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Autore: Kiki Daikiri    30/08/2009    3 recensioni
"Noi della crew non eravamo amici: eravamo fratelli.
Per i fratelli si darebbe qualsiasi cosa, anche il proprio sangue, la propria libertà. Anche se io un fratello di sangue lo avevo già.
Avrei dovuto capirlo prima. Avrei dovuto capire prima tante cose."
Genere: Malinconico, Azione, Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Ringrazio moltissimo _Ellie_ per il meraviglioso commento che, sinceramente, mi ha spinta a pubblicare un nuovo capitolo. Spero di non deludere le tue aspettative ^^
Buona lettura, Kiki


Capitolo X

Opportunità
 
Basandomi sullo sguardo, l’avrei giudicato per nulla intimorito nel trovarsi solo faccia a faccia con me, ma mi bastò lasciar posare lo sguardo sulle sue mani per rendermi conto del contrario: tremavano.
«Ho conosciuto… uomini… che portavano pistole nelle tasche dei jeans» esordii, aprendo l’accendino con uno scatto e sorbendo un tiro di una delle sigarette che ogni giorno passavano la frontiera Ceca per raggiungere la Germania, dove allora come oggi un pacchetto legale costa eccessivamente più che in un qualsiasi altro paese europeo.
Il mercato nero fruttava molto,anche da quel punto di vista.
Daidetsu non mi staccava gli occhi di dosso, e, per quanto non capisse, non accennò minimante alla propria confusione.
Era molto paziente.
«Vedi, perché ho usato con tanta riluttanza il sostantivo “uomini”? Non per astio personale, non solo, è perché un uomo che non sa difendersi senza uno stupido pezzo di ferro in tasca, non è un uomo.» nel dirlo, sentii i muscoli della mandibola contrarsi in un moto involontario, come spesso mi accadeva. Avevo solo diciannove anni, ma me ne sentivo già quaranta sulle spalle.
«Gli ordini erano di non farsi notare.» rispose lui, freddo, senza sbattere le palpebre nemmeno una volta.
Contro ogni mia aspettativa, sentii un brivido percorrermi la spina dorsale.
Sorrisi di sbieco.
«Già. Erano quelli.» mi alzai in piedi con noncuranza, ma credo avesse capito che era solo un trucco per poterlo sovrastare, per non lasciarmi mettere in soggezione da uno stupido sguardo, da una valanga di sgradevoli ricordi che esso riesumava nella mia testa.
«L’ho capito subito» mossi due passi verso la finestra, raccogliendo i dreadlocks in una sgraziata coda «che eri il migliore, tra i due.»
Mi voltai di scatto, cambiando totalmente espressione.
«Proprio per questo non ti darò un attimo di tregua, non ti lascerò respirare, non avrai incarichi semplici e non vedrai nemmeno un soldo, finché non sarò io a stabilirlo.»
Lo vidi aggrottare lievemente la fronte, ma nulla di più.
Con un lieve movimento del capo, simile ad un inchino, mi ringraziò e si congedò.
Tornai a guardare fuori dalla finestra, soddisfatto.
La strada sporca e grigia accolse i miei sensi, come faceva ogni sera.
Dissi addio a tutto ciò che avevo considerato “meta” fino a quel momento. Come un uomo in cerca del suicidio a bordo di una vettura, dovevo spingere al massimo sull’acceleratore, per essere sicuro di giungere alla fine.
 
-Non sapevo cosa significasse per me il concetto di “fine”, doc. Nemmeno adesso credo di saperlo con esattezza. So, però, che si tratta di un conflitto interiore che trova una risoluzione. Una parte perde, l’altra vince. È quando l’equilibrio di una persona va definitivamente a puttane. O almeno credo.-
 
Molte cose mi davano fastidio, in quel periodo. Cominciavo a provare noia per i party, per le gare in macchina, persino per le ragazze.
Mi aveva stufato quel tran-tran.
Non aveva senso, mi sentivo svuotato. E solo.
Non riuscivo ad ammetterlo con me stesso, ma era così.
Fortunatamente avevo trovato una valvola di sfogo, nell’abuso di droghe. Se le vendevo, pensavo, non era poi così stupido farle diventare una parte di me fisicamente, dato che, ormai, erano già parte della mia vita.
Sociale, privata. Che importava?
La cocaina mi dava una mano, più che altro mi teneva occupato.
Per il resto del tempo, osservavo Daidetsu.
Era come se lo conoscessi da tempo, come se quel ragazzino potesse rappresentare per me una scappatoia, una qualunque via d’uscita da quella camera a gas che era diventata la mia vita.
Un’opportunità, anche se ancora non avevo bene idea di cosa potesse significare.
Georg, per mia fortuna, riusciva a tenere sotto controllo l’intera situazione, facendo in modo che io non mandassi a monte il nostro patrimonio, i nostri affari e i rapporti che avevamo con i nostri compagni. Non fosse stato per lui, sono sicuro che sarebbe tutto finito nel peggiore dei modi.
Una sera, eravamo rimasti soli io Georg e Shon, il padre di un nostro cliente abbastanza importante ci invitò a cena in un ristorante rinomato per la buona cucina, i prezzi spropositati e la clientela variegata. Per variegata intendo ricca di pregiudicati e gente poco, molto poco affidabile.
In una qualsiasi altra situazione avrei rifiutato senza pensarci due volte: potevo immaginare cosa potesse volere un tizio del genere da noi, e la cosa non mi piaceva affatto; eppure, quella sera, non ebbi la forza di fare il duro, di mandare al diavolo un uomo tanto ricco e potente.
Mi sentivo come un sacco vuoto.
In più Georg mi aveva pressato affinché io accettassi quello sporco invito.
«Potrebbe essere una grande opportunità Tom, la prima reale opportunità da quando ce ne siamo andati…da quando…» fece una pausa silenziosa e meditabonda, lanciando uno sguardo rapido ed imbarazzato nella direzione del resto della banda, che ci fissava senza concedere un fiato.
Accesi una sigaretta, stringendola tra le labbra. Avevo appena ricominciato a fumare.
«Se ci offre un affare di quelli veramente buoni, potremmo farla finita con tutto questo. Bum.»
C’era una sorta di eccitazione nuova, nella sua voce. Capii all’istante che anche lui provava la mia stessa angoscia, e che desiderava parlarne con me in privato, ma non ce n’era il tempo.
«Ok, andiamoci. Ma l’appuntamento è tra soli venti minuti, quindi vediamo di darci una mossa.»
Gli occhi di Georg fissi nei miei mi calmarono, trasfondendomi tutta la loro forza, ma anche la loro vulnerabilità. Nonostante avesse messo su parecchia massa muscolare ed i capelli gli arrivassero ormai a metà schiena, Georg rimaneva sempre lo stesso docile ragazzino che avevo conosciuto ed amato sin da bambino.
Posandogli una mano sulla spalla, gli dedicai un sorriso a mezz’asta.
Sapevo che mi avrebbe subito smascherato, che quella finta allegria non lo avrebbe tratto in inganno, eppure decisi di farlo lo stesso, così da potergli voltare le spalle senza sensi di colpa.
Mi chiusi in bagno e sniffai una minima dose di cocaina, così da restare molto lucido per la cena.
 
-Non è disgustoso immaginare come sarebbe stato semplice fare ciò di cui avevo voglia e basta? Dottore, mi interrompa se dico qualche scemenza, ma adesso che rivivo le stesse emozioni a distanza di tempo, mi sembra così assurdo che io abbia dato importanza a tutto ciò che stavo vivendo, quando in realtà non amavo nulla di quell’ambiente. Dovevo onorare una promessa? No, io non avevo promesso nulla a nessuno, dottore.-
 
Indossavo una felpa nera e lucida, della Nike. Era una felpa molto costosa, ma abbastanza elegante da poterla indossare senza troppi problemi in un ristorante come quello.
Il capo cameriere squadrò molto male me e Georg, quando facemmo la nostra comparsa, ma, non appena ebbe compreso chi era il nostro accompagnatore, la sua espressione mutò notevolmente in fretta.
«Signor Schäfer, benvenuto.» esclamò, quasi sobbalzando, ma con un contegno dimesso e quasi parodico. Accennò un inchino, accompagnandoci ad un tavolo isolato e ben protetto da occhi ed orecchie di curiosi.
Mentre prendevo posto ad un’estremità della tavola rotonda, posai distrattamente lo sguardo sul pavimento sotto di noi. Un rigagnolo d’acqua cristallina percorreva tutto il sottosuolo della stanza, mostrandosi attraverso un componimento di vetro e legno. Un pesce blu elettrico sguazzava senza allegria sotto alle suole di Georg. Mi sfuggì un sorriso.
«Ebbene, suppongo siate rimasti quantomeno sorpresi…» intercalò il giovane Schäfer. Lavoravamo con lui da parecchio tempo, era una ragazzo introverso ed interessato particolarmente alle macchine, le macchine da drift.
Notando lo sguardo ghiacciato ma orgoglioso che il vecchio uomo posò sul figlio, ebbi il fondato sospetto che Gustav Schäfer non avesse accennato a suo padre riguardo al genere di acquisti che faceva da noi.
Georg si affrettò rispondere al posto mio, evitando che mi perdessi nei miei pensieri al punto di fare una pessima scena muta.
«Si, piacevolmente sorpresi.»
Sorrisi ed annuii, come per confermare la reazione di Georg. Dopotutto, pensai, non erano affari miei.
«A nessuno piace mangiare parlando di cose spiacevoli e noiose come gli affari, tantomeno a me. Per di più in questo locale il cibo è ottimo ed offro io, per cui suppongo concorderete con me se vi propongo di passare al sodo e di sbrigare questa faccenda prima che arrivino le portate.» propose il vecchio Schäfer, con un’aria amichevole e disponibile che celava a stento un’autorità che sfiorava l’ordine.
Se dicessi che, in quel posto pieno di camerieri in camicia e di signori in abito scuro, mi sentissi a disagio, mentirei. Oramai ero abbastanza assuefatto a quel genere di compagnie, a quel genere di locali. Dove sai di poter usufruire della tua fama, non conta molto come ti vesti o con quanta grazia ti esprimi.
Spostavo lo sguardo, annoiato, tutto attorno a me. Le lampade in carta di riso, la mobilia scura e i giochi d’acqua e luci che coloravano le pareti, tutto appariva così lontano, persino le voci mi giungevano ovattate, come se mi stessi lentamente spegnendo.
«Non vi nascondo, signori miei, che se anche mio figlio non mi avesse parlato con toni entusiastici del vostro business… e vi assicuro che lo ha fatto – soggiunse con una mezza risata – avrei comunque, come dire?, messo gli occhi su di voi molto presto. Köln è una città molto più piccola di quanto non appaia sulla carta, signori miei, in alcuni ambienti è difficile che un’organizzazione costituita su due piedi e da individui così drasticamente giovani passi inosservata. Non esiste uomo d’”affari” in tutta Köln che non conosca i vostri nomi falsi. E, per quanto encomiabile, comprenderete se vi faccio notare che non può essere un bene per… uomini… di tale mestiere essere sulla bocca di tutti.» lo lasciammo parlare senza mai interromperlo, anche se l’esitazione che ebbe nel definirci come uomini adulti mi impensierì. Chi avrebbe mai potuto volere entrare in affari con persone che ancora si considerava come ragazzini? Nel proseguire, il volto rugoso  del vecchio si indurì, cercando ostentatamente di apparire minaccioso, più di quanto potesse essere minaccioso il suo ventre prominente o i suoi capelli ormai completamente bianchi: «Ormai è solo questione di tempo prima che i pezzi grossi e la polizia comincino a darvi dei fastidi. Per quanto sicuramente potrebbero preferire lasciarvi semplicemente perdere. Ma io no, io ho dei progetti da sottoporvi, progetti estremamente interessanti e che menti giovani come le vostre potrebbero trasformare in una solida realtà: io ho i mezzi economici e pratici per fa si che voi possiate ampliare notevolmente la vostra area di commercio, a livello internazionale.»
Schäfer si zittì, troncando senza preavviso il discorso e abbandonandosi compostamente contro lo schienale della sedia, le dita delle mani delicatamente giunte tra loro e le labbra increspate da un sorriso carico di aspettative.
Durante tutto il tempo che aveva impiegato per parlare, Georg era rimasto immobile, come me, ma aveva tenuto lo sguardo fisso in quello dell’uomo e la bocca semiaperta per la concentrazione, mentre io non facevo che abbassare lo sguardo e schiarirmi la voce, come per tenermi sveglio.
«Ok, senta. La ringrazio per averci aperto gli occhi, ma vorrei sapere cosa intende quando dice “progetti” e perché dovrebbe venire proprio da noi che non abbiamo fatto nulla di così speciale…» iniziai improvvisamente a protestare, immediatamente colpito in pieno stomaco da una gomitata del mio compagno, che mi sussurrò rabbiosamente di non essere sgarbato.
«No, no, calmo ragazzo…» disse gentilmente Schäfer, in direzione di Georg, per poi rivolgersi nuovamente a me «fai bene ad essere diffidente, lo sarei anche io, chiunque dovrebbe esserlo, in una posizione come la tua. Ciò dimostra che sei intelligente, che hai la testa giusta, la testa che io cerco per dirigere un traffico così vasto, troppo vasto per mio figlio da solo.»
Il giovane Schäfer, che fino a quel momento se ne era rimasto in silenzio ed immobile, scosse su e giù la testa dai biondi capelli, come per sottolineare la frase appena pronunciata dal padre.
«Cosa dovremmo fare?» domandai, a me stesso, a Georg e a nessuno in particolare. Fu il signor Schäfer a rispondermi: «Dovreste trasferirvi a Magdeburg.»
 
Uscimmo dal ristorante solo diverse ore dopo, congedandoci con una stretta di mano e la promessa di risentirci al più presto, con lo stomaco pieno e una strana euforia in corpo. Da parte mia, si trattava di eccitazione d’innanzi ad un cambiamento, uno qualsiasi, della mia situazione attuale. Ne avevo bisogno, avevo bisogno di stravolgere le cose, anche se non ero del tutto convinto che fosse quello il metodo migliore.
Georg, invece, era semplicemente agitato.
«Non credevo ci avrebbe chiesto un cambiamento del genere.» si lasciò sfuggire, mentre, nel parcheggio, mi accendevo nervosamente una sigaretta.
«E cosa credevi ci avrebbe offerto? Io resto dell’opinione che quel simpatico signore possa avere in mente solo due cose: sfruttarci o levarci dai piedi in questa città; che sia una o l’altra poco importa, non credo di voler continuare con questa messa in scena.»
Aspirai tre brevi boccate di nicotina e catrame, come se lo facessi con urgenza.
Georg mi guardò, stranito. Ripetevo sempre più frequentemente quella frase, eravamo giunti al punto per cui cominciava a temere che dicessi sul serio.
«Non fai altro che parlare di questo, e, sul serio, guarda che se hai perso la voglia e la passione per quel che facciamo siamo in due… ma tu non puoi…»
«Voglia? Passione? Ma di che stai parlando, si può sapere? È droga, Geo, spaccio, cose disgustose che ho sempre fatto solo perché mi sembrava l’unico modo per stare lontano da casa…e…»
Georg scosse con violenza la testa: «No, no… non è questo, sono cose che hai sempre fatto perché stimavi chi le faceva prima di te. E il motivo per cui non puoi sottrarti a tutto questo è che tu hai fatto una promessa e so che non riusciresti mai ad andartene senza averla mantenuta.»
Un silenzio denso di fumo mi piombò addosso, togliendomi quasi la capacità di respirare. Mi sedetti di colpo, sul muretto alle mie spalle.
C’era un’aria gelida, quella notte. Soffiava senza pietà su tutti noi e mi faceva stringere inutilmente in quella stupida felpa alla moda, tramante.
«Ok, ci andiamo.» conclusi, infine «ma non ho stretto nessun patto, non ho fatto alcuna promessa. Non sto seguendo le orme di nessuno, io.»
Ma, pronunciando le mie stesse parole, percepivo il sapore bigio di una menzogna. Conoscevo troppo bene Georg per credere che lui non conoscesse fin troppo bene ciò che provavo.
La mia mente volò ancora una volta a tempi e luoghi relativamente lontani, a persone e fatti che mi parevano periti da millenni.
Avevamo una nuova opportunità, qualcosa di imprevisto, eppure il mio entusiasmo era già evaporato, scivolato chissà dove. Desiderai ardentemente di potermi chiudere nel bagno di camera mia, di tornare immediatamente a casa, ma riuscii a dissimularlo.
«Ed ora, andiamo a comunicare la bella notizia.»
   
 
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