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Autore: Adeia Di Elferas    12/06/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Te l'ho già detto: ripartirai presto.” ribadì una volta di più Cesare, guardando Michelotto con occhio autoritario: “Voglio che tu vada a Piombino, a guardia della città. Degli altri non mi fido.”

Pur se lusingato da quell'ultimo inciso, il Corella fece una smorfia di insofferenza e provò a dire, con voce bassa: “Io preferirei restare...”

“Invece ho così deciso.” tagliò corto il Valentino, zittendosi.

Miguel incassò le spalle e tacque a sua volta. Il Borja aveva già detto e ridetto un sacco di volte che aveva preso quella decisione al solo scopo di tenere sotto controllo Piombino, ma l'amico sospettava che invece lo volesse fuori dai piedi solo per poter restare con la sorella Lucrecia come e quando voleva, senza incappare nei suoi sguardi di ammonimento o nella sua gelosia sotterranea.

Gli appartamenti papali erano silenziosi e nel salone in cui i due erano stati fatti accomodare c'era una luce piena, ma con un che di decadente, che faceva capire come, ormai, si fosse al 15 settembre.

Cesare, in effetti, moriva dalla voglia di vedere la sorella. Sapeva che era ancora a Roma e che, per certe lungaggini, ci sarebbe rimasta ancora per parecchio. Solo per quello non aveva mandato tutti al diavolo per correre da lei: poteva aspettare, anche se ogni minuto lo stremava.

“Figlio mio...” finalmente la voce tonante del papa irruppe nel salone e il profilo importante di Rodrigo Borja catalizzò l'attenzione del Duca e di Michelotto.

Mentre gli andava incontro, il pontefice spalancò le braccia e, una volta che fu abbastanza vicino, gli strinse le spalle nelle sue grosse mani con una forza tale da far quasi male al giovane. Cesare, che conosceva bene il padre, colse in quel mezzo abbraccio un avvertimento e non un paterno saluto.

“Voi potete andare.” disse immediatamente Alessandro VI a Miguel e, mentre questi, testa china, eseguiva l'ordine, il Borja tornò a fissare il figlio: “E così ti sei dato malato per poter tornare a Roma senza sollevare disordini nell'esercito...”

Al Duca di Valentinois il tono d'accusa non sfuggì, ma fece del suo meglio per attenuare la propria irritazione, nel rispondere: “Basta che mi guardiate in viso: vedete le mie cicatrici? Molte si sono riaperte e devo vedere i medici che...”

“Non farmi fesso, figlio mio.” lo zittì il papa, scuotendo lentamente il capo e facendo un passo indietro: “Se stessi davvero male, non avresti chiesto subito di tua sorella.”

“Sta per sposarsi, volevo farle le mie congratulazioni.” si schermì il giovane.

“Si è già sposata – lo corresse il padre – e anche se sono state nozze per procura, sono valide a tutti gli effetti. Mi sono spiegato?”

Il modo in cui gli occhi rapaci di Rodrigo si erano posati su di lui, fece rabbrividire Cesare: “Vi siete spiegato.” confermò: “Ma è mio diritto incontrarla, comunque.”

“Ho saputo che a Napoli hai avuto qualche problema... Che hanno anche quasi ucciso il tuo amico Michelotto...” disse il papa, con freddezza.

“Non è stato nulla di che...” minimizzò il figlio.

Il pontefice scosse il capo e, da lì, cominciò a elencare tutte le mancanze del Duca che gli erano state riferite giorno dopo giorno, settimana dopo settimana. Il giovane restava immobile ad ascoltare, senza ribattere, capace solo di sollevare un sopracciglio di quando in quando.

“Adesso voglio andare da mia sorella...” tagliò corto Cesare, non appena il padre si fermò un momento per riprendere fiato.

Rodrigo gonfiò il petto, pronto a fare la voce grossa, quando qualcuno bussò alla porta.

“Tu aspetta qui.” intimò a figlio, che aveva già dato mostra di voler approfittare di quell'interruzione per andarsene e fare quello che voleva.

Alessandro VI, sbuffando tra sé, raggiunse la porta e chiese chi fosse a disturbarlo. Un suo cubicolare fidatissimo gli chiese scusa e poi, con circospezione, cominciò a sussurrargli all'orecchio.

“Se Saraceni e Ballingeri sono qui – ribatté il papa, a voce alta – mandateli a riposare, come d'accordo, e poi li incontrerò in serata...”

“Vostra Santità, il fatto è che...” riprese l'altro, per poi tornare a bisbigliare.

Il papa dovette ricordarsi che suo figlio era lì presente, per non dare in escandescenze contro Lucrecia. Non voleva mostrare a Cesare quanto poco avesse in suo potere la figlia.

Il cubicolare gli aveva appena rivelato che i due inviati ferraresi erano stati intercettati subito dalla giovane, che invece di mandarli a riposare, li aveva fatti portare al suo cospetto. Rodrigo si sentiva ribollire: aveva il terrore che sua figlia potesse rovinare tutto. Era una donna, una giovane donna, che cosa ne poteva capire lei di trattative economiche e politiche? Che cosa doveva dire ai due legati di così urgente?

“Va bene... Va bene...” sussurrò il Borja, stringendosi una mano nell'altra con forza, fino a farsi venire le dita bianche: “Va bene...”

Cesare cominciava a essere curioso, e si stava avvicinando, pronto a domandare che stesse succedendo di così grave da impensierire tanto suo padre.

Accortosene, il pontefice affettò un sorriso e poi disse al cubicolare: “Ha fatto solo come eravamo d'accordo di fare... Più tardi, ditele che le voglio parlare per... Per ringraziarla di essersi presa l'onere di accogliere i nostri ospiti.”

Mentre l'uomo chinava il capo e correva a eseguire gli ordini, il Valentino, che aveva più o meno intuito il succo della questione, si lasciò andare a un ghigno beffardo e rise: “Vedo che la piccola Lucrecia sa mostrare i denti, con voi... Per fortuna sono arrivato io. Con le mie, di briglie, vedrete che non andrà da nessuna parte.”

 

“Non piangere.” intimò Caterina, guardando il piccolo Giovannino con aria quasi di sfida.

Il bambino, che aveva capito a malapena cosa stesse per accadere, strinse le labbra, ma non riuscì a impedire ai suoi occhi di diventare lucidi. Non gli era piaciuto il modo in cui sua madre aveva passato tutto il giorno a rassicurarlo, quando, a suo modo di vedere, non c'erano pericoli, ma, soprattutto, non gli era piaciuto il vestito che gli era appena stato messo.

La Tigre osservava con sguardo greve il suo figlio più piccolo, che, a quasi tre anni e mezzo, sembrava estremamente a disagio con indosso l'abito da bambina che Bianca aveva confezionato in fretta e furia per lui. Non c'erano ricami, sulla stoffa, né troppi lazzi, eppure il Medici pareva capire alla perfezione che quei panni, semplicemente, non erano i suoi.

“Tornerò a prenderti presto.” sussurrò la Sforza, dando un breve bacio in fronte a Giovannino.

Lui, con i suoi occhietti picei, fece un'espressione sospettosa e poi chiese: “Dove andiamo?”

Caterina fece un respiro profondo. Dio solo sapeva come avesse passato le ultime notti, insonne, preda del senso di colpa per non aver trovato soluzioni migliori, e pervasa da ogni sorta di ansia. Se c'era una cosa che non avrebbe mai più voluto fare, era proprio separarsi dal figlio con cui aveva avuto meno tempo da trascorrere assieme, quello che, per molti versi, avrebbe voluto veder crescere più di tutti gli altri.

“Fortunati ti farò portare in un convento, in città.” spiegò la donna, chiedendosi se un bambino tanto piccolo potesse davvero cogliere per intero le sue parole: “Ci saranno le monache, a proteggerti, come quando eri con tua sorella alle Murate...”

“Viene anche Bianca?” il piccolo Medici aveva distolto lo sguardo, accigliato, così come faceva tutte le volte in cui la prospettiva di qualcosa lo spaventava.

Caterina, che aveva imparato a conoscere di nuovo suo figlio in quelle settimane, dopo essere stata lontana da lui per troppo tempo in un momento della vita in cui un bambino cambia molto rapidamente, sentì una fitta al cuore, nel riconoscere quel modo di atteggiarsi.

“No, lei non potrà venire.” ammise, pensando che fosse meglio prepararlo, per non dargli una delusione in un secondo momento.

A che sarebbe servito rassicurarlo, per poi farlo sentire tradito e ingannato?

Provando a levarsi dalla mente quella stessa sensazione, con cui lei aveva convissuto per anni, dopo il tradimento – tale era, in fondo – perpetrato dalle sue due madri e da suo padre, che dopo averle promesso protezione e amore, l'avevano solo venduta al miglior offerente, la Leonessa tornò ad accarezzare il figlio, che stava seduto sul letto, accanto e lei, e gli disse: “Tu sei bravo, e forte, e saprai esserlo anche al convento.”

Il bambino era in evidente difficoltà, e, stringendosi nelle spalle, guardava ovunque, tranne che verso la madre.

“Guardami.” lo incitò lei, prendendogli poi il mento tra le dita, per portarlo a sollevare lo sguardo in sua direzione: “Tu sei forte e coraggioso. Tu sei uno Sforza, non dimenticartelo mai.”

Solo a quel punto Giovannino sollevò gli occhi, puntandoli verso quelli verdi della madre. Era un po' confuso, come se quell'affermazione andasse a scalfire una cosa che aveva imparato nei suoi nemmeno quattro anni di vita, ossia che il suo era un cognome conosciuto, importante, fiorentino, e che era 'Medici'.

“Io spero che tu abbia preso tante caratteristiche da tuo padre.” sospirò la Tigre, interpretando in parte il dilemma silenzioso di Giovannino: “Ma nelle tue vene scorre anche il mio sangue, non dimenticartelo mai.”

Quel secondo appello a non dimenticare, portò il piccolo a uno smarrimento ancor più pesante. La sensazione di ineluttabilità, che lui non capiva, lo sprofondò in uno stato di paura e agitazione che fino a quel momento era stato sopito.

Slanciandosi in avanti, strinse le braccia al collo della madre e, premendo il viso contro di lei, pianse in silenzio.

Caterina non provò più a dirgli di non piangere, sapeva che non sarebbe servito. A volte dimenticava di aver a che fare con un bambino ancora tanto piccolo. Forse era colpa della profondità del suo sguardo...

“Mi prometti che in convento farai il bravo?” chiese, a voce molto bassa, la donna.

Il Medici annuì in silenzio, restando stretto a lei e così la Leonessa si limitò a ricambiare l'abbraccio, scacciando a fatica da sé il ricordo di un altro abbraccio, ancor più disperato, quello che Livio le aveva dato il giorno in cui era morto, tanti anni prima.

Quel parallelismo portò anche lei a sentire gli occhi pungere e le labbra tremare, ma si trattenne, convinta che, vedendo piangere anche lei, Giovannino avrebbe fatto ancor più fatica a ricomporsi.

Passarono ancora un paio d'ore assieme, e la Leonessa ne approfittò per raccontargli ancora una volta di Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti, suoi bisnonni, e di Galeazzo Maria Sforza, suo nonno, e infine aggiunse anche qualcosa di lei, navigando a vista, cercando di dire al proprio ultimogenito solo le cose migliori che aveva saputo fare, nel corso della sua vita.

Alla fine, quando ormai si era fatto buio, frate Lauro bussò alla porta della stanza di Caterina e sussurrò, con un sorriso triste: “Direi che è ora...”

La donna, stringendo a sé il figlio per qualche istante, annuì e seguì il frate fuori dalla stanza e, da lì, fino alla porta sul retro. Avevano aspettato quell'ora nella speranza che nessuno li notasse, e la servitù presente era stata in parte dirottata in altre zone della villa, per ridurre al minimo la fuga di notizie.

Era stato Fortunati a voler coinvolgere in modo diretto, nella partenza del piccolo solo la Tigre, Bossi e un uomo di sua conoscenza che avrebbe fisicamente trasportato il bambino a destinazione.

All'inizio Bianca aveva provato a protestare, dicendo che anche lei voleva salutare il fratello, prima che venissero separati chissà per quanto tempo, ma la Sforza le aveva fatto capire che, atteggiandosi in modo strano, avrebbero attirato troppe domande. Tutti, ovviamente, si sarebbero accorti dell'assenza del bambino, ma lasciar passare un'intera notte prima che ciò accadesse dava loro un discreto vantaggio.

L'aria era fresca, per la prima volta, da che era iniziato settembre, Caterina avvertì davvero una nota tendente all'autunnale. Quella sfumatura le mise addosso una tristezza che non sapeva spiegarsi, anche se, forse, si trattava solo una sublimazione del dolore sordo che stava provando nel privarsi di nuovo del suo ultimogenito.

“Aspettami, mi raccomando.” gli sussurrò, appena prima di consegnarlo all'uomo di fiducia di Fortunati, che attendeva vicino a un cavallino grigio e silenzioso: “Verrò da te appena mi sarà possibile. Ricordati che non mi sono dimenticata di te, non lo farei mai.”

Il bambino, che stava visibilmente trattenendo le lacrime, guardava con spregio colui che lo stava portando via da sua madre, ma non si ribellò.

Caterina non disse altro, perché sapeva che, se avesse lasciato uscire ancora una sola altra parola dalle sue labbra, non sarebbe riuscita a trattenere il pianto a sua volta. Sollevò una mano, lasciando che fosse frate Lauro a controllare che nessuno li stesse spiando dalle finestre, e salutò una volta ancora Giovannino. Lo guardò sparire assieme all'uomo di fiducia del piovano, nella penombra della notte e poi, quando non sentì nemmeno più in lontananza il rumore degli zoccoli, sospirò e tornò nella villa.

“Dicevate sul serio?” chiese frate Lauro, filandole dietro: “Avete intenzione di andare a trovare vostro figlio?”

“Sì.” rispose la donna, senza indugi.

“E Fortunati lo sa?” chiese, sinceramente stupefatto, Bossi, che, fino a quel momento, aveva creduto che il piano definitivo fosse ben diverso.

“No, ma dovrà farsene una ragione.” tagliò corto la Leonessa e poi, scusandosi, tornò in fretta in camera sua.

 

Lucrecia si stava lasciando pettinare, docile come un agnellino, da una delle sue dame di compagnia, ma, a discapito dell'espressione quieta e quasi allegra che mostrava, il suo cervello era preso da un incessante e logorante lavorio.

Stava ripensando all'incontro avuto quel giorno con Ettore Bellingeri e Gerardo Saraceni, due messi mandati dal Duce di Ferrara per discutere gli ultimi dettagli – se tali potevano definirsi – delle sue nozze.

Era stata lei a volerli vedere prima che lo facesse suo padre. Aveva impedito loro di raggiungere gli alloggi loro dedicati e, invece di lasciarli riposare dopo il lungo viaggio, aveva preteso che discorressero con lei. Con il senno di poi, si era trattato di un incontro estremamente didattico, per una giovane donna come lei, che, malgrado tutto, non aveva ancora colto appieno la complessità del mondo in cui si stava tuffando.

In un primo momento, i due inviati le avevano riportato gli entusiasmi di Ercole, che, a quanto sostenevano, non vedeva l'ora di diventare suo suocero a tutti gli effetti e che la desiderava a Ferrara il prima possibile per poterla conoscere e apprezzare anche dal vivo. La Borja aveva risposto con altrettanta buonagrazia, sottolineando come anche lei fosse impaziente di conoscere il suo sposo e suo suocero, ma dopo i primi convenevoli, il clima era cambiato in fretta.

La figlia del papa, che fino a quel giorno era stata tenuta abbastanza all'oscuro delle trattative più profonde legate al suo matrimonio, aveva dovuto mangiare in fretta la foglia, quando Bellingeri aveva accennato alla 'questione della bolla d'investitura'. La ragazza, che non sapeva di cosa si parlasse di preciso, con un abile giro di parole aveva portato i due ferraresi a riassumerle la questione senza che nemmeno se ne accorgessero.

In breve, oltre alle ancora vaghe predisposizioni per il pagamento della dote, c'era un problema legato alla bolla di investitura dei futuri discendenti di Alfonso e Lucrecia, alla riduzione del censo e, soprattutto, alla cessione di Cento e della sua pieve.

La Borja si era mostrata molto comprensiva, dicendo che anche lei era molto in pena per quella questione, e, per capire meglio, aveva chiesto quale fosse, in particolare, ciò che impensieriva di più gli Este.

La risposta era stata chiarissima e immediata, ed era arrivata per bocca di un agitato Saraceni: “Mia signora, Cento e la pieve, che sono della diocesi di Bologna, necessitano l'assenso dell'arcivescovo di Bologna, per essere svincolate...”

Nel sentir nominare Giuliano Della Rovere – loro parente acquisito, ormai, dato che aveva acconsentito a stringere un accordo matrimoniale tra il nipote Francesco Maria e Angela Borja, cugina di Lucrecia – la figlia del papa si era fermata. Aveva capito di aver toccato tasti troppo delicati per lei e così aveva finto di accusare un po' di stanchezza e aveva pregato i due ferraresi di concedere un incontro, il giorno dopo, al pontefice e, più avanti, di nuovo un colloquio anche a lei.

“Pensate al vostro Alfonso?” chiese la dama di compagnia, mentre le arricciava un boccolo, convinta che il suo sguardo lontano fosse da imputarsi a qualche sogno d'amore.

Lucrecia colse quella scusa offertale tanto facilmente e annuì: “Sì, pensavo a lui...”

L'altra, con un sorriso comprensivo, stava già iniziando a blandirla, convenendo che chiunque, nella sua situazione, avrebbe avuto la testa tra le nuvole. In fondo non si trattava solo di prendere marito, ma anche di assicurarsi, per il futuro, il titolo di Duchessa...

La Borja non la stava ascoltando, presa com'era dai propri pensieri, perciò trasecolò doppiamente quando qualcuno bussò alla porta. Erano colpi veloci e quasi rabbiosi, che la giovane riconobbe all'istante.

Senza attendere che gli venisse dato il permesso di entrare, Cesare aprì la porta e se la richiuse alle spalle. Stava già puntando verso Lucrecia, le labbra schiuse, per dire qualcosa, quando si accorse della dama di compagnia, che teneva ancora il pettine a mezz'aria.

“Via, via, via!” gridò lui, indicando l'uscita con l'indice.

La ragazza non se lo fece ripetere. Ben lungi dal voler prestare alla Borja il suo sostegno, anche solo con la sua mera presenza, la dama di compagnia non si prese nemmeno il disturbo di appoggiare da qualche parte il pettine d'osso, uscendo di corsa, quasi scappando, dalla camera.

Il Valentino si assicurò che la porta fosse serrata, prima di guardare di nuovo la sorella. Questa, raggelata, pur sapendo che il fratello era tornato a Roma quel giorno, era sconvolta nel vederselo dinnanzi. Aveva sentito dire che era tornato in Vaticano perché troppo malato per restare al campo militare, mentre, invece, le pareva in ottima forma...

Il giovane si passò una mano sulla guancia coperta in egual misura da barba incolta e cicatrici e poi chiese, sollevando un sopracciglio: “Sei contenta di esserti sposata di nuovo?”

Lucrecia non riusciva a muoversi. Restava ferma sul suo sgabello imbottito e fissava il Duca senza poter distogliere lo sguardo dal suo profilo, a lei familiare quanto il proprio, eppure in quel momento, illuminato dalle candele e reso più cupo dalle ombre, quasi sconosciuto.

“Sì.” soffiò alla fine la figlia del papa, abbassando, con grande sforzo, gli occhi.

Cesare serrò le braccia sul petto, muovendo un paio di passi verso di lei: “Non mi sembri felice di vedermi.”

“Non mi aspettavo di vederti, prima di domani.” cercò di riparare lei.

Il fratello sporse in fuori le labbra, indeciso se crederle o meno. Era addirittura arrivato a pensare che sua sorella avesse voluto incontrare i due ferraresi quel giorno solo per tenersi impegnata e quindi non dargli il tempo di andarla a disturbare.

“Non ti senti come una giumenta, venduta al mercato delle bestie per permettere al Duca di Ferrara di avere presto dei puledri di razza?” domandò di punto in bianco il Duca di Valentinois.

Lucrecia decise di non rispondere a quell'aperta provocazione, ma, anzi, contrattaccò con una domanda scomoda: “Tua moglie come sta, Cesare?”

“Dovrebbe importamene?” ribatté lui, con uno sbuffo.

“Ha partorito una figlia, per te... Credo che sì, dovrebbe importatene.” sentenziò la giovane.

“Come più di una delle tue dame di compagnia sa – si vantò a quel punto lui, facendosi ancora più vicino – posso avere tutti i figli che voglio e con chi voglio, senza scomodare quella frignante francesina...”

Siccome il fratello si era fatto davvero troppo vicino, per lei, la Borja si alzò di scatto dallo sgabello e provò a spaventarlo, dicendo: “Nostro padre sa che sei qui?”

“Sì e scommetto che in fondo non gli importa.” mentì lui, frenando ogni tentativo di fuga di Lucrecia afferrandole un polso.

“Lasciami.” provò a ordinare lei.

“O se no?” ghignò Cesare: “Farai arrivare qui il tuo Alfonso a proteggerti? Intendo il nuovo Alfonso, ovviamente... Quello vecchio, ormai, non interessa nemmeno più ai vermi...”

Sentir parlare a quel modo dell'Aragona, l'unico uomo che la Borja sentisse di aver mai amato davvero, la spense. Con un pianto silenzioso, la ventunenne non riuscì più a far nulla, né si ribellò, né cercò soccorso, lasciandosi in balia di un fratello che, sentendosi padrone, voleva rimarcare il suo diritto di proprietà su di lei.

L'unica cosa che riuscì a giurarsi fu che, una volta assieme al suo nuovo marito, non avrebbe mai più permesso a Cesare di trattarla come una sua proprietà. Di Alfonso Este si dicevano tante cose, tra cui che avesse un brutto carattere. Ebbene, la figlia del papa era pronta a far leva su quel cattivo carattere e scatenarlo contro il fratello, nel caso in cui ce ne fosse stato bisogno.

La mattina dopo, mentre si tamponava gli occhi con un impacco fresco per non far capire a nessuno quanto avesse pianto, Lucrecia prese una decisione importante, almeno per lei. I giochi erano finiti, ormai era una donna adulta e presto sarebbe stata affianco al futuro Duca di Ferrara. Doveva prendersi le proprie responsabilità, che gli uomini della sua famiglia lo volessero o meno.

Camminando svelta per i corridoi degli appartamenti borgiani, una volta tanto senza il consueto codazzo di dame di compagnia che l'assillavano, arrivò da suo padre, che si stava preparando per incontrare Saraceni e Bellingeri, e disse, con fermezza: “I messi ferraresi non li incontrerete solo voi. Faremo un incontro a testa, e qualcuno assieme. Sono io che partirò per Ferrara, io che diventerò Duchessa. Spetta dunque a me, prendere certe decisioni.”

Colpito da una sicurezza che nulla aveva di arrogante, a differenza di quella che spesso animava suo figlio Cesare, il papa rimase in silenzio per un po' e poi, con un ampio sorriso, pur accettando il rischio che comportava lasciare certe trattative in mano a una donna, concesse: “E sia come vuoi tu, figlia mia. Sei una Borja, su questo non ho più dubbi, adesso.”

 

Caterina aveva passato un'altra notte d'inferno, tra ore di insonnia e lunghi pianti. Da quando si era separata da Giovannino, pur avendo avuto indirettamente notizia della sua buona salute, non riusciva a trovare pace.

Sapeva che forse la sua reazione era esagerata, eppure non poteva contenersi. Le fragilità che aveva accumulato negli anni, acuite e amplificate dai mesi passati completamente sola nelle segrete di Castel Sant'Angelo le stavano chiedendo il conto. Un tempo, lo sapeva, avrebbe affrontato quella situazione in un altro modo, assorbendo la tensione con l'attività fisica, con gli affari di Stato, perfino con gli amanti che si sarebbe scelta tra i suoi soldati.

Invece, in quella villa, immobile e immacolata in mezzo ai boschi, sembrava che il tempo si fosse fermato al solo scopo di farle sentire minuto per minuto l'angoscia, il dolore e la precarietà della vita che stava vivendo. Aveva cibo, acqua, un letto, quasi tutti i suoi figli vicino, non c'erano eserciti alle porte, né minacce d'assedio eppure ora come non mai percepiva distintamente il senso di pericolo, di incertezza, quel qualcosa di impalpabile, ma sempre presente, che derivava dall'ostilità combinata di suo cognato Lorenzo e del papa.

Erano entrambi nemici lontani, ma avevano il potere di chiuderle lo stomaco e annebbiarle la mente come se fossero stati entrambi lì presenti.

Qualche giorno prima, tramite uno dei servi andato in città a comprare delle scorte, la donna aveva saputo che erano passati per Firenze quasi duemila tra fanti e cavalieri francesi che da Napoli stavano risalendo in fretta verso Milano. In altri tempi avrebbe perso ore a ragionare sul significato tattico, strategico e politico di quel fatto. Invece quella volta non aveva potuto far altro di pensare che tra tutti quei francesi nemmeno uno era corso da lei a chiedere cosa stesse capitando, a difenderla dal Medici o a perora la sua causa presso la Signoria.

Aveva anche saputo che Piombino era caduta ed era saldamente nelle mani del Valentino, ma anche in quel caso i suoi ragionamenti non erano andati all'importanza di quella variazione di forze sullo scacchiere italiano, ma solo ed esclusivamente sulla maggior vicinanza di Cesare Borja a Firenze.

Si rendeva conto di quanto i suoi confini mentali si fossero ristretti, e ne aveva paura. Quel modo di pensare, così piccolo, così diretto al suo particolare, era esattamente ciò che aveva per anni criticato e condannato negli altri signori d'Italia.

Eppure anche quel giorno, mentre aspettava trepidante l'arrivo di Fortunati, non riusciva a far altro che pensare a quello che avrebbe dovuto chiedergli riguardo Giovannino, tutto il resto le risultava inutile, se non molesto.

Quando, illuminati dal sole mitigato di fine settembre, lei e Francesco poterono finalmente mettersi a discutere, l'uomo, facendo come se avesse avuto davanti la donna che aveva conosciuto prima della caduta di Ravaldino, partì da una notizia che la 'vecchia' Tigre avrebbe ritenuto di vitale importanza conoscere per prima: “Il Doge è morto. Dicono che Agostino Barbarigo sia morto all'improvviso il Venti di questo mese... Aveva ottantadue anni, in fondo... L'hanno sepolto assieme al fratello, a...”

“Non mi interessa.” lo zittì subito Caterina.

L'uomo si zittì, sorpreso, ma non commentò. Imputò quel distacco al fatto che il Doge, per Caterina, era sempre stato un po' una spina nel fianco. Forse era felice di saperlo morto, ma non voleva darlo a vedere...

Per non irritarla, l'uomo decise di sorvolare sulle chiacchiere che aveva sentito riguardo il possibile successo e passò a una seconda notizia luttuosa che, temeva, per la Leonessa sarebbe stata più pesante.

“Sai che tua cognata, Isabella d'Aragona, è a Bari da qualche tempo...” cominciò lui, ma la Sforza non lo guardava nemmeno.

I suoi occhi verdi, più trasparenti del solito, come se avesse pianto a lungo, erano puntati verso la finestra. Teneva le gambe incrociate, in una postura che non le era consueta, e con le dita della mano destra si tormentava la base dell'anulare sinistro, in un retaggio automatico di quando ancora aveva con sé il nodo nuziale regalatole dal suo terzo marito. Quel gesto in particolare fece capire al piovano quanto poco la Leonessa gli stesse prestando attenzione.

“Ho saputo che una delle sue figlie, la piccola Ippolita, è morta qualche giorno fa...” riprese lui, schiarendosi la voce.

La Tigre, finalmente, diede un cenno di vivacità, ma fu solo un istante, prima di dire, lapidaria: “Mi spiace.” senza, però, mostrare il proprio dispiacere in altro modo.

“Pare fosse malata da tempo... Qualcosa che si portava dietro da quando erano a Pavia, forse febbri malariche che...” stava provando a spiegare Francesco, ma Caterina lo interruppe con un cenno della mano.

“Che Dio accolga la piccola Ippolita.” disse, fredda: “Ma ormai non possiamo fare nulla per lei.”

“Francesco Gonzaga sta rafforzando il Serraglio.” buttò lì Fortunati, sperando che almeno parlare di fortezze e guerra ravvivasse la donna che gli stava davanti.

L'unica reazione della Sforza, però, fu ironica: “Il Serraglio... Sembra un recinto per polli. Non si deve sorprendere, se lo prendono tutti sottogamba.”

“Mi hai chiamato qui per qualche motivo o la mia presenza di dà fastidio e basta?” chiese, all'improvviso, l'uomo.

La Tigre, cogliendo il tono risentito, si sistemò meglio sulla poltrona e rispose: “Ti ho chiamato qui perché devo chiederti di fare due cose per me.”

Il piovano deglutì un paio di volte e poi, con cautela, disse: “Se sono cose alla mia portata, le farò.”

“Io voglio che si sappia che Lorenzo voleva rapire mio figlio.” iniziò Caterina, credendo che quella fosse la parte più semplice.

“Ma... Ma non ne siamo sicuri.” prese tempo lui.

“Al diavolo!” sbottò la donna, trattenendo un pianto di frustrazione che spesso, anche nelle sue notti solitarie, si mescolava a quello di rabbia o di tristezza.

“Aspettiamo almeno che... Insomma – cominciò a ribattere Francesco, alzandosi a sua volta e inseguendola per la stanza, come un domatore con un leone in gabbia – la guerra sta prendendo una piega complicata e...”

“Io sono protetta dal re di Francia!” esclamò la Leonessa, esasperata, sapendo per prima che quella era tutto fuorché una vera garanzia: “I francesi devono aiutarmi! Devono indagare! Devono dimostrare che...”

“Sei pallida, Caterina...” Fortunati se n'era appena accorto, nel momento stesso in cui la Sforza aveva smesso di parlare perché la voce le era morta in gola: “Stai mangiando in questi giorni?”

Tirando su con il naso, la donna, lottando contro il pianto sempre più vicino, l'attaccò: “Certo che mangio! Non lo vedi? Ho anche preso un sacco di peso, da che sono qui, perché mi avete messo all'ingrasso e non mi permettete nemmeno di prendere un cavallo e andare un po' a caccia, anche se qui intorno c'è pieno di boschi! Questa è una gabbia esattamente come tutte le altre! Mi fate vedere quello che non posso avere e pretendete anche che me ne stia buona e tranquilla!”

“La prigionia ti ha provata... Devi riprenderti...” sussurrò Francesco, spaventato come sempre nel trovare un'immensa confusione in una donna che, prima, anche nei momenti più caotici della sua vita, aveva sempre saputo tenere la barra dritta.

“Se potessi impugnare la spada – ricominciò lei, qualche lacrima rovente che scivolava lungo la guancia, ma la voce di nuovo ferma – correrei in via Larga e...”

“E..? Uccideresti Lorenzo? Credi che sarebbe una soluzione?” la frenò il piovano, guardandola con comprensivo paternalismo: “Credi che poi si risolverebbe tutto, che tu staresti meglio?”

Imbambolata, stremata e confusa, la donna tornò a sedersi, una mano nell'altra, gli occhi bassi e poi, dopo un paio di minuti che sembrarono ore, scosse il capo, incerta.

“Hai ancora tanta rabbia, dentro di te...” soppesò Francesco.

“Come potrei non averne?” lo incalzò lei, sollevando il mento.

L'uomo allargò un po' le braccia, conscio di non avere risposte.

“C'è un'altra cosa, e a questa, ti prego, a questa non puoi dirmi di no, o lo farò lo stesso senza il tuo aiuto, e sarà peggio per tutti.” la Leonessa parlava in fretta, aveva il volto arrossato e Fortunati sarebbe stato pronto a giurare che scottasse di febbre: “Voglio andare da mio figlio.”

“E in che modo?” si informò lui, pensando che non fosse il caso di dirle subito di no.

“A questo devi pensarci tu.” disse la donna, atona.

Capendo che non avrebbe potuto parlare ancora a lungo con lei senza che i toni si alzassero di nuovo, il piovano annuì e le assicurò: “Ci penserò e ti farò sapere.”

“Entro stasera.” precisò lei.

“Entro stasera...” annuì lui, andando verso la porta: “Posso fermarmi qui un paio di notti?”

“Solo se entro stasera mi dirai come andare da mio figlio.” lo ricattò lei.

Colto da un'ispirazione improvvisa, Fortunati disse: “Tutti conoscono la tua natura collerica e tutti sanno quello che hai fatto alla morte dei tuo Giacomo...” appena prima che la donna potesse fraintendere quelle parole, Francesco riprese: “Nessuno si stupirebbe, se tu volessi passare qualche giorno alle Murate in ritiro spirituale... Di certo nessuno ti negherebbe il permesso di stare in mezzo a delle monache...”

“Giovannino è al convento d'Annalena, non alle Murate.” gli ricordò, con tono d'ovvietà, la Tigre.

“Lo so.” sorrise lui, pensando che, forse, avrebbe potuto aiutare non solo una madre in difficoltà, ma anche un'anima che si era persa e faticava a ritrovare la via: “Lascia fare a me.”

“Va bene... Ma qualsiasi cosa sia, fai in fretta.” concluse Caterina, ormai stanca.

“Fidati di me.” si raccomandò l'uomo e, detto ciò, si ritirò per andare a scrivere subito una lettera molto importante a Suor Elena.

   
 
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