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Autore: hotaru    31/08/2009    2 recensioni
“Nell’Ade, il regno dei morti,
vi sono le tre Moire,
che reggono le sorti degli dei e degli uomini:
Cloto dipana il filo della vita,
Lachesi ne misura la lunghezza,
Atropo lo recide.”

Ed guardò attentamente gli arnesi che si trovavano accanto all’anziana signora. Oltre a un ammasso di reti e qualche ago in un puntaspilli, c’erano anche un fuso e un lungo paio di forbici in ferro, che gli misero inconsciamente i brividi.
- No, Ed – replicò tranquillamente l’altro, con lo stesso tono dolce che aveva sua madre quando lui faceva il testardo. Non si era mai accorto di quanto Al le assomigliasse – Non ha funzionato a causa nostra. Non abbiamo stretto il patto di sangue al momento giusto -.
Prima classificata al contest "E' in arrivo l'estate" di Hikaru_Zani e al "Contest a Multisquadre" di Rota23 e Happy_Pumpkin
Genere: Drammatico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alphonse Elric, Dante, Edward Elric, Winry Rockbell
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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1- Il giorno più lungo
La verità sul filo



La verità sul filo



Il giorno più lungo


“Nell’Ade, il regno dei morti,
vi sono le tre Moire,
che reggono le sorti degli dei e degli uomini:
Cloto dipana il filo della vita,
Lachesi ne misura la lunghezza,
Atropo lo recide.”

(dalla mitologia greca)



In quel caldo pomeriggio d’estate un bambino biondo si era seduto sotto un albero, ed era talmente intento a strappare ogni ciuffo d’erba che gli capitasse sotto mano, da non alzare nemmeno la testa all’avvicinarsi di un altro ragazzino pressappoco della stessa età.
- Dai, Ed. Non fare così – disse piano il bambino che si era avvicinato, cercando di far ragionare l’altro – Si arrabbieranno, lo sai. Ed è solo il primo giorno…
- Non me ne importa niente! – sbottò quello seduto, quasi trattenendosi dal gridare – Che facciano quello che vogliono, tanto peggio di così… che vuoi che gliene importi, a quelli, di due mocciosi in meno a cui badare?
- A me sono sembrate delle brave persone – ragionò diplomaticamente l’altro, accovacciandosi a terra – E poi non è certo colpa loro se…
- Ma come fai, Al? – domandò improvvisamente il ragazzino seduto, lasciando perdere per un momento lo sterminio dei fili d’erba, mentre gli occhi si fissavano in quelli del suo interlocutore – Non sei furioso? Non ti fa andare fuori di testa il fatto che ci abbiano preso in giro in questo modo? Non sei…
- Preoccupato, sì – il bambino che rispondeva al nome di Al abbassò piano la testa, sorridendo amaramente – Sono tanto preoccupato. Solo questo.
Tutta la rabbia di Ed scemò all’istante, lasciando il posto ad un senso di colpa piuttosto fastidioso. Non era lui, il fratello maggiore?
- Lo sono anch’io – ammise – Ma sono anche… arrabbiato per come si sono liberati di noi. Siamo solo due mocciosi inutili che nessuno vuole fra i piedi?
- Dai, non prendertela – cercò di calmarlo Al – In fondo, a pensarci bene, è vero che siamo solo due bambini. Chi si sarebbe occupato di noi, mentre la mamma non c’era? Forse l’unico modo per renderci utili era proprio questo…
- Manca anche a me, Al – lo interruppe l’altro, guardando negli occhi il fratello.
- Sì, lo so.
Il sole battente dell’estate appena iniziata era un invito troppo lusinghiero per le cicale, che non si erano fatte pregare per uscire all’aperto e cantare i loro lunghi concerti.
Ascoltarle era come sentire il cicaleccio dei propri pensieri. Un sottofondo a cui era meglio non prestare troppa attenzione, perché avrebbe potuto stordire senza nemmeno rendersene conto.
Le cicale tacquero un momento, mentre il sole illuminava un’alta figura dai capelli neri e spettinati.

- Allora, voi due, cominciamo decisamente con il piede sbagliato. Siete i fratelli Elric, giusto?

 

Un sonoro sbuffo accompagnò l’abbandono della penna sul tavolo, mentre il giovane uomo si stiracchiava lungo lo schienale della sedia.
- Sai Riza, da un certo punto di vista non trovo corretto che veniamo a conoscenza di certi dettagli riguardanti i ragazzi che ci sono qui. Chi siamo noi per farci i fatti loro?
La donna che, di fronte a lui, stava diligentemente sistemando alcuni elenchi, fece del suo meglio per trattenere un sospiro.
- Perché dobbiamo essere a conoscenza delle situazioni da cui provengono per riuscire a gestire eventuali problemi – spiegò automaticamente, senza nemmeno staccare gli occhi dal foglio.
- Ma non credo che, in fondo, siano affari nostri. Oltretutto sapere certe cose potrebbe portarci a fare delle differenze tra loro, no?
- È per l’appunto il nostro essere adulti che dovrebbe renderci capaci di gestirle.
L’uomo le lanciò uno sguardo poco convinto, per poi tirare fuori un paio di fogli da una risma piuttosto spessa.
- Guarda questi. Sono i due che sono scappati durante l’appello, Edward e Alphonse Elric. Il padre è un famoso scienziato che lavora per l’esercito, mentre la madre sta facendo una cura intensiva per il cancro. E mandano i loro figli qui, in campeggio. Ma che razza di gente è?
La donna alzò finalmente gli occhi, emettendo un sospiro esasperato.
- Roy…
- Mentre quest’altra, Winry Rockbell: i suoi genitori fanno parte di “Medici Senza Frontiere” e si trovano in Africa, a salvare chissà quanti bambini malati. Ma mandano la loro unica figlia qui, opportunamente fuori dai piedi. Capisco che vogliano proteggerla, ma…
- Roy Mustang – scandì decisa la donna, non disposta a sopportare oltre quelle chiacchiere – Mai sentito parlare di privacy? Del fatto che, essendo figure professionali, siamo tenuti a non ficcare il naso e tanto meno a fare commenti inopportuni?
- Professionali? – ripeté l’uomo, storcendo il naso – Accidenti, Riza, se non sapessi per certo che non sei sempre così, mi chiederei se non sei fatta di legno.
- Hai finito di riordinare gli elenchi? – domandò lei, imperturbabile.
- Uff, ma non sei stanca di tutte queste scartoffie?
- Finisci il tuo lavoro, io do un’occhiata ai menu di questa settimana.
- Mi raccomando, fai in modo che ci siano broccoli e cavoli bolliti a sufficienza – scherzò lui – Non sia mai che uno dei nostri sottoposti non vada in bagno puntuale come un orologio…
L’occhiata che gli lanciò la donna lo convinse che forse era ora di mettersi seriamente al lavoro. Fu solo dopo qualche minuto che Riza riprese a parlare.
- Comunque dev’essere messa davvero male, per lasciare che i figli vengano qui. Scommetto che è stata un’idea del marito.
Mustang alzò gli occhi: - Parli della madre degli Elric?
Riza annuì.
- Nessuna madre lascia andare i propri figli, specialmente in un momento simile.
- E cosa te lo fa pensare? Ci sono donne che non si farebbero scrupoli, lo sai.
- Quei due fratelli… li ho guardati bene, ieri sera a cena. Hanno l’aria dei bambini che sono sempre stati amati – ricordò lei.
- Interessante… e questo tuo lato materno che riaffiora c’è sempre stato? Già che ci siamo, si potrebbe approfittarne…
Riza gli scoccò un’occhiata di fuoco.
- Lavora – intimò secca.


 
Sia a lui che ad Al interessava molto la mitologia, quell’insieme di leggende e racconti che contenevano l’essenza stessa di tempi e popoli. Avevano sempre saputo che il ventun giugno, giorno del solstizio d’estate, era considerato quasi magico dalle popolazioni celtiche.
Il giorno in cui la luce sconfigge definitivamente il buio, lo domina e lo soggioga. Il giorno in cui comincia davvero il caldo, ma dopo il quale le giornate iniziano inevitabilmente ad accorciarsi.
L’inizio dell’estate. Ma anche la sua fine, in un certo senso.
Un giorno in cui i raggi del sole, sospesi tra astronomia e magia, potevano cambiare qualunque cosa.
La luce abbagliante del primo sole d’estate può mostrarti davvero le cose, rivelartele per ciò che sono realmente. E allora ci si chiede perché non può essere tutto solo un sogno.
Brutto o bello, incubo o no, basta che prima o poi ci si svegli.

- Non mi sembrate sorpresi – aveva detto la voce dolce di Trisha Elric, osservando in viso i propri figli. E intuendo che avevano già capito ogni cosa.
- È solo che ultimamente… - aveva iniziato il più grande dei due, col colore degli occhi simile alle foglie d’autunno - … eravate diversi. Tu e anche papà.
“Diversi” era una parola che diceva tutto e niente. Comprendeva sua madre che la mattina non riusciva nemmeno ad alzarsi dal letto, la pelle ingiallita e sciupata, i capelli che cadevano a ciocche. Comprendeva suo padre che improvvisamente aveva iniziato a stare di più a casa, a preoccuparsi per la moglie e ad accompagnare ogni tanto i figli a scuola.
Ed non ce l’aveva con la madre perché avevano aspettato tanto a metterli al corrente di ogni cosa. Sapeva che, per lei, dirlo a loro avrebbe anche significato ammetterlo a se stessa.
Ma era anche certo che il padre li avesse tenuti volutamente all’oscuro perché li reputava soltanto due bimbetti. Informare o meno due piccoletti come loro era indifferente.
Tuttavia non era stato per niente d’accordo quando avevano proposto quella “soluzione”. Stare lontani per otto settimane mentre la madre veniva sottoposta ad una terapia innovativa in una clinica d’avanguardia gli era sembrato assurdo. Tanto più perché era convinto che il padre se ne sarebbe tornato al lavoro, invece di starle vicino.
Fosse stato per lui, non l’avrebbero mandato da nessuna parte. Ma c’era anche Al. Al che aveva ragione, a dire che in fondo erano due bambini e forse sarebbero stati solo un peso, mentre la madre aveva bisogno di riposo.
Al che, alla fine, l’aveva convinto a venire in quel posto. In campeggio. A fare che, divertirsi?
Ma Al era come la mamma, se faceva una cosa la faceva per il bene di qualcun altro.
Al contrario di lui, che per quanto sperasse nel contrario, era forse il degno erede di suo padre.  
 


- Perché state sempre da soli? – fu la domanda che si sentirono rivolgere un pomeriggio, dopo che erano passati circa due giorni dal loro arrivo al campo.
- Perché ci facciamo i fatti nostri, al contrario di qualcun altro – rispose secco Ed, lanciando un’occhiata scocciata alla bambina bionda che si era avvicinata senza timore. Anche lui e Al erano biondi, ma non così. Quei capelli lunghi fino alle spalle sembravano riflettere la luce del sole.
- Io mi chiamo Winry, piacere – ribatté lei, accucciandosi davanti a loro nel prendisole estivo, per nulla turbata da quella risposta maleducata.
- Io sono Alphonse, ma puoi chiamarmi Al. Lui è mio fratello Edward.
- E non puoi chiamarmi Ed – precisò quest’ultimo.
- Dai, fratellone… - fece Al, cercando di fargli passare la modalità “orso”.
- Come “fratellone”? – chiese sorpresa Winry – Non siete gemelli?
- No, lui è più grande di me di un anno – rispose il più giovane dei due.
- Che strano, dovresti essere più alto… - commentò innocentemente lei, squadrandolo da capo a piedi – Ti nutri abbastanza? Non è che ti manca del calcio? Latte, formaggio…
- No, lui il latte non lo beve. Non gli piace – spiegò Al con semplicità.
- Ehi, voi due, ma la fate finita? Chi sei tu per venire qui a farmi queste domande?
- Oh, scusa – rispose la bambina, pensando sinceramente di essere stata un po’ inopportuna – È solo che i miei sono dei medici, ed è da quando sono piccola che sento fare sempre gli stessi discorsi. Forse mi si sono impressi in testa senza volerlo.
- Sei figlia di dottori? E allora perché sei qui? Non potevi rimanere a casa con loro? – domandò Ed, chiedendosi perché mai qualcuno dovesse mandare i figli in campeggio se non per liberarsene.
- I miei genitori sono in Africa – rispose lei – Fanno parte di “Medici Senza Frontiere” e lavorano in un campo profughi. Fino a un paio di settimane fa ero là anch’io.
- E ti hanno mandato qui in vacanza? – domandò Al, curioso, mentre anche Ed stava iniziando ad interessarsi alla storia di quella ragazzina scocciatrice.
- Temporaneamente sì. Ma tanto lo so che entro la fine del campo mi troveranno posto in qualche collegio. Non mi faranno più tornare là con loro, dopo quello che è successo – disse amaramente Winry.
- Cos’è successo? – si ritrovò a chiedere Ed, che ormai pendeva dalle sue labbra.
- Ci hanno attaccati. Un manipolo di guerriglieri, di notte, anche se non ho ancora capito il perché. Nel campo c’erano solo donne, bambini e feriti, che non costituivano una minaccia per nessuno. Comunque sono morte almeno dieci persone, e anche se io e i miei genitori non ci eravamo fatti niente, hanno deciso che rimanere là era troppo pericoloso per me.
- Beh, in fondo non hanno tutti i torti… – rifletté Al.
- Sì, lo so – ammise lei – Però a me piaceva stare là. E sono sicura che non vedrò i miei almeno fino a Natale.
Rimasero in silenzio per un po’, mentre il vociare di altri bambini che giocavano a pallone giungeva fino a loro.
Dopo qualche minuto, il più grande degli Elric disse:
- Beh, se proprio vuoi puoi chiamarmi Ed.
Il viso di Winry si illuminò, mentre esclamava:
- Davvero? Oh, grazie! D’altronde, Edward mi sembrava troppo lungo per uno così pic…
Il vociare dei sedici bambini che giocavano a pallone fu nettamente sovrastato dalle urla di un unico ragazzino di undici anni che strillava qualcosa come “nanerottolo” e “tappo”.
     


Non riesco ancora a crederci! Prima al “Contest sull’estate” indetto da Hikaru_Zani!! E poi al "Contest a Multisquadre" indetto da Rota23 e Happy_Pumpkin, dove abbiamo vinto anche come squadra per FMA.
Devo dire che tenevo molto a quest’edizione, in quanto sono nata in estate e questa è la mia stagione. Ci ho messo tanto di mio, in questa storia, e anche se so che non è il tipo di fic che va per la maggiore in questo fandom, spero che possa piacervi.
È un peccato che al contest siamo rimasti solo in cinque, alla fine, perché nell’edizione passata eravamo di più.

Comunque faccio i complimenti a tutti i partecipanti e ringrazio il giudice! Personalmente trovo che il banner sia quasi commovente...

In particolare, ringrazio Urdi, il cui account mi ha dato l’idea per questa storia!
   
 
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