Due anime, una cenere

Patroclo si sentì rinascere. Ed era ironico, considerato che stava andando nell'Ade. Ma sapeva che finito il viaggio, sceso da quella barca, lo attendeva lui. Lui. Lui che lo aveva amato più di ogni altra cosa, lui che aveva ricambiato con lo stesso ardore, lui che quando Patroclo era morto, era stato accecato dalla rabbia di averlo perso tanto da uccidere un'intera falange e il suo comandante, lui che era stato il suo unico, il suo primo e il suo ultimo, e non gli importava il sangue di cui si era macchiato le mani. Scese dalla barca infernale, facendo attenzione a non toccare le acque venefiche dello Stige. Un lampo biondo e lo vide. Achille. Patroclo era rimasto anni sulla superficie senza corpo, un'anima vagante, disperato che neanche nella morte potesse aver pace e stare insieme al suo Achille. Non gli importava niente che fosse stato sepolto e a malapena ricordato, l'unica cosa che gli interessava l'aveva di fronte. Si fissarono. Achille aveva le sembianze di quando era ragazzo, di quando erano nella caverna di Chirone insieme, loro e solo loro. Non poteva vedersi ma immaginava di avere anche lui l'aspetto di sedicenne.

Non pensava che i morti potessero piangere, eppure quando si corsero incontro e si abbracciarono, pieni finalmente, completi per l'eternità, piansero come bambini. Patroclo non piangeva così da quando aveva ucciso quel ragazzino, motivo per cui era stato esiliato, motivo per cui lo aveva conosciuto. Avevano vissuto con il tempo contato, con il timore che il tempo si fosse fermato all'improvviso. Ora potevano rimanere lì, abbracciati e piangenti, nell'eternità.