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Autore: Fragolina84    20/07/2021    0 recensioni
Questa fanfiction si inserisce nel contesto da me creato con la serie "I love Avengers".
Il protagonista della storia, nata dopo la visione della miniserie The Falcon and The Winter Soldier (di cui non c'è nessuno spoiler), è James Bucky Barnes.
Sono passati due anni da quando gli Avengers lo hanno ritrovato nella base Hydra in Siberia, ma Bucky non si è ancora abituato alla sua nuova vita. Sarà Rebecca, la giovane proprietaria del Caffè Roma, a prenderlo per mano e ad aiutarlo nel percorso di guarigione.
Le stava dando l'ultima possibilità per tirarsi indietro. Perché lui era guasto. Rovinato, forse per sempre. Probabilmente corrotto fino al midollo senza possibilità di redenzione. E lei non meritava uno come lui.
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: James ’Bucky’ Barnes, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I love Avengers'
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In questo secondo capitolo
vediamo come Bucky ha vissuto
il primo vero incontro ravvicinato con Rebecca.
Buona lettura!


Il mattino seguente, quando James arrivò al Caffè Roma, lei non c’era. Provò un fremito di allarme ma vide Sarah aggirarsi tranquilla fra i tavoli e pensò che, se fosse successo qualcosa, sarebbe stata più nervosa. Tuttavia, quando si avvicinò per chiedergli che cosa volesse per colazione, non poté impedirsi di chiederle di Rebecca. 
«Becks sta bene, si è solo presa la mattina libera.» 
Ordinò il solito, ma i waffle erano diversi – meno soffici – e quella mattina il caffè sembrava senza sapore. Strano: era la sua colazione preferita. Si ripeteva in continuazione che frequentava quel posto solo per l’ottimo cibo, ma non era vero. 
Ci era entrato per caso una mattina, dopo che aveva passato quasi tutta la notte a passeggio per le strade di New York, dato che non riusciva a dormire. Lei era dietro il bancone e l’aveva colpito con occhi e capelli neri come l’ala di un corvo. Ovviamente non aveva mostrato alcun interesse per lei, non poteva permetterselo. 
Quando si era avvicinata per accompagnarlo al tavolo aveva notato quanto fosse minuta, superava appena il metro e sessanta. Ma quegli occhi contornati di ciglia lunghissime sembravano quelli di un cerbiatto e si era affrettato a distogliere i propri, con l’irrazionale timore che lei potesse leggergli dentro l’anima nera che aveva al centro del petto. 
Da allora era tornato tutti i giorni, accontentandosi di vederla, sbirciandola senza farsi notare mentre si muoveva fra i tavoli e chiacchierava amabilmente con i clienti abituali. Anche lui poteva definirsi tale, ma non le dava mai confidenza e lei restava a distanza. Come era giusto che fosse. 
Era filato tutto liscio, finché quel tizio si era presentato in caffetteria. Lui aveva finito e stava raggiungendo la cassa quando l’aveva vista parlare con quell’imbecille. Era tesa come non le era mai capitato di vederla e non le era sfuggito che si era scostata quando lui aveva cercato di toccarla. E per fortuna: in quanto, con tutta probabilità, se fosse arrivato a sfiorarla non avrebbe più potuto usare la mano. 
Si era affrettato a pagare ed era uscito, cercando con gli occhi quel tizio odioso. L’aveva scorto poco più avanti, mentre saliva a bordo di un’auto sportiva blu metallizzata. Aveva preso il cellulare nella tasca della giacca e composto un numero mentre quello sgommava via. 
«Maria, ho bisogno di un controllo su una targa» aveva detto, salendo a cavalcioni della sua moto e infilandosi il casco. 
Maria Hill gestiva tutta la grande macchina dietro gli Avengers. Dal suo ufficio alla Avengers Tower di New York aveva il controllo su quanto succedeva nel mondo e segnalava a Steve qualsiasi situazione in cui fosse necessario il loro intervento. 
Non si trattava sempre di invasioni aliene o androidi impazziti, situazioni in cui era necessario riunire l’intera squadra per sventare la minaccia. A volte erano semplici questioni di sicurezza nazionale in cui erano impiegati solo alcuni di loro. Di solito Steve e Sam Wilson, alias Falcon. 
Quest’ultimo era un’aggiunta recente alla squadra, arrivato poco prima che lui fosse ritrovato in Siberia. In passato aveva fatto parte dei reparti specializzati in operazioni di ricerca e soccorso, finché aveva perso il suo compagno. Sam si era ritirato dal servizio attivo, dedicandosi ad aiutare i veterani colpiti da stress post-traumatico, fino a quando aveva fatto amicizia con Steve che l’aveva convinto ad unirsi agli Avengers. 
Il suo aiuto era preziosissimo – anche se Bucky non gliel’avrebbe mai confessato! – dato che poteva volare con un paio di ali meccaniche applicate sulla schiena, ali che erano state modificate e potenziate grazie alle tecnologie di Stark. 
Anche Wanda li accompagnava spesso. Era con loro anche quando avevano fatto irruzione nella base segreta in Siberia in cui lui era tenuto in criostasi ed era grazie al suo aiuto e a quello di Victoria Stark che era riuscito a riprendersi e a riappropriarsi dei ricordi che l’Hydra aveva sottratto dalla sua mente per renderlo un assassino il più efficiente possibile. 
Poi era servita tutta l’influenza di Captain America in seno al Governo per far sì che gli fosse concessa la grazia per i crimini orrendi di cui si era macchiato. Era riuscito a far capire loro che non aveva alcun controllo sul proprio operato e che la sua mente era completamente nelle mani dell’Hydra ma che ora si stava ristabilendo. 
Il suo processo di guarigione era tutt’altro che concluso e c’erano giorni in cui pensava che non si sarebbe mai liberato del tutto dall’orrore che aveva vissuto e di cui era stato, per buona parte, protagonista. Ormai non riusciva a dormire più di due ore consecutive senza che gli incubi lo tormentassero. Ma Steve credeva in lui ed era convinto che avrebbero trovato il modo per uscire da quella situazione. 
«Problemi, Bucky?» gli aveva chiesto, pragmatica come sempre. 
«Non lo so» aveva replicato: non c’era bisogno che sapesse che quello che le stava chiedendo era per interesse personale e nient’altro. 
«Dammi due minuti.» 
Aveva avviato la moto e si era immesso nel traffico, mettendosi a seguire a distanza l’auto del tizio. Non erano ancora passati novanta secondi quando il suo cellulare aveva emesso un trillo. Aveva premuto un pulsante con il pollice, proiettando le informazioni direttamente sulla visiera del casco. 
Il tizio si chiamava Clive Peterson e aveva trent’anni. Abitava nel Lower East Side e, a giudicare dalla direzione, stava andando a casa. Bucky aveva continuato a seguirlo senza dare nell’occhio, finché aveva parcheggiato davanti ad un grande palazzo: dalle informazioni che Maria gli aveva mandato, aveva un appartamento proprio lì. Si era chiesto come fosse coinvolto con Rebecca anche se, dalla reazione che lei aveva avuto, probabilmente si trattava di un ex fidanzato. La cosa, senza un motivo particolare, lo infastidiva. 
Aveva proseguito per un breve tratto, poi aveva lasciato la moto ed era tornato indietro a piedi. 
Da quanto gli aveva mandato Maria, Clive pilotava i battelli turistici che ogni giorno facevano la spola tra Manhattan e Brooklyn. Evidentemente quel giorno non era di turno. 
Bucky si era avvicinato con passo lento alla berlina blu. Giunto accanto al parafango anteriore si era chinato come per sistemarsi i lacci delle scarpe e, con un gesto fulmineo, aveva applicato un piccolo tracciatore GPS alla carrozzeria. Quindi si era raddrizzato, facendo il giro del palazzo e tornando dall’altra parte a recuperare la moto. 
Il localizzatore era collegato al suo cellulare, che gli avrebbe mandato un segnale nel caso in cui l’auto si fosse mossa, permettendogli di seguirla tramite app. Non c’era altro che potesse fare e, a dirla tutta, non aveva neanche idea del perché avesse seguito Clive fino a casa e lo stesse tenendo d’occhio. Si era detto che, non appena si fosse reso conto che era tutto in ordine, avrebbe scordato il problema. 
Per quel giorno non aveva impegni, perciò era tornato alla Avengers Tower e si era rifugiato nel suo appartamento. Nel pomeriggio aveva passato qualche ora in palestra e poi in piscina. Steve era a Washington per alcuni incontri con il Governo quindi quella sera aveva cenato da solo e si era messo sul divano, facendo distrattamente zapping. 
Poco dopo le dieci, il cellulare aveva emesso un segnale di notifica. Era il localizzatore sull’auto di Clive: si stava muovendo. 
Aveva seguito con gli occhi il pallino rosso lampeggiante. Un’idea gli era balenata in testa e aveva usato due dita per diminuire lo zoom della mappa. E quando aveva capito in che direzione stava andando Clive, un velo rosso gli era calato davanti agli occhi. Era schizzato in piedi come una furia, aveva afferrato la giacca e si era fiondato in ascensore. 
Aveva lasciato la moto a qualche distanza dal Caffè Roma e aveva fatto l’ultimo tratto a piedi, continuando a seguire il GPS sullo smartphone. La sua intuizione aveva trovato conferma quando aveva visto la berlina blu di Clive passare a bassa velocità davanti alla caffetteria e parcheggiarsi poco distante. 
Bucky era rimasto nell’ombra, in attesa. Se fosse entrato, lo avrebbe seguito, ma Clive non era sceso dall’auto. Si era spostato in modo da tenere d’occhio contemporaneamente lui e il locale. Aveva visto Rebecca muoversi all’interno: non c’erano molti clienti, l’orario di chiusura era vicino. 
Quando anche l’ultimo se ne era andato, Rebecca aveva chiuso il locale e poco dopo Bucky aveva visto il suo staff uscire dal vicolo a fianco della caffetteria. Con tutta evidenza Clive stava aspettando proprio quello perché era sceso dalla macchina e si era infilato nel vicolo buio. 
Non gli piaceva per nulla la piega che stava prendendo la faccenda. Clive non sembrava avere buone intenzioni e lui era deciso a scoprire quali fossero. Aveva attraversato la strada, seguendolo silenziosamente nel vicolo. 
Anche se cercava di non pensarci troppo, con il suo passato quelle cose gli riuscivano estremamente facili. Quante volte il Soldato d’Inverno era rimasto acquattato nel buio per ore ad attendere la sua vittima, qualcuno che l’Hydra lo aveva mandato ad eliminare. 
Si era dato lo slancio verso l’alto, saltando sulla scala antincendio del palazzo a fianco e atterrando silenzioso come un gatto. Da lassù aveva visto Clive appiattirsi contro il muro, seminascosto nell’oscurità: aveva stretto il pugno in vibranio, con il desiderio di gettarsi su di lui e ridurlo a un rottame di se stesso. Invece era rimasto immobile, tenendolo d’occhio, in attesa. 
Doveva essere passata almeno mezz’ora quando la porta laterale del locale si era aperta e Rebecca era comparsa nel vicolo. Trascinava un paio di sacchi neri e, raggiunto il cassonetto, lo aveva aperto per gettarli dentro. Clive si era mosso in quel momento e, prima che lei si fosse voltata del tutto, le era piombato addosso. 
La ragazza si era divincolata ma quel tizio era bello grosso e, anche se aveva cercato di colpirlo con una ginocchiata all’inguine, non aveva lasciato la presa. Bucky non aveva atteso di vedere altro ed era saltato giù dal suo punto di osservazione. 
Lo aveva afferrato per la spalla, strappandolo via e mandandolo a ruzzolare per terra. Aveva evitato di proposito di usare il braccio in vibranio perché era ad un niente dal perdere del tutto il controllo. 
Quello si era rialzato, blaterando qualcosa sul fatto che non avrebbe dovuto mettersi fra lui e la sua ragazza. Era chiaramente ubriaco, cosa che non glielo rendeva di certo più simpatico. Dalla larghezza delle spalle e dalla circonferenza delle braccia probabilmente faceva palestra ed era più alto di lui, ma non sarebbe stato un problema. 
Clive aveva attaccato, sparandogli contro un destro. L’aveva bloccato con la mano in vibranio, godendo nel sentire le ossa scricchiolare nella sua presa, e lo aveva colpito con un destro allo stomaco, ributtandolo indietro. Anche in quel caso, gli era toccato dosare bene la sua forza, anche se la bestia scatenata dentro di lui gridava per avere sangue. 
Aveva pensato che, a quel punto, Clive desistesse. E invece si era messo in piedi di nuovo, lanciandosi contro di lui. 
Beh, aveva pensato, un po’ di sangue placherà entrambi
Lo aveva colpito forte, sempre con il destro, ed era stata una soddisfazione sentire il naso esplodere contro il suo pugno. Poi, stufo di quella pagliacciata, si era chinato e lo aveva afferrato per il colletto, tirandolo in piedi. 
«Ringrazia il cielo che lei è qui, perché è l’unico motivo che mi impedisce di ucciderti in questo preciso istante». La sua voce aveva poco di umano e Clive lo aveva percepito, vista l’espressione di puro terrore che gli si era dipinta sul viso. Lo aveva spinto via e quello era fuggito come un animale spaventato. Ma a lui già non interessava più. 
Si era girato verso Rebecca che era ancora addossata al cassonetto, quasi che non riuscisse a stare in piedi da sola. Aveva gli occhi sbarrati e, quando le aveva chiesto se stava bene, si era letteralmente lanciata fra le sue braccia. 
Non avrebbe mai dimenticato la sensazione di quel corpo tremante stretto contro il suo. Era da almeno ottant’anni che non aveva un contatto così ravvicinato con una donna e il cuore aveva accelerato il battito. 
Il cervello gli urlava di spingerla via, di tenerla lontana da sé. Ma l’istinto aveva avuto la meglio e le sue braccia si erano chiuse attorno a lei, mentre la mano destra saliva ad accarezzarle la testa appoggiata contro il suo petto. 
L’aveva fatta sedere sugli scalini e, quando gli aveva chiesto come mai si trovasse lì, era stato costretto a mentirle. Non poteva dirle che aveva seguito Clive sin dal mattino, quindi le aveva detto che abitava in zona e che si era trovato lì per caso. 
Aveva continuato a cingerla con il braccio. Si diceva che lo stava facendo per tranquillizzarla, ma la realtà era un’altra: gli piaceva da morire sentirla contro il proprio corpo. Pian piano il tremito si era calmato e lei si era rilassata. Così si era offerto di accompagnarla a casa. 
Avevano fatto il tragitto a piedi, mentre lei conduceva la bici a mano. Non avevano parlato, ma non era il silenzio imbarazzato di quando si resta senza cose da dirsi: era come se anche quello fosse pieno di parole. Una strana sensazione. 
Rebecca abitava nel quartiere di Little Italy e, arrivati davanti ad un palazzo in Baxter Street, si era fermata e lo aveva ringraziato. 
Era stato in quel momento, sotto le luci dei lampioni, che aveva sentito un impulso premere dentro di sé. Era stato vicinissimo a chiederle di uscire, prima di rendersi conto di quello che stava facendo e zittirsi. Non poteva farlo, non poteva permettersi una cosa del genere. Era un assassino, cosa mai aveva da offrire a una ragazza come Rebecca? 
Così l’aveva salutata e aveva fatto per andarsene, ma lei l’aveva fermato. 
«Non so nemmeno come ti chiami.» 
«James. Gli amici mi chiamano Bucky» aveva detto. 
Lei gli aveva detto che i suoi amici la chiamavano Becks. Lo sapeva, aveva sentito il suo staff apostrofarla in quel modo. Ma trovava che Rebecca fosse un nome così bello: era lo stesso di sua sorella, tra le altre cose. 
«Buonanotte, Rebecca». Un sorriso genuino e spontaneo gli era spuntato sulle labbra. 
«Buonanotte, James» aveva replicato lei. 
Se ne era ritornato a piedi fino nel Village dove aveva lasciato la moto, ripensando a come gli era piaciuto sentire il suo nome uscire dalle labbra della ragazza. Non l’aveva chiamato Bucky, ma non gli dispiaceva: nessuno lo chiamava James ed era bizzarramente bello che fosse solo lei a farlo. 
Tornò indietro dai ricordi della sera prima. Finì la colazione e se ne andò. 
Dato che ora sapeva dove abitava fu tentato di presentarsi da lei per assicurarsi che stesse bene. Ma gli sembrò inappropriato e quindi non lo fece, riprendendo la moto e tornando alla Avengers Tower. 
  
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