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Autore: Deruchette    12/06/2021    4 recensioni
[La storia segue lo svolgersi degli eventi dall'epilogo di "Hunger Games" all'epilogo di "Mockingjay"]
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Katniss e Peeta, gli Innamorati Sventurati del Distretto 12, i vincitori della 74esima edizione degli Hunger Games.
La loro storia è sotto gli occhi di tutti ma solo in pochi sanno che, in realtà, si tratta solo di finzione. La mossa strategica che li ha portati via dall'arena è costretta a continuare anche adesso che il sipario inizia a calare sull'ultima edizione dei giochi.
E se ad un certo punto la finzione si trasformasse in realtà?
Cosa succederebbe se gli Innamorati Sventurati fossero realmente innamorati?
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Dal capitolo 6:
"È evidente, chiaro come il sole, che è tutto cambiato. Che il ragazzo che all’inizio di quest'avventura consideravo un semplice amico, un alleato, adesso è diventato qualcos’altro. Per settimane mi sono chiesta se non fosse sbagliato nei suoi confronti recitare la parte della brava fidanzatina conoscendo la reale portata dei suoi sentimenti, sapendo che io non provavo la stessa cosa. Non sarebbe tutto più semplice se ti amassi?, la domanda che ronzava costantemente nella mia testa.
Ora lo so. Non solo è più semplice, più normale. È diventato anche necessario. Necessario come l’aria che respiro."
Genere: Drammatico, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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In The Still Of The Night - 37

In the still of the night

 

 

37.

 

La Squadra di Stelle è noiosa.
La Squadra di Stelle non fa nulla di eclatante.

Alla Squadra di Stelle non lasciano fare nulla di eclatante.
Dopo più di una settimana che ci troviamo a Capitol City, accampati in un piccolo spazio che ci hanno predisposto in mezzo a tutto il resto delle truppe dei Ribelli, sono giunta a questa sconsolata conclusione. Ci sono giunti anche gli altri: Gale, Finnick, Peeta.
La resistenza si è da tempo dileguata e rintanata in città, ma all’interno, nel suo centro, lasciando all’esercito rivale la possibilità di presidiare le strade e di assaltarle, lasciandoci in questo senso campo libero per raggiungere l’ultimo presidio del potere che ancora regge. Ma non è un’impresa facile, visto il modo in cui sono protette queste strade. Non sono protette dai Pacificatori, ma dai baccelli.
I baccelli sono una sorta di trappole nascoste, trappole che possono essere innescate al minimo movimento ed in qualunque momento, cogliendoti alla sprovvista e massacrandoti. È questo il loro scopo. Ma i baccelli possono essere disattivati e possono essere resi innocui, se si sa dove cercarli e se si agisce con molta cautela. Il nostro esercito, compreso Boggs ed il suo secondo, la Jackson, è fornito di piccoli ologrammi tascabili, che chiamiamo tutti Olo e che sono in grado di mostrare, in una mappa virtuale di Capitol City, i baccelli ancora attivi per le strade. Non è, purtroppo, l’ultima versione aggiornata: Plutarch ci ha confidato che è riuscito a portare con sé una copia dell’Olo prima dell’esplosione dell’ultima arena, e che da allora avrebbero potuto aver inserito nuovi baccelli di cui noi non siamo a conoscenza. Alcuni dei baccelli già noti li ha creati lui stesso.
Che bravo Stratega.
Comunque, la conquista della capitale di Panem procede a rilento proprio a causa dei baccelli. Sono le altre squadre ad occuparsene direttamente, visto che la nostra non è una squadra di assalto ma una di ripresa, ma non è che eccelliamo anche in questo. Cressida ci ordina di muoverci, di mirare e di sparare a bersagli e a finestre dai vetri colorati, ma il più delle volte il nostro compito si limita a questo. Non veniamo mai, mai ripresi in mezzo alla guerra vera. E quando si ha l’occasione di disattivare un baccello, non lo lasciano mai fare a noi, i volti noti dei tanti Pass-Pro o i volti dei vincitori degli Hunger Games che hanno il coraggio di sfidare il potere del presidente Snow. Anche se alziamo la mano, anche se ci offriamo tra i volontari come tutti gli altri nostri compagni di squadra, i veri soldati. Non ci scelgono mai. Ci lasciano in disparte.
Penso che sia tutto tempo sprecato. Penso che sia inutile riprenderci quando non accade mai nulla che possa essere degno di nota. Penso che queste riprese siano controproducenti, quando potremmo benissimo prendere l’Olo e provare a farci strada fino al centro della capitale, fino alla fantasmagorica villa del presidente Snow, dove sicuramente si trova ancora, ben protetto nel suo covo. Proprio come un vero cattivo delle favole.
Ci ho pensato, a rubare un Olo: con quello, potrei abbandonare il resto della squadra e cercare di attraversare la città fino al raggiungimento della mia meta. Sarebbe diserzione, a ben pensarci, ma forse mi ringrazieranno invece di punirmi. Mi ringrazieranno, se riuscirò nella mia impresa di uccidere il presidente. Solo che rubare un Olo non è per niente facile. Funziona a comando vocale, quello di un comandante, ma può farlo anche con altre voci, come le nostre; così, se un preciso comandante rimane ucciso sul campo, qualcun altro può prenderne le veci e continuare ad utilizzarlo. E se si dice “tic-tac” per tre volte, viene attivato il comando di autodistruzione, che provoca un’esplosione. Ogni prova verrebbe cancellata, in questo modo.
Il nostro Olo risponde ai comandi di Boggs, quindi dovrei riuscire a rubarlo a lui prima di svignarmela. Credo che sarebbe più facile rubargli i denti.
Ho una cartina di Capitol City con me, come ogni altro soldato che l’ha ricevuta in dotazione col resto del suo equipaggiamento, ma la cartina non è un Olo: la cartina non ti mostra i baccelli. Ti mostra solo le grandi sezioni in cui è divisa la città. Non ti dice e non ti mostra il pericolo che potresti correre se percorri una certa via, ad una certa altezza. Devo per forza di cose recuperare quell’Olo. E poi potrò andarmene.
Agire di nascosto, scopro, mi riesce bene: ho lo zaino sempre pronto per un eventuale fuga, ed ho anche la mia divisa da Ghiandaia Imitatrice, anche se non l’ho mai messa fino ad ora e Cressida mi ha sempre ripresa con l’uniforme, identica a quella di tutti gli altri. È un bagaglio scarso e leggero, facile da trasportare, che non mi ingombrerà una volta acciuffato l’Olo. Penso di aver finalmente imparato qualcosa, una sorta di qualche tecnica recitativa, perché sembro essere in grado di camuffare i miei pensieri e le mie emozioni. Peeta diceva che ero un libro aperto, e lui non sembra aver notato nulla di strano in me. Forse, la mia prossima fuga riuscirà a passare inosservata quel tanto che basta a darmi un vantaggio su Boggs e gli altri.
Ma qualcuno ha capito ciò che voglio fare. Anni di pratica? Anni di caccia a stretto contatto l’una con l’altro? Non lo so. Fatto sta che Gale ha capito tutto.
- Non starai progettando di lasciarmi qui, vero? – mi chiede un pomeriggio, sul tardi. È quasi ora di cena, ed io me ne sto seduta buona buona mentre pulisco il mio fucile. Ma a che serve pulirlo, se tanto non me lo lasciano usare come si deve?
- Lasciarti dove? – chiedo di rimando, fingendo di non capire cos’è a cui sta alludendo.
- Finiscila. So cos’è che vuoi fare, Katniss.
- Io non voglio fare un bel niente – voglio andare ad uccidere Snow da sola, ma non te lo confesserò mai. – Vorrei solo che la situazione si sbloccasse un po', tutto qui – mento ancora. Vorrei che tu e Peeta ne rimaniate fuori, per quanto possibile allo stato delle cose.
- Lo sai che sarò costretto a dirlo a Peeta, se vuoi davvero fuggire? – lo guardo storto, e lui si acciglia. – Sì, farò la spia se necessario.
- Non azzardarti a dirlo a Peeta!
- Dirmi cosa?
Il diretto interessato, sentendosi messo in mezzo, ci si avvicina. Io e Gale non abbiamo parlato così ad alta voce, quindi presumo che Peeta si stesse già avvicinando per conto suo prima di sentire il suo nome uscire dalle mie labbra. Sgrano gli occhi, e spero che non abbia sentito altro. E spero che Gale non gli confessi ciò che ha capito. Che voglio fuggire di nascosto, lasciandoli entrambi indietro: non permetterò loro di seguirmi in questa spedizione suicida.
Invece, sorprendendomi, Gale mi regge il gioco. Mormora uno sbrigativo e bassissimo “Dovrai portarmi con te” prima di rivolgersi a Peeta. – Katniss adora la tua cicatrice.

Io la odio, quella cicatrice. – Ma che dici? – esclamo.
- Me lo hai appena detto e già lo hai dimenticato? Diglielo che lo trovi molto più affascinante adesso con quel segno sul viso…
- Gale! – stavolta strillo.
La maturità di un soldato.
Peeta comincia a ridere e si inginocchia accanto a me, mettendosi esattamente alla mia altezza. La mia guancia è a tiro delle sue labbra, su cui si posano per lasciarci un bacio sonoro, con tanto di schiocco. – Ma guardala, è tutta rossa!
- Smettila! – lo scaccio via. – E anche tu, smettila! – dico rivolta a Gale, che si sta sganasciando. Le mie lamentele, però, non possono nulla contro le loro risate. Continuano a prendersi gioco di me. E non li sopporto.
Era meglio quando c’era tensione, tra di loro.

 

Vengono istituiti i turni di guardia, ceniamo, ci rintaniamo nelle nostre tende. Le temperature autunnali si stanno abbassando, tanto che ben presto lasceranno il posto a quelle invernali. Il fiato comincia a fuoriuscire dalla bocca sotto forma di nuvolette. C’è una stufa accesa, qui nel nostro settore, che possiamo avere a nostra disposizione, ma la maggior parte di noi preferisce rintanarsi nei sacchi a pelo e nelle tende. Anche se restiamo in gruppo, quel sottile strato di tela è in grado di offrirci almeno un minimo di privacy.
Infagottata nel mio sacco a pelo, cerco di scaldarmi mentre aspetto che arrivi l’ora per dare il cambio alla Jackson e a Finnick, che stanno coprendo il loro turno. Il mio sarà da mezzanotte alle quattro del mattino. Potrei approfittarne per dormicchiare, ma non ho sonno e anche se mi costringo a chiudere gli occhi, questi si riaprono dopo pochi secondi. Ci svegliamo sempre col sopraggiungere dell’alba, quindi se non dormirò adesso, non avrò la possibilità di farlo alla fine del mio turno. Dovrò attendere quasi un giorno intero prima che possa dormire di nuovo. Ma non dormo lo stesso. Peeta, steso nel suo sacco a pelo, è riuscito a prendere sonno. Condividiamo la stessa tenda, ma nient’altro a parte questa. Non possiamo permetterci niente di più di questo. Non è proprio il caso di dare spettacolo.
A mezzanotte, sgattaiolo fuori dal sacco a pelo e preparo l’arco e le frecce. Il fucile sarebbe la scelta più ovvia, ma io sono troppo affezionata e troppo legata alle vecchie abitudini. Mi sento molto più sicura di me, con le armi che so usare meglio in mano. Saluto con un cenno Finnick e la Jackson e prendo posto sullo sgabello accanto alla stufa; il tepore è piacevole, ed un piccolo brivido mi percorre la schiena di riflesso. Tendo le mani verso il calore, che nonostante i guanti sono diventate lo stesso fredde.
Peeta sguscia fuori dalla tenda e viene a sedersi sull’altro lato della stufa quando le mie mani hanno smesso di assomigliare a dei cubetti di ghiaccio.
- Non è il turno di Mitchell? – domando, incerta. Forse ho capito male.
- Ho fatto a cambio con lui – dice. Posa il fucile sulle cosce e prende un sorso d’acqua. – Mi sono accorto che da quando siamo qui non abbiamo mai fatto un turno di guardia insieme, e…
- E?
- Mi andava – mi sorride. – Per ricordare i vecchi tempi.
I vecchi tempi: l’arena.
Le ore trascorse in silenzio, nell’attesa quasi spasmodica di un movimento, di ogni minimo rumore. L’attesa del sopraggiungere del nemico che avrebbe potuto farci fuori col favore delle tenebre. In un certo senso, siamo ancora nell’arena. Peeta ha ragione: è come ricordare i vecchi tempi. Siamo in un’arena, Capitol City, piena di trappole nascoste, i baccelli. E noi siamo i tributi sacrificabili che devono affrontarle.
In qualche modo, torniamo sempre ad essere dei tributi. Sembra che non siamo in grado di essere qualcosa di diverso dal tributo.
Scuoto la testa, ed un incerto sorriso fa capolino sulle mie labbra. – Hai uno strano ricordo di ciò che sono i vecchi tempi.
Ridacchia.
Per un bel pezzo nessuno di noi due aggiunge altro. Alimentiamo la stufa, beviamo la sorta di caffè che ci aiuta a restare vigili, anche se ha un sapore terribile. Restiamo vicini. Ad un certo punto ci spostiamo, mettiamo gli sgabelli in modo da poterci sedere stando affiancati, ma coi corpi ed i visi rivolti in direzioni diverse: io osservo la strada, Peeta le tende del nostro accampamento. I pochi lampioni accesi mandano un bagliore dorato. È tutto così tranquillo, stanotte, che sono sicura che non accadrà nulla fino alla fine del nostro turno. Mi rilasso così tanto che lascio cadere la testa contro la sua spalla. Peeta solleva una mano per accarezzarmi una guancia con la punta dell’indice. Prendo il suo braccio e lo stringo tra le mie, chiudendo gli occhi per un istante.
È la sua mano a farmeli aprire di nuovo. La sua mano che, con una leggera carezza, va a toccare il mio ventre. Il mio ventre vuoto. Il ventre che custodiva la nostra gioia più grande, quella gioia che non abbiamo mai avuto la possibilità di conoscere.
- Sarebbe dovuta nascere in questi giorni, vero? – sussurra al mio orecchio. Lo posso sentire solo io.
Annuisco e basta, incapace di esprimere qualcosa a parole.
Sul finire dell’autunno: era questo il periodo in cui sarebbe dovuto scadere il termine. Se non ci fossero stati gli Hunger Games, se non fossi dovuta tornare nell’arena, a quest’ora sarei ancora a casa mia, o a casa di Peeta, ad attendere l’inizio del travaglio. Ad attendere il suo arrivo. O forse a quest’ora sarebbe stato già tutto finito, ed il dolore sarebbe stato solo un lontano ricordo, sostituito dall’amore e dalla felicità di averla finalmente tra le braccia, stretta contro il mio petto. Il mio piccolo fiore di lillà…
Tremo, stretta contro il suo braccio. Lo stringo come se potesse rappresentare il suo surrogato, ma non c’è nulla a questo mondo che possa sostituire il corpicino di un bambino appena nato. Peeta si sposta e mi avvolge col suo corpo, preme con forza una mano sulla mia testa e mi spinge contro il suo petto quando una serie di strani lamenti, simili a singhiozzi, inizia ad uscirmi dalle labbra.
- Mi dispiace – mormora. Ha la voce rotta. – Non volevo, scusami… non volevo farti questo…
Non voleva farmi piangere? Non voleva mettermi incinta? Non voleva che la sentissi crescere dentro la pancia? Ci sono così tanti percorsi con cui proseguire il discorso, ma qual è quello giusto?
Forse non ce n’è uno giusto.
- Penso continuamente a lei – ammetto, tirando su col naso. – Non c’è giorno in cui non lo faccio. Non pensavo che… avrei potuto provare così tanto amore per lei.
Peeta muove appena la testa, poggiando la sua guancia contro la mia. Sento il suo respiro contro l’orecchio, caldo e confortante rispetto al freddo della notte che ci avvolge. – Credevi di non volerle bene?
- Mi ha colta alla sprovvista – rafforzo la presa sul suo braccio. – Ricordi che ti dissi che non avrei mai voluto avere dei figli?
- Certo che lo ricordo.
- Non mi piacciono granché, i bambini. Gli unici bambini che mi stanno simpatici sono i fratellini di Gale – non riesco a trattenere una risatina, arrivata a questo punto. – E Prim, naturalmente: Prim è la mia preferita. Ma oltre a loro non doveva esserci posto per nessun altro. Non avrei mai messo al mondo dei figli miei, per via degli Hunger Games.
- Poi sono arrivato io a metterti nei casini – ride, Peeta, anche se è una risata carica di tensione. Ed il tono della sua voce è aspro, quasi.
Sposto il viso all’indietro, incrociando i suoi occhi che con la quasi totale assenza di luce sembrano blu scuro. I nostri nasi sono quasi a contatto. – Non potrei mai definire nostra figlia un casino, Peeta. O, se proprio devo, lo definirei il più bel casino della mia vita.
- Ma non c’è più, adesso – scuote appena la testa. – Penso che, forse, avrebbe potuto essere un casino evitabile. Se solo avessi fatto un po' più di attenzione…
- Non puoi assumerti colpe che non hai, Peeta. A che serve rivangare le nostre azioni adesso? – gli faccio notare. – Non è colpa tua se è accaduto.
Mi rendo conto che questa è la discussione più lunga sulla bambina a cui ho preso parte, da quando l’ho persa. È la prima volta che riesco a parlare di lei senza quasi scoppiare in un pianto a dirotto, senza sentire quel dolore sordo al cuore che mi mozza il respiro, e senza avere l’impellente desiderio di abbandonare i miei interlocutori ed il luogo in cui mi trovo. Non posso fare a meno di pensare che, se ci riesco, è solo perché lo sto facendo insieme a Peeta. L’altra metà del mio dolore, l’altra metà che ha permesso a quella piccola vita di prendere forma. È la metà che mi mancava per affrontare, finalmente, questo discorso. È la metà che sarebbe diventata genitore insieme a me, una volta giunto il momento della sua nascita.
- Non è nemmeno colpa tua, Katniss – dice, sfiorando il mio naso col suo. – So che lo pensi, me lo ha detto Johanna, ma non è così. Non è colpa tua se nostra figlia è morta.
- Come può non essere colpa mia? – chiedo subito, e mi rabbuio. – Johanna dovrebbe cominciare a farsi gli affari suoi.
- No, ha fatto bene. So che tu non mi avresti mai confessato nulla – ed in effetti è ciò che ho fatto fino ad ora – e non posso lasciare che continui a colpevolizzarti per ciò che le è accaduto.
- Cosa dovrei fare? Fingere come se non ci fosse mai stata?
- Non fingere, Katniss, no. Devi solo… capire.
Rimango in silenzio, non replico. Questo mio mutismo sprona Peeta a proseguire.
- Devi venire a patti con te stessa, ed ammettere che ciò che è accaduto quella notte nell’arena non è stato per causa tua. Come avrebbe potuto esserlo? Pensaci: tu hai fatto di tutto per lei, anche quando mi dicevi che non sarebbe servito a niente.
- Ho detto un mucchio di sciocchezze – chino lo sguardo, vergognandomi dei suoi occhi che mi scrutano. Ricordare tutti i pensieri, e tutte le frasi che gli ho urlato in faccia, mi fa sentire indegna. Indegna di lui, indegna del suo amore per me. Indegna...
- Ti stavi proteggendo, amore mio – sento il suo bisbiglio infrangersi contro la mia fronte. – So che non hai mai creduto a ciò che dicevi. Perché il modo in cui i tuoi occhi si illuminavano quando la sentivi muoversi, il modo in cui le hai cantato quel giorno sul tetto… quelli non erano i gesti di una donna che odiava sua figlia – la sua bocca scivola sul mio viso, posandosi lievemente all’angolo del mio naso. Le sue labbra si sono bagnate delle mie lacrime. – Saresti stata una madre meravigliosa per lei.
- Non sapremo mai se sarà così – chiudo gli occhi, respirando l’odore della sua pelle.
- Un giorno, forse.
- No, Peeta: mai – riapro le palpebre e torno a guardarlo negli occhi. – Non voglio provarci mai più.

 

Ho visto il modo in cui la luce si è spenta nelle iridi di Peeta. Ho visto l’effetto che le mie parole hanno avuto sulle sue aspettative, sulle sue speranze per il futuro. Ho visto quel flebile barlume di speranza prendere vita e smorzarsi nel giro di due secondi: il tempo che ho impiegato a formulare la mia frase, ed il tempo che ha impiegato lui per assimilarla.
Peeta l’ha presa malissimo, e dentro di me ho sempre saputo che questa sarebbe stata la sua reazione. Peeta è un ragazzo meraviglioso, ed ha così tanto amore dentro di sé: il suo amore è in grado di rendere felice una famiglia intera. Quella famiglia che io non posso più dargli.
- Potresti cambiare idea – ha detto, cercando di negare l’evidenza dei fatti. Ma io ho scosso la testa, e non ho aggiunto nient’altro. Mi sono limitata a stringergli il braccio ancora più forte, ho posato la fronte contro la sua spalla, e sono rimasta così, in silenzio, fino alla fine del turno di guardia.
Egoisticamente, ho fatto ciò che mi riesce meglio: mi sono chiusa in me stessa ed ho cercato il calore del suo corpo, ho cercato di chiudere tutto fuori ed in qualche modo, ho chiuso fuori anche Peeta. Non posso andare avanti senza di lui, anche se so che l’ho fatto soffrire con le mie parole. Lo farò soffrire per anni, se questa guerra non ci ucciderà prima. Cosa se ne fa di me, a questo punto della nostra storia? Cosa se ne fa di una moglie che gli nega la gioia della paternità? Quella gioia che abbiamo appena sfiorato, e che ci è stata negata nel modo più ingiusto e doloroso?
Sono sempre stata sicura del suo desiderio di paternità e non l’ho mai messo in dubbio. Solo nelle ultime settimane ho creduto che si fosse affievolito, a causa proprio di ciò che ci è accaduto… ma è stata un’illusione a cui ho voluto credere, aggrapparmi, per non affrontare la reale portata di ciò che questa nascondeva. La realtà che ho appena distrutto con le mie parole.
Siamo tornati all’interno della nostra tenda e ci siamo stesi nei nostri sacchi a pelo senza che nessuno dei due aprisse bocca. Mancavano almeno un paio d’ore all’alba, ore in cui avremmo potuto ignorarci a vicenda dormendo, ma dormire, come prima, sembrava del tutto fuori questione. Le mie palpebre hanno rifiutato di chiudersi e la mia mente lavorava troppo velocemente per permettermi di rilassarmi nel sonno. Mi sono rigirata nel sacco a pelo, ed ho notato gli occhi aperti di Peeta, fissi in un punto al di sopra delle nostre teste, sulla tela della tenda. Non dormiva neanche lui.
Si volta ad un certo punto, forse perché sentiva il peso del mio sguardo fisso sul suo viso, e resta a guardarmi. Con le braccia incrociate dietro la testa, in silenzio, mi riporta all’interno di un ricordo lontano, un ricordo in cui era accaduto qualcosa di molto simile: Peeta si era offeso per ciò che avevo detto, ed io l’avevo raggiunto in camera per porgergli le mie scuse. Mancavano pochi giorni al nostro ingresso nell’arena.
E sta accadendo esattamente la stessa cosa. Capitol City si è trasformata in una sorta di arena attorno a noi, e noi siamo di nuovo i tributi che dovranno affrontarla. Ed io ho di nuovo fatto un torto a Peeta.
- Mi dispiace – mimo con le labbra.
Ma stavolta le scuse non sono più sufficienti.
Peeta batte le palpebre, e poi fa una cosa che non mi aspettavo.
Si volta dall’altra parte e mi ignora.

 

Dovrei arrabbiarmi, o magari offendermi per essere stata trattata nel modo in cui Peeta mi ha trattata. Anche la disperazione sembra un buon compromesso, a ben pensarci… ma tutto questo a cosa porterebbe? A ben pensarci, a niente.
Peeta ha tutto il diritto di essere arrabbiato con me. Ha il diritto di avercela con me, per aver scelto di seguire una decisione che in una coppia, di norma, si prende in due e non da soli. Gli ho confessato che non voglio più provare ad avere dei figli, e questa confessione ostacola i suoi desideri. Va contro tutte le sue intenzioni. Di nuovo, cosa se ne fa di me? Ha fatto bene ad ignorarmi, ha fatto bene a rifiutare le mie scuse. E forse fa bene a lasciarmi, se mi vuole lasciare. Non siamo neanche davvero sposati. Non sono la ragazza giusta per lui.
La ragazza giusta per lui non gli negherebbe mai dei figli.
Io sono la ragazza sbagliata.

 

Ho giusto il tempo di realizzare questo pensiero che la squadra comincia a risvegliarsi, a prepararsi per una nuova giornata di… di cosa? Di riprese, presumo, dato che le riprese sono il nostro compito principale.
Invece, dopo aver bevuto una tazza della brodaglia che qui spacciano per caffè, Boggs ci dice che ha avuto direttamente dalla Coin l’ordine di farci smuovere. I Pass-Pro sono noiosi e statici, hanno bisogno di più azione. Plutarch è delusissimo dalla loro qualità, decisamente inferiore rispetto a quella dei vecchi. Il motivo per cui le riprese non vanno bene è uno soltanto: non ci lasciano fare niente, a parte riprenderci mentre camminiamo con i fucili tra le mani. È la mancanza di azione a renderli così insipidi, e credo che anche al Comando se ne siano finalmente resi conto.
Abbiamo così la possibilità di spostarci, di dirigerci verso un quartiere residenziale che è stato evacuato diverse settimane fa e che sulla mappa ha poca importanza strategica, ma che è perfetto per gli scopi della nostra troupe. Ci riprenderanno mentre cerchiamo di superarlo come se fosse un avamposto importante, contando anche sulla presenza di due baccelli che vengono segnalati sull’Olo di Boggs. Ed ecco che il Pass-Pro di oggi assume una marcia in più, diventando d’un tratto avvincente. È proprio ciò di cui ho bisogno, finalmente: è qualcosa in cui posso concentrare tutta me stessa, mettendo da parte i miei problemi privati con Peeta. L’azione ci permetterà di evitarci a vicenda, o almeno lui eviterà me, dato che è questa la linea che sembra aver deciso di seguire.
Quando siamo sul posto, Cressida ci mostra le linee guida a cui dobbiamo sottostare e lancia alcune bombe fumogene per dare l’illusione della guerra in corso; Gale è stato scelto per azionare il primo baccello, che dovrebbe contenere una raffica di proiettili indirizzati agli invasori, cioè a noi. Arriva il segnale di inizio riprese e noi cominciano a muoverci, accorti, armi in mano, fino a quando non siamo in prossimità del baccello. Cerchiamo un riparo per schivare i proiettili che arriveranno e attendiamo il colpo di fucile di Gale che lo aziona. Dopo diversi minuti, dopo che migliaia di pallottole sono passate al di sopra delle nostre teste, Boggs ci fa segno di uscire dai nostri nascondigli e di proseguire il tragitto. Controlla l’Olo per seguire la via più sicura che ci condurrà al secondo baccello.
Solo che quella che sta percorrendo non è per niente una via sicura.
Sta percorrendo le mattonelle colorate del quartiere residenziale, con noi alle calcagna, quando aziona inavvertitamente un nuovo baccello, uno di quelli non segnalati sull’Olo.
Il baccello causa una forte esplosione.

Facendogli saltare le gambe.

 

 

 

 

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Ed eccoci qui, fanciulli e fanciulle.
Vi è piaciuto il drama?
Perdonatemi, non ho saputo resistere ^^’
Però ‘drama’ ci sta bene per quanto riguarda il discorso avvenuto tra Peeta e Katniss: hanno finalmente intrapreso quel discorso che rimandavano da mesi e che, purtroppo, sembra aver portato a un punto di rottura. Forse irrimediabile.
E questo non è forse un drama?
(Forse sto eccedendo con l’uso della parola ‘drama’. Che drama. Sono proprio una Drama Queen.)
Grazie mille per aver letto anche queste note draMatiche :) ci sentiamo presto per il seguito!

D.

   
 
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