Forse era
scritto
nel destino
Via
del Campo, c'è una bambina
Con
le labbra color rugiada
Gli
occhi grigi come la strada
Nascon
fiori dove cammina
(Via
del Campo, Fabrizio De Andrè)
Parte 1
Sonje sapeva
essere
furtiva quasi quanto il suo splendido papà. Certo, non
possedeva ancora la
cautela e la grazia del genitore, né tanto meno il suo passo
felpato, ma quando
voleva riusciva già a passare inosservata. Ad aiutarla
inconsapevolmente
nell’impresa ci pensava Vali, su cui, nelle ultime settimane,
si erano
concentrate quasi tutte le attenzioni della casa. Era un bimbo
adorabile, ma
quando stringeva i pugnetti e iniziava a piangere disperato –
o, per essere più
precisi, a strillare come un’aquila venuta giù da
Helheim per fracassarci i
timpani, come sibilava Loki tra i denti, la casa tremava. E lei,
trotterellando
col suo fedele gatto di pezza tra le braccia[1],
ne approfittava per riflettere su tutto quello che gli adulti non le
dicevano e
per scivolare, non vista, lungo i corridoi arredati con gusto dello
splendido palazzo
circondato dai giardini che Loki aveva scelto per vivere con Sigyn.
Sonje avrebbe
scoperto solamente da adulta certi dettagli circa il modo in cui i suoi
genitori si erano sposati e ci sarebbero voluti ancora molti anni,
affinché
capisse che alcune scelte architettoniche richieste esplicitamente dal
dio
dell’inganno avevano il preciso scopo di ricreare il gusto
sobrio e barbaro e
splendido della magnifica Asgard.
Quel pomeriggio,
la
bambina scelse come meta della sua missione un luogo che generalmente
non le
era affatto precluso, anzi: era uno dei posti che preferiva di tutto il
palazzo,
dove si infilava appena poteva, ma che manteneva un suo fascino
particolare,
perché, pur essendole familiare, era pieno di dettagli e di
oggetti che non
capiva o, al contrario, che desiderava toccare: la camera da letto dei
suoi
genitori. C’era quel profumo, innanzi
tutto. Quello di sua madre Sigyn,
della sua pelle, che proveniva dalle boccette di cristallo ordinate con
cura
davanti alla allo specchio della toletta. E poi c’erano le
coperte morbide, le
pellicce candide dal pelo soffice disposte alla fine
dell’elegante baldacchino.
Sonje avanzò nella stanza calpestando il tappeto intrecciato
a mano dagli Elfi
chiari con le loro dita pazienti, mostrando a Gatto Tooh, che con i
suoi occhi
a bottone e il suo sorriso indecifrabile pareva registrare ogni cosa,
la
bellezza delle tappezzerie scelte da Sigyn, sfiorando con le sue manine
di
bambina gli intarsi raffinati dei mobili che abbellivano le ampie
pareti.
C’erano anche gli effetti personali del dio
dell’inganno, ovviamente. Non i più
pericolosi e gli artefatti magici, ovviamente – quelli
l’Ase li teneva
sottochiave, nel suo studio privato, ma alcuni mantelli pregiati, le
numerose
tuniche verdi ricamate con un bordo dorato, le corazze di pelle nera
intrecciata, gli stivali di cuoio alto, le bandoliere
all’apparenza vuote, ma
dove, se avesse frugato, avrebbe senz’altro trovato qualcosa.
Il dio
dell’inganno e la
principessa sua moglie erano al piano inferiore, nel salone che usavano
per
ricevere gli ospiti. Sapevano Sonje in compagnia della bambinaia ed
erano
impegnati a ricevere certi ambasciatori elfici venuti a vedere il
figlio
maschio di Loki Odinson. Un frugoletto piangente che sembrava
assomigliare ora
alla madre ora al padre, col merito manifesto di aver tolto un
po’ del
fascinoso contegno all’ingannatore. Le notti in bianco
avevano reso sia lui che
Sigyn più stanchi e scarmigliati del solito, anche
perché la coppia non si era
ancora decisa ad affidare Vali a una balia. E mentre rispondevano alle
cortesi
domande degli illustri ed eleganti ospiti, non potevano sospettare che
la loro
adorabile e pestifera primogenita fosse intenta a sfoggiare, del tutto
inconsapevolmente, l’indole piratesca degli Æsir.
C’era qualcosa di più
attraente delle giubbe di suo padre, nella camera da letto dei suoi
genitori. I
cofanetti in cui Sigyn teneva i propri gioielli. Qualche volta Sonje
aveva
avuto modo di sbirciare al loro interno. Quando la sua bella mamma dai
capelli
d’oro doveva prepararsi per andare a qualche festa o per
accogliere il suo papà
che tornava da qualche avventura, si sedeva di fronte allo specchio
della
toletta e si provava a una a una le sue gioie splendenti, molte delle
quali le
erano state regalate da Loki in persona. Sonje adorava osservarla
mentre si
vestiva e ingioiellava: desiderava essere già grande per
potersi abbellire con
gli stessi monili, con gli abiti dalle stoffe soffici e preziose.
Qualche
volta, ridendo, Sigyn, che era ancora poco più di una
ragazzina, le infilava
qualche collana delicata o le spolverava un po’ di cipria sul
naso, ma le aveva
vietato severamente di aprire i cofanetti da sola o di frugare. Ma in
quel
momento Sigyn non c’era e Sonje si ritrovò a
ringraziare quel piccolo diversivo
che era Vali, perché le avrebbe permesso di aprire i
portagioie indisturbata.
Non sapeva
ancora se il
fratellino le piacesse o meno. Da quando era nato l’avevano
riempita di regali,
coccole e attenzioni, ma Vali piangeva troppo e troppo spesso e la sua
dolce
mamma era sempre stanca. Si chiedeva come avesse fatto a uscire dalla
sua
pancia rotonda e che intendesse lo zio Thor, quando diceva che il suo
papà
aveva l’aria stravolta. Fece spallucce e si avvolse nella
vestaglia di
finissima seta di Sigyn. Poi posò il suo fedele alleato di
pezza con gli occhi
fatti a bottone sulla toletta e aprì il cofanetto
più grande e lontano,
rivelando le meraviglie dell’oreficeria che Sigyn vi
custodiva dentro. Per
prima tirò fuori una splendida collana di perle impreziosita
con opali e
smeraldi; poi fu il turno di un diadema tempestato di diamanti e
zaffiri blu,
bianchi e gialli. Infine esaminò i bracciali in cui si
alternavano ametiste,
smeraldi e diamanti scintillanti e degli anelli le cui fogge
ricordavano spesso
gli intrecci dei rami carichi di fiori e di frutti. Sigyn era una donna
minuta
e sottile, non particolarmente alta. I preziosi che preferiva indossare
erano
piccoli capolavori d’oreficeria, leggeri ed eleganti. E Loki,
che, come tutti
gli Æsir, adorava le gemme e aveva un gusto spiccato per i
gioielli, provava
una profonda soddisfazione nel regalarle le pietre più pure
e belle e nel farle
dono di preziosi che commissionava e disegnava lui stesso, quando non
li
forgiava di persona[2].
Sonje s’infilò tre
collane una sull’altra e storse la bocca in una smorfia
pericolosamente
somigliante a quella del genitore, quando si rese conto che gli anelli
stupendi
di Sigyn erano ancora troppo grandi per essere indossati.
Però quella cascata
di oro, perle e gemme luccicanti che faceva risaltare i suoi riccioli
neri la
riempì di orgoglio. Desiderosa di trovare altre meraviglie
da indossare tirò
fuori spille, orecchini, diademi e decine di altri monili, ignara del
caos che
stava gettando nel cofanetto. Dopo che l’ebbe completamente
svuotato, si dedicò
con perizia a uno più piccolo, di semplice legno intarsiato,
dove Sigyn teneva
i gioielli che indossava abitualmente. Era quasi vuoto e Sonje
s’imbronciò, ma
poi la sua attenzione fu catturata da un piccolo cassettino in fondo
allo
scrigno. Lo aprì e inarcò un sopracciglio,
imitando, di nuovo, l’affascinante
dio dell’inganno. C’era una penna per scrivere,
dentro. Nient’altro. La prese
in mano, soppesandola. Era bella. Diversa da tutto il resto –
strana – decise,
aggrottando le sopracciglia. La piuma era nera, abbellita con delle
pietre
scure alla base. Come se non bastasse, c’erano delle rune
incise sopra. Si
trovava di fronte a un oggetto fatto a mano dai giganti di ghiaccio,
con una
sua ricca storia, ma non lo sapeva né era in grado di
riconoscerla.
L’intrinseca diversità di quell’oggetto
era l’unica cosa che risultasse chiara
ai suoi occhi di bambina. Se fosse stata più grande, avrebbe
ravvisato che in
quella penna preziosa e un po’ pesante dal deciso gusto
barbaro non sembrava
una cosa scelta da sua madre, ma mentre era ancora intenta a valutarla,
la voce
di Sigyn la riportò alla realtà.
“Sonje!
Che cosa stai
facendo?!” Sobbalzando, la bimba fece cadere a terra la
penna.
♥
“La
conservi ancora.” Non
era una domanda, ma una constatazione. Sigyn sollevò le
ciglia scure sul
riflesso dello specchio, da dove l’immagine di Loki Odinson
sfoggiava un
sorriso tronfio. Era ancora vestito di tutto punto dopo aver fatto
finta di
sgridare la loro primogenita e trovato un modo efficace per far
addormentare
Vali.
Sigyn
inarcò la schiena
coperta appena da una vestaglia di seta leggera. La ricca chioma dorata
era a
malapena fermata da un nastro di raso chiaro e tra le dita teneva le
perle che
Sonje aveva indossato e intrecciato tra loro. Ma ciò a cui
si riferiva il dio
dell’inganno non erano i gioielli di squisita fattura o le
gemme non ancora
incastonate che splendevano davanti a lei, no. Era la penna finemente
intarsiata dalla lunga piuma nera.
“Scrive
molto bene.”
“Credo
sia la stessa
scusa di allora.” Prima che lei potesse rispondere, si
avvicinò alle sue spalle
e si sporse appena. Due grosse gemme color dell’acqua
sfioravano dei quarzi
violacei, creando un contrasto interessante. Nel caos, a volte, era
possibile
rintracciare disegni perfetti, trovare la bellezza.
“Disegnerò qualcosa per
queste pietre,” aggiunse, soffiandole sul collo esposto e
reattivo, come se
l’argomento appena evocato potesse svanire, essere riposto
nel cofanetto dove
Sigyn l’aveva nascosto con cura. La principessa Vanir
annuì. Loki investiva in
gioielli, oro e terre per accrescere il proprio potere: per disporre di
qualcosa da rivendere all’occorrenza, per creare
proprietà terriere allodiali. Molto
prima di sposarla – al tempo in cui seguiva suo nonno Njord
con quella medesima
penna scura tra le dita per appuntarsi le disposizioni del vecchio
sovrano e
non dimenticare nulla, possedeva già mezza Vanheim per
averla acquistata dai
membri della vecchia nobiltà caduti in disgrazia, dai
mercanti poco accorti, da
chiunque non riuscisse a resistere al fascino delle sue trattative.
Sonje e
Vali, nonostante la giovanissima età, possedevano
già molte di quelle terre e
forzieri zeppi d’oro. I piani del dio dell’inganno
variavano di minuto in
minuto, ma certe mosse prevedevano una pianificazione lunga e
oculatissima.
“Dormono
tutti e due,” le
sibilò all’orecchio, facendo scorrere le dita
sulla seta che le copriva le
spalle. La vestaglia scivolò rivelando la pelle nuda e Sigyn
fremette – fremeva
sempre, quando Loki le si avvicinava, fin da allora.
Solo, non lo voleva
ammettere.
Socchiuse gli
occhi,
mentre le labbra ironiche del dio dell’inganno le sfioravano
la pelle sensibile
e reattiva del collo e le mani scendevano lungo la camicia da notte di
seta,
accarezzando i seni rotondi, ghermendoli e sfiorandone le punte
reattive sotto
la stoffa. La voleva. Sigyn strinse le gambe,
sciogliendosi a quel tocco,
volgendosi verso di lui per sfiorargli la bocca con un bacio leggero e
insolente,
carico di promesse come lo sguardo velato di desiderio che gli
lanciò – era
impaziente come lui. E avevano poco tempo a disposizione, come nei
primi tempi
della loro burrascosa relazione, quando si davano appuntamenti segreti
e litigavano
in pubblico per non essere scoperti. La penna dalla lunga piuma nera
c’era già,
allora – c’era da molto prima, da quando, per lei,
Loki era solo un fremito
basso e indefinito, che nascondeva accuratamente, senza nemmeno
rendersene
conto, sotto uno strato di fredda indifferenza. Ma poi
quell’involucro si era
crepato – il dio dell’inganno girò la
sedia della toletta per averla davanti a sé
e s’inginocchiò sul morbido tappeto tessuto a mano
dagli Elfi, scostandole le ginocchia
già frementi, affondando la testa tra le sue gambe,
sorprendendola con le sue
carezze sfacciate e improvvise, a cui era impossibile resistere. Non
attesero di
raggiungere il grande letto, ma consumarono l’amore
lì, ai piedi della toletta,
con la furia e l’urgenza degli amanti, soffocando i sospiri
che avrebbero
potuto tradirli – come allora.
Dopo, raggiunto
il
baldacchino, l’Ase ne approfittò per far scorrere
la morbida piuma nera sulle
curve sinuose di Sigyn, accarezzandola dalla base del collo al seno,
scendendo fino
ai fianchi rotondi e alle gambe scoperte e strappandole un ansito
divertito.
“Smetti
di usare la mia
penna. Me l’hai regalata.”
“No, tu
l’hai
sottratta con l’inganno e io te
l’ho ceduta in uno slancio di
generosità,”
puntualizzò lui. “Non ricordi?”
Era una
ragazzina
sgraziata, allora. Insicura, impacciata, preoccupata del poco seno
stretto dal corsetto,
dei capelli folti e crespi, degli abiti inadatti che Freya si ostinava
a farle
indossare per farla sembrare ancora una bambina quando lei
già si sentiva una
ragazza. Non era vero e, col senno di poi, Sigyn sapeva che la sua
scaltra zia aveva
tentato di proteggerla dalle rigide regole di Vanheim il più
a lungo possibile
– le donne della sua terra non erano libere come quelle di
Asgard.
Loki aveva
chiesto asilo
a Njord offrendo in cambio i suoi servigi e infilandosi nel letto di
Freya già
da alcuni anni ed era in guerra con Odino e Thor: avrebbe trionfato,
costringendoli a patteggiare e a firmare un trattato di pace in cui si
sarebbe
manifestata la prima avvisaglia della malattia degenerativa che avrebbe
condotto Padre Tutto alla morte[3].
L’ingannatore lavorava con un’energia e una
determinazione ammirevoli,
contentandosi solamente di trascorrere qualche sera in totale
solitudine, con
un calice di buon vino e un bagno caldo e rigeneratore. Sembrava che
ogni cosa
dovesse passare o riguardasse lui, che sommava incarichi su incarichi.
Attirava
su di sé l’invidia e l’odio della
vecchia aristocrazia sclerotizzata, delle
famiglie nobili più giovani e scalpitanti, ma
finché otteneva dei risultati
nessuno poteva lamentarsi di lui presso il re dei Vanir. E, chi lo
faceva,
temeva le sue vendette spietate e repentine.
Sigyn sentiva
continuamente storie e racconti terribili su quel giovane uomo dal
sorriso
indecifrabile che spesso incrociava in biblioteca. Quand’era
più piccola, Loki
l’aveva deliberatamente spaventata più di una
volta, mutando aspetto
all’improvviso per il solo gusto di leggere il terrore nei
suoi occhi[4],
ma per il resto non la riteneva interessante e, apparentemente, si
accorgeva a
stento di lei. Non era del tutto vero, di questo Sigyn avrebbe avuto
contezza
solo una manciata di anni dopo. In quanto nipote del re dei Vanir era
un membro
della famiglia importante da tenere d’occhio con discrezione,
esattamente come
tutti gli altri.
Sigyn era
mattiniera,
soprattutto in estate. Un giorno commise l’imperdonabile
errore di scendere in
biblioteca in camicia da notte e vestaglia, prima che le sue cameriere
personali le avessero acconciato i capelli. L’alba aveva
appena tinto di rosa
il cielo, la servitù assonnata non aveva ancora iniziato le
proprie faccende. Era
assolutamente certa che non avrebbe incontrato nessuno. La porta non
cigolò
quando l’aprì e le sue scarpine di mussola
attutirono il rumore dei suoi passi.
Gli scaffali colmi di libri le nascosero l’angolo dove erano
posizionate le
scrivanie finché non si trovò davanti quella
meglio disposta, occupata da una
pila di libri, scartoffie, pergamene e mappe srotolate bloccate da dei
pesanti
fermi in ferro.
Loki Odinson
alzò gli
occhi verdissimi, cerchiati di scuro e arrossati per via del lungo
studio, su
di lei. In mano stringeva la lunga penna dalla piuma nera. Sul viso
affilato e
stanco comparve una smorfia di dispetto e un momentaneo stupore. Non
l’aveva
riconosciuta immediatamente, con quella massa dorata che le ricadeva
sulle
spalle. Lo aveva interrotto mentre lavorava – e lavorava da
tutta la notte,
senza dubbio. Sentì il suo sguardo affilato che la scrutava
da capo a piedi e
poi, a fatica, si distoglieva da lei per tornare sulle righe scritte
fittamente.
Aveva trascorso
la notte
in bianco. Gli impegni della giornata, numerosi e complicati, che
dipendevano
unicamente da lui, sebbene fosse Njord a sfoggiare la corona e a sedere
sul
trono, si affastellavano nella sua mente insieme alla presenza
fastidiosa di
quella ragazzina. Dell’unica erede di Vanheim. Un pensiero
maligno gli
attraversò la mente svelta, uno che aveva già
fatto, ma che ora, vedendola nella
luce soffusa dell’alba, si fece concreto. Solo che Njord non
gliel’avrebbe mai
lasciato fare ed era una bassezza.
“Pensavo
non ci fosse nessuno,”
boccheggiò lei, a disagio. Poteva intuire quanto fosse tesa,
sentire il suo
respiro corto. Se qualcuno fosse entrato in quel momento, cosa avrebbe
pensato,
supposto, raccontato? Si mosse a disagio sulla sedia, immaginando tutti
i
risvolti che il suo spirito carico di malizia poteva contemplare e che
Sigyn,
educata come tutte le Vanir, non avrebbe colto[5].
“Una
valutazione errata,
principessina. Dove sono le vostre dame, le cameriere?”
“Non
lo so, dormono
ancora, credo,” rispose Sigyn, cauta. Si mosse verso di lui,
in direzione di
uno scaffale. Prese un paio di libri, li strinse contro il seno piccolo
e
morbido. Presto avrebbe avuto dei pretendenti, valutò Loki.
Nel giro di un paio
d’anni al massimo, quella ragazzina guardinga si sarebbe
fidanzata. “Perché vi
importa? E perché vi infastidisce che io sia nella mia
biblioteca, Lingua
d’Argento?” Lo disse fremendo, sputando
quell’appellativo come fosse un
insulto. Come aveva visto e sentito fare da tutti, i suoi zii compresi.
Loki
s’inumidì le labbra,
posò la penna. Sigyn era pericolosa. Se una cameriera
distratta fosse entrata
nella biblioteca e li avesse trovati insieme, cosa sarebbe successo?
Uno
stupido incontro casuale avrebbe potuto trasformarsi in una
chiacchiera, in un
pettegolezzo difficile da arginare, che avrebbe potuto mettere a
repentaglio il
lavoro di anni nel momento più delicato di tutti. Quello del
trattato con
Asgard che ridefiniva accordi commerciali, ristabiliva confini, segnava
una
nuova epoca. Lo aveva visto accadere altre volte – aveva
fatto in modo che
alcuni suoi nemici venissero travolti da scandali simili. La voce
iniziava con
loro due nella biblioteca e, passando di bocca in bocca, certi dettagli
innocenti si ingigantivano. Lei in tenuta da notte, all’alba,
con lui. A quante
inquietanti distorsioni si prestava una scena simile? Come ne avrebbero
approfittato i suoi molti nemici?
“Non
è adeguato farvi
trovare in tale abbigliamento.”
L’unica
erede di Vanheim
sgranò gli occhi. Non possedeva la malizia di Loki e non
aveva pensato a quanto
il loro incontro casuale potesse essere fraintendibile. E poi, Sigyn
era
assolutamente certa di non essere bella.
L’Ase
raccolse i suoi
appunti in fretta, chiuse con un paio di gesti secchi i volumi ancora
aperti,
arrotolò le pergamene, pronto ad andarsene. Se la nipotina
di Freya non lo capiva
da sola, non sarebbe stato lui a spiegarle di dover tenere di
più a sé stessa e
al proprio ruolo di nipote del re. E poi, non desiderava suggerirle
–
instillare – nella sua mente, che sapeva già
fervida, l’immagine che lui fosse
un possibile pretendente. Sarebbe bastata una chiacchiera fatta
scioccamente
con una dama di compagnia, una parola fuori posto sfuggita con Freya e
lui si
sarebbe ritrovato con un’accusa per alto tradimento e una
scure tra capo e
collo. Forse non si accorse di aver lasciato lì la penna che
soleva utilizzare
per scrivere. Sigyn, però, vedendola abbandonata sul tavolo,
la prese e se la
rigirò tra le dita, incuriosita, valutandone il peso,
sfiorando la morbida
piuma scura, osservando da vicino, finalmente, gli intarsi, scoprendone
la
delicata lavorazione, le pietre incastonate – agata verde,
spinello, zaffiri
gialli. La penna di un principe dal gusto sofisticato e aristocratico.
La penna
con cui il consigliere di suo nonno, il terribile mago che aveva
gettato nel
caos tutti i Nove Regni, utilizzava per scrivere le sue lettere, per
correggere
le bozze delle leggi che sarebbero state approvate da Vanheim, per
tessere
intrighi. Doveva essere intrisa di seiðr. Fu colta alla
sprovvista da un rumore
improvviso: ripensando alle parole del dio dell’inganno, si
chiese cosa sarebbe
successo se qualcuno, entrando, l’avesse vista in camicia da
notte con qualcosa
che apparteneva a Loki tra le dita. Così, senza pensare, la
nascose nella
vestaglia, rapida.
L’aveva
rubata. A conti i
fatti il suo gesto poteva leggersi unicamente così. Loki
sarebbe potuto tornare
indietro e cercare l’elegante penna e non l’avrebbe
trovata più. Una volta
tornata in camera, non poté fare altro che sfilarla dalla
tasca e chiuderla in
un cassetto della sua toletta, come se scottasse. Perché lo
aveva fatto? Per
paura, per curiosità, per necessità. Non lo
sapeva con precisione, ma nei
giorni seguenti, mentre era sovrappensiero, le tornò in
mente l’immagine di lui
seduto alla scrivania, con i capelli tirati all’indietro
scarmigliati e gli
occhi stanchi, che la metteva a fuoco con malcelata sorpresa. Lo
rivedeva
mentre tracciava appunti su appunti con mano rapida e sicura,
completamente
padrone di sé e delle circostanze. Le sue dame di compagnia
e le cameriere
bisbigliavano tra loro che era bello, suo zio Freyr malediceva il suo
nome ogni
giorno, ma si infuriava se non riusciva a parlare con lui
perché impegnato
altrove. E suo nonno, quando discorreva fittamente con lui, aveva dato
ordine
che non fosse assolutamente disturbato, mai.
Avrebbe dovuto
restituirgliela. In fondo, era come se l’avesse presa per
sbaglio, per
cancellare ogni traccia di un incontro che lui, Loki, aveva giudicato
inopportuno. Lo era? Si chiese se e quanto fosse trasparente la camicia
da
notte che indossava sotto la vestaglia, se lui avesse indovinato le sue
forme
ancora acerbe. Come la vedeva l’ingannatore, come la
percepivano le guardie, i
notabili, la servitù? Cos’era, lei? Chi?
Domande che si faceva già da diverso
tempo, a cui non riusciva a trovare una risposta. Comprese che i suoi
gesti non
erano più neutrali, ma avevano un peso, una conseguenza.
Poteva scegliere chi
essere e come farlo – Loki, in lei, aveva scorto, se non la
ragazza, la donna
che si apprestava a divenire. Soffocò le domande a cui non
riusciva a dare una
risposta esaustiva nella lettura, nello studio che, da sempre,
considerava un rifugio.
Il dio
dell’inganno non
fu l’unico ad accorgersi che Sigyn stava diventando una
ragazza: mentre la
penna dalla bella piuma nera giaceva nascosta dentro un cassetto,
occultata ma
non dimenticata, la giovane principessa ottenne il permesso di
intrecciare meno
fittamente i capelli, di indossare abiti di foggia e colore
più adatti alla sua
età. Fu in quelle settimane che Freya decise di farla
partecipare al suo primo
ballo. Non fu un trionfo, nient’affatto: si
appartò in un angolo senza sapere
cosa fare finché il re suo nonno, indispettito, non
ordinò a Loki di farla
danzare. Sigyn pensò che fosse una scelta infausta,
soprattutto perché a
nessuno era sfuggita la mancanza di spontaneità nascosta in
quell’invito[6].
Decise di dirgli che aveva raccolto lei la penna e che
gliel’avrebbe ridata, ma
il ballo fu breve, non colse il momento e cercarlo dopo sarebbe stato
strano. Attorno
alla sua persona si affastellavano continuamente questuanti in cerca di
delucidazioni, risposte, promesse, favori. Di lui non bisognava
fidarsi:
manipolava, irretiva, confondeva e usava chiunque gli capitava a tiro.
Si
muoveva con grazia e la sua guida era sicura e decisa –
ripensò alle dita agili
che impugnavano la penna, che sfioravano la stoffa del suo abito,
immaginò la
sua calligrafia appuntita e precisa, come il suo ghigno. Le girava la
testa.
Quella sera,
dopo aver
ballato con il dio dell’inganno, Sigyn si sedette di fronte
alla toletta e
prese, per la prima volta, la bella penna elegante. La usò
per rispondere al
messaggio di un’amica. L’impugnatura era
perfettamente bilanciata, il tratto
preciso e fluido. Alla prima occasione, decise, gliel’avrebbe
restituita –
forse, si convinse, l’aveva presa unicamente
perché era bella e temeva che qualcun
altro la sottraesse.
L’angolo
di Shilyss
Care Lettrici e
cari Lettori del mio
cuore ♥ ♥!
Avevo detto che
avrei ripreso in mano
anche i vecchi lavori ed eccomi qui, infatti, con questa storia in 2
capitoli
(il secondo è praticamente solo da ultimare e penso che lo
metterò a
strettissimo giro) con protagonisti Loki e Sigyn nella
versione di Tutte
le mie bugie, la mia prima long (la trovate a
pagina 3 del profilo).
Non è
necessario averla letta, ma tenete
presente che la Sigyn
che vedete per buona parte del racconto è molto giovane,
alle prese con i
primi turbamenti instillati da un giovane uomo affascinante come Loki,
ma anche
con quella fragilità propria di chi si trova in quella fase
in cui si è adulti
per certe cose e per certe cose no. Poi crescerà,
perché si andrà a raccordare
con quella di Tutte le bugie, ma ‘sto capitolo stava
diventando troppo lungo (poi
mi dite che non mi regolo).
Rispetto ad
altre storie (Accordo,
Scintille) tenete presente che il divario
d’età è maggiore, sebbene nei limiti
della legalità.
Ringrazio con
tutto il cuore chi listerà,
recensirà o semplicemente leggerà questa storia: a parte gli
scherzi (lokini) siete
importanti e sappiate che leggo tutti i vostri commenti e non vi
mangio. Spesso
non rispondo pubblicamente, ma se vi palesate lo faccio e sono molto
alla mano,
ecco. Per gli aggiornamenti, come dicevo entro la settimana
arriverà la
conclusione di questa storia e poi Ciò che resta
delle tenebre.
Ricordo che il
personaggio di Sigyn,
tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su
Wikipedia, è una mia personale
interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Loki e Sigyn nel mito
hanno dei
figli insieme, Vali e Narvi. Vali me lo sono tenuto, Narvi
l’ho sostituito con
Sonje, personaggio di mia invenzione. Nel mito Sigyn non eredita
proprio
niente, quindi anche qui è una mia idea. Non vi
autorizzo a ispirarvi o
peggio a questa versione o alle altre storie da me postate
né qui né altrove
(peggio mi sento con le fiabe) e lo stesso vale per gli headcanon su
Vanheim,
su Loki o su Asgard stessa. Lo stesso vale per il ruolo di Loki presso
Njord,
per le cariche che Loki ricopre in questa Vanheim. Creare un mondo con
usi e
costumi non è uno scherzo.
Comprendetemi
per queste precisazioni,
ma scrivo su questo fandom dal 2017 e ne ho viste di tutti i colori.
A presto e
grazie per tutto
l’affetto/sostegno/cose, vi si lovva (e spero voi lovviate
me).
Vostra,
Shilyss
[1]
Loki e Sigyn nel mito
hanno due maschi. Sonje è pertanto una mia invenzione.
L’animale di pezza è il
“celebre”
Gatto di zio Thor, che la bimba contrae in Gatto Tooh.
[2]
Loki fabbro, come in “Di
fuoco e di desiderio,” una mia vecchia shot <3.
[3]
Come nel primo capitolo di
questa raccolta.
[4]
Scena raccontata nella
serie Tutte le tue bugie.
[5]
È un mio headcanon che l’educazione
e la cultura di Vanheim siano di stampo più oppressivo e
conservatore nei
confronti delle donne e non solo, rispetto alla più libera
Asgard. Sigyn,
coerentemente con il mondo in cui vive, è stata educata in
un modo più rigido e
bacchettone. Questo headcanon lo trovate anche in “Solo un
accordo.”
[6]
Questa scena è presente
nella mia long (che presto riprenderò in mano) Giochi
pericolosi.