Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: Green Star 90    11/07/2021    2 recensioni
[...] «quando uno dei capitoli più belli ma anche dolorosi della mia esistenza si è concluso, per almeno un anno non mi sono permesso di andare a trovare mia sorella al cimitero. C’era una sorta di rifiuto che non avevo ancora metabolizzato, era come se assieme a lei andassi a trovare anche le persone care che avevo perduto in Nordafrica e non mi sentivo pronto a farlo, non volevo dirgli veramente addio. Un bel giorno ho riaperto il mio zaino e ci ho trovato dentro la sciarpa dell’amico che mi aveva aiutato a vendicarla e… ho pianto come un deficiente!».
Fugo aveva sbruffato nell’immaginare un tipo flemmatico come lui lasciarsi andare a tal guisa.
«Scusami, è che non riesco a farmi un’idea mentale della scena»
«Non è un problema, rimarresti sconcertato se ti venissero a raccontare di com’ero a vent’anni».
***
Dodici racconti sulla vita, la morte e l'oltre vita.
Buona lettura.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Sorpresa
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Jojo in Heaven'
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6- 22 marzo

22 marzo

 

Tomorrow could be too late
I wish I could change the date
Tomorrow could be too late
If only you had some faith

Too young, too proud, too foolish
Too young, too proud, too foolish

The Cranberries, Tomorrow

Un racconto sul senso di fratellanza

 

Il taxi si fermò nei pressi dell’indirizzo indicato. Tre uomini scesero dall’autovettura.
Sotto le tre paia di occhi a mandorla si distinguevano le occhiaie da jet lag, ma considerato che il loro non era stato un viaggio di piacere nessuno avrebbe notato quel particolare, e se anche lo avessero fatto non avrebbero disposto della sicumera necessaria per controbattere a eventuali commenti malevoli.
Il maggiore del terzetto sapeva cosa significava palesare la propria presenza dentro quella casa. Significava rivendicare silenziosamente non solo il proprio posto nel mondo in qualità di essere umano, ma anche il diritto inviolabile di esternare un dolore che avrebbe dovuto accomunarli, e in cuor suo sperava che almeno la condivisione dello stesso lutto li avrebbe risparmiati dal rinfacciargli la sua storia familiare.
Mosse un primo passo verso il vialetto che divideva un giardino ben curato e che conduceva alla porta della classica abitazione americana, cose da film americano, appunto. Ciò che stonava veramente con il resto del quartiere e delle altre case era il ciliegio in fiore piantato alla sua destra, il cui tronco era cinto da una fascia arancione impossibile da non notare. Cosa mai avesse spinto il defunto a portarsi un pezzo di Giappone in Florida era un’informazione che non avrebbe più potuto rivelare a nessuno.
Il primo passo era rimasto anche l’unico, per ora. Si era inchiodato lì e non riusciva a muovere un muscolo, tranne quello cardiaco, che sentiva perforargli i timpani, a ricordargli che era ancora vivo. Il sudore freddo che iniziava a macchiargli la camicia gli comunicava che di lì a poco la pressione sanguigna lo avrebbe tradito.
«Josuke».
Trattenne il fiato per un attimo. La voce che lo chiamava proveniva da chi gli stava stringendo il braccio.
«Josuke, ti senti bene?».
Quella stessa voce che gli sembrava lontana parve svegliarlo quel poco che bastava per riconoscerne il proprietario. Nel contempo, la stretta al braccio si fece più forte.
L’uomo di nome Josuke riconobbe colui che lo aveva chiamato. Ma sì, era lo stesso col quale aveva condiviso la seconda classe in aereo e anche una vita intera.
«Okuyasu, io non… non lo so»
«Sei pallido» gli disse l’amico con apprensione «e scommetto che ti senti anche le gambe molli»
«Magari se ti portiamo dentro riusciamo a farti sedere» disse la terza voce, quella dell’altro amico fidato.
«N-no, no, sto bene, è solo l’aereo» Josuke si portò una mano alla fronte per cercare di riscuotersi, trovandola zuppa e gelata.
Dalle espressioni dei suoi accompagnatori intuì di non essere stato granché convincente.
«Forse non dovevo trascinarvi con me» proseguì «non dovevate sopportare questo macello… perdonatemi».
Sentì Koichi afferrarlo per l’altro braccio.
«Non dire queste cose nemmeno per scherzo, chiaro? Se siamo con te è perché abbiamo voluto farlo»
«Senti» Okuyasu gli si parò davanti e lo prese per le spalle «non è che hai paura di entrare? Se è così noi aspettiamo con te, non è un problema».
Josuke non poté che fare un cenno col capo per confermare i dubbi di quest’ultimo. Da quando aveva ricevuto quella telefonata il giorno prima era come se una parte di sé se ne fosse andata per sempre, cambiandolo nell’anima e nella mente.
«Io… e se sua moglie non vuole che entri?» domandò guardando la porta aperta e oscurata da figure sconosciute vestite a lutto «e se sua madre mi odia?»
«Allora» Okuyasu gli cinse il viso con entrambe le mani e lo guardò dritto negli occhi «se accade quello che dici noi andiamo da loro e gliene diciamo quattro… No, ascoltami!» aggiunse subito frapponendo un indice teso tra i loro volti per interrompere sul nascere l’obiezione di Josuke «Non esiste che tu venga trattato male da persone che non ti conoscono, tu sei la mia famiglia, e se la mia famiglia viene offesa io mi arrabbio. Giusto Koichi?»
«Giusto» ripeté l’interpellato con risolutezza.
Josuke avrebbe voluto ringraziarli, ma la lingua gli si era incollata al palato e non aveva energie a sufficienza per poter esprimere la sua gratitudine. Perciò decise di fare tesoro di quelle parole riprendendo a camminare, seppur a testa bassa, lungo il vialetto.
Come si aspettava, il terzetto venne accolto con sguardi incuriositi da persone che non avevano idea alcuna circa la loro identità, eppure Josuke aveva la sensazione che ogni occhiata rivolta a lui fosse uno spillo nella carne e ciò gli faceva mancare il respiro man mano che si avvicinava al motivo finale del suo viaggio intercontinentale. Le persone lo guardavano ma lui le percepiva come spettri; non voleva che un branco di sconosciuti schernisse la sua esistenza, però era inevitabile suscitare la loro perplessità.
Non impiegarono molto a trovare la stanza adibita a camera ardente: era semplicemente la più quieta della casa, pure quella occupata da spettri, anche se alcuni singhiozzavano piano. Chi erano, non lo sapeva, e non intendeva farlo. Gli spilli, però, li sentiva tutti, e se non fosse stato per Okuyasu e Koichi, sempre vigili e attenti, sempre presenti per lui, sarebbe crollato sul parquet.
I feretri erano aperti e circondati dai fiori. Chi le occupava, banale a dirsi, sembrava dormire in pace. Un padre e una figlia che riposavano in abiti da festa.
Josuke allungò un braccio verso il volto sfregiato del defunto. Una cicatrice suturata post mortem trapassava l’occhio destro e finiva col tagliargli parte del labbro. Al contatto con la pelle del viso le dita gli restituirono il freddo e la rigidità della morte, alla quale rispose con un lieve bagliore dorato che sciolse i punti e ridonò ai tratti la sua originaria bellezza.
«Chissà come se l’era procurata quella ferita» mormorò Koichi osservando i punti sparsi sui cuscini.
«Credo che non lo sapremo mai» la voce di Josuke era diventata piatta, ma sapevano che quella era solo una farsa «mi hanno solo detto che è morto e basta».
Si spostò poi verso la seconda bara, dove a giacervi c’era la più giovane della famiglia, palpebre delicatamente truccate, capelli acconciati, labbra rosee. Sul corpo nessun segno di offesa. Somigliava molto a…
A…
Non ci riesco.
Si allontanò dalla camera ardente a grandi falcate, ignorando i richiami di Okuyasu e Koichi, e uscì dalla casa col fiato corto e le lacrime agli occhi. Si ritrovò a cercare sostegno nel tronco del ciliegio come un assetato in un’oasi, vi ci poggiò una spalla e si premette una mano sul nodo della cravatta per scioglierla dalla gola, maledicendo quella telefonata e quel 22 marzo che lo stava distruggendo.
Era assurdo, era tutto assurdo.
Era assurdo che il bastardo di una famiglia altrimenti felice fosse andato a fare le condoglianze a individui coi quali condivideva solo parte del suo sangue, era assurdo che in una situazione del genere si ritrovasse a pensare alla sua, di famiglia, quella che si era costruita da solo, e che dentro quella bara ci avesse visto…
«Josuke?».
Tornò nel mondo reale. A chiamarlo non furono né Okuyasu né Koichi, ma una voce femminile che non aveva mai udito prima.
Si voltò. Sotto le fronde del ciliegio vi era una donna non più nel fiore degli anni con due occhi grandi e stanchi che lo guardavano con preoccupazione. Stringeva un fazzoletto impregnato di chissà quante lacrime e i capelli grigi striati di biondo cadevano flosci lungo il viso smunto.
«Tu sei Josuke, vero?» domandò nuovamente la donna in perfetto giapponese.
Il cuore di Josuke mancò un battito. Non si aspettava che qualcuno gli parlasse nella sua lingua madre in una simile occasione.
«Sì» disse piano, a testa bassa.
«Ciao Josuke» la donna si avvicinò ancora e fece un breve inchino «io sono… sono la mamma di Jotaro, mi chiamo Holly. Ti ringrazio per essere venuto fin qui a trovare mio figlio e la mia bambina, lo apprezziamo tantissimo».
Non c’era rancore nelle sue parole, solo tanta gratitudine. Era veramente gratitudine?
«Posso… posso guardarti meglio?» gli domandò sempre con quella voce dolce che gli faceva venire voglia di lasciarsi andare del tutto «Sono figlia unica e… sai, avere un fratello o una sorella non mi sarebbe dispiaciuto».
Josuke si staccò dall’albero e le si avvicinò per esaudire la sua richiesta: lei allungò una mano sottile per accarezzargli il viso e subito le ciglia si bagnarono di commozione.
«Gli somigli così tanto, si vede che sei un bravo ragazzo, sicuramente gli volevi… gli vuoi bene, no? Anche se certe volte è un po’ scontroso sono sicura che sia felice di vederti».
Josuke continuava a non parlare, annuiva e basta. Come spinto da una forza misteriosa tese le braccia e cinse il corpo della donna in un abbraccio disperato ma tenero, che gli fece dimenticare la sua condizione di figlio non legittimo.
«Mi scusi» gli riuscì di dire «non volevo crearvi scompiglio, però non potevo restare a casa dopo quello che è accaduto… pensavo che non sarei risultato gradito, dovevo avvisarvi… forse»
«Tesoro, dammi del tu» Holly tirò fuori un fazzoletto pulito dalla tasca della gonna e se ne servì per asciugargli il volto «non devi sentirti fuori posto, non con questi occhi buoni che hai… che non dovrebbero essere mai tristi».
Josuke trattenne un singulto e sorrise lievemente.
«Anche Jotaro vorrebbe che tu non piangessi» proseguì «quel caro ragazzo è tanto sfortunato, da quando è nato non gliene capita una giusta… ormai era come se… è come se venisse tormentato continuamente dai demoni, anche se non me l’ha mai detto ho capito che si sente in colpa per essere stato ancora vivo… e io gli dicevo, gli dico che deve vivere per il bene di Jolyne ma non mi ascolta mai… quindi adesso, magari… magari è in pace e senza preoccupazioni»
«Vorrei poterlo fare» Josuke si staccò da Holly «ma non adesso, non oggi. Tua nipote è molto bella»
«Sì, è bella. Ha preso dal papà… Dimmi, Josuke, tu hai figli?»
«Sì» l’uomo aspirò col naso «due bambine, a loro piacciono molto le bambole, gliene compro sempre… sembra strano ma quando… quando ho visto tua nipote ho pensato alle bambole delle mie figlie perché sembrava dentro… dentro una scatola, con il vestito da sera e i capelli acconciati, e poi somiglia tanto a loro, quindi non ce l’ho fatta e me ne sono andato, ho mollato i miei amici dentro come un codardo»
«Ti vogliono molto bene, sono in apprensione per te» Holly rivolse un’occhiata all’ingresso dell’abitazione, dove intravide Okuyasu e Koichi stare a debita distanza dall’amico per concedergli la discrezione di quel dialogo «sono venuti per farti compagnia, dovete essere molto legati».
Sul volto di Josuke apparve il barlume di un sorriso.
«Ne abbiamo passate così tante che li considero dei parenti, dei fratelli… sì, fratelli è la parola giusta anche se non gliel’ho mai detto, ma penso che lo sappiano»
«Sai, anche Jotaro ha degli amici, sono delle persone speciali che gli vogliono tanto bene… È stato per loro se ho voluto che venisse salutato qui, così almeno possono rivedersi dopo tanto tempo… e poi volevo che fosse a casa sua per la sua ultima giornata in famiglia, con i suoi genitori»
Josuke la guardò interdetto. Da quel che sapeva non ricordava che Jotaro avesse degli amici stretti.
«Jotaro ha degli amici?»
«Sì» Holly indicò il ciliegio alle spalle di Josuke «loro… se ne sono andati tanti anni fa per il mio bene, perché per loro ero una persona importante, quindi ho regalato questo bell’albero a Jotaro affinché se lo portasse in Florida, così quando tutti passano da qui e lo vedono è come se sappiano che esistono, cosa hanno fatto per noi… quella fascia l’ho fatta io».
Josuke guardò il tronco dell’albero: la fascia di stoffa pesante che lo decorava era di un arancione vivace, in contrasto col nero e con l’atmosfera che si respirava, ed era ricamata alle estremità con dei motivi a forma di ankh. Ne prese una e toccò le cuciture rosse e gialle che gli comunicavano una voglia smodata di ribellione e libertà.
«Anche se non li conoscevo, credo che nonostante tutto abbiano scelto di vivere, perché se non si fa ciò che dice il cuore non si vive. Io sono nato perché per mia madre era la cosa giusta da fare, quindi se sei qui a parlare con me vuol dire che hanno fatto la cosa giusta»
«Cerco di dirmelo sempre anche se non è facile, perché adesso sono… da sola»
«No, per favore, non dire questo» Josuke la cinse ancora per le spalle «Non so, se vuoi… ogni tanto puoi venire a trovarmi… Voglio farti conoscere mia moglie e le mie figlie, sicuramente ti adoreranno»
«Oh» Holly allargò gli occhi per la sorpresa «Sarebbe… sarebbe bellissimo se fosse così… sì, voglio conoscere le tue bambine, gli voglio fare da zia e insegnagli l’inglese, posso, vero?»
«Sì, puoi» Josuke le strinse le mani nelle sue e guardò quelle iridi azzurre tanto simili al genitore in comune. Trasse un sospiro e lasciò andare la presa. Era il momento di porre la domanda scomoda.
«Lui lo sa?»
Holly seguitò a sospirare anch’ella. Poteva esserci solo un lui a cui poteva riferirsi.
«No… non ancora. Non credo che se ne renderà conto. Ha una certa età e quindi… però continua a chiamare Jotaro e io gli dico che è andato a lavorare, così lui si calma. Forse in questi giorni gli dirò che è andato dai suoi amici per un po’… non voglio raccontargli una bugia, non se lo merita»
«Ho… ho capito» fu quello che riuscì a dire Josuke.
Restarono a parlare all’ombra del ciliegio fino a quando il sole non fu tramontato, inframezzando le parole con altri abbracci, altre lacrime e altri ricordi, pensando, ma non esternando, a quanto sarebbe stato lieto incontrarsi in un contesto del tutto diverso, adatto alle loro nature altruiste. Dovettero invece condividere la perdita della loro parte spensierata, che tanto avevano tenuto a preservare chi stava loro accanto. Quando arrivò il momento di separarsi fu il sopraggiungere di altra mestizia colmata solo con la promessa di rivedersi ancora per vivere e condividere.
«Promettimi che verrai a trovarmi»
«Lo giuro sul mio ragazzo».
Però qualcosa non stava funzionando.
Quella scena non aveva senso, quel funerale ne aveva ancora meno.
Da chi era partita la telefonata? I loro corpi non si erano disintegrati assieme all’universo? E poi vivere e condividere?

Vivere e condividere?
Vivere?
Ma lei era viva, era lì accanto a loro, com’era possibile? Perché non riuscivano a vederla?
«Ragazzina» due braccia muscolose la tirarono fuori dall’acqua «questo non è posto per te, fila da papà, vai!».
Era successo veramente?
Quando venne gettata di mala grazia sulla battigia della spiaggia si ritrovò a fissare due sclere inchiostrate.
«Dannate ragazzine, me le ritrovo sempre fra i piedi».

***

Musica in Jojo: Tomorrow è il singolo anticipatore di Roses, il sesto album dei Cranberries pubblicato nel febbraio del 2012. Il sound è in totale contrasto con il tema trattato nel racconto, ma ascoltando le parole, e tenendo conto del periodo di uscita del singolo, non ho potuto fare a meno di includerla in playlist. Mi piace pensare che Josuke possa averla ascoltata in aereo assieme ai suoi bro della vita.

Retroscena: Le cose da dire sarebbero tante. Innanzi tutto Josuke è, editorialmente parlando, il Jojo meglio riuscito subito dopo Joseph, e questo grazie alla sua simpatia e alla sua capacità di farsi apprezzare da praticamente tutti. Anche se, come spiegato precedentemente, non sono una grande fan di Diamond Is Unbreakable, gli riconosco un carisma e una versatilità narrativa fuori dal comune: della serie, starebbe bene sia in contesti comici che in contesti drammatici, riesce a reggere una storia anche senza il supporto di personaggi secondari e il suo rapporto con Okuyasu e Koichi è uno degli elementi di forza dell'intera saga. Il suo incontro con Holly era stato pensato sin da quando mi ero spoilerata il finale di Stone Ocean, per cui ho voluto chiudere la prima parte della raccolta con i due figli di Joseph.
Come avrete notato non ci sono molti dettagli in questo dialogo, ma è fatto apposta per far sì che si agganci alle prossime sei one-shot che verranno pubblicate a partire dalla prossima settimana. Come anticipato su Instagram, vi avviso che saranno un vero e proprio mindfuck con tanto di ambientazione inventata - quasi - del tutto di sana pianta e incontri improbabili. 

E niente, baci, abbracci e grazie mille per aver letto.

   
 
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