra i membri dell’equipaggio.
Ci sono ben poche ragazze a bordo e fra quelle poche alcune sono già occupate e altre sono troppo piccole per destare reale interesse.
Il Grande Capo non fa testo. Etienne, seduto al piano a suonare una polka, sghignazza non poco nel guardarla rifiutare con garbo gli inviti di qualche giovincello troppo ubriaco. È sempre la solita scontrosa.
Mamma, mamma, dice fra sé.
L’avrebbe invitata lui a ballare, fra poco, un altro brano o due e poi si sarebbe riposato le mani e l’avrebbe fatta ridere, finalmente, e rilassare.
“Etienne?”
La bambina, dietro di lui, lo chiama con voce petulante.
“Anita?”

Fa cenno ai musicisti di continuare senza di lui.
“Te la posso chiedere una cosa?”
“Dimmi.”
Sa già cosa lei voglia chiedere, ciononostante la ascolta.
“Voglio volare anche io.”
Etienne le sorride, le dà la risposta che le ha sempre dato.
“Sei piccola, fra dieci anni ne riparliamo.”
“Uffa!”
“Ehi!”
L’altra bambina arriva come una furia, si attacca a Etienne abbracciandolo forte e salendogli in grembo con l’agilità di una scimmietta. Seduta sulle sue ginocchia, attaccata alla sua camicia, scruta Anita coi verdi occhi penetranti.
“Vai via”, le dice.
Anita, per tutta risposta, le fa una linguaccia e si allontana. Non c’è storia con lei, quando fa così.
Etienne sbuffa, poi le accarezza piano i morbidi capelli neri.
“Non si fa così. Avete quasi la stessa età, dovreste essere amiche, non litigare.”
La bambina lo osserva, col bel visino corrucciato.
“Io non litigo.”
Etienne, di nuovo, sorride.
“Siamo troppo superiori, eh? Che devo fare con te?”
Lei non ha un attimo di esitazione.
“Sposarmi.”
Etienne stavolta ride, di cuore. Poco importa quanto lei faccia la sostenuta, quanto ci sia di inumano negli occhi verdi profondi e in quel bel viso da bambolina, per fortuna è ancora innocente, è ancora una bambina.
Lei non ride, però.
Non prova nemmeno a sorridere.
Etienne la osserva per un attimo, legge qualcosa nel suo sguardo, allora si scuote.
“Andiamo, Tia. Andiamo a invitare mamma a ballare.”
 
 
 
 
   
 
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