Germogli MALEFICI
ATTO
– II
Nove anni più tardi,
alla tenera età di quattordici anni, la
piccola Chiara era ormai una giovane adolescente. Per
anni aveva creduto nell’utopia di quel
mondo fatato, sincero e gioioso, dove era cresciuta come un candido
Giglio,
protetto nella sua teca di cristallo.
Eppure, un poco per volta, stava capendo che quella serenità
immaginaria era
soltanto opera di un sortilegio della sua famiglia. Un bellissimo sortilegio, ma pur sempre irreale.
Arricciò le labbra in un tiepido sorriso malinconico.
Con tutta se stessa aveva sperato che quel mondo fiabesco fosse l’unica
realtà
che il cielo le avesse donato. Lo aveva sperato anche la prima volta in
cui fu
vittima della cattiveria delle sue compagne di classe, persino quando
s’avventarono
su di lei e le bagnarono la testa con il getto freddo dell’acqua del
lavandino
del bagno al secondo piano. Anche quando scorgeva i loro volti
sogghignarle con
decisione, parlandole alle spalle e trovando un modo per ferirla. Anche
in quel
preciso momento, non appena vide quella terribile scritta su quel
foglio
strappato e malconcio, anche quando avvertì le sue gambe tremare ed un
freddo
improvviso gelarle le ossa del corpo.
«Devi morire. Sei inutile.»
Quelle viscide parole echeggiavano nei labirinti oscuri della sua
mente,
squassandole lo stomaco e spaccando a metà la sua anima.
Non c’era nulla di poetico nella vita.
Nulla di così divertente
che riuscisse a farla davvero
sorridere.
La sua vita ormai valeva poco. Molto poco.
L’immagine aggraziata e colma di dolcezza che affollava i suoi pensieri
era
solo un nostalgico ricordo di ciò che una volta era: una tenera bambina
baciata
dalla vita. Ed ora che quell’immagine stava sbiadendo ogni giorno di
più,
Chiara faticava persino a comprendere chi lei in realtà fosse. Non si
sentiva
più umana.
Era stata svuotata da ogni
sentimento. Non si riconosceva più.
Era solo un guscio vuoto, completamente diaccio.
Un fiore moribondo, agonizzante, che lentamente s’apprestava a sfiorire
per poi
sparire, inghiottito da quella sua stessa misera esistenza.
«Com’è andata a scuola, tesoro?» domandò sua madre, non appena
rincasata.
«Uhm, come sempre.» ammise la giovane Chiara, poggiando la cartella di
scuola
vicino all’armadio dei cappotti, raggiungendo la madre in cucina.
«Ti sei divertita? Hai imparato cose nuove?»
«S-Sì. Certo. A scuola s’imparano sempre un sacco di cose!» esclamò
illuminando
il suo volto in un sorriso sincero, mentre la sua mente cercava di
accostare le
migliori parole che conoscesse, fingendo
per davvero che tutto andasse per il verso giusto.
«Ah… Deve essere bello avere quattordici anni! Alle volte vorrei poter
tornare
giovane, sai?»
«Non sei vecchia, mamma! – ammise addentando un grissino – Mi piace
avere
quattordici anni. Non voglio crescere.» aggiunse poi, sedendosi al
solito
posto, attendendo che la pasta si cuocesse.
Adorava parlare con sua madre, adorava vederla sorridere. E mai avrebbe
cercato
di compromettere quella felicità, nemmeno se questo avesse significato mentire, perdendo se stessa.
Le bugie, infondo, erano soltanto una liete variazione della verità e
non
comportavano alcun rischio. Quel fastidioso tremolio alle gambe, e
anche quell’ineluttabile
voglia di piangere a gran voce, non erano altro che innocue emozioni. E
poco
importava se quel senso d’inquietudine si faceva largo sempre più
velocemente
nel suo cuore ferito e illuso, ciò che davvero desiderava era soltanto: sorridere ancora una volta.
Stava inevitabilmente
cambiando.
L’immagine che Chiara rivedeva riflessa sullo specchio, non era più
quella di
una ragazzina di soli quattordici anni a cui piaceva truccarsi e
prendersi cura
del suo corpo e dei suoi lunghi capelli.
Era diversa. Distorta.
Le sembrava di essere diventata terribilmente inquietante.
Si faceva paura da sola.
L’immagine che i suoi occhi riflettevano era più simile a un qualcosa
d’informe
e vagamente oscuro. Totalmente differente dall’immagine rasserenante di
quel
candido Giglio che per anni aveva creduto d’essere. Le sue labbra narravano bugie una dietro l’altra, di
continuo, e non le diceva nemmeno per
difendere qualcuno, ma solo per proteggere quella stupida di se stessa.
Non
riusciva a farne a meno.
Aveva compreso che rilevare agli altri le proprie debolezze era solo un
modo
per farsi mangiare più velocemente dagli squali di quel grande acquario
che era
vita.
Tutti erano squali, nessuno escluso, e rendersi ancora più deboli e
miserabili
ai loro occhi significava solo andar incontro alla propria distruzione.
Lentamente, giorno dopo giorno, si stava circondando di innumerevoli bugie e più continuava quella sua
ipocrita recita, più si sentiva
debole e fragile, nonostante regalasse sorrisi di zucchero a ogni passante.
La sua etica stava
inesorabilmente cambiando. Si sentiva
corrotta.
Sporca. Tradita e inutile.
Eppure continuava a camminare, ripercorrendo le stesse strade ogni
giorno,
alzando la testa e guardando in avanti, senza mai perdere il controllo,
sorridendo
sino alla nausea.
«Frequenti anche tu
questo liceo?» domandò una ragazza
sconosciuta, forse poco più grande di lei, sorreggendosi sugli appositi
appoggi
di quell’affollato autobus nell’ora di punta.
«Sì. Sono al primo anno.»
«Al primo? Io sono al terzo. Piacere, sono Elisa.» affermò con
disinvoltura la
ragazza, porgendole la mano, in segno di amicizia.
«Il piacere è mio. Io mi chiamo Chiara.» rispose di rimando, stringendo
con
eleganza la mano della compagna.
«Fai tutti i giorni questa strada per tornare a casa? Magari possiamo
trovarci,
di tanto in tanto. E’ sempre bello poter fare nuove amicizie!»
«Si, hai ragione. Quando vuoi, mi trovi sempre su questo pullman. Non
ho ancora
in programma di traslocarmi!» ammise, abbozzando una lieve risata,
distendendo
con semplicità le labbra, comunicando gioia non solo con il sorriso, ma
anche
con gli occhi.
Stava mentendo. Lo stava facendo
ancora una volta.
Continuava a fingere che tutto andasse bene, che si divertisse e che le
piacesse davvero quella vita indegna.
«Allora spero di non darti fastidio la prossima volta che t’incontro.
Mi sembri
una brava persona.»
«No, figurati! Sei libera di disturbarmi quando vuoi! Piace anche a me
conversare con la gente.» aggiunse poi, calandosi a tal punto nel
personaggio
che interpretava da dimenticarsi tutto quel dolore subito e sopportato
in
silenzio.
Le aveva detto che: “le piaceva conversare con la gente", ma aveva
mentito
anche su quello.
Lei odiava conversare con le persone.
Anche se forse, più semplicemente: lei odiava le persone.
Odiava i loro sorrisi spigliati che nascondevano coltelli affilati come
spade,
pronti a dilaniare il proprio avversario. Odiava il loro frenetico
chiacchiericcio pronto a sentenziare condanne e assoluzioni, credendosi
alla
pari di un Dio.
No, quelle persone non erano sue amiche. Non lo sarebbero mai state.
Il calore che quei corpi di carne e ossa emanavano era illusorio, e
certo non
le riscaldava il cuore. Avrebbe preferito essere invisibile ai loro
occhi,
piuttosto che continuare a percepire quei loro sguardi trucidi
lacerarle la
carne, sbranandola e dissanguandola a loro piacimento.
Era forse una prelibata e fragile gazzella circondata da affamati leoni?
Prima o poi sarebbe crollata, frantumandosi come cristallo per poi
diventare
nuovamente cenere. E più continuava a parlare con disinvoltura,
fingendosi una
persona coraggiosa, più desiderava essere lasciata da sola, emarginata
dal
mondo.
Voleva fuggire.
Fuggire lontano, in un luogo dove nessuno la conosceva, non aveva
bisogno
d’abbracciare quel futuro oscuro, pieno d’inganno in cui non avrebbe
più avuto
un cuore.
«Come mai sei arrivata
con tutto questo ritardo? Lo sai che
mi hai fatto preoccupare?» prese abilmente parola sua madre, non appena
la vide
varcare la soglia di casa.
«Perdonami. L’autobus era in ritardo. – ammise Chiara in extremis,
tralasciando
la parte in cui aveva seriamente preso in considerazione di fuggire di
casa,
allontanandosi da quella vita surreale. – La prossima volta cercherò di
avvisare.» aggiunse poi, controllando sul proprio cellulare la lista
delle
chiamate ricevute e non risposte.
«Questa volta ti perdono, ma non tirare troppo la corda. Dai, forza
vieni a
tavola che è pronto!»
«N-No, non mangio.»
«Eh?»
«Ti ringrazio, ma non ho fame. Sono molto stanca e ho davvero un mal di
testa
spaventoso! Ho soltanto voglia di sdraiarmi un pochino.»
«Ma, sei sicura? Non hai neanche un po’ di appetito? Vuoi un
antidolorifico,
tesoro?»
«No, tranquilla mamma. Casomai, se non passa, fra un’oretta ne prendo
una
bustina.» E giustificando per l’ennesima volta il suo enigmatico
comportamento,
corse in camera sua chiudendosi a chiave, sospirando profondamente.
Che bugiarda! Davvero una pessima recita!
Per quanto ancora aveva intenzione di inventare scuse?
Un attacco di emicrania fulminante? Tzè, e poi cosa si sarebbe
inventata?
Aveva soltanto voglia di affogarsi con le sue stesse mani, tentando di saziare quegli ingordi ed irritanti
crampi di fame che attorcigliavano in due il suo stomaco affamato!
Comportandosi a quel modo, cosa aveva risolto?
Non era facendo preoccupare sua madre che sarebbe uscita da quella
situazione,
lo sapeva bene. Eppure, c’erano giorni in cui tutto arrivava al momento
sbagliato, proprio come in quel momento, e niente sembrava andarle
bene.
Giorni oscuri.
Giorni in cui iniziava ad odiare se stessa.
Giorni in cui perdeva anche la capacità di essere gentile con gli
altri, e non
riuscendo a far nulla, continuava a deprimersi ancora di più. In quei
giorni
grigi e malinconici, certamente quelle che feriva maggiormente erano le
persone
a lei più care, ed odiava quel senso d’impotenza e la frustrazione che
in lei
questo generava.
Continuava imperterrita a smarrirsi nei dedali infiniti che la sua
mente
annebbiata dalle troppe lacrime versate, continua a ridisegnare.
Confondendo la
finzione con la realtà.
Perché era nata? Perché era così debole?
Perché continuava a fingersi forte, nascondendo a tutti quelle copiose
lacrime
che ogni giorno le rigavano il volto? Perché nessuno si accorgeva del
dolore
che provava?
Le persone che la circondavano continuavano a dirle che era una ragazza
forte e
risoluta, la lodavano dicendole che non si arrendeva mai, continuando
sempre e
soltanto a scorgere l’immagine che di lei preferivano. Sovrapponevano
di
continuo quell’immagine brillante che aveva da bambina a quella della
bella
ragazza che stava diventando; scorgendo solo una dolce metà di quella
scomoda
verità.
Anche chi la derideva, e la sottometteva ogni santo giorno, alla fine,
non
faceva altro che osservare solo una parte di quella moneta.
Si stava perdendo.
Era teneramente a metà fra razionalità e irrazionalità.
Fra follia e ingegno. Fra oscurità e brillantezza.
Aggrappata disperatamente a un lembo di stoffa ormai sin troppo
ammuffito per
continuare a sostenerla in eterno. Con amarezza, cercava d’aggiustare
il puzzle
della sua vita, ricomponendo con abile pazienza ogni piccolo
pezzettino, mentre
al contempo, contava le notti senza fine e quei sentimenti così
guizzanti e
ambigui che le scavavano il petto e l’anima con una forza senza eguali.
Possibile che in quel grande cielo stellato, non vi fosse una piccola
stella
gemella?
Possibile che nessuno riuscisse a scorgere la traballante verità nel
suo cuore,
insegnandole a non vacillare e a non perdere il lume della ragione?
Più e più volte aveva cercato di gridare, ma dalle sue morbide labbra,
timidamente dipinte di rosa, non usciva alcun suono, semplicemente si
dischiudevano in un tiepido e ingannevole
sorriso.
Inconsapevolmente
derideva sé stessa.
Inconsapevolmente distruggeva sé stessa una volta ancora.
Nascondeva la propria fragilità emotiva all’ombra di piccoli sorrisi.
Con il trascorrere dei mesi, era diventata brava a ridere anche quando
non si
divertiva affatto.
Era forse cambiata?
Nelle profonde acque
dell’inconscio affondava facilmente,
trascinando il suo corpo malconcio e ferito. Forse, quel desiderio che
tanto opprimeva la sua anima era soltanto "amore".
Osservando con
meraviglia quel giardino vestito a festa, quello che una volta era
soltanto un
piccolo seme solitario, ora brillava con orgoglio.
Sbocciando con amabile lentezza, cresceva forte e rigoglioso.
Il prelibato fiore della discordia allietava la benevolenza di quello
scorcio
fatato, e nutrendosi dell’odio, prosperava
famelico.
©
LADY
ROSIEL/ Luna Azzurra