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Autore: Robin Nightingale    19/07/2021    0 recensioni
"Quando ero cavaliere ho sempre desiderato essere normale, ma ora che lo sono mi sembra di vivere in una sorta di limbo, in bilico tra passato e presente, incapace di lasciare andare e abituarmi alla mia nuova vita. Ma come posso riuscirci? Non posso. La verità è che non ci si può abituare, non dopo tutto quello che ho perso."
Dopo la guerra contro Ade, Atena ha concesso ai suoi cavalieri di poter vivere come dei normali ragazzi. I cinque bronze sembrano aver accettato gradualmente la loro nuova condizione, tranne uno. Hyoga non riesce ancora a superare il lutto del suo amato maestro e ad andare avanti, rifugiandosi sempre più in se stesso. Breve storia sulla vita e i pensieri di Hyoga dopo la battaglia contro Ade.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cygnus Hyoga
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Mattino


Mi sveglio bruscamente a causa del continuo abbaiare del cane dell’inquilina al piano di sotto, che come ogni mattina mi fa da sveglia non richiesta. Sono le otto e mezza, ho dormito solo quattro ore e sono stanco e indolenzito, mi è venuto il torcicollo stando tutta la notte sul divano. Anche questa mattina ho saltato la colazione. Non ho fame, e il solo pensiero di dovermi mettere a cucinare, prendere piatti e bicchieri e doverli poi lavare mi mette angoscia, inoltre non ho nulla in frigo, a parte qualche scatoletta di tonno, della salsa di soia, dell’acqua e una bottiglia di birra. Mi sono alzato controvoglia, ho fatto una doccia veloce e mi sono messo addosso la prima maglietta e il primo paio di jeans puliti che ho trovato, poco importa se non sono stirati. Poi ho preso uno spazzolone e un secchio d’acqua per pulire meglio ciò che ho combinato in cucina qualche ora prima. Ero partito con tutte le buone intenzioni, ma dopo cinque minuti ho cominciato a sentirmi stanco, quasi privo di forze, e ho deciso di lasciar perdere. Annoiato e con il volto appoggiato sulla punta del bastone, guardo fuori dalla finestra, attraverso le veneziane bianche d’alluminio che ho tenuto ancora abbassate, poiché la luce mi dà fastidio, ultimamente. Il mio non è un quartiere movimentato e non passano molte macchine, se non altro questo posto ha un suo lato positivo. L’inquilina del piano di sotto esce con il suo cane al guinzaglio, un chihuahua marroncino con indosso un giubbottino dalla fantasia scozzese. Fuori fa freddo, la neve che è caduta in questi giorni non si è ancora sciolta, la donna indossa un pesante piumino color tortora, degli stivali neri, e una sciarpa che quasi le nasconde il viso. In mano porta un ombrello e un trolley per la spesa, e mi ricorda che anche io dovrei fare un po’ di rifornimento. Al solo pensiero sento l’ansia impadronirsi di me nuovamente. Uscire, vedere persone, anche se sconosciute, doverci parlare…tutto ciò mi mette a disagio, è per questo che ormai esco solo in caso di estrema necessità. Il momento peggiore della giornata è sicuramente quando devo andare al lavoro, là non posso fare a meno di stare a contatto con le persone, ma bastano due, tre bicchieri e riesco a risolvere la situazione. Forse è per questo che ho iniziato a bere, e forse è per questo che non riesco a smettere.
Comunque sia, devo uscire se non voglio morire di fame. Oggi potrei optare per del cibo da asporto, così non dovrò cucinare. Lascio lo spazzolone appoggiato al tavolo, mi infilo il giubbotto, prendo le chiavi e dopo aver fatto due respiri profondi esco di casa. Dalla tasca del giubbotto tiro fuori il berretto di lana, tiro su la cerniera della giacca fin sopra al mento, ma non per il freddo, semplicemente non mi va che qualcuno mi riconosca e mi fermi a parlare. Scendo le scale velocemente ed esco dal palazzo, l’entrata è ancora ricoperta di neve, nessuno si è ancora preso la briga di spalarla via, su di essa vi sono le impronte dei vari condomini che sono entrati e usciti, più quelle del cane, e ora anche le mie. Svolto a destra e mi dirigo verso il centro di Saitama, la città in cui mi sono trasferito, ho deciso che per oggi mi farò andare bene del ramen istantaneo, per cui mi incammino verso il primo combini che mi capita a tiro. Mentre cammino, assorto nei miei opprimenti pensieri, sento il telefonino squillare nella tasca destra dei jeans. Sarà Shun. È un mese che non mi faccio sentire, sarà in pensiero. No, perché dovrebbe preoccuparsi per me? Da quando si è iscritto all’università è come se fosse sparito nel nulla, divorato da quei mattoni di anatomia che tanto lo affascinano, ormai anche lui mi sembra del tutto irraggiungibile. Mi chiedo, ormai sempre più spesso, se a legarci non fosse solo la nostra condizione di cavalieri, la nostra fede in Atena. Il nostro rapporto è cresciuto battaglia dopo battaglia, diventando via via sempre più forte, ma ora che non siamo niente più che dei semplici ragazzi, adesso che Atena non c’è, che ne è stato del nostro legame? Non sento Seiya da mesi, ho persino dimenticato il compleanno di Shiryu e adesso ho perso i contatti anche con Shun. Davvero Atena era l’unica cosa che avevamo in comune? Ammetto che non è facile avere a che fare con me: non è piacevole trascinarsi dietro qualcuno che non sorride mai, non parla mai, si estranea completamente da tutto e tutti per rifugiarsi nei suoi tristi ricordi, ma al di là di questo, non eravamo come fratelli? Anzi, ora che ci penso, in qualche modo lo siamo. Forse anche questo era scritto nel nostro destino: gli dèi hanno voluto che combattessimo fianco a fianco per il bene del mondo, sono stati loro a far sì che ci incontrassimo e con molta probabilità sono sempre loro ad aver voluto che ci separassimo.
Lascio squillare il telefono, in fondo non ho tanta voglia di parlare. Entro nel combini, ignoro la commessa, che caldamente mi dà il benvenuto, e a passo svelto mi dirigo verso il ramen. Carne, verdure, pollo, addirittura al kimchi… ho solo l’imbarazzo della scelta. Ne prendo uno a caso, senza nemmeno leggere l’etichetta, mentre il telefono riprende a suonare, ma io continuo ad ignorarlo. Già che ci sono prendo anche due bottiglie d’acqua e una lampadina: oggi lo faccio, cambio la lampadina del bagno. Il telefono squilla ancora. Quanta insistenza! Scocciato tiro fuori il cellulare ma non faccio in tempo a prendere la chiamata. Due chiamate perse, entrambe di Erii, la mia ragazza. Le avevo promesso che l’avrei chiamata ma non l’ho fatto, di nuovo. Un’altra promessa non mantenuta, di nuovo. Leggo il suo nome sullo schermo e comincio a sentirmi in colpa, che stupido che sono! Avrei potuto mandarle un messaggio, dirle qualcosa di carino, uno di quei messaggi sdolcinati che tutti i ragazzi della nostra età si scambiano almeno una volta nella vita, dirle che le voglio bene, qualsiasi cosa, non era un compito così difficile, ma me lo sono tolto dalla testa. Di nuovo. Mi chiedo perché una ragazza così bella e intelligente come lei continui a perdere tempo dietro a un caso senza speranza come me, in fondo non la merito. Che le dico? Scusa, ieri sera ho bevuto troppo e mi sono dimenticato di te? No, finiremo per litigare, non facciamo altro, ormai. E poi vorrà sapere perché ho bevuto, e mi dirà che la trascuro, che mi sto allontanando, che è preoccupata per me, che dovevo rimanere a Tokyo, che non faccio niente tutto il giorno e potrei degnarmi di farmi sentire, che sono cambiato e che ho la testa altrove. Al solo pensiero di quella discussione sento un dolore al petto, il cuore che mi batte forte e comincio a sudare freddo. Cerco di calmarmi facendo dei respiri profondi, rimetto il telefono in tasca e accantono l’idea di risponderle, non ho voglia di sentirmi dire tutte quelle cose, non mi serve. So che ha ragione, non posso darle torto, sono un disastro, una persona orribile che non merita le attenzioni di nessuno, non ho bisogno che qualcuno me lo faccia notare, come non ho bisogno di qualcuno che mi dica che prima o poi le cose si sistemeranno, di sorridere, di essere ottimista… io non ho più alcun motivo per essere felice, ma lei non può capire. Nessuno capisce come mi sento, neanche i miei più cari amici. Tutti noi ci siamo affezionati ai cavalieri d’oro, è vero, ma io non ho perso solo un compagno d’armi, ho perso un padre, un fratello, un amico, un confidente, io ho perso tutto. In che modo le cose possono aggiustarsi? Pensavo che almeno Shiryu potesse comprendere, in fondo condividiamo lo stesso dolore, ma non è così. Dopotutto è sempre stato più razionale di me. Scaccio via quei pensieri e vado alla cassa, prima che mi venga un vero e proprio attacco d’ansia. Tornato a casa la chiamo, giuro.
Poggio le mie cose sul bancone e aspetto di sapere quanto devo. La commessa mi sorride e io abbasso immediatamente lo sguardo, fingendo di guardare altrove, in modo da farle capire che non sono interessato a fare conversazione. Avrà più o meno una cinquantina d’anni ed è truccata pesantemente, credo anche che un po’ di rossetto le sia finito sui denti a furia di sorridere. È lenta, tremendamente lenta, e questo mi rende nervoso. Il tutto viene 1.954 yen. Tiro fuori il portafogli e prendo i soldi, quando il telefono ricomincia a squillare. Sospiro, evidentemente non c’è modo di rimandare la discussione a più tardi. Prendo il telefono, guardo lo schermo e con stupore leggo “numero sconosciuto”. Perché qualcuno dovrebbe chiamarmi con l’anonimo? Tentenno un attimo, poi decido di rispondere, ma non faccio in tempo a dire chi è che subito questi mi chiude il telefono in faccia. Rimango interdetto con il telefono in mano fino a quando non mi accorgo che la commessa sta ancora aspettando i suoi soldi. Stranamente non sorride più. Pago e così come sono entrato, in fretta e furia, esco dal combini.
Sulla strada di casa ripenso a quella telefonata, sicuramente si tratta di uno scherzo, non vale la pena perdere tempo a scervellarsi, eppure perché non posso fare a meno di pensarci? Ancora quella strana sensazione che mi attanaglia il petto, mi sento le gambe tremare… un altro attacco d’ansia? Fortunatamente passa subito, ma è meglio che torni a casa, mi sento spossato, ho le gambe pesanti, e comincio ad avvertire anche un leggero mal di testa, probabilmente ho bisogno di riposare.
Di nuovo il telefono, stavolta è un messaggio ma non conosco il numero. Apro la chat e per un attimo, non so perché, mi sono venuti i brividi nel vedere che uno sconosciuto mi ha inviato una foto. Un albero di ciliegio spoglio, ricoperto da neve, e una panchina vuota che dà su lago. Sullo sfondo c’è un cartello scritto in kanji: “parco di Omiya”. È dalla parte opposta a dove mi trovo adesso, che questa persona mi stia aspettando lì? Ma perché? Provo a chiamare il numero ma cade la linea, allora mi sposto dove c’è più campo ma non cambia nulla. Sarà Seiya? No, conosco il suo numero. La signorina Saori? No, troppo sofisticata per questo genere di cose. Ma allora chi? Senza pormi ulteriori domande, preso da una strana vena curiosa che non avvertivo ormai da tempo, mi giro verso la parte opposta e salgo sul primo autobus che trovo in direzione di Omiya.
Prendo posto accanto al finestrino, l’autobus è quasi vuoto, ci sono solo un’anziana signora, seduta tre posti davanti a me, e due ragazzine, con indosso la divisa scolastica, che probabilmente hanno marinato la scuola. Sorrido a quel pensiero, anche io l’avrei fatto alla loro età, almeno una volta. Ricordo che in Siberia, quando non avevo voglia di allenarmi, fingevo di non star bene, avevo sempre mal di pancia. Il più delle volte mi andava male, ma le poche in cui Camus decideva di assecondarmi, amavo stare tutto il giorno sotto le morbide coperte per poter mangiare un bel piatto di brodo caldo preparato dalle sue stesse mani. A dispetto di ciò che si possa pensare, Camus era un uomo premuroso, anche se non amava darlo a vedere. Appoggio la testa sul finestrino con fare malinconico e mi chiedo cosa ci faccio seduto qui, che mi passa per la testa. Quante volte Camus mi ha detto di non dar retta agli sconosciuti? E quante altre, invece, mi ha detto che devo essere responsabile? Decine, forse centinaia di volte, ma nei guai ci sono finito sempre lo stesso. Una qualsiasi persona normale ignorerebbe un messaggio del genere, soprattutto se da parte di uno sconosciuto. Ma io non sono mai stato normale, ora che ci penso, non sono proprio nato per esserlo. Cosa potrà mai accadermi? E in più, non ho niente da perdere, ormai.
Una volta sceso a destinazione entro a passo svelto nel luogo indicato. Il parco di Omiya è una delle mete più ambite di Saitama, da turisti e non solo. In primavera, stranieri e giapponesi si riversano qui per ammirare la fioritura dei ciliegi, passeggiare in riva al lago, fare un picnic o far visita al santuario di Hikawa. È forse uno dei miei luoghi preferiti, qui, a Saitama, nonostante l’orda di gente si riesce sempre a trovare un angolino tranquillo. Non vengo molto spesso perché lontano, e io odio prendere i mezzi pubblici, ma se fosse più a portata di mano, sicuramente passerei qui gran parte delle mie giornate. In questo periodo, però, non è poi così attraente, i ciliegi sono spogli, l’aria è fredda e tutto è ricoperto da neve e ghiaccio. Non c’è quasi nessuno, soprattutto a quest’ora, la gente viene solo per far passeggiare i cani, niente di più. Ci sono solo io e forse qualche senzatetto. Passo per un piccolo ponte di legno per arrivare nella zona dei ciliegi, le assi scricchiolano al mio passaggio, spezzando quel silenzio surreale che mi circonda. Questo, insieme al flusso dell’acqua e al canto degli uccelli hanno un particolare effetto benefico sui miei nervi, mi sento quasi rilassato. È proprio il posto ideale dove rifugiarmi e magari smettere di pensare. Arrivato nella zona, cerco la panchina della foto, sperando di trovare questo fantomatico qualcuno, anche se, in cuor mio, spero si tratti davvero di uno scherzo ed essere lasciato in pace.
Trovo la panchina, ma come sospettavo non c’è nessuno. Mi lascio cadere su di essa, affaticato, ho addirittura l’affanno, neanche avessi corso per chilometri. Bevo un sorso d’acqua; sul lago vedo riflesso il cartello visto in foto, la luce fioca del sole si riflette su di esso, crea quasi un effetto trasparente. Mi alzo e guardo il mio di riflesso, la faccia di un povero disgraziato depresso. Qualcuno mi passa accanto, qualcuno che conosco, in effetti. Mi volto ma non c’è nessuno, me lo sarò immaginato. Mi giro nuovamente e quel qualcuno mi si avvicina, vedo il suo riflesso accanto al mio. Capelli verdi, una grossa cicatrice sul lato sinistro del viso, è cieco da un occhio, ha un sorriso strafottente stampato in volto, mani dentro le tasche chiare dei jeans. Isaac, amico mio, che fai qui? Sei veramente tu? No, no non lo sei. Tu sei morto durante la guerra contro Poseidone, per causa mia, sei un altro dei miei fantasmi, eppure vederti mi rende così felice che la cosa passa in secondo piano. Ti ha mandato lui, vero? Ti ha mandato per controllarmi, dirmi di farmi forza, reagire? Non risponde, mi guarda fisso negli occhi con un’espressione seria, quasi gelida, priva di emozioni. Quando fai quella faccia, sai che gli somigli? Siete sempre stati simili. Eri il suo prediletto. Perché mi guardi stupito, come se non lo sapessi! Andava pazzo per te. Gongola orgoglioso nel sentire quelle parole, quasi mi prende in giro mentre lo fa.
Una sera sono entrato in camera di Camus, mentre questi si faceva il bagno, e ho cominciato a dare un’occhiata in giro. Ero curioso, è sempre stato un tipo misterioso e scostante e non ci permetteva di entrare quasi mai in camera sua, figuriamoci guardare tra le sue cose. Sulla sua scrivania di legno vi era una lettera incompleta, sembrava un rapporto ufficiale, e difatti lo era, indirizzato al Grande Sacerdote di Atena. Vi era scritto un resoconto sul nostro addestramento: Camus lo stava aggiornando di tutto, sui nostri progressi, i nostri fallimenti, le attitudini, i punti di forza e i punti deboli. Tra tutte queste informazioni, verso la fine, c’era anche scritto che, secondo il suo modestissimo parere, Isaac era più pronto e meritevole di me a indossare l’armatura del Cigno. Non aveva dubbi, sarebbe stato lui a conquistarla. Ammetto che leggere quelle parole mi aveva ferito profondamente, in fondo anche io avevo sempre provato a fargli una buona impressione, renderlo orgoglioso di me, nonostante sapessi che avesse ragione.
Isaac mi guarda con sospetto, è come se mi stesse chiedendo a cosa stia pensando. Non è la prima volta che qualcuno mi rivolge quello sguardo confuso ed imbarazzato, dato che mi soffermo a rimuginare sempre più spesso, è strano che a farlo, ora, sia proprio l’oggetto stesso dei miei pensieri.
Facciamo un giro. Così dicendo lo trascino fuori dal parco, proprio come facevo da bambino; ogni mattina lo buttavo giù dal letto e lo trascinavo al campo di allenamento con la forza, prima che il maestro si spazientisse. Ti ricordi quella volta che hai portato a casa un cucciolo di orso? Hai sempre voluto un cucciolo, ma dove vivevamo noi non c’erano cani o gatti, così ti sei dovuto arrangiare. Ricordi la faccia che ha fatto quando l’ha visto? Era sconvolto. Non sbuffare, sapevi che non te l’avrebbe fatto tenere.
Passeggiamo per le vie della città, quando, con fare di sfida, mi intima di seguirlo verso la periferia, il primo che arriva vince. Accetto, in fondo non vi è posto più isolato di quello. Arriviamo ai pressi della stazione, ancora uno sforzo e saremo fuori dalla città, ci basta seguire i binari ferroviari. Tutto è ricoperto di neve, il sole è troppo debole perché riesca a scioglierla, è l’ambiente perfetto per noi, ricorda tanto quello di casa. Ho vinto! Sono sempre stato più veloce di te. Isaac mi guarda stizzito, non gli è mai piaciuto arrivare secondo. Sono euforico, non riesco neanche a crederci. Non mi sentivo così pieno di vita da due anni. Mi ero quasi dimenticato come ci si sente a sentir l’adrenalina che ti scorre nelle vene, a provare piacere nel fare qualcosa, anche la più semplice, sentirsi finalmente felice, leggero, libero da qualsiasi pensiero negativo, semplicemente vivo.
Prendo della neve, ne faccio una piccola palla e senza preavviso gliela tiro addosso, colpendolo in faccia. Rido nel vedere la sua reazione, poi, con fare vendicativo, mi imita e iniziamo una battaglia di palle di neve. Mi sembra di essere tornato finalmente a casa, a quando avevo otto anni, e noi, tra un allenamento e l’altro, passavamo il tempo in questo modo, a tirarci palle di neve. Lo so che ho una pessima mira! Isaac ride, non è cambiato affatto, ha sempre provato gusto nel prendersi gioco di me. Ti ricordi quella volta che ho colpito il maestro per sbaglio? Fa cenno di sì con la testa. Non so se sia arrabbiato di più per essere stato preso alla sprovvista o perché gli ho sporcato la sua bella armatura dorata. Sì, sì, ricordo che ci punì entrambi con la polvere di diamanti, sento ancora male se ci penso. Delle volte, veramente poche, Camus si univa ai nostri giochi; erano quelle rare volte in cui smetteva gli abiti dell’algido maestro per indossare quelli da premuroso fratello maggiore. Io e Isaac non l’abbiamo mai detto apertamente, ma entrambi lo preferivamo in quest’ultima veste, soprattutto da bambini, avremmo voluto vederla più spesso. Anche la sua mira non era delle migliori, o forse ci lasciava vincere di proposito. Entrambi scoppiamo a ridere a quel ricordo e, stanchi di tirarci neve addosso, ci sediamo per terra. Una qualsiasi persona normale morirebbe di freddo, ma non noi. Star seduti sulla neve è molto più piacevole che su di una banchisa di ghiaccio a -20°. Mi sembra di sentire l’odore della cioccolata calda che il maestro ci preparava durante le tempeste di neve. Avvolti fin sopra la testa dentro morbide coperte di lana, passavamo le serate davanti al caminetto. Lui seduto sul divano a leggere e noi per terra a giocare, o a infastidirlo. Sento le lacrime pungermi gli occhi, ma non voglio piangere, non davanti ad Isaac, non ora che mi sento finalmente bene. Caccio via i pensieri e alzo lo sguardo sul mio amico, è in piedi, davanti a me, sulle rotaie. Ha di nuovo quello sguardo glaciale, come a volermi rimproverare per quell’attimo di debolezza. Poi inizia a saltellare da una parte e l’altra dei binari, come quando saltellava da un blocco di ghiaccio all’altro per evitare di cadere in acqua. Un altro dei nostri passatempi. Isaac mi invita a seguirlo e non me lo faccio ripetere due volte. Lo imito, tanto che a un certo punto mi sembra davvero di essere nella mia amata Siberia, con la mia famiglia. Il Giappone e i miei problemi sono solo un lontano ricordo, scomparsi, inghiottiti dai ghiacci eterni, e vorrei che fosse così per sempre. Salto di blocco in blocco spensierato finché non perdo l’equilibrio e cado accidentalmente in mare. Rimango fermo sulla traversa, Isaac si volta preoccupato, poi allarga le braccia, chiedendomi perché mi fossi fermato, cosa c’è che non va. C’è che non sei reale, ecco cosa! Sono arrabbiato, anzi furioso. Perché non possiamo andarcene e vivere di nuovo insieme? Perché non sei reale? Tu, Camus e la mamma, perché? Mi hai perdonato, vero? Non risponde, si limita a fissarmi come gli altri fantasmi. Ha l’aria triste, forse anche lui vorrebbe tornare indietro. Rispondimi, fammi almeno un cenno, sì, no, dammi un indizio, qualsiasi cosa, ho bisogno di saperlo! Isaac salta giù sulla traversa, qualche metro distante da me, sorride serafico, sembra tranquillo adesso. Che sia un modo per dirmi di sì, che mi ha perdonato? Ma come faccio ad esserne sicuro? Improvvisamente avverto di nuovo quella fitta nel petto, quello strano senso di vuoto e di nausea… perché proprio adesso? Perché non mi lascia in pace? Isaac, aiutami, dimmi come posso uscirne. Deve esserci un modo, dimmi che c’è!
Il telefono squilla all’intero della mia tasca. Quel trillo è come se mi riportasse alla realtà, cancella la Siberia e mi catapulta nuovamente in Giappone, alla mia vita di tutti i giorni, e d’un tratto mi ricordo di Erii e del tizio sconosciuto. Prendo il telefono e vedo un messaggio, proprio da quest’ultimo. “Non avere paura”, leggo. Un brivido mi percorre la schiena. Non riesco a staccare gli occhi dal messaggio, le gambe e le mani mi tremano, ho il respiro corto e sudo freddo, credo anche che il mio cuore abbia perso un battito. Alzo lo sguardo verso Isaac, è ancora lì, fermo, che mi fissa, ma non riesco a decifrare la sua espressione. Indietreggio, mi viene istintivo. Il silenzio viene interrotto dal fischio del treno, che si sta avvicinando sempre di più. Isaac scompare nel nulla e mi ritrovo faccia a faccia con il veicolo. Per un attimo sono indeciso, poi, come d’istinto, lancio la polvere di diamanti e salto giù dai binari. Mi alzo e mi volto indietro, l’ho congelato quasi del tutto, e a quel punto decido di scappare prima che qualcuno mi veda. Grazie alle mie abilità di cavaliere riesco a raggiungere il centro il più in fretta possibile e mi rimetto sulla via di casa. Che mi è saltato in testa, perché ho usato i miei poteri?
Corro verso casa, poi mi accorgo che la gente mi sta guardando e decido di rallentare il passo. Mi fissano, non mi tolgono lo sguardo di dosso, sembra che i loro occhi vogliano scrutare a fondo la mia persona per carpire chissà che losco segreto. Comincio a sentirmi a disagio; mi siedo su di una panchina e faccio dei respiri profondi, non solo per riprendere fiato. Mi guardano ancora, cosa vogliono da me? Che sappiano qualcosa? Mi hanno visto? No, impossibile. Non riesco a calmarmi, devo tornare subito a casa. Mi alzo e senza dare troppo nell’occhio mi rimetto in cammino e prendo il telefono. Velocemente scorro i messaggi per trovare quel numero, ma la chat è sparita, come se non fosse mai esistita. Mi sono immaginato tutto? Non può essere. Isaac era lì, l’ho visto, era reale! Ritrovo il numero tra le chiamate effettuate e avvio la telefonata. Porto il cellulare all’orecchio, sto tremando come un coniglio, io, un cavaliere di Atena.

- Il numero da Lei chiamato è inesistente.
  
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