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Autore: KaienPhantomhive    20/06/2021    1 recensioni
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La battaglia di Varsavia ha mostrato al mondo la forza del Quarto Reich Lunare. Ma la sete di potere non conosce limiti, da parte di nessuno. Nuove Divinità Metalliche attendono di essere risvegliate, e nuovi Contratti aspettano le loro anime come pegno. Fino a che punto può spingersi il desiderio di distruzione reciproca degli uomini? Ha senso ostinarsi a concludere una guerra, se è destinata a ripetersi per sempre?
Genere: Azione, Drammatico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 14.

Anonimo Veneziano

 

20 Giugno. Venezia, Italia; Eurasia.

Il freddo sonnolento della mattina si riscosse al frullare ali di piccioni che si libravano dal cornicione di una casa storica, verso il cielo limpido di Venezia.

Quando il rumore degli uccelli fu lontano dalla sua finestra e la sveglia puntata alle 7:00 iniziò a suonare, il ragazzo era già sveglio. Rimase qualche istante immobile seduto sul letto, fissando la chiazza d’umidità sul soffitto della camera matrimoniale: si era allargata ancora.

 

Una manciata d’acqua gelida in viso e tutto sembrava sempre più lucido a ogni risveglio. Premette le mani bagnate contro la pelle e poi le fece scivolare via; sollevò la testa e fissò il volto che gli apparve allo specchio del bagno in maioliche: un adolescente nel pieno della pubertà, dai capelli corti e neri. I suoi grandi occhi blu scrutarono il riflesso ancora un po’, come se si aspettasse un cambiamento, ma era sempre tutto uguale. Scese in pigiama e a piedi nudi le scale ritorte che portavano al piano inferiore, dove la luce dalle alte finestre inondava il salone-ingresso, illuminando gli antichi affreschi semi-scrostati sulla parete non ristrutturata.

La sua bella, elegante e silenziosissima casa.

Non c’era nessuno ad accoglierlo. Nessun genitore, nessun fratello o sorella, nemmeno un animale d’appartamento. Nessuno. Come da tre mesi a quella parte.

Si aggirò tra le cartacce del menù pronto di un fast food, resti abbandonati a terra dalla cena della sera prima. La catasta di poste sigillate sul tavolino accanto all’entrata finì nel suo campo visivo, ma la ignorò. Che nel 2050 il Comune di Venezia si ostinasse ancora a spedire posta bollata a casa anziché notificarlo per email era una cosa che non capiva. Acqua, gas, luce, telefono. Due avvisi per ognuno, che tanto non avrebbe pagato.

Notò che il parquet era caldo. A quanto pareva il riscaldamento funzionava ancora bene, segno che loro stavano davvero provvedendo a pagare ogni suo bisogno, anche se con un certo ritardo. Aprì il frigo e l’ampia scelta di tre merendine, una busta di latte e due bottiglie di cola gli suggerì di optare per una merendina e la busta di latte. Scartò la merendina e la finì in un paio di morsi, mentre il poco latte rimasto fu trangugiato direttamente dal brick.

Poi, con metodica passività, si preparò: vestiti, libri di scuola, tracolla sempre sulla spalla destra e già che c’era l’ultimo volume del manga che doveva ancora terminare, preso direttamente dalla colonna di romanzi e fumetti che aveva impilato vicino al divano e che ora iniziava ad assumere un’altezza alquanto importante. Infilò le chiavi nella toppa della porta e uscì.

Fu così che Màrino Alto concluse il suo rituale mattutino.

 

Camminò sullo schermo translucido posto sul canale che scorreva proprio davanti al suo uscio; degli esagoni luminosi vibrarono per un momento sotto il peso dei suoi passi e poi imboccò il marciapiede. Il popolo veneziano del suo rione non aveva ancora preso il ritmo, a quell’ora, così che la strada era quasi del tutto deserta. Nell’aria c’era un profumo d’acqua e d’estate.

 

A sedici anni, Màrino non era molto alto, non si poteva dire che avesse il fisico dell’atleta e, purtroppo per lui, chi si fosse trovato a parlarne non lo avrebbe descritto come particolarmente bello o intelligente. Amava perdersi nel suo mondo perfetto fatto di racconti, personaggi e luoghi senza età che popolavano le pagine muschiate dei suoi libri o quelle che puzzavano d’inchiostro dei fumetti. Maghi o guerrieri, creature impossibili o supereroi che combattevano per ideali immortali, poteri incredibili che permettevano qualunque cosa…al confronto, la vita reale era un’inutile distrazione tra i sogni notturni e quelli in veglia. Gli ricordava che era solo.

Tre mesi prima Màrino tornava da scuola e ritrovava la sua casa circondata dalla polizia. Si era fatto largo tra quanti avevano tentato di risparmiargli invano una vista dolorosa e ciò che aveva trovato erano stati i corpi dei genitori stesi al suolo, con un cappio ancora legato al collo e la scritta ‘FASCI MAIALI’ sulle pareti di casa.

La scritta era andata via con una mano di vernice, ma il ricordo di quel giorno no. Disperarsi era inutile: non aveva altri parenti ma solo una meravigliosa sfilza di sconosciuti che lo compativano miseramente. Ma a lui non importava più. Dopotutto aveva trovato loro, i suoi nuovi benefattori, che gli evitavano di finire in orfanotrofio pagando tutte le sue spese.

Continuò in silenzio il suo tragitto.

Aveva calcolato tutto: venti minuti di preparazione a casa, quindici minuti di tragitto a passo moderato, cinque per salire in aula tenendo conto anche del traffico studentesco e gli avanzava anche del tempo prima dell’inizio delle lezioni.

Fece tutto per bene e anche la giornata scolastica iniziò e finì nello stesso torpore.

Nel tornare a casa non mancò di fermarsi al suo bar preferito in piazza San Marco, seduto sempre al tavolino esterno accanto alle piante. Ordinò la regolare coppa gelato con guarnizione di panna e croccante, pagò e se ne andò. Si fermò sul molo per i suoi immancabili dieci minuti di osservazione di tutto ciò che entrava nel suo campo visivo e poi lasciò anche quel posto.

Scelse la strada più lunga per il ritorno, gironzolando per le viuzze traboccanti maschere in cartapesta di pessima qualità per i turisti e infine ritrovò la sua dimora di mattoni rossicci, là dove era sempre stata, nel Sestiere Cannaregio. A volte sperava di non trovarla al suo posto, come se un mago l’avesse fatta scomparire per dispetto. Così, tanto per avere qualcosa di cui sorprendersi.

E invece nessun mantello dell’invisibilità steso sulla sua casa a due piani.

Rientrò. Si spogliò. Una quasi-cena di cibo su ordinazione. Il televisore non venne nemmeno toccato, quella sera. Un film sulla TV a pagamento e poi “luci off”.

 

Il giorno seguente, i piccioni erano nuovamente sul suo balcone, intenti a tubare tra loro. Come sempre Màrino aveva gli occhi spalancati prima della sveglia e quando il dispositivo entrò in funzione si mise a sedere sul letto.

Sospirò.

 

*   *   *

 

Ore 10:30. Nuovo Liceo Classico Internazionale ‘Marco Foscarini’.

 

La lezione di Storia procedeva senza interesse. L’ometto baffuto che aveva per professore continuava a blaterare suoni che arrivavano indistinti alle orecchie di Màrino, troppo immerso a osservare i profili ammiccanti di bifore e archi bianchi degli antichi palazzi della città, che si estendevano fuori dalla finestra come un tappeto adagiato sull’acqua.

 

Da quando l’Italia si era uniformata al nuovo programma di istruzione euroasiatico, la scuola era un impegno che si protraeva fino alla fine di Giugno e, sebbene tale novità non fosse stata accolta con entusiasmo da nessuno degli studenti italiani nei primi tempi, cinque anni erano stati sufficienti per renderla semplice abitudine.

 

Sul suo quaderno era stato scribacchiato in una pessima grafia qualche appunto:

  • 2035: Russia e Cina formano Repubbliche Neo-Socialiste Russoasiatiche, per opporsi agli Stati Uniti
  • 2036: Unione Europea chiede formazione di una sola potenza continentale
  • 1 Gennaio 2039: nasce Blocco Continentale Economico Eurasiatico (EECB)  entra in vigore euroyuan  EURNY (nuova moneta unica, prima avevamo euro)
  • 4 Luglio 2040: Austramerica è la risposta all’Eurasia. USA, Sud America e Canada vengono annesse ad America del Nord; si forma supergoverno degli Stati Federati d’Austramerica (FSA)
  • 2042: Africa e Medio Oriente restano le uniche indipendenti  stringono Patto di Mediazione delle Nazioni Arabiche (tipo vecchia Europa)
  • 30 Aprile 2050: il Reich è tornato.

Con il dorso della mano a sorreggergli la testa rimase a fissare il l’ondeggiare degli alberi in cortile. Un mare verde frusciante che mormorava sospiri a metà della sua vita.

 

*   *   *

 

Quattro ore dopo.

 

Màrino spense il terminale dell’aula computer, staccando l’hard disk esterno e infilandoselo in borsa. Anche la ricerca di chimica era stata completata, ovviamente sempre in totale solitudine, neanche a specificarlo. Sembrava che le persone tendessero ad avvicinarsi a lui solo quel tanto che era inevitabile in una civile tolleranza, ma nessuno provava a superare la soglia che con il tempo si era circoscritto. Non che lui stesso ne avesse poi molta voglia, in realtà; se era impossibile trovare punti di incontro con gli altri, allora tanto valeva starsene per conto proprio.

Ripercorreva il corridoio nel senso contrario, quando qualcosa catturò la sua attenzione. All’inizio fu solo una sensazione, quasi un istinto, che gli solleticò i sensi. Non sembrava avere una consistenza e non era nemmeno certo che stesse davvero accadendo qualcosa, al punto che si fermò per sincerarsene. Era come avere un granello di sabbia nell’orecchio, qualcosa che si muove appena ma che non si riesce a distinguere. Mosse qualche altro passo avanti e poi il granello di sabbia iniziò a muoversi con più precisione e più in fretta: ora era quasi un ronzio. Ancora un passo. Il ronzio era sempre più continuo e nitido. Iniziò a capire.

Non era un ronzio: era musica. Vibrazioni brevi e decise che producevano un suono caldo e armonioso; di sicuro si trattava di uno strumento ad archi. Erano sequenze di note che non riconosceva ma di cui comunque riusciva a intuire il ritmo; frasi musicali molto simili tra loro che si ripetevano differenziandosi sempre al più di qualche nota. Si lasciò guidare dalla melodia costante e piacevole e si ritrovò presto davanti alle porte di vetro dell’aula di musica, dalla quale giungeva finalmente intellegibile.

Era strano. Non si era mai interessato di musica classica, l’aveva sempre trovata tremendamente monotona, ma quella volta era diverso. Forse perché inattesa, forse perché non aveva di meglio da fare, restava il fatto che quella serie ordinata di suoni l’aveva catturato come un incantesimo.Spinse piano un battente per osservare meglio l’artefice di tanta bellezza – si aspettava forse un ometto in abito da concerto o solo uno stereo in loop – e chi vide lo stupì notevolmente.

Era un ragazzo. Di spalle, quindi non poteva vederlo in volto, ma immaginò che non potesse essere tanto più grande di lui. Il musicista per adesso era solo un sottile gilet di cachemire bianco e una chioma nocciola, seduto su una seggiola al centro della grande stanza vuota, piena di luce. Era curvo su sé stesso, intento a muovere il lungo archetto che impugnava nella mano destra su quello che a Màrino parve nient’altro che un violino gigante. Che musica ambigua! C’era della gioia in quel brano, ma era soppressa, quasi intimidita da una nota di fondo di lieve solitudine, il tutto indurito da una tecnica perfetta. Adesso stava accelerando e faticava, si vedeva, e dopo un paio di colpi d’arco una nota s’impennò come un cavallo imbizzarrito, stonando meravigliosamente male. Al violoncellista quasi cadde di mano lo strumento. Emise un sospiro sconfortato e poi fece per voltarsi.

Màrino si ritrasse immediatamente oltre la porta, riuscendo a non farsi notare. Perché nascondersi? Non stava facendo nulla di male, però non volle comunque che il musicista senza nome né volto venisse a sapere che lo stava origliando. Quella musica…quel ‘qualcosa’ che non riusciva a spiegarsi era stata spiazzante. Una novità! Per una volta! Si sorprese nell’accorgersi di stare sorridendo.

 

*   *   *

 

Era ormai pomeriggio inoltrato quando incrociò per caso Alfredo Zanin, gondoliere che si era fatto una certa nomea per Venezia per la sua indole sconsideratamente romantica e invasiva, in grado di regalare traghettate gratis alle coppiette che accettavano di raccontargli un po’ di affari loro.La sua gondola nera era passata sotto un ponticello, affiancando Màrino che procedeva a piedi.

Alfredo – detto ‘Alfio’ – aveva fatto amicizia con lui poco tempo dopo l’omicidio-suicidio dei coniugi Alto. Magari solo per compassione, ma da allora non erano state poche le volte che si erano intrattenuti l’un l’altro con lunghe traversate.

Si salutarono e Màrino fu invitato a saltare a bordo con un gesto.

“Dove si va oggi?” – chiese il gondoliere, sorridendo da sotto il capellino di paglia.

“Al Malipiero.”

“Ricevuto, capo.”

La gondola ripartì con un colpo di remo.

 

La barca scivolò sulle acque rapida e quieta come un’ombra acque.Si immise nel Canal Grande, sorpassò le volte bianche e leggiadre del Ponte di Rialto e proseguì diritta, contro la fresca brezza.La via risplendeva dei colori degli holo-cartelli sospesi a mezz’aria, che di tanto in tanto cambiavano forma e colore per regolare il traffico di imbarcazioni gremite di veneziani a fine giornata. Atone voci robotiche annunciavano a ogni incrocio l’altezza della marea di quel giorno. L’ologramma di un divieto, sospeso accanto a un palo a strisce bianche-rosse, si rovesciò in un ‘via libera’ verde.

Proseguirono senza parlare molto, limitandosi a gustare la pace del pomeriggio. Poi, a poche decine di metri, i grandi e curati alberi del Giardino Malipiero iniziarono a verdeggiare sul lato destro del canale.

C’era anche qualcun altro sul parapetto di marmo: una piccola figura pallida che sembrava seguirli con lo sguardo, immota. La gondola accostò sul pontile bianco e Zanin salutò il suo giovane amico con un piccolo inchino, e presto la barchetta fu solo una lontana virgola scura sospesa sulla parola ‘acqua’.

 

Màrino mosse qualche passo incerto fino a raggiungere la piccola presenza che avevano avvistato e le si sedette accanto, sui gradini.

Era una ragazza della sua stessa età, esile e minuta, dall’incarnato diafano. Indossava un abitino di pizzo bianco che le copriva anche le braccia e che sembrava davvero troppo leggero anche per la stagione. Sopra il bianco delle sue vesti risaltava il colore dei suoi capelli, che le ricadevano lisci e composti sulle spalle.

Capelli celesti; completamente.

Ma la cosa che più lo affascinava e insieme inquietava era il suo piccolo viso di porcellana, coperto da bende bianche che le lasciavano libera solo la bocca, il naso e la metà sinistra del volto. Sopra quelle fasciature era stato applicato un piccolo bouquet di rose di un azzurro cianotico, che parevano sbocciare direttamente dalla sua orbita.

Màrino squadrò diffidente il suo abito e chiese: “Ma non hai freddo, così?”

“Non ha granché importanza.” – rispose lei con una voce lieve e gradevole – “Certo, la brezza della sera è così azzurra e il profumo dell’acqua è blu e questi colori potrebbero far rabbrividire, ma essi sono anche il colore del cielo e le profondità del mare…e non c’è nulla di più piacevole di un cielo terso o di un mare calmo.”

“Ehm…sì. Ok.” – Màrino alzò un sopracciglio, incerto se replicare o meno, ma il tono di immensa pacatezza con cui lei aveva pronunciato quella frase gli aveva tolto la voglia di contestare. Non era nemmeno certo che avesse detto qualcosa di sensato, ma da un po’ si era abituato a quel modo tutto singolare di parlare.

 

Era successo un mese e mezzo prima, in una giornata come tante – l’ennesima di una fila interminabile di giorni assopiti – ma che era iniziata in modo differente: un incubo, o forse solo un sogno meno quieto del solito, perché non avrebbe potuto considerarlo troppo terrificante. In esso lui affondava; affondava senza sosta in un abisso marino le cui ombre nascondevano forme sconosciute che sembravano osservarlo. E poi due sottili occhi rossi sul fondo dell’oscurità, mani ricoperte d’acciaio che si muovevano lente e una voce femminile che lo invitava a esprimere un desiderio, per avere accesso ai segreti celati nel cuore di quel mondo sommerso.

Il giorno stesso della nottata surreale aveva incontrato lei, seduta sempre sul ciglio del Malipiero, ad attenderlo e a presentarsi con la stessa voce che aveva animato il suo sogno: Na-El.

 

Lei si voltò nella sua direzione e gli sorrise con dolcezza.

Màrino sussultò alla vista dell’iride sinistra: avrebbe potuto essere una bellissima gemma in un occhio felice e invece era un opale torbido. Il ragazzo dimenticava quasi ogni volta l’assenza di vita in quegli occhi a cui era stata negata la luce. Ma nonostante questo lei sembrava sempre seguire tutto attentamente – dagli uccelli in volo alle barche natanti – al punto che ebbe sovente il dubbio che non fosse cieca come voleva far credere. Ma lo era davvero e per questo fu ancora più sorpreso.

“Scusami se te lo chiedo…” – indugiò in imbarazzo, fissando un punto a terra – “…ma come fai a dirlo? Sì, insomma…i colori, intendo. Voglio dire, non sei…ecco…?”

“Perché sono cieca?” – disse Na-El, senza alcun timore – “Solo perché non posso vedere le cose come le vedi tu non significa che il mio mondo sia vuoto. Ci sono così tanti colori nei suoni! E nei rumori. E nei profumi. Non bisogna avere gli occhi per sentire un colore. Ogni persona ha dentro di sé un’idea di ‘albero’, di ‘mare’, di ‘cielo’ e anche di ‘colore’.”

Màrino rimase in ascolto, fissando il suo puro e vergine profilo indorato dai raggi di un Sole morente, che iniziava a ritirarsi dietro profilo dei tetti

“Il rosso della passione, il blu della quiete, il viola della solitudine, il giallo della gioia, il rosa della nostalgia, il bianco, il nero e tutto ciò che c’è in mezzo. Puoi trovare un’infinità di sfumature per tutto ciò che esiste a questo mondo e quei colori sono radicati dentro di noi, dal momento della nascita. Puoi gustarli, puoi udirli e puoi annusarli anche a occhi chiusi. Puoi vivere tutti i colori non visti che vuoi.”

Màrino rivolse lo sguardo all’acqua infuocata dal tramonto e si domandò come mai potesse esserci un modo per immaginare tutti quegli scintillii, quei riflessi, quelle onde increspate senza averli mai conosciuti. Era un’altra delle cose che non riusciva a capire di quella ragazza spuntata dal nulla, come una sirena.

Una Sirena. – cominciava quasi a credere a quella parola.

Si alzò in piedi, pronto a tornare a casa: “Oggi è stata una bella giornata.”

 

 

   
 
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