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Autore: lucille94    12/06/2021    0 recensioni
Quando il suo nome diventa improvvisamente famoso in tutta Italia, Clarice Orsini è una ragazzina di quindici anni appena, poco più di una bambina. Ha folti capelli rossi, occhi verdi a tratti malinconici; è d'animo mite, ingenua per l'età giovanissima, chiamata dal destino - o piuttosto dalle ambizioni dei famigliari - a un ruolo per cui non è pronta, a un marito che non potrà mai comprendere fino in fondo: Lorenzo de' Medici, più tardi soprannominato il Magnifico.
Ciononostante, Clarice non è debole, perché per sostenere la pressione di un marito come il suo ci vuole coraggio, tenacia e dedizione.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Era domenica e, come da consuetudine durante la Quaresima, pretesto di lauti banchetti. Nel giorno della festa si abbandonava il rigore penitenziale e si offriva ogni ben di Dio per la vista e il palato dei gran signori e dei loro ospiti. In quella, di pomeriggio, capitò di vedere entrare nel salone di Palazzo Orsini Lucrezia de' Medici accompagnata da colui che, in forza della somiglianza, doveva essere suo fratello Giovanni; li seguiva un ecclesiastico, Gentile Becchi, intimo della famiglia. Lucrezia preferiva solitamente usare il nome da nubile, Tornabuoni, poiché la sua famiglia d'origine godeva in patria di una fama più nobile di quella del coniuge, benché questi fosse meglio fornito di denaro. A Roma, però, il nome dei Medici valeva qualcosa di più e la diplomazia insegna a far uso cauto e accorto di ogni strumento a propria disposizione. Lucrezia non era di certo una sprovveduta.

Lucrezia era prossima a compiere i quarantuno anni; tuttavia, era una donna di bella presenza, con poche rughe ben accomodate sul viso affilato, con un naso diritto e un poco lungo e due occhi neri penetranti. Anche i capelli erano neri, nonostante mostrassero ormai di tendere piuttosto al grigio. I segni dell'età, lungi dall'essere causa di rammarico, erano un motivo di vanto per lei, la prova visibile di impegno attivo e di carattere forte. Nella sua espressione furba si leggeva, di quando in quando, una nota di biasimo per le donne romane, quelle nobildonne dedite alle arti femminili e refrattarie agli affari, al denaro e alla politica. In fondo era giunta nella città papale proprio per dare la più fulgida dimostrazione del proprio acume, approfittando forse delle precarie condizioni di salute del marito Piero.

Non impiegò troppo tempo, l'astuta Lucrezia, a individuare il padrone di casa. Latino indossava la porpora, ma si distingueva soprattutto per l'altezza: era questa che lo faceva svettare tra i convitati, di cui tanti erano chierici tonsurati come lui. Il suo viso aveva un'espressione volitiva che si sarebbe adattata più a un condottiero che a un uomo di Chiesa, ma ciò non stupiva dato che la famiglia Orsini aveva dato alla luce più condottieri e militari che papi; dei primi, il numero sarebbe stato difficilmente calcolabile, mentre i secondi erano due, Celestino III e Nicolò III. Lo stesso Latino era salito in alto nella gerarchia ecclesiastica: prima arcivescovo di Urbino, quindi legato papale presso il re di Napoli, poi arciprete della Basilica di San Giovanni in Laterano. Non erano dettagli da tralasciare.

Giunta davanti al cardinale, Lucrezia si inchinò dignitosamente. «Vostra Eminenza mi onora accogliendomi nella sua casa».

«Madonna Medici, voi mi onorate della vostra visita. Messer Piero è ancora gravemente indisposto?» rispose Latino Orsini, porgendole la mano affinché baciasse l'anello cardinalizio. In quel semplice gesto non si scorse sfumatura di arroganza o supponenza, ma piuttosto di benevolenza. Lucrezia se ne accorse, sorrise un poco e: «Dall'ultima sua lettera ho inteso che le sue condizioni sono migliorate; i dolori, per lo meno, lo hanno lasciato».

Il cardinale augurò che ciò fosse preludio per una guarigione, conscio però che la gotta non è solita lasciare la presa dalla carne che ha cominciato a macerare. La donna annuì e sussurrò un'invocazione a San Gottardo, quindi, rialzando gli occhi, si accorse di una persona che stava proprio allora sopraggiungendo da una stanza attigua.

«Abbiamo sentito dalla nostra cara sorella Maddalena», la anticipò il cardinale Latino, «che vi siete incontrate pochi giorni sono dalle parti di San Pietro.»

«Vi ha detto bene vostra sorella, Eminenza. È un piacere rivederla così presto», replicò con un cenno di saluto del capo. Quindi riprese, rivolta alla nobildonna che ormai li aveva raggiunti: «Un piacere sincero, come intendete voi».

«Non sarà un piacere tanto grande quanto il mio nell'avervi qui. Ecco Clarice che viene.»

Clarice seguiva la madre; comparve nell'esatto momento in cui Maddalena la introduceva nella conversazione e, colta alla sprovvista, si affrettò a inchinarsi e a rispondere: «Madonna, benvenuta».

Di nuovo quello sguardo indagatore, uno sguardo che riconosceva, quelle labbra socchiuse come a preludere un discorso lungo e puntiglioso. Questa volta Clarice si aspettava davvero di sentirsi descrivere da capo a piedi come una statua di marmo da trasporre in dipinto; ma Lucrezia tacque e, dopo l'occhiata, si sciolse in un complimento: «Siete molto graziosa, madonna, in questo abito stretto sui fianchi. Permettetemi di dirvi che rende molto più giustizia alla vostra bellezza di quel lenzuolo che indossavate giovedì mattina».

«Vi ringrazio, madonna.»

«A Firenze abbiamo altre fogge d'abito: le donzelle nubili devono pur mostrare la propria bella sembianza prima che il tempo le sciupi. Lasciamo che la giovinezza abbia le proprie gioie, poiché da vecchi non possiamo far altro che lamentarci delle occasioni perdute», riprese Lucrezia, scambiando sguardi di assenso con il cardinale e con la matrona. Clarice ascoltò l'encomio con vergognosa modestia e sorrise un poco vedendo la fiorentina ammiccarle benignamente.

«E i vostri capelli hanno una tinta così accesa da rassomigliare un fuoco, madonna Clarice. Donde vi viene nota tanto bizzarra?» domandò; nel farlo si rivolse a Latino Orsini, che colse l'opportunità di dar sfoggio alla propria casata: «Si può dire che sia un tratto distintivo della famiglia. Sapete, mia nipote è Orsini due volte poiché suo padre, messer Jacopo, è degli Orsini di Monterotondo, mentre noialtri siamo degli Orsini di Bracciano».

«E ha fratelli, codesta fanciulla?»

«Ne ha: Rinaldo è suddiacono; Orso, il piccolo della casa, attende ora le sue lezioni con la spada. Sarà lui a succedere a messer Jacopo. Ha poi una sorella maggiore di nome Aurante, pronta a maritarsi con Gian Ludovico Pio di Savoia. E voi, madonna, so che avete più figli di quanti n'abbia io», rispose Maddalena. Lucrezia assentì, gonfiandosi di orgoglio: «Ne ho cinque, ringraziando il Cielo. Tre femmine e due maschi, di cui il minore ritengo abbia l'età di vostra figlia. A Firenze,» aggiunse, «la famiglia Orsini gode di un'ottima fama, a differenza di quei Colonna così violenti e poco eleganti».

Prevedibilmente, Latino e Maddalena si compiacquero del complimento; Clarice, invece, si morse il labbro e inspirò, assumendo un'espressione che trepidava di incertezza. Ciò non sfuggì a Lucrezia, che le si rivolse di nuovo. «Madonna, vorreste raccontare a una vecchia donna forestiera la grandezza della vostra famiglia? Sapete, Lorenzo e Giuliano si appassionano di cavalleria e, quando sapranno che ho avuto il privilegio di parlare con voi, vorranno certamente conoscere meglio i magnanimi Orsini».

La fanciulla scambiò un rapido sguardo con la madre e si schiarì la voce. «Come Sua Eminenza il cardinale mio zio vi ha detto, signora, i miei genitori sono ambedue Orsini. Mio padre è Iacopo Orsini da Monterotondo e possiede la metà dei possedimenti di quel paese; l'altra parte è di mio zio Lorenzo. Inoltre possiede tre castelli, dove i miei fratelli e io siamo soliti passare l'estate. Vedete, l'estate è molto calda qui a Roma.»

«Anche a Firenze, madonna, difatti mio marito ama trascorrere la stagione a Cafaggiolo, dove abbiamo un casale e molto terreno. E da parte di vostra madre?»

Clarice annuì e riprese: «Oh, i miei parenti materni sono molto noti e sono certa che i vostri figli li conoscano: Sua Eminenza è uomo famoso per la sua amicizia con il Santo Padre, e i miei zii messer Napoleone e messer Roberto sono grandi condottieri. Sono tra l'altro cugini di secondo grado di mio padre».

«L'unione che regna in casa vostra è invidiabile, madonna», concluse Lucrezia, ringraziandola. «E voi dovete essere molto devota ai vostri parenti.»

«Lo sono, madonna.»

«E sarete una buona moglie, quando verrà il tempo opportuno», riprese l'altra, sorridendole di nuovo. «Immagino che una fanciulla della vostra grazia, della vostra gentilezza e bellezza sia già promessa a un fortunato sposo.»

«In verità,» si intromise un po' bruscamente Maddalena Orsini, «Clarice nostra è ancora tenerella per un fidanzamento. Se ne riparlerà tra un anno buono, anche se non vi nascondo che ci guardiamo attorno per il migliore partito di Roma.»

Lucrezia fece segno di concordare, ma quando parlò si espresse in modo piuttosto ambiguo. «Le mie figliole le ho maritate tutte giovanissime e tutte han dato ottime prove di virtù; m'hanno resa molto orgogliosa, sapete, e credo che il medesimo sarà per voi».

Le occhiate che volavano sovente tra le due madri davano a Clarice una certa soggezione e, combinate con un particolare ricordo che rimontava all'anno precedente, la giovinetta non poteva che maturare sospetti sempre più impellenti, sicché le sue mani non stavano più a bada, ma si torturavano a vicenda, torcendo gli anelli, i bracciali, senza posa.

Perché non riusciva più a cavarsi dalla testa quei frammenti confusi di conversazione? Quelle parole, spiccate da un simpatico accento fiorentino, sussurrate affinché la basilica non rimbombasse tradendo la loro presenza agli ultimi fedeli ancora raccolti in preghiera chi qua, chi là?

Più che un timore, il suo era un presentimento: un pensiero che, più i minuti passavano, più prendeva corpo nella figura dell'ospite straniera capitata come per caso nella città del papa. Perché se Clarice era quasi del tutto sicura che sua madre non sapesse nulla – altrimenti l'avrebbe già tempestata di domande fino alla follia –, l'altra evidentemente sapeva qualcosa, se non proprio tutto. Non aveva di che preoccuparsi, ché nulla di biasimevole era intercorso in quell'occasione; pure, non era una coincidenza se, giusto giusto a un anno di distanza dalla Santa Pasqua del 1466, Lucrezia Tornabuoni si scomodava a venire di persona a Roma, benché le apparenze potessero in qualche modo giustificarla: il marito infermo, il fratello direttore di banco, i Medici banchieri del papa...

«Clarice, non rispondi?»

La voce bonaria dello zio la riscosse dai mille ragionamenti in cui la sua mente si era ingarbugliata. Rivolti gli occhi grandi di timidezza alla donna fiorentina, Clarice balbettò se, per cortesia, potesse ripetere la domanda. Lucrezia non se ne fece un cruccio e: «Nessuna domanda, madonna, solo un saluto e un augurio di rivedervi presto. Sarò a Roma ancora per qualche giorno e importanti questioni di curia mi potrebbero richiedere altri colloqui con vostro zio. Se Dio non lo permetterà, allora vi auguro una Pasqua autentica dopo una Quaresima di santa penitenza. A Dio, madonna Clarice; a Dio, madonna Orsini; e voi, Eminenza, vi prego di benedirmi».

Latino tracciò un'ampia croce con la mano destra borbottando una preghiera; ma Clarice, con i suoi grandi occhi verdi ancora fissi sull'ospite, dubitava se avesse o meno piacere di vederla un'altra sola volta. Forse, per placare l'animo improvvisamente turbato, sarebbe stato molto meglio rifugiarsi dietro la piccola bugia di un malessere di stagione, ed evitare di incontrarla più.

   
 
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