Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: macabromantic    04/07/2021    3 recensioni
[ SPOILER ALERT: Stardust Crusaders / Stone Ocean / Diamond is Unbreakable || TW: ptsd / depression / flashbacks ]
[ Jotaro Kujo x Kakyoin Noriaki ]
...
Kakyoin aveva camminato fino alla stazione di Shibuya immerso nei propri pensieri. Arrivato al grande incrocio nel quale si snodavano numerose strade del quartiere alzò lo sguardo verso il semaforo.
Fu in quel momento che lo vide.
Alto, immensamente alto, sarebbe stato impossibile non riconoscerlo anche in mezzo a tutta quella gente. Sebbene fosse di un bianco smagliante, illuminato dai colori al neon che si mescolavano in piazza fra i toni del turchese e bluette, Kakyoin avrebbe riconosciuto quel cappello dovunque. Un cappotto lungo fino a terra, una pesante catena che scivolava dal lato sinistro del petto. Una sigaretta accesa tra i denti, la mano sinistra vicino alle labbra, quella destra infilata in tasca, una grossa busta di carta che pendeva dal polso.
Jotaro Kujo si trovava dall’altro lato della strada, con la fronte corrugata e gli occhi fermi sulle strisce pedonali. Quando il semaforo scattò dal rosso al verde, Jotaro sollevò lo sguardo e in quell’istante incontrò gli occhi di Kakyoin.
Il cuore gli si fermò nel petto, la sigaretta gli cadde dalle mani.
...
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi, Slash | Personaggi: Jolyne Kujo, Joseph Joestar, Jotaro Kujo, Noriaki Kakyoin
Note: Lemon, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 10

Hanami


 
 
La fioritura dei ciliegi quell’anno era stata prematura. La primavera si era posata tra le strade del Giappone silenziosa come solo lei sapeva fare, portando dietro di sé una tiepida scia che profumava di gentilezza. Kakyoin ricordava con chiarezza di aver visto il primo bocciolo aprirsi timidamente dal ramo di un ciliegio che dava sulla finestra del proprio appartamento, in cucina. Era stato in una tarda mattina di marzo, quando si era poggiato con il bacino contro il bordo del lavello e aveva avvicinato alle labbra il suo tè preferito. Fuji dormiva pigramente sul davanzale di quella stessa finestra e i rami disegnavano ombre, tagliavano i raggi del sole che, baldanzoso, lavava via il freddo dell’inverno. Un sorriso si era dipinto sulla bocca di Kakyoin, umida della bevanda e vivida di calore, e il pensiero del freddo che si allontanava gli alleggeriva la mente. Quel giorno decise, guardandosi allo specchio, che era arrivato anche per lui il momento di sciogliere la neve. Da quando aveva tolto ogni pigmento dai propri capelli, Kakyoin non li aveva più toccati. Aveva lasciato che crescessero indisturbati, preoccupandosi soltanto che il giallo venisse sempre neutralizzato con uno shampoo. Alla radice c’era un pugno di centimetri castani che creava uno stacco netto tra i colori, un segnale che in passato a Kakyoin avrebbe dato fastidio ma che, adesso, lo aiutava a tenere traccia del tempo che scorreva – ed era piacevole, poi, intrecciare tra loro le ciocche e vedere come si disegnassero trame infittite di filamenti bianchissimi esaltati da radici brune, quasi fossero fronde di salici cullate dal vento. Il manto innevato abbandonò il crine di Kakyoin insieme al primo bocciolo di ciliegio, scoprendo un rosso così vivo come lui stesso non lo ricordava più. Una volta riempiti i capelli della propria tinta che profuma di amarena, lasciatili asciugare sotto l’aria naturale del giorno, quando il ragazzo si guardò di nuovo allo specchio non potette fare a meno di sorridere notando che la sfumatura delle radici restava di un rosso bruno che scivolava verso un cremisi pieno di vita.
Pochi giorni seguirono prima che il viale che lo conduceva alla stazione si riempisse del tenue rosa dei ciliegi. Camminare tra i petali scossi dal vento gli aveva sempre arrecato un senso di pace che non aveva mai trovato altrove. Mentre raggiungeva la stazione ripensava a tutte le volte in cui, quando arrivavano le belle giornate, sua madre lo portava al parco per aspettare che papà uscisse dal lavoro. Erano giorni pieni di piacevoli ricordi, dal profumo di quei fiori che associava al sorriso di sua madre e al gusto forte del gelato al cioccolato; giorni che lo riportavano a quando, tornando a casa, si sedeva davanti alla tv con il suo joystick per provare il nuovo videogame a cui suo papà lavorava da mesi.1
Perso tra i propri ricordi d’infanzia, Kakyoin era salito sul treno che lo avrebbe portato ancora una volta a Tokyo. Aveva tirato fuori dalla tracolla di cuoio il suo fedele quaderno dai fogli color avorio e la sanguigna sempre incastrata tra le pagine; ora che i dipinti per la sua mostra erano ultimati poteva finalmente dedicarsi a qualcosa di nuovo.
Ma cosa?
Tutte le volte che si trovava a prendere in mano la matita erano immensi i minuti di stasi che precedevano il primo tratto. I suoi occhi si facevano cupi e con i denti rosicchiava l’interno della guancia sinistra. Mugugnava tra sé, dilatava e costringeva le narici in attesa che l’ispirazione arrivasse, poi sospirava con forza e metteva via tutto. A volte si incaponiva e provava comunque a tracciare qualcosa. Non erano mai soggetti reali, per lo più figure o brevi esercitazioni sull’uso delle ombre. Alberi, nuvole, qualche passante sovrappensiero. Altre volte, invece, si sorprendeva nel ritrarre sempre lo stesso volto: quello di Jotaro Kujo. Le sue dita facevano viaggiare la punta delle matita spontaneamente e alla fine sul foglio comparivano i suoi occhi intensi, stonati nel rosso della matita, ma vividi come nelle sue memorie. E puntualmente tornava a sfiorarlo il ricordo di quell’ultimo bacio rubato alla stazione. Allora i suoi occhi di lavanda tornavano indietro nel tempo, di nuovo a quando lo avevano riconosciuto tra la gente, sempre tra le strade di Tokyo, tra i colori di un natale freddo come mai ne aveva ricordati. E il freddo si scioglieva nella notte in cui di nuovo si era sentito vivo, preso da quelle braccia e rinvigorito di un calore che gli aveva lasciato addosso l’ombra di ogni bacio perso, di ogni carezza mancata, di ogni notte di solitudine che aveva sofferto da quando il deserto era diventato il suo cimitero.
Gli occhi di Jotaro lo fissavano ancora una volta dalle pieghe del foglio, intensi e indecifrabili; le sopracciglia folte ombreggiate dalla visiera del cappello, la linea del naso che si perdeva in un tratto a sfumare. Sospirò insieme al rallentare del treno, la stazione di Shibuya arrivava sempre al momento giusto, prima che i ricordi lo sommergessero. Si alzò con una fitta alla base della schiena, prima di scendere dal treno poggiò sul naso un paio di occhiali con le lenti nerissime e dalla forma spigolosa, infine si diresse verso la sua meta.
«Ah, buongiorno, Kakyoin.» Il dottor Kaito2 era un ragazzo poco più grande di lui, una mente brillante che si applicava alla medicina con una dedizione che Kakyoin aveva visto in pochissime persone – sebbene fossero oramai numerosissimi i dottori che aveva incontrato.
«Buongiorno, dottore.»
«Ti trovo bene, come ti senti oggi?»
«Continuo ad avere mal di schiena, ma fra qualche giorno ho l’appuntamento con il fisioterapista.»
Il dottor Kaito annuì mentre si accomodava alla sua scrivania e con una mano faceva cenno a Kakyoin di prendere posto.
«Pensi che i tuoi dolori siano peggiorati rispetto alla prima volta in cui ci siamo visti?»
Kakyoin prese posto con un sospiro, gli occhi bassi cercavano una risposta mentre allontanava gli occhiali dal naso e ne chiudeva le asticelle.
«Purtroppo sì, ma temo che il motivo non c’entri con la terapia. Forse ha a che vedere con le protesi, anche se spero fino all’ultimo che non sia niente di grave. In questo momento l’ultima cosa che vorrei è dover finire sotto i ferri.»
«Certo, capisco. Credi che possa esserci questa possibilità?»
«Sì... anche se, davvero, spero con tutto me stesso che sia solo una cosa psicosomatica.»
A quelle parole, il dottor Kaito sorrise mentre si distendeva con la schiena sulla sua poltrona rivestita in pelle scura.
«Allora spero di poterti aiutare.» Kakyoin sorrise a sua volta, lo sguardo distante dai modi gentili del dottore mentre sistemava una ciocca di capelli scarlatti dietro l’orecchio. «Quando sei pronto possiamo iniziare.»
Kakyoin si raddrizzò nella sua postura, il bruciore delle vertebre meccaniche si fondeva con i muscoli lombari, eppure la voglia di stare bene prevaleva su quel male. Fece un respiro profondo, infine annuì con forza.
«Sono pronto.»
«Bene.» Le dita del medico scivolarono verso il pomello del cassetto destro sotto il piano della scrivania, da esso tirò fuori un registratore vocale già munito di nastro. Premette il pulsante rosso della registrazione e avvicinò l’apparecchio alla bocca. Mentre parlava, su una scheda appuntava la data odierna. «Studio del dottor Kaito Youta3, in data XX XX 1999. Paziente tredici, Noriaki Kakyoin, seconda seduta.»
Terminata la breve presentazione – un accordo fatto con il consenso del paziente ai fini della ricerca –, il dottore posò il registratore vicino al suo paziente. Quel piccolo rituale, ancora poco noto alla quotidianità di Kakyoin, gli dava una scossa al cuore mista a paura e riverenza. Così chiudeva gli occhi, teneva le mani sulle ginocchia e attendeva che arrivassero le direttive del dottor Kaito.
«Cominciamo.» Kakyoin aprì gli occhi. Davanti a sé, il dottore aveva sollevato due dita della mano sinistra. «Ricordi dove ci eravamo interrotti la volta scorsa?»
Il ragazzo annuì.
«In Egitto.»
«Molto bene. Ricordi cosa mi hai detto dell’Egitto?»
Kakyoin annuì di nuovo, la mano sinistra del dottore svanì e al suo posto comparve la destra.
«Che aspettavo quel viaggio da mesi ormai, non vedevo l’ora di andarci con la mia famiglia.»
 
Durante la notte l’aria del deserto si spogliava del manto rovente e si tingeva di freddissime tonalità. La sabbia dorata diventava un mare quieto, lo scrosciare fumoso dei granelli riempiva le orecchie attente di chi amava ascoltare il silenzio. Questo era il caso di Kakyoin, un ragazzo abituato alla solitudine, affetto da una maledizione che credeva solo sua.
Era arrivato a Il Cairo con i suoi genitori quel giorno stesso, l’emozione che sentiva nelle viscere non si era sciolta nemmeno adesso che aveva camminato per le strade della città, immergendo le dita sottili tra le spezie e profumi del mercato, tra i canti dei musicisti all’ingresso dei locali, lasciandosi guidare negli odori della gente tra i palazzi vecchi e nuovi. Affacciato alla finestra della propria stanza, Kakyoin godeva del vento fresco che portava con sé l’odore umido del Nilo, le luci della parte più moderna della città brillavano mescolandosi con la linea delle stelle. L’indomani sarebbero andati verso la necropoli e da lì avrebbero finalmente visto le piramidi. La sola idea gli faceva tremare i polsi, quegli stessi polsi che stringevano un quaderno raccattato in aeroporto e una matita dalla mina morbida. Seguendo le tracce di uno schizzo fatto qualche ora prima al mercato, Kakyoin tracciava con più sicurezza il volto di una donna avvolta dall’hijab. Mentre tracciava il contorno scuro degli occhi, una verde lucentezza si fece presente dalle sue spalle fino al foglio. Un sorriso tenue stese le labbra del ragazzo, acerbe e già screpolate per via dell’aria desertica.
«Ti piace?», domandò a bassa voce mentre metteva in mostra il ritratto, acerbo anche lui nello stile di chi non ha mai voluto fare altro se non l’artista.
Hierophant Green si era sporto oltre la spalla del suo maestro, le verdi luminescenze brillavano fra i tratti della matita. Kakyoin sospirò, raddrizzò il foglio mentre lo sguardo si allontanava di nuovo nello skyline della città.
«Ancora non ci riesco a credere,» disse mentre lo ierofante continuava a fluttuare dietro di sé, connesso tanto mentalmente quanto fisicamente da quei tentacoli che riusciva a percepire nel midollo spinale. «Domani andremo a vedere le piramidi. Sono sicuro che ci saranno talmente tante cose che un blocco da disegno non mi basterà mai.»
A quel punto Hierophant intrecciò le braccia al petto e inclinò la testa su un lato, interdetto. Kakyoin fece ruotare gli occhi al cielo e scosse il capo.
«Senti, non potevo prenderne altri, poi se mi faccio lo zaino troppo pesante sai che palle andare in giro.»
«Ma che fai, parli da solo?»
Il cuore gli schizzò in gola, Hierophant sparì in una nube e per un pelo non gli scivolò il quaderno giù dalla finestra. Tramortito, Kakyoin si girò verso chi lo prendeva in giro in una morbida risata: era Masaki4, suo padre. Indispettito, arrossito fino alla punta dei capelli, Kakyoin corrugò la fronte.
«Di solito si bussa, prima di entrare nella stanza di qualcuno.»
«Mi sembravi così preso nel tuo monologo che non ho voluto interromperti,» rispose con voce serena suo padre ora che riponeva la giacca nell’appendiabiti condiviso da tutta la famiglia. Kakyoin si sistemò con la schiena contro la cornice della finestra, il quaderno stretto al petto.
«“Soliloquio,” semmai,» lo rimbeccò il ragazzino. Hierophant Green, intanto, di nuovo si era manifestato alle spalle del suo maestro – questa volta, però, fluttuava oltre la finestra, mescolandosi tra le stelle e le luci della città.
«Come dici?» Masaki, che stava per andare nella parte della stanza dedicata a lui e la moglie, si era di nuovo girato verso il figlio portando entrambe le mani ai fianchi. Dalla finestra Kakyoin non lo guardava, forse perché troppo indispettito dal fatto che lo avessero sorpreso a parlare con lo spettro della sua infanzia.
«Il monologo è un dialogo senza interlocutore, il soliloquio invece è un discorso fatto completamente in solitario,» borbottò Kakyoin prima di sospirare in direzione del viso dello ierofante. Dall’altro capo della stanza, Masaki contrasse lo sguardo dietro i suoi occhiali rettangolari.
«Eppure mi sembrava proprio che stessi parlando con qualcuno.»
Quelle parole gli diedero la sensazione di sentire il cuore rimbalzare tra il pavimento e il soffitto.
«Ti assicuro di no.»
«Non c’è niente di male nel voler parlare con qualcuno o con qualcosa.»
«Papà, ti prego,» disse alzando gli occhi al cielo, scuotendo il capo.
«Voglio dire, le persone lo fanno di continuo. C’è chi lo fa in preghiera, chi lo fa con i propri animali domestici e chi, invece, inventa creature immaginarie.»
Tali parole, sebbene pronunciate con la delicatezza di un padre, colpirono Kakyoin come uno schiaffo in piena faccia.
«Oh mio dio, di nuovo?!» sbottò il ragazzo alzandosi in piedi, ancora una volta paonazzo. Non era la prima volta che suo padre facesse allusione all’esistenza di Hierophant Green. Quando era bambino, Kakyoin ci aveva provato in tutti i modi a parlare di questo mostro che lo seguiva dappertutto, che lo spaventava, che non lo faceva dormire la notte perché stava sempre, sempre, sempre accanto a lui. E siccome i suoi genitori non riuscivano a vederlo provò a farne un disegno, a raccontarlo con forme e colori che fossero più fedeli possibili a quelli che lui vedeva. Suo padre, allora, in qualche modo gli aveva fatto credere che ci aveva creduto. Prova a trattarlo come un amico, gli aveva detto. Forse non sa come fare a parlarti, magari non si sa approcciare, ma sono sicuro che se ti sta così vicino non è per farti del male. «Papà, ho diciassette anni.»
«E allora? Non credo ci sia niente di male se di tanto in tanto ti trovi a parlare ancora con il tuo sacerdote.»
«Ierofante.»
«Ah, ma quindi ho ragione!»
«Papà!» sbottò di nuovo Kakyoin allargando le braccia, dietro di lui la figura invisibile di Hierophant Green iniziava ad agitarsi. Avvertendo l’irrequietudine della creatura, Kakyoin si girò a guardarlo. «Ti prego,» mormorò con lo sguardo ridotto a un supplizio.
«Tenmei5...»
«Non chiamarmi in quel modo!» gridò voltandosi di scatto con il movimento secco di una mano. Ma insieme alla sua voce arrivarono anche gli smeraldi di Hierophant e questi colpirono le gambe di Masaki.
Kakyoin sgranò le iridi, suo padre si accasciò contro lo stipite della porta con un rantolo. Non era stato un colpo potente, ma aveva comunque arrecato del danno. Harumi, sentendo tutto quel frastuono, si precipitò nella stanza.
«Masaki! Ti senti male?» Si affrettò ad aiutare il marito a rimettersi in piedi, sofferente nell’espressione e confuso da quanto accaduto.
«Devono essere stati dei crampi, non so... mi fa male come se mi avessero tagliato.
«Fammi vedere– ma sanguini! Kakyoin, si può sapere che è successo?!»
Kakyoin era rimasto pietrificato di fronte a quanto accaduto, incapace di fare qualsiasi cosa, il fiato bloccato in gola, il cuore che gridava dietro lo sterno.
«Io...»
«Dovremmo chiamare un medico–»
«Harumi, aspetta–»
«Io...»
«Kakyoin, non startene lì impalato, fa’ qualcosa!»
Ma l’unica cosa che fu capace di fare fu scappare. Senza dire una sola parola, stringendo ancora in mano il blocco da disegno. Corse giù per le scale, oltre la porta a vetri e via, fuori per le gelide strade de Il Cairo. Corse a perdifiato senza guardare dove andava, senza chiedere scusa a tutte le persone che aveva urtato per strada. Nel petto il cuore correva insieme a lui, le lacrime gli annebbiavano la vista e quando non ce l’aveva fatta più si era fermato. Aveva lasciato che il pianto si mescolasse al bruciore dei polmoni, al bisogno di respirare e di gridare. Alle proprie spalle, il gerofante non lo aveva abbandonato nemmeno un istante.
«Vattene!», gli aveva urlato con forza lanciandogli addosso il blocco da disegno, guardandolo dritto nei suoi occhi gialli privi d’espressione. Il quaderno lo aveva attraversato da parte a parte e in quel modo Kakyoin stesso aveva sentito come se una lama gelida lo avesse trafitto nel ventre. «Vattene! Sono stanco di averti sempre tra i piedi, per colpa tua non sarò mai una persona normale! Che cosa me ne faccio di un mostro come te, che me ne faccio di... di... una cosa che non può nemmeno parlarmi?! Vattene e basta!»
«Noriaki Kakyoin.» A chiamarlo fu una voce calda, suadente come il vento del deserto che fino a poche ore prima lo accarezzava sulla pelle. Attonito, Kakyoin si girò verso la fonte di quel suono che sembrava provenire contemporaneamente da tutte le direzioni e nessuna. «Un ragazzo con un dono e nessuna riconoscenza.»
«Chi sei, come fai a sapere come mi chiamo?», provò a dire mentre con i suoi occhi si sforzava di scorgere anche un solo indizio che gli mostrasse l’origine di quella voce. In risposta ricevette una risata rauca, talmente bollente da fargli sentire il sangue diventare caldo nelle viscere e tornare freddo nell’istante successivo.
«Quello, dunque, è il tuo ierofante.»
Kakyoin spalancò gli occhi, smise di muoversi.
«Tu... tu riesci a vederlo...?» Adesso non importava che non capisse chi fosse a parlare, come faceva a conoscerlo, come lo aveva trovato: quell’uomo aveva nominato Hierophant e questo poteva voler dire solo una cosa. «Ti prego, rispondimi...» Bisbigliò Kakyoin con la voce, le gambe, le mani, tutto che tremava.
Non ricevendo ancora una risposta si era deciso a ricominciare nella sua ricerca verso la voce. Quando si girò, per poco non sbatté contro un uomo. Un uomo alto, dalle spalle immense, che sembrava di marmo. Non lo aveva sentito arrivare, eppure sembrava fosse lì da un tempo eterno. Il fiato gli si congelò in gola, a malapena non perse l’equilibrio rischiando di cadere. Una forza sovrannaturale, che sovvertiva quella della gravità, gli permise di restare in piedi.
«Non solo riesco a vederlo, habibi, ma ti dirò: ci sono altre, preziose persone che, come te, sono state graziate di questo dono.»
«Ne esistono altri?» La voce di Kakyoin era ridotta a un soffio così come un soffio era ciò che sentiva sulle proprie labbra nella vicinanza con quell’uomo. Sentiva i propri occhi riempirsi ancora di lacrime, le gambe molli nel mescolarsi della corsa con la paura di ciò che stava apprendendo. «Esistono altri ierofanti?»
L’uomo davanti a sé, dai magnifici capelli biondi e una luce scarlatta nello sguardo, rise ancora, questa volta di gusto, creando in Kakyoin uno scompiglio ancora più grande.
«Ma no, habibi, no. Ogni maestro possiede uno stand e ogni stand ha un potere specifico.»
«Uno stand? E quindi... anche tu ne hai uno? Io non ho mai voluto un... uno stand– ti prego, dimmi dove posso trovare gli altri! Voglio vederli, voglio conoscerli!»
«Ogni cosa a suo tempo.» Sebbene la voce dell’uomo fosse stata lapidaria, nel modellarsi delle parole continuava ad esserci un magnetismo languido a cui era impossibile resistere. Entrambe le sue mani, gelide di un contrasto disarmante rispetto al calore nella sua voce, si posarono a sorreggere il volto di Kakyoin come fosse una coppa di delizioso liquore.
«Perché mi chiami in quel modo?», mormorò con lo sguardo socchiuso e l’improvvisa voglia di lasciarsi cullare dalle mani dell’uomo. Un sorriso di perle affilate brillò sotto la luna.
«Perché non sarebbe bello, per una volta, sentirsi amato da qualcuno, mh, Kakyoin?»
Una fitta si appropriò del cuore del ragazzo in un dolore così grande e improvviso, talmente personale da fargli venire voglia di scappare lontano. Ma era come il corpo non rispondeva e la sua unica reazione fu raggiungere le mani dell’altro con le proprie dita. Erano fredde, fredde come poteva immaginare solo la morte le avrebbe avute.
«Non so nemmeno come ti chiami e già mi parli d’amore,» bisbigliò Kakyoin con la lingua impastata, le palpebre incapaci di continuare a stare aperte perché appesantite da un inspiegabile sonno. «Che cosa mi hai fatto...»
«Ogni cosa a suo tempo, habibi. Ogni cosa a suo tempo.»
 
«Mi vedevo già grande e avevo la sensazione che non avrei mai trovato qualcuno che potesse capire come mi sentivo...», commentò Kakyoin in un tenero sorriso mentre continuava ad alternare lo sguardo tra i movimenti delle dita del dottor Kaito. Il sorriso si spense in fretta, però, perché il volto di Dio Brando continuava a riaffiorare nelle sue memorie. «Vorrei poter dire al me stesso di dieci anni fa che, poi, le cose sarebbero cambiate.»
«Puoi farlo, se vuoi,» fu la risposta del medico che non smetteva di guidare gli impulsi della seduta.
Un sospiro frammentato si fece largo tra le labbra schiuse di Kakyoin.
«Kakyoin, tu... eri così arrabbiato perché eri solo. Eri disperato. Ti sentivi senza speranza, per questo hai sbagliato. Hai lasciato che fosse il primo bagliore a fare breccia nel buio in cui ti sentivi perso, senza però renderti conto del fatto che quella luce ti stava portando in un oceano ancora più profondo. Ma va bene così. Non potevi saperlo. Hai fatto delle cose di cui ti sei preso la colpa per troppo tempo, ma non eri tu. Quello non eri davvero tu e un giorno, finalmente, te ne renderai conto.»
«C’è qualcos’altro che oggi vorresti dire al Kakyoin di dieci anni fa?»
Kakyoin annuì, le mascelle scosse da un tremore leggero e gli occhi umidi della consapevolezza di essersi preso per tutto quel tempo la colpa di eventi che non erano opera sua.
«Un giorno non troppo lontano da quello ti innamorerai. Inizierai a pensare che questo amore sia la nuova maledizione della tua vita, ma in fondo lo sai che non è così. È solo che non sei ancora pronto, hai paura che non lo sarai mai. Ma tu amerai.»
 
*********************
 
La primavera passò nel candido sbocciare dei fiori, l’hanami durò per un pugno di eterne settimane che diedero a Kakyoin la sensazione che il tempo si fosse fermato. L’ultima seduta di terapia con il dottor Kaito gli aveva portato giovamenti. Se n’era accorto quando, a casa, intento a imballare i dipinti che dovevano essere trasportati fino al MOMAT, si era ritrovato a pensare senza troppo impegno al tempo come un momento fermo. Se una cosa del genere fosse successa anche solo un pugno di settimane addietro, per prima cosa sarebbero arrivati i crampi nel ventre, poi la vista si sarebbe annebbiata e infine il fantasma di Dio Brando gli avrebbe sussurrato suadenti parole. Invece no, quel giorno si disse che il tempo sembrava essersi fermato e che, in fondo, era piacevole. Fare le cose con calma, non perdersi dietro il rintocco di ogni lancetta dentro l’orologio. Aspettare. Avere pazienza. Recuperare il tempo che si era perduto. Non credeva sarebbe stato possibile rivivere in una maniera così tanto nitida eppure altrettanto distaccata dei ricordi che per tutti quegli anni lo avevano tormentato, attanagliati al suo cranio come un tarlo che ne divorava il cervello.
Per ogni seduta da questo nuovo terapeuta, Kakyoin aveva la netta sensazione di guardare sé stesso al di fuori del proprio corpo. In qualche modo era come rivivere il ricordo di qualcun altro, di una persona che non c’era più. Quante volte si era detto, nel corso di quei dieci anni, che sarebbe stato meglio morire, morire e basta quella notte a Il Cairo. Non si era mai reso conto del fatto che, a dirla tutta, quella notte era morto davvero e in tale condizione era rimasto per quasi due anni, una gestazione durata più del doppio. Mentre copriva con la carta da imballaggio il dipinto che rappresentava Le Stelle, Kakyoin si ritrovò a pensare che in fondo aveva senso. Per nascere una volta bastano nove mesi, trentotto settimane in cui una persona viene creata dal niente. Lui, invece, esisteva già. Esisteva con forza, con tenacia, esisteva con l’ostinazione di chi vuole aggrapparsi a tutti i costi alla vita. E quando si era svegliato aveva avuto fretta di riprendere in mano tutto ciò che aveva lasciato a metà. Non si era mai posto il dilemma della rinascita, lo stesso dramma della morte era diventato reale solo quando si era reso conto che non avrebbe avuto voce per spiegare il segreto di Dio.
Sono vivo, quindi devo essere vivo. Era stato difficile abituarsi agli organi nuovi, reimparare a stare in piedi, a camminare, a guardare le persone negli occhi. Aveva ripreso presto a scrivere, a recuperare tutti i videogiochi che si era perso, a dipingere tutti gli incubi e i ricordi che aveva vissuto. Cinque anni erano passati tra le tele e i libri, tra il dormitorio dell’università e la paura di non svegliarsi più. Per dieci anni si era convinto tanto profondamente che fossero quelle le cose per cui valesse la pena di essere ancora vivo da non aver mai considerato la possibilità di ricominciare. Aveva sottovalutato il concetto del nuovo, dell’esperienza mai vissuta, della splendida tela bianca che avrebbe potuto diventare e che ancora non si sentiva davvero di essere.
Ogni cosa a suo tempo, gli disse il dottor Kaito al termine della loro ultima seduta, e Kakyoin aveva riso scuotendo il capo riascoltando le stesse parole come gliele aveva sussurrate Dio fino a un attimo prima. “Dieci anni fa” e “un attimo,” due locuzioni a cui Kakyoin non avrebbe mai pensato di poter attribuire lo stesso valore. Invece eccolo, a incartare i propri dipinti, a spiccare il volo senza più la paura di cadere.
Certo, sarebbe stato bello se insieme ad alcuni ricordi traumatici si riuscisse a rielaborare anche il dolore che continuava a martellare tra le vertebre. Dal fisioterapista c’era andato poco tempo dopo aver visto il dottor Kaito e solo perché piuttosto che migliorare i dolori s’infittivano.
 «Quindi, quanto è grave?», aveva chiesto schiettamente il ragazzo con un sospiro mentre il medico appendeva le lastre al piano illuminato della parete.
Il dottore si prese un istante per incrociare le braccia al petto e, con estrema professionalità, osservare i danni.
«Signor Noriaki, lei mi sembra un ragazzo in gamba e a cui i giri di parole non piacciono, quindi cercherò di essere molto chiaro con lei,» disse il dottore voltandosi verso il paziente. Kakyoin provò a raddrizzarsi nella schiena, ma le vertebre lombari dolevano come se si stessero fondendo tra loro, causando in lui un’espressione tirata negli angoli degli occhi e della bocca. Nonostante il dolore, riuscì ad annuire e raggiungere una dignitosa postura. «Come può vedere da questa lastra,» diceva mentre con il palmo aperto della mano destra disegnava piccoli cerchi sulla suddetta, «ci sono segni di usura non indifferenti tra i dischi di una vertebra e l’altra.»
Kakyoin osservava con attenzione scolaresca, gli occhi contratti al centro delle sopracciglia e il cuore stretto stretto fra i polmoni.
«Sì, lo vedo...»
«Nei movimenti quotidiani, lo sfregamento dei dischi che sostituiscono quelli cartilaginei ha pian piano usurato i cuscinetti e i nervi si stanno scoprendo. È la prima volta che vedo una cosa del genere.»
Kakyoin sospirò di un respiro che gli sgonfiò le spalle.
«Tecnologia tedesca,» rispose senza troppe cerimonie. «Quindi non posso fare nulla per alleviare il mal di schiena?»
La risposta la conosceva già, sapeva anche quale fosse l’unica soluzione a un problema del genere. Si morse con forza il labbro inferiore mentre il dottore scuoteva il capo, voltandolo quel tanto che bastava per porre uno sguardo approfondito sul referto.
«L’unica cosa che posso fare è prescriverle delle sedute di fisioterapia da associare a degli antinfiammatori, ma non si tratterebbe di una cura definitiva. Signor Noriaki, è necessario un intervento chirurgico.»
Kakyoin accolse quelle parole serrando le mascelle, chiudendo lentamente le palpebre. Sebbene si trattasse della risposta che immaginava, dentro di lui aveva arso fino all’ultimo istante quella minuscola fiammella che bramava una risposta di altra natura.
«Certo, lo capisco,» ciancicò con voce rauca.
«Fra l’altro, ci vorranno delle settimane prima che dalla Germania arrivino delle protesi nuove. Nel frattempo le raccomando riposo assoluto, va bene?»
Il ragazzo si passò una mano sulla fronte pensando a quante ore avrebbe passato in piedi adesso che si avvicinava il giorno della mostra. L’ennesimo sospiro si fece largo tra le sue labbra asciutte. «Farò del mio meglio.»
I petali dei ciliegi poi caddero tutti insieme al primo giorno d’estate e lasciarono spazio al canto delle cicale. Le sedute con il dottor Kaito continuavano a portare frutti sorprendenti, di tanto in tanto Kakyoin approfittava dei giorni di stasi per chiamare la dottoressa Shizuka e aggiornarla sui miglioramenti della propria salute mentale. Sulla propria condizione fisica, invece, Kakyoin rimaneva sempre un po’ sul vago. Non gli andava di perdersi nei dettagli del proprio corpo, ancora irrimediabilmente martirizzato dagli effetti di The World. Le sedute di fisioterapia gli portavano un giovamento leggero solo nel momento stesso in cui avvenivano, ma appena tornava a casa i dolori lo confinavano a letto finché non arrivava il momento delle cure palliative. Certi giorni erano peggiori di altri e persino stare in piedi diventava faticoso. Più volte si era trovato a pensare che la soluzione più comoda sarebbe stata una sedia a rotelle, nei giorni in cui si trovava a stare disteso a letto con le lacrime che sgorgavano solitarie giù per le tempie si diceva che all’indomani l’avrebbe comprata. Poi però succedeva che il giorno dopo riusciva a stare in piedi, un po’ per sforzo e un po’ per una questione di personalissima dignità, e il compromesso cui era giunto era stato un bastone da passeggio. Così, per Noriaki Kakyoin era giunto il momento del suo grande lancio artistico al museo d’arte moderna e contemporanea più famoso di Tokyo.
Elegantissimo in un abito Versace datato 1990, dal gilet damascato tra i toni lucenti della seta verde alternata a uno sfondo nero, si reggeva nelle sue gambe esili avvolte da un paio di pantaloni finemente stirati che lo coprivano fino alle caviglie. Lì si mostravano dei gambaletti bianchi che terminavano in dei mocassini di vernice, anch’essa nera, finemente decorati dalla testa dorata della medusa. Al termine della mano destra c’era il pomello in ametista del suo nuovo migliore amico: un bastone dal cuore in ebano laccato con un lucido che gli conferiva splendidi luccicori. Sebbene si trovasse all’interno del museo, affollato nonostante mancassero ancora delle ore all’apertura del suo personale traguardo, Kakyoin indossava i suoi sottili occhiali da sole per schermare le iridi dalle luci del giorno filtrate dalle grandi vetrate all’ingresso. I capelli, cresciuti ancora di una manciata di centimetri, erano lasciati splendidamente sciolti lungo le spalle, pettinati all’indietro in ogni sfumatura dell’amarena che colava fra i trapezi e le scapole, eccetto che per il suo distintivo ciuffo a fare da cornice al volto scarno.
Sarebbe stato bello poter dire che tutta la sua attenzione era dedicata unicamente a quel momento che aspettava da quando aveva intrapreso la carriera del pittore, ma ogni volta che qualcuno oltrepassava la soglia del museo il cuore di Kakyoin sobbalzava. Si aspettava di vedere comparire la sola persona che continuava a tormentarlo, non desiderava che vedere di nuovo il colore originale di quel paio di occhi che negli ultimi mesi aveva ricordato solo nei toni caldi della sanguigna. Si domandava se avrebbe tenuto fede alla promessa che si erano fatti alla stazione.
Chiedimi di nuovo se vorrò venire con te,
perché non riesco a pensare di stare ancora lontani.
«Signor Noriaki,» a destarlo dai propri pensieri fu la voce allegra del signor Toshiba, ormai non solo organizzatore di tutto quanto stava accadendo, ma soprattutto un uomo in cui Kakyoin riponeva grande stima e fiducia. Il ragazzo si voltò a guardarlo con un sorriso.
«Signor Toshiba,» rispose flettendo il busto in una lieve riverenza.
«Ci tenevo a congratularmi personalmente per questa giornata.»
«La ringrazio.»
«Sarà un successo, le opere sono magnifiche, e la disposizione che ha proposto al nostro ultimo incontro è senza dubbio la più ottimale.»
«Sono contento di sapere che la pensiamo allo stesso modo.» Di nuovo la sua attenzione venne catturata dalla grande porta a vetri che si apriva. Una bambina dai capelli neri e delle bizzarre ciocche dai toni del verde attraversò la porta saltellando; indossava un vestitino lillà pieno di balze e luccichii, le gambe scoperte mostravano un cerotto colorato sul ginocchio sinistro. Nella mano destra stringeva con fierezza una bambola dalla coda di sirena e la chioma di un rosso scarlatto. Dopo un primo momento di grande stupore nei suoi occhi fattisi enormi e la bocca spalancata in un sorriso senza un canino, la bambina chiamò il suo papà con voce squillante. Mentre il signor Toshiba diceva qualcosa sull’arrivo di esperti che avrebbero scritto per le più influenti testate del Giappone, Kakyoin trattenne il fiato. Una mano ampia, calda si allungò verso quella piccola, dai tratti delicati della figlia, e sopra di essa c’era la manica di un cappotto bianco, una decorazione fatta di triangoli d’ocra e magenta. Salendo ancora con lo sguardo, trattenendo ancora il respiro, Kakyoin spiò il sorriso gentile che Jotaro Kujo, oltre l’ombra del suo berretto, dedicava alla propria figlia.
Infine, i suoi occhi.
Blu d’oltreoceano ai bordi, turchesi verso le iridi, si alzarono verso i propri che avevano tutti i bagliori dei petali di glicine. Bastava quello affinché il tempo si fermasse e tutti intorno svanissero: che i loro occhi si perdessero nella profondità dei loro specchi.
«La ringrazio, la ringrazio davvero, signor Toshiba. Se vuole scusarmi, ho un ospite da accogliere.»
 

 
 _________________________________________


N.d.A.:
 
 
1: vivo per questo headcanon secondo cui il padre di Kakyoin lavora per una grande azienda di produzione di videogiochi, tipo la Ubisoft. Nel mio immaginario si occupava di alcuni degli aspetti grafici, come la realizzazione di character design e, più raramente, di ambients. Mi piace, tra l’altro, immaginare Kakyoin sempre seduto vicino a suo padre, da bambino, e a cercare di ricopiare e/o immaginare personaggi insieme, da qui nasce quindi la passione di Kakyoin per il disegno e il dipinto.
2: nome giapponese dal significato “colui che vola sul mare”
3: nome giapponese dal significato “grande raggio di sole”
4: nome giapponese dal significato “albero che fiorisce.” Mi piaceva troppo l’idea che i genitori di Kak avessero entrambi dei nomi che si abbinassero alla primavera.
5: nome originale di Noriaki Kakyoin. Fun fact: l’editore di Araki sbagliò la trascrizione degli ideogrammi e al posto di Tenmei trascrisse Noriaki. Sipario.

 

حبيبي - habibi; dall'arabo.
Letteralmente:
amore mio, mio amato.



Bentornat* nelle note d'Autore!
SONO TORNATA.
In realtà non sono mai andata via, il punto è che per fortuna mi hanno chiamata a Bergamo a fare un corso di preparazione per un potenziale mestiere che si spera entri in porto ~
DETTO CIO', sono veramente spiacente per la sparizione così improvvisa e per avervi lasciati in questo modo, ma per fortuna appena ho trovato un momento libero mi sono messa a scrivere come un treno e quindi eccoci qua. Come sempre, se avete voglia di lasciare un commento sono sempre pronta e aperta ai vostri pareri! 
Se volete seguirmi per delle fanart mi trovate su instagram come @jolice.jostr.art ♥ Giuro di tornare prestissimo anche con la storia BruAbba. 

Un bacio,

iysse ♥

 
   
 
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