22 marzo
Tomorrow could be too late
I wish I could change the date
Tomorrow could be too late
If only you had some faith
Too young, too proud, too foolish
Too young, too proud, too foolish
The Cranberries, Tomorrow
Un racconto sul senso di fratellanza
Il taxi si fermò nei pressi dell’indirizzo indicato. Tre
uomini scesero dall’autovettura.
Sotto le tre paia di occhi a mandorla si distinguevano le occhiaie da jet lag,
ma considerato che il loro non era stato un viaggio di piacere nessuno avrebbe
notato quel particolare, e se anche lo avessero fatto non avrebbero disposto
della sicumera necessaria per controbattere a eventuali commenti malevoli.
Il maggiore del terzetto sapeva cosa significava palesare la propria presenza
dentro quella casa. Significava rivendicare silenziosamente non solo il proprio
posto nel mondo in qualità di essere umano, ma anche il diritto inviolabile di
esternare un dolore che avrebbe dovuto accomunarli, e in cuor suo sperava che
almeno la condivisione dello stesso lutto li avrebbe risparmiati dal
rinfacciargli la sua storia familiare.
Mosse un primo passo verso il vialetto che divideva un giardino ben curato e
che conduceva alla porta della classica abitazione americana, cose da film
americano, appunto. Ciò che stonava veramente con il resto del quartiere e delle
altre case era il ciliegio in fiore piantato alla sua destra, il cui tronco era
cinto da una fascia arancione impossibile da non notare. Cosa mai avesse spinto
il defunto a portarsi un pezzo di Giappone in Florida era un’informazione che
non avrebbe più potuto rivelare a nessuno.
Il primo passo era rimasto anche l’unico, per ora. Si era inchiodato lì e non
riusciva a muovere un muscolo, tranne quello cardiaco, che sentiva perforargli
i timpani, a ricordargli che era ancora vivo. Il sudore freddo che iniziava a
macchiargli la camicia gli comunicava che di lì a poco la pressione sanguigna
lo avrebbe tradito.
«Josuke».
Trattenne il fiato per un attimo. La voce che lo chiamava proveniva da chi gli
stava stringendo il braccio.
«Josuke, ti senti bene?».
Quella stessa voce che gli sembrava lontana parve svegliarlo quel poco che
bastava per riconoscerne il proprietario. Nel contempo, la stretta al braccio
si fece più forte.
L’uomo di nome Josuke riconobbe colui che lo aveva chiamato. Ma sì, era lo
stesso col quale aveva condiviso la seconda classe in aereo e anche una vita
intera.
«Okuyasu, io non… non lo so»
«Sei pallido» gli disse l’amico con apprensione «e scommetto che ti senti anche
le gambe molli»
«Magari se ti portiamo dentro riusciamo a farti sedere» disse la terza voce,
quella dell’altro amico fidato.
«N-no, no, sto bene, è solo l’aereo» Josuke si portò una mano alla fronte per
cercare di riscuotersi, trovandola zuppa e gelata.
Dalle espressioni dei suoi accompagnatori intuì di non essere stato granché
convincente.
«Forse non dovevo trascinarvi con me» proseguì «non dovevate sopportare questo
macello… perdonatemi».
Sentì Koichi afferrarlo per l’altro braccio.
«Non dire queste cose nemmeno per scherzo, chiaro? Se siamo con te è perché
abbiamo voluto farlo»
«Senti» Okuyasu gli si parò davanti e lo prese per le spalle «non è che hai
paura di entrare? Se è così noi aspettiamo con te, non è un problema».
Josuke non poté che fare un cenno col capo per confermare i dubbi di
quest’ultimo. Da quando aveva ricevuto quella telefonata il giorno prima era
come se una parte di sé se ne fosse andata per sempre, cambiandolo nell’anima e
nella mente.
«Io… e se sua moglie non vuole che entri?» domandò guardando la porta aperta e
oscurata da figure sconosciute vestite a lutto «e se sua madre mi odia?»
«Allora» Okuyasu gli cinse il viso con entrambe le mani e lo guardò dritto
negli occhi «se accade quello che dici noi andiamo da loro e gliene diciamo
quattro… No, ascoltami!» aggiunse subito frapponendo un indice teso tra i loro
volti per interrompere sul nascere l’obiezione di Josuke «Non esiste che tu
venga trattato male da persone che non ti conoscono, tu sei la mia famiglia, e
se la mia famiglia viene offesa io mi arrabbio. Giusto Koichi?»
«Giusto» ripeté l’interpellato con risolutezza.
Josuke avrebbe voluto ringraziarli, ma la lingua gli si era incollata al palato
e non aveva energie a sufficienza per poter esprimere la sua gratitudine.
Perciò decise di fare tesoro di quelle parole riprendendo a camminare, seppur a
testa bassa, lungo il vialetto.
Come si aspettava, il terzetto venne accolto con sguardi incuriositi da persone
che non avevano idea alcuna circa la loro identità, eppure Josuke aveva la
sensazione che ogni occhiata rivolta a lui fosse uno spillo nella carne e ciò
gli faceva mancare il respiro man mano che si avvicinava al motivo finale del
suo viaggio intercontinentale. Le persone lo guardavano ma lui le percepiva
come spettri; non voleva che un branco di sconosciuti schernisse la sua
esistenza, però era inevitabile suscitare la loro perplessità.
Non impiegarono molto a trovare la stanza adibita a camera ardente: era
semplicemente la più quieta della casa, pure quella occupata da spettri, anche
se alcuni singhiozzavano piano. Chi erano, non lo sapeva, e non intendeva
farlo. Gli spilli, però, li sentiva tutti, e se non fosse stato per Okuyasu e
Koichi, sempre vigili e attenti, sempre presenti per lui, sarebbe crollato sul
parquet.
I feretri erano aperti e circondati dai fiori. Chi le occupava, banale a dirsi,
sembrava dormire in pace. Un padre e una figlia che riposavano in abiti da
festa.
Josuke allungò un braccio verso il volto sfregiato del defunto. Una cicatrice
suturata post mortem trapassava l’occhio destro e finiva col tagliargli parte
del labbro. Al contatto con la pelle del viso le dita gli restituirono il
freddo e la rigidità della morte, alla quale rispose con un lieve bagliore
dorato che sciolse i punti e ridonò ai tratti la sua originaria bellezza.
«Chissà come se l’era procurata quella ferita» mormorò Koichi osservando i
punti sparsi sui cuscini.
«Credo che non lo sapremo mai» la voce di Josuke era diventata piatta, ma
sapevano che quella era solo una farsa «mi hanno solo detto che è morto e
basta».
Si spostò poi verso la seconda bara, dove a giacervi c’era la più giovane della
famiglia, palpebre delicatamente truccate, capelli acconciati, labbra rosee.
Sul corpo nessun segno di offesa. Somigliava molto a…
A…
Non ci riesco.
Si allontanò dalla camera ardente a grandi falcate, ignorando i richiami di
Okuyasu e Koichi, e uscì dalla casa col fiato corto e le lacrime agli occhi. Si
ritrovò a cercare sostegno nel tronco del ciliegio come un assetato in un’oasi,
vi ci poggiò una spalla e si premette una mano sul nodo della cravatta per
scioglierla dalla gola, maledicendo quella telefonata e quel 22 marzo che lo stava
distruggendo.
Era assurdo, era tutto assurdo.
Era assurdo che il bastardo di una famiglia altrimenti felice fosse andato a
fare le condoglianze a individui coi quali condivideva solo parte del suo
sangue, era assurdo che in una situazione del genere si ritrovasse a pensare
alla sua, di famiglia, quella che si era costruita da solo, e che dentro quella
bara ci avesse visto…
«Josuke?».
Tornò nel mondo reale. A chiamarlo non furono né Okuyasu né Koichi, ma una voce
femminile che non aveva mai udito prima.
Si voltò. Sotto le fronde del ciliegio vi era una donna non più nel fiore degli
anni con due occhi grandi e stanchi che lo guardavano con preoccupazione. Stringeva
un fazzoletto impregnato di chissà quante lacrime e i capelli grigi striati di
biondo cadevano flosci lungo il viso smunto.
«Tu sei Josuke, vero?» domandò nuovamente la donna in perfetto giapponese.
Il cuore di Josuke mancò un battito. Non si aspettava che qualcuno gli parlasse
nella sua lingua madre in una simile occasione.
«Sì» disse piano, a testa bassa.
«Ciao Josuke» la donna si avvicinò ancora e fece un breve inchino «io sono…
sono la mamma di Jotaro, mi chiamo Holly. Ti ringrazio per essere venuto fin
qui a trovare mio figlio e la mia bambina, lo apprezziamo tantissimo».
Non c’era rancore nelle sue parole, solo tanta gratitudine. Era veramente
gratitudine?
«Posso… posso guardarti meglio?» gli domandò sempre con quella voce dolce che
gli faceva venire voglia di lasciarsi andare del tutto «Sono figlia unica e…
sai, avere un fratello o una sorella non mi sarebbe dispiaciuto».
Josuke si staccò dall’albero e le si avvicinò per esaudire la sua richiesta:
lei allungò una mano sottile per accarezzargli il viso e subito le ciglia si
bagnarono di commozione.
«Gli somigli così tanto, si vede che sei un bravo ragazzo, sicuramente gli
volevi… gli vuoi bene, no? Anche se certe volte è un po’ scontroso sono sicura
che sia felice di vederti».
Josuke continuava a non parlare, annuiva e basta. Come spinto da una forza
misteriosa tese le braccia e cinse il corpo della donna in un abbraccio
disperato ma tenero, che gli fece dimenticare la sua condizione di figlio non
legittimo.
«Mi scusi» gli riuscì di dire «non volevo crearvi scompiglio, però non potevo
restare a casa dopo quello che è accaduto… pensavo che non sarei risultato
gradito, dovevo avvisarvi… forse»
«Tesoro, dammi del tu» Holly tirò fuori un fazzoletto pulito dalla tasca della
gonna e se ne servì per asciugargli il volto «non devi sentirti fuori posto,
non con questi occhi buoni che hai… che non dovrebbero essere mai tristi».
Josuke trattenne un singulto e sorrise lievemente.
«Anche Jotaro vorrebbe che tu non piangessi» proseguì «quel caro ragazzo è
tanto sfortunato, da quando è nato non gliene capita una giusta… ormai era come
se… è come se venisse tormentato continuamente dai demoni, anche se non me l’ha
mai detto ho capito che si sente in colpa per essere stato ancora vivo… e io
gli dicevo, gli dico che deve vivere per il bene di Jolyne ma non mi ascolta
mai… quindi adesso, magari… magari è in pace e senza preoccupazioni»
«Vorrei poterlo fare» Josuke si staccò da Holly «ma non adesso, non oggi. Tua
nipote è molto bella»
«Sì, è bella. Ha preso dal papà… Dimmi, Josuke, tu hai figli?»
«Sì» l’uomo aspirò col naso «due bambine, a loro piacciono molto le bambole,
gliene compro sempre… sembra strano ma quando… quando ho visto tua nipote ho
pensato alle bambole delle mie figlie perché sembrava dentro… dentro una
scatola, con il vestito da sera e i capelli acconciati, e poi somiglia tanto a
loro, quindi non ce l’ho fatta e me ne sono andato, ho mollato i miei amici
dentro come un codardo»
«Ti vogliono molto bene, sono in apprensione per te» Holly rivolse un’occhiata
all’ingresso dell’abitazione, dove intravide Okuyasu e Koichi stare a debita
distanza dall’amico per concedergli la discrezione di quel dialogo «sono venuti
per farti compagnia, dovete essere molto legati».
Sul volto di Josuke apparve il barlume di un sorriso.
«Ne abbiamo passate così tante che li considero dei parenti, dei fratelli… sì,
fratelli è la parola giusta anche se non gliel’ho mai detto, ma penso che lo
sappiano»
«Sai, anche Jotaro ha degli amici, sono delle persone speciali che gli vogliono
tanto bene… È stato per loro se ho voluto che venisse salutato qui, così almeno
possono rivedersi dopo tanto tempo… e poi volevo che fosse a casa sua per la
sua ultima giornata in famiglia, con i suoi genitori»
Josuke la guardò interdetto. Da quel che sapeva non ricordava che Jotaro avesse
degli amici stretti.
«Jotaro ha degli amici?»
«Sì» Holly indicò il ciliegio alle spalle di Josuke «loro… se ne sono andati
tanti anni fa per il mio bene, perché per loro ero una persona importante,
quindi ho regalato questo bell’albero a Jotaro affinché se lo portasse in
Florida, così quando tutti passano da qui e lo vedono è come se sappiano che
esistono, cosa hanno fatto per noi… quella fascia l’ho fatta io».
Josuke guardò il tronco dell’albero: la fascia di stoffa pesante che lo
decorava era di un arancione vivace, in contrasto col nero e con l’atmosfera
che si respirava, ed era ricamata alle estremità con dei motivi a forma di ankh.
Ne prese una e toccò le cuciture rosse e gialle che gli comunicavano una voglia
smodata di ribellione e libertà.
«Anche se non li conoscevo, credo che nonostante tutto abbiano scelto di
vivere, perché se non si fa ciò che dice il cuore non si vive. Io sono nato
perché per mia madre era la cosa giusta da fare, quindi se sei qui a parlare
con me vuol dire che hanno fatto la cosa giusta»
«Cerco di dirmelo sempre anche se non è facile, perché adesso sono… da sola»
«No, per favore, non dire questo» Josuke la cinse ancora per le spalle «Non so,
se vuoi… ogni tanto puoi venire a trovarmi… Voglio farti conoscere mia moglie e
le mie figlie, sicuramente ti adoreranno»
«Oh» Holly allargò gli occhi per la sorpresa «Sarebbe… sarebbe bellissimo se
fosse così… sì, voglio conoscere le tue bambine, gli voglio fare da zia e
insegnagli l’inglese, posso, vero?»
«Sì, puoi» Josuke le strinse le mani nelle sue e guardò quelle iridi azzurre
tanto simili al genitore in comune. Trasse un sospiro e lasciò andare la presa.
Era il momento di porre la domanda scomoda.
«Lui lo sa?»
Holly seguitò a sospirare anch’ella. Poteva esserci solo un lui a cui poteva
riferirsi.
«No… non ancora. Non credo che se ne renderà conto. Ha una certa età e quindi…
però continua a chiamare Jotaro e io gli dico che è andato a lavorare, così lui
si calma. Forse in questi giorni gli dirò che è andato dai suoi amici per un
po’… non voglio raccontargli una bugia, non se lo merita»
«Ho… ho capito» fu quello che riuscì a dire Josuke.
Restarono a parlare all’ombra del ciliegio fino a quando il sole non fu
tramontato, inframezzando le parole con altri abbracci, altre lacrime e altri
ricordi, pensando, ma non esternando, a quanto sarebbe stato lieto incontrarsi
in un contesto del tutto diverso, adatto alle loro nature altruiste. Dovettero
invece condividere la perdita della loro parte spensierata, che tanto avevano
tenuto a preservare chi stava loro accanto. Quando arrivò il momento di
separarsi fu il sopraggiungere di altra mestizia colmata solo con la promessa
di rivedersi ancora per vivere e condividere.
«Promettimi che verrai a trovarmi»
«Lo giuro sul mio ragazzo».
Però qualcosa non stava funzionando.
Quella scena non aveva senso, quel funerale ne aveva ancora meno.
Da chi era partita la telefonata? I loro corpi non si erano disintegrati
assieme all’universo? E poi vivere e condividere?
Vivere e condividere?
Vivere?
Ma lei era viva, era lì accanto a loro, com’era possibile? Perché non
riuscivano a vederla?
«Ragazzina» due braccia muscolose la tirarono fuori dall’acqua «questo non è
posto per te, fila da papà, vai!».
Era successo veramente?
Quando venne gettata di mala grazia sulla battigia della spiaggia si ritrovò a
fissare due sclere inchiostrate.
«Dannate ragazzine, me le ritrovo sempre fra i piedi».
***
Musica in Jojo: Tomorrow è il singolo anticipatore di Roses, il sesto album dei Cranberries pubblicato nel febbraio del 2012. Il sound è in totale contrasto con il tema trattato nel racconto, ma ascoltando le parole, e tenendo conto del periodo di uscita del singolo, non ho potuto fare a meno di includerla in playlist. Mi piace pensare che Josuke possa averla ascoltata in aereo assieme ai suoi bro della vita.
Retroscena: Le
cose da dire sarebbero tante. Innanzi tutto Josuke è,
editorialmente parlando, il Jojo meglio riuscito subito dopo Joseph, e
questo grazie alla sua simpatia e alla sua capacità di farsi
apprezzare da praticamente tutti. Anche se, come spiegato
precedentemente, non sono una grande fan di Diamond Is Unbreakable,
gli riconosco un carisma e una versatilità narrativa fuori dal
comune: della serie, starebbe bene sia in contesti comici che in
contesti drammatici, riesce a reggere una storia anche senza il
supporto di personaggi secondari e il suo rapporto con Okuyasu e Koichi
è uno degli elementi di forza dell'intera saga. Il suo incontro
con Holly era stato pensato sin da quando mi ero spoilerata il finale
di Stone Ocean, per cui ho voluto chiudere la prima parte della raccolta con i due figli di Joseph.
Come avrete notato non ci sono molti dettagli in questo dialogo, ma
è fatto apposta per far sì che si agganci alle prossime
sei one-shot che verranno pubblicate a partire dalla prossima
settimana. Come anticipato su Instagram, vi avviso che saranno un vero
e proprio mindfuck con tanto di ambientazione inventata - quasi - del
tutto di sana pianta e incontri improbabili.
E niente, baci, abbracci e grazie mille per aver letto.