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Autore: LADY ROSIEL    03/07/2021    1 recensioni
Soltanto una piccola bugia che le era scivolata dalle labbra come burro, senza nemmeno accorgersene.
ATTO I▶ Nella penombra di quel giardino fiorito, il primo seme della discordia venne originato.
ATTO 2▶ Il prelibato fiore della discordia nutrendosi dell’odio, prosperava famelico.
ATTO 3▶ Nell'utopia silente, l’avvenente fiore della discordia germogliava con ardore non solo nel giardino, ma anche nel cuore di quella dolce ragazzina che anni prima aveva strappato alla bontà, corrompendola con il suo fascino al veleno.
Questo racconto è risultato fra i vincitori della I biennale del bando letterario nazionale – anno 2013 – "La Sinfonia della Menzogna" di AFRAM per l’arte – Galleria “Il Germoglio.”
Genere: Dark, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Germogli MALEFICI

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ATTO – II

Nove anni più tardi, alla tenera età di quattordici anni, la piccola Chiara era ormai una giovane adolescente.  Per anni aveva creduto nell’utopia di quel mondo fatato, sincero e gioioso, dove era cresciuta come un candido Giglio, protetto nella sua teca di cristallo.
Eppure, un poco per volta, stava capendo che quella serenità immaginaria era soltanto opera di un sortilegio della sua famiglia. Un bellissimo sortilegio, ma pur sempre irreale.
Arricciò le labbra in un tiepido sorriso malinconico.

Con tutta se stessa aveva sperato che quel mondo fiabesco fosse l’unica realtà che il cielo le avesse donato. Lo aveva sperato anche la prima volta in cui fu vittima della cattiveria delle sue compagne di classe, persino quando s’avventarono su di lei e le bagnarono la testa con il getto freddo dell’acqua del lavandino del bagno al secondo piano. Anche quando scorgeva i loro volti sogghignarle con decisione, parlandole alle spalle e trovando un modo per ferirla. Anche in quel preciso momento, non appena vide quella terribile scritta su quel foglio strappato e malconcio, anche quando avvertì le sue gambe tremare ed un freddo improvviso gelarle le ossa del corpo.

«Devi morire. Sei inutile.»

Quelle viscide parole echeggiavano nei labirinti oscuri della sua mente, squassandole lo stomaco e spaccando a metà la sua anima.
Non c’era nulla di poetico nella vita.

Nulla di così divertente che riuscisse a farla davvero sorridere.
La sua vita ormai valeva poco. Molto poco.
L’immagine aggraziata e colma di dolcezza che affollava i suoi pensieri era solo un nostalgico ricordo di ciò che una volta era: una tenera bambina baciata dalla vita. Ed ora che quell’immagine stava sbiadendo ogni giorno di più, Chiara faticava persino a comprendere chi lei in realtà fosse. Non si sentiva più umana.
Era stata svuotata da ogni sentimento. Non si riconosceva più.
Era solo un guscio vuoto, completamente diaccio.
Un fiore moribondo, agonizzante, che lentamente s’apprestava a sfiorire per poi sparire, inghiottito da quella sua stessa misera esistenza.


«Com’è andata a scuola, tesoro?» domandò sua madre, non appena rincasata.
«Uhm, come sempre.» ammise la giovane Chiara, poggiando la cartella di scuola vicino all’armadio dei cappotti, raggiungendo la madre in cucina.
«Ti sei divertita? Hai imparato cose nuove?»
«S-Sì. Certo. A scuola s’imparano sempre un sacco di cose!» esclamò illuminando il suo volto in un sorriso sincero, mentre la sua mente cercava di accostare le migliori parole che conoscesse, fingendo per davvero che tutto andasse per il verso giusto.
«Ah… Deve essere bello avere quattordici anni! Alle volte vorrei poter tornare giovane, sai?»
«Non sei vecchia, mamma! – ammise addentando un grissino – Mi piace avere quattordici anni. Non voglio crescere.» aggiunse poi, sedendosi al solito posto, attendendo che la pasta si cuocesse.
Adorava parlare con sua madre, adorava vederla sorridere. E mai avrebbe cercato di compromettere quella felicità, nemmeno se questo avesse significato mentire, perdendo se stessa.
Le bugie, infondo, erano soltanto una liete variazione della verità e non comportavano alcun rischio. Quel fastidioso tremolio alle gambe, e anche quell’ineluttabile voglia di piangere a gran voce, non erano altro che innocue emozioni. E poco importava se quel senso d’inquietudine si faceva largo sempre più velocemente nel suo cuore ferito e illuso, ciò che davvero desiderava era soltanto: sorridere ancora una volta.

Stava inevitabilmente cambiando.

L’immagine che Chiara rivedeva riflessa sullo specchio, non era più quella di una ragazzina di soli quattordici anni a cui piaceva truccarsi e prendersi cura del suo corpo e dei suoi lunghi capelli.
 Era diversa. Distorta.
Le sembrava di essere diventata terribilmente inquietante.
Si faceva paura da sola.
L’immagine che i suoi occhi riflettevano era più simile a un qualcosa d’informe e vagamente oscuro. Totalmente differente dall’immagine rasserenante di quel candido Giglio che per anni aveva creduto d’essere. Le sue labbra narravano bugie una dietro l’altra, di continuo,  e non le diceva nemmeno per difendere qualcuno, ma solo per proteggere quella stupida di se stessa. Non riusciva a farne a meno.

Aveva compreso che rilevare agli altri le proprie debolezze era solo un modo per farsi mangiare più velocemente dagli squali di quel grande acquario che era vita.
Tutti erano squali, nessuno escluso, e rendersi ancora più deboli e miserabili ai loro occhi significava solo andar incontro alla propria distruzione.  

Lentamente, giorno dopo giorno, si stava circondando di innumerevoli bugie e più continuava quella sua ipocrita recita, più si sentiva debole e fragile, nonostante regalasse sorrisi di zucchero a ogni passante.

La sua etica stava inesorabilmente cambiando. Si sentiva corrotta.
Sporca. Tradita e inutile.
Eppure continuava a camminare, ripercorrendo le stesse strade ogni giorno, alzando la testa e guardando in avanti, senza mai perdere il controllo, sorridendo sino alla nausea.


«Frequenti anche tu questo liceo?» domandò una ragazza sconosciuta, forse poco più grande di lei, sorreggendosi sugli appositi appoggi di quell’affollato autobus nell’ora di punta.
«Sì. Sono al primo anno.»
«Al primo? Io sono al terzo. Piacere, sono Elisa.» affermò con disinvoltura la ragazza, porgendole la mano, in segno di amicizia.
«Il piacere è mio. Io mi chiamo Chiara.» rispose di rimando, stringendo con eleganza la mano della compagna.
«Fai tutti i giorni questa strada per tornare a casa? Magari possiamo trovarci, di tanto in tanto. E’ sempre bello poter fare nuove amicizie!»
«Si, hai ragione. Quando vuoi, mi trovi sempre su questo pullman. Non ho ancora in programma di traslocarmi!» ammise, abbozzando una lieve risata, distendendo con semplicità le labbra, comunicando gioia non solo con il sorriso, ma anche con gli occhi.

Stava mentendo. Lo stava facendo ancora una volta.
Continuava a fingere che tutto andasse bene, che si divertisse e che le piacesse davvero quella vita indegna.

«Allora spero di non darti fastidio la prossima volta che t’incontro. Mi sembri una brava persona.»
«No, figurati! Sei libera di disturbarmi quando vuoi! Piace anche a me conversare con la gente.» aggiunse poi, calandosi a tal punto nel personaggio che interpretava da dimenticarsi tutto quel dolore subito e sopportato in silenzio.

Le aveva detto che: “le piaceva conversare con la gente", ma aveva mentito anche su quello.
Lei odiava conversare con le persone.
Anche se forse, più semplicemente: lei odiava le persone.
Odiava i loro sorrisi spigliati che nascondevano coltelli affilati come spade, pronti a dilaniare il proprio avversario. Odiava il loro frenetico chiacchiericcio pronto a sentenziare condanne e assoluzioni, credendosi alla pari di un Dio.
No, quelle persone non erano sue amiche. Non lo sarebbero mai state.

Il calore che quei corpi di carne e ossa emanavano era illusorio, e certo non le riscaldava il cuore. Avrebbe preferito essere invisibile ai loro occhi, piuttosto che continuare a percepire quei loro sguardi trucidi lacerarle la carne, sbranandola e dissanguandola a loro piacimento.

Era forse una prelibata e fragile gazzella circondata da affamati leoni?
Prima o poi sarebbe crollata, frantumandosi come cristallo per poi diventare nuovamente cenere. E più continuava a parlare con disinvoltura, fingendosi una persona coraggiosa, più desiderava essere lasciata da sola, emarginata dal mondo.
Voleva fuggire.
Fuggire lontano, in un luogo dove nessuno la conosceva, non aveva bisogno d’abbracciare quel futuro oscuro, pieno d’inganno in cui non avrebbe più avuto un cuore.

«Come mai sei arrivata con tutto questo ritardo? Lo sai che mi hai fatto preoccupare?» prese abilmente parola sua madre, non appena la vide varcare la soglia di casa.
«Perdonami. L’autobus era in ritardo. – ammise Chiara in extremis, tralasciando la parte in cui aveva seriamente preso in considerazione di fuggire di casa, allontanandosi da quella vita surreale. – La prossima volta cercherò di avvisare.» aggiunse poi, controllando sul proprio cellulare la lista delle chiamate ricevute e non risposte.
«Questa volta ti perdono, ma non tirare troppo la corda. Dai, forza vieni a tavola che è pronto!»
«N-No, non mangio.»
«Eh?»
«Ti ringrazio, ma non ho fame. Sono molto stanca e ho davvero un mal di testa spaventoso! Ho soltanto voglia di sdraiarmi un pochino.»
«Ma, sei sicura? Non hai neanche un po’ di appetito? Vuoi un antidolorifico, tesoro?»
«No, tranquilla mamma. Casomai, se non passa, fra un’oretta ne prendo una bustina.» E giustificando per l’ennesima volta il suo enigmatico comportamento, corse in camera sua chiudendosi a chiave, sospirando profondamente.
 
Che bugiarda! Davvero una pessima recita!
Per quanto ancora aveva intenzione di inventare scuse?
Un attacco di emicrania fulminante? Tzè, e poi cosa si sarebbe inventata?
Aveva soltanto voglia di affogarsi con le sue stesse mani, tentando di saziare quegli ingordi ed irritanti crampi di fame che attorcigliavano in due il suo stomaco affamato!
Comportandosi a quel modo, cosa aveva risolto?
Non era facendo preoccupare sua madre che sarebbe uscita da quella situazione, lo sapeva bene. Eppure, c’erano giorni in cui tutto arrivava al momento sbagliato, proprio come in quel momento, e niente sembrava andarle bene.
Giorni oscuri.
Giorni in cui iniziava ad odiare se stessa.
Giorni in cui perdeva anche la capacità di essere gentile con gli altri, e non riuscendo a far nulla, continuava a deprimersi ancora di più. In quei giorni grigi e malinconici, certamente quelle che feriva maggiormente erano le persone a lei più care, ed odiava quel senso d’impotenza e la frustrazione che in lei questo generava.

Continuava imperterrita a smarrirsi nei dedali infiniti che la sua mente annebbiata dalle troppe lacrime versate, continua a ridisegnare. Confondendo la finzione con la realtà.
Perché era nata? Perché era così debole?
Perché continuava a fingersi forte, nascondendo a tutti quelle copiose lacrime che ogni giorno le rigavano il volto? Perché nessuno si accorgeva del dolore che provava?

Le persone che la circondavano continuavano a dirle che era una ragazza forte e risoluta, la lodavano dicendole che non si arrendeva mai, continuando sempre e soltanto a scorgere l’immagine che di lei preferivano. Sovrapponevano di continuo quell’immagine brillante che aveva da bambina a quella della bella ragazza che stava diventando; scorgendo solo una dolce metà di quella scomoda verità.
Anche chi la derideva, e la sottometteva ogni santo giorno, alla fine, non faceva altro che osservare solo una parte di quella moneta.

Si stava perdendo.

Era teneramente a metà fra razionalità e irrazionalità.
Fra follia e ingegno. Fra oscurità e brillantezza.
Aggrappata disperatamente a un lembo di stoffa ormai sin troppo ammuffito per continuare a sostenerla in eterno. Con amarezza, cercava d’aggiustare il puzzle della sua vita, ricomponendo con abile pazienza ogni piccolo pezzettino, mentre al contempo, contava le notti senza fine e quei sentimenti così guizzanti e ambigui che le scavavano il petto e l’anima con una forza senza eguali.

Possibile che in quel grande cielo stellato, non vi fosse una piccola stella gemella?
Possibile che nessuno riuscisse a scorgere la traballante verità nel suo cuore, insegnandole a non vacillare e a non perdere il lume della ragione?
Più e più volte aveva cercato di gridare, ma dalle sue morbide labbra, timidamente dipinte di rosa, non usciva alcun suono, semplicemente si dischiudevano in un tiepido e ingannevole sorriso.

Inconsapevolmente derideva sé stessa.
Inconsapevolmente distruggeva sé stessa una volta ancora.
Nascondeva la propria fragilità emotiva all’ombra di piccoli sorrisi.
Con il trascorrere dei mesi, era diventata brava a ridere anche quando non si divertiva affatto.
Era forse cambiata?


Nelle profonde acque dell’inconscio affondava facilmente, trascinando il suo corpo malconcio e ferito. Forse, quel desiderio che tanto opprimeva la sua anima era soltanto "amore".

     Osservando con meraviglia quel giardino vestito a festa, quello che una volta era soltanto un piccolo seme solitario, ora brillava con orgoglio.
Sbocciando con amabile lentezza, cresceva forte e rigoglioso.
Il prelibato fiore della discordia allietava la benevolenza di quello scorcio fatato,  e nutrendosi dell’odio, prosperava famelico.






© LADY ROSIEL/ Luna Azzurra

   
 
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