Un diavolo in paradiso (interludio)
Carpenter Brut, Souls Wreck
Erba soffice, fresca, carezzevole. Una goduria.
Fu con questa sensazione che rinacque dalle ceneri dell’infinita brutta morte numero…
chi lo sapeva, aveva perso il conto, che mai si stancava di spezzargli il
corpo. Era talmente disabituato alle cose belle da trovare quel contatto quasi
fastidioso. Si tolse i capelli scomposti dalla fronte e si mise seduto. Attorno
a lui il prato, di un verde così vivido da accecare e imperlato di goccioline
di rugiada, si perdeva a vista d’occhio lungo un paesaggio straniante che
sembrava non avere niente di terreno. Di anima viva, o perlomeno umana, non
v’era traccia, ma a fargli compagnia c’erano dei pavoni che, placidamente e
senza mostrare timore alcuno per la presenza dello sconosciuto, zampettavano
senza meta apparente e becchettavano di tanto in tanto le gocce sulle
foglioline.
La linea dell’orizzonte, appena sfumata, univa la terra a un cielo tiepido e
benevolo reso tale da una imitazione pallida e innocua del sole, una specie di
motore immobile che vigilava su una dimensione altrettanto immobile e
immutabile. Si alzò in piedi senza problemi, coi segni della sua ultima
dipartita svaniti nel nulla assieme al dolore delle carni martoriate, che
chissà per quanto tempo ancora avrebbero mantenuto la loro integrità. Non aveva
idea alcuna del luogo in cui si trovava, ma di una cosa era certo: non provava
quella sensazione di benessere da così tanto tempo da desiderare di restare lì
per sempre, da solo, assieme alla rugiada e ai pavoni che arruffavano le ali
sotto quella stella gentile e caritatevole.
Aguzzando la vista verso la propria sinistra scorse il profilo del muro alto,
scuro e all’apparenza invalicabile di una costruzione dalle dimensioni
considerevoli. Con la lentezza che la metafisica del luogo imponeva, percorse a
passi lenti la distanza che lo separava dalla costruzione, con la stella
pallida e i pavoni che non lo abbandonavano mai, come se in qualche modo gli
stessero comunicando che con la sua presenza stava partecipando abusivamente a
una qualche sorta di meditazione sempiterna teoricamente a lui non concessa in
quanto creatura dall’anima empia.
Si avvicinò sempre di più, meditatamente e progressivamente, e quello che prima
aveva scambiato per la porzione di un bastione si rivelò essere una parete di
viti intrecciate tra loro in modo talmente fitto da rendere impossibile la
visione di qualsiasi cosa si celasse dall’altra parte, un mescolarsi di verde,
marrone e viola quasi voluttuoso.
Allungò entrambe le braccia per toccare i pampini e i grappoli turgidi e
invitanti che attendevano solo di essere raccolti; non appena i polpastrelli
vennero in contatto con i frutti un brivido improvviso di gelo gli tolse il
fiato per un istante tanto eterno quanto spiacevole. In lui si fece strada
l’idea di non essere da solo, e la compagnia degli uccelli stavolta non
c’entrava niente. Non sapeva il perché, non sapeva come, ma aveva avvertito la
presenza di qualcuno al di là della parete. Accostò quindi l’orecchio e
trattenne il respiro, non era scontato che la persona – o le persone – protette
dalle viti non si fossero accorte a loro volta di lui.
L’udito percepì una risata sommessa ma cristallina, una risata che gli bastò
per far evaporare velocemente le belle sensazioni che aveva immeritatamente
provato fino a quel momento.
«Visto? Te l’ho detto che ci siamo persi, ma tu continui a voler cercare di
uscire»
«Allora fammi capire, ti piace l’idea di restare qui dentro per l’eternità?»
«Mi piace l’idea di sentirti dire la verità su quello che provi per me».
Un attimo di silenzio. Poi la prima voce, quella che aveva riso, riprese a
parlare:
«Dai, stendiamoci un attimo a riposare, non eri tu quello che mi aveva detto di
sentirsi a suo agio solo quando è al mio fianco? E allora dimmi come dovrei
interpretare quelle parole».
Come se i rami si fossero trasformati in serpenti velenosi, allontanò la testa
di scatto e fece alcuni passi indietro colto da una sensazione traboccante sorpresa,
disgusto e rabbia. Si ravvivò la zazzera e sputò per terra in segno di
disprezzo verso il destino beffardo che aveva deciso di fargli incontrare di
nuovo quei due bastardi che se la ridevano invece di marcire dentro un cappotto
di legno. Se davvero le cose stavano in quel modo, era giusto che a morire più
di una volta non fosse solo lui.
Avvicinò ancora le mani alle foglie e all’uva matura, stavolta per strapparle
via e vendicarsi dell’onta subita, ma dalla parete sgusciò fuori un ramo che lo
schiaffeggiò, accecandolo momentaneamente.
Com’era possibile?
Si portò una mano sulla parte offesa del viso e quando riaprì gli occhi si
ritrovò a mettere a fuoco un boston terrier bianco e nero che gli ringhiava
contro. Anche se la bocca era impegnata a tenere qualcosa, forse la visiera di
un cappellino, il ringhio si faceva sempre più sordo e insistente e le pieghe
del muso arricciato gli conferivano un’aura minacciosa.
«Pensa agli affari tuoi se non vuoi che ti dia un calcio», gli disse con tono
di sufficienza «altrimenti ti ammazzo per primo».
Non l’avesse mai detto.
«Screanzato!».
Si voltò di scatto verso la zona dalla quale era risorto. Una terza voce
squillante irruppe la quiete del paesaggio brumoso, facendo drizzare le teste
di alcuni pavoni. Un damerino vestito di bianco e con un bizzarro cappello a
cilindro in testa avanzava a grandi falcate proprio in sua direzione, gli occhi
fissi su di lui e un’espressione arcigna a contrargli il volto.
«Come ti permetti di insudiciare con la tua aura malvagia questo luogo sacro?
Non sai che solo alle anime giuste è concesso calpestare la terra che
immeritatamente stai insozzando con la tua presenza? Vattene, demonio! Vattene
all’inferno e bruciavi per sempre!».
Non ebbe il tempo di rendersene conto: quattro rami si allungarono
attorcigliandosi lesti per i polsi e le caviglie. Il cane, nel frattempo, non
aveva mai smesso di rivolgergli quel ringhio ostile. Stava diventando
insopportabile.
«Che cosa volete da me?» urlò di rimando l’intruso «Possa anche andarmene
all’inferno se volete, ma non mi priverete della mia sete di vendetta!
Lasciatemi portare con me i traditori che stanno al di là di quelle piante e dimenticherò
il nostro incontro!»
«Non ti sarà permesso insultare la quiete eterna di coloro che hai fatto
soffrire!» rispose il damerino «Nonostante avverta una sorta di legame
misterioso che ci unisce mi repelle anche solo parlare un altro minuto con te!»
«Aspetta un attimo, non- !».
Le ultime parole gli morirono in un conato di sangue. Un quinto ramo si
frappose tra lui e lo spazio immobile perforandogli fatalmente lo sterno.
Il cane aveva smesso di ringhiare; barcollò, poi cadde malamente impattando di
schiena contro la parete di pampini.
«Non farai più del male a nessuno. Ora va’, possa tu patire il tormento eterno
così come chi entra nel giardino di Mitra è baciato dalla grazia».
Furono le ultime parole che sentì pronunciare prima che la coscienza lo
abbandonasse ancora, e ancora, e ancora, e quando sarebbe ritornata più
spezzata di prima sapeva che non bastavano altre mille morti affinché si
purgasse. Perché il riposo eterno non era affare di coloro che mai avevano
provato rimorso per le azioni violente.
E anche se non lo avrebbe mai ammesso a sé stesso, era giusto così.
***
Musica in Jojo: Souls Wreck fa parte di Blood Machine, la colonna sonora che Carpenter Brut ha rilasciato nel 2020 per il film omonimo diretto da Seth Ickerman. Ad oggi non è possibile guardarlo per vie legali (il trailer potete comunque guardarlo qui), ma è possibile ascoltare la colonna sonora consultando la pagina artista di Carpenter Brut su Youtube e Spotify.
Retroscena: Crediateci o meno, questo breve racconto è in assoluto la prima cosa che abbia mai scritto di Jojo. Venutami in mente subito dopo la visione di Vento Aureo e scritta dopo la lettura di Phantom Blood, resta una delle one-shot più strane che mi accingo a pubblicare dalla mia iscrizione a EFP. Ergo, se una volta ultimata la lettura vi sentite confusi/e, sappiate che è del tutto normale. Altro fatto curioso che ha a che fare con tutta la raccolta e che si collega alla scelta della playlist presentata: sono una patita di musica elettronica, per cui quasi tutti i racconti sono stati scritti mentre ascoltavo synthpop e retrowave a palla.
Alla prossima settimana e grazie per essere giunti/e fin qui!xoxo