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Autore: Fragolina84    13/07/2021    0 recensioni
Questa fanfiction si inserisce nel contesto da me creato con la serie "I love Avengers".
Il protagonista della storia, nata dopo la visione della miniserie The Falcon and The Winter Soldier (di cui non c'è nessuno spoiler), è James Bucky Barnes.
Sono passati due anni da quando gli Avengers lo hanno ritrovato nella base Hydra in Siberia, ma Bucky non si è ancora abituato alla sua nuova vita. Sarà Rebecca, la giovane proprietaria del Caffè Roma, a prenderlo per mano e ad aiutarlo nel percorso di guarigione.
Le stava dando l'ultima possibilità per tirarsi indietro. Perché lui era guasto. Rovinato, forse per sempre. Probabilmente corrotto fino al midollo senza possibilità di redenzione. E lei non meritava uno come lui.
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: James ’Bucky’ Barnes, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I love Avengers'
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Come anticipato nella presentazione della storia,
questo racconto si inserisce nella serie "I love Avengers" da me creata.
I "miei" Avengers sono un po' diversi da quelli Marvel perchè in tanti anni ho creato coppie
e aggiunto personaggi che hanno seguito un percorso tutto loro, a volte diverso da quello del grande schermo.
Il personaggio di Bucky non mi aveva colpito, lo ammetto:
ma dopo aver visto la miniserie The Falcon and The Winter Soldier, mi sono ricreduta
e questa storia è nata praticamente da sè.
Non c'è nessuno spoiler in questo racconto, ma questo Bucky è il personaggio
schivo e tormentato della serie e di cui mi sono innamorata da qualche mese.
Spero che la fanfiction vi piaccia e che vorrete farmelo sapere.
Buona lettura!

New York non dormiva mai. E Rebecca Stan l’adorava. 
Era la città in cui venticinque anni prima era nata, la città in cui era cresciuta, in cui viveva e lavorava. La città lontano dalla quale non riusciva a concepire di poter stare troppo a lungo. 
Quasi quarant’anni prima, il padre di Rebecca aveva conosciuto una giovane che discendeva dalle popolazioni native americane. Il suo nome era Kateri Hahnee e Peter si era innamorato immediatamente dei suoi occhi scuri e della sua pelle olivastra. 
Si erano sposati dopo appena un anno di fidanzamento ed erano andati in viaggio di nozze in Italia perché Kateri sognava da sempre di visitarla. A Roma, Peter si era invaghito della cultura di quel popolo e, tornato in America, aveva aperto una caffetteria dove serviva caffè espresso e dolci italiani. Avevano avuto una figlia quasi subito, Rowena. Rebecca era arrivata quindici anni dopo, quando ormai avevano smesso di pensare di dare un fratello o una sorella a Rowena. 
Mentre Rowena studiava da architetto, Rebecca era cresciuta fra i tavolini del Caffè Roma e, finito il liceo, aveva affiancato papà e mamma nella gestione della caffetteria. Nel 2016 a Peter era stato diagnosticato l’Alzheimer e quindi, a soli ventun anni, Rebecca era diventata proprietaria del locale, che tutt’ora dirigeva. 
Sua madre si era ritirata per badare a Peter, mentre quella odiosa malattia faceva il proprio corso. Ormai Peter riconosceva le figlie con sempre minor frequenza e, ogni volta, era una coltellata al cuore. 
Rebecca abitava al secondo piano di un palazzo in Baxter Street e tutte le mattine, prima delle sette, scendeva in strada, infilava un auricolare e avviava la sua playlist preferita, riponendo il cellulare nella fascia fissata al braccio sinistro. Poi partiva di corsa in direzione sud, diretta al Columbus Park. Correva per una mezz’oretta e poi tornava nel suo appartamento, faceva la doccia e si preparava per andare al lavoro. 
Il Caffè Roma, nel Greenwich Village, era stato rinnovato da poco. Niente di particolare, Rebecca aveva voluto mantenere l’atmosfera del luogo che l’aveva vista crescere, ma l’aveva svecchiato un po’. Con lei lavoravano Sarah, la sua migliore amica e la sua più fidata collaboratrice, e uno staff composto solo di donne. 
Come tutte le mattine, Rebecca prese la bici e raggiunse il Caffè Roma mezz’ora prima dell’apertura. Sarah era già arrivata e la salutò mentre indossava il corto grembiule nero che era la loro uniforme. 
«Hai rischiato di dover aprire tu, stamattina» borbottò la ragazza, mentre si raccoglieva i capelli con uno spillone. «Un idiota con una Lamborghini a momenti mi mette sotto sulle strisce pedonali. Mi si è fermato a dieci centimetri, mi sono vista tutta la vita scorrermi davanti.» 
«Magari voleva solo chiederti un appuntamento» replicò Rebecca, allacciandosi a sua volta il grembiule. 
«Spiritosa. No, la verità è che c’è una quantità di idioti che circola sulle strade di questa città.» 
Rebecca ridacchiò e andò a togliere i chiavistelli alla porta, girando il cartellino su “OPEN”. La campanella che era applicata sul battente iniziò quasi subito a tintinnare, mentre i loro soliti clienti entravano per la colazione. 
Rebecca e le altre ragazze furono impegnate nel servizio finché, mentre Rebecca stava facendo il conto ad una coppia di anziani clienti abituali, Sarah le si avvicinò e accostò la testa alla sua. 
«Il tuo amico è arrivato, Becks» sussurrò. 
Rebecca salutò la coppia e lanciò uno sguardo al nuovo arrivato. Veniva nel suo locale da circa un mese, tutte le mattine. Indossava una giacca che a lei sembrava davvero troppo leggera per la temperatura gelida di gennaio, ma non sembrava essere un problema per lui, e un paio di guanti di pelle che non toglieva mai. 
Vestiva sempre di nero, colore che gli sembrava nettamente cucito addosso dato che in quel mese non l’aveva mai visto sorridere. Anche quel giorno entrò con la solita espressione corrucciata e puntò uno dei tavolini in fondo alla sala, accanto alla vetrina, come se volesse tenere d’occhio l’esterno. 
Nonostante l’espressione tesa che non lo abbandonava mai, era il ragazzo più bello che avesse mai visto. Aveva i capelli castani tagliati corti e un velo di barba gli copriva le guance e la fossetta sul mento. Alzava raramente gli occhi, ma Rebecca era rimasta affascinata dal loro azzurro quando le era capitato di incrociarli. 
Ogni volta che entrava, aveva l'impressione di conoscerlo, o quantomeno di averlo visto da qualche parte. Ma non riusciva a ricordare dove. 
«Secondo me viene per te» commentò Sarah. 
«Ma se non mi guarda nemmeno.» 
Sarah sorrise: «Ti guarda eccome, tesoro.» 
«Hai dei clienti a cui badare, Sarah» la rimbeccò. 
«Anche tu» fece l'altra, accennando con la testa verso il tavolo del ragazzo con la giacca di pelle. 
Rebecca si avvicinò all'uomo che sedeva fissando con espressione torva fuori dalla vetrata. 
«Buongiorno» lo salutò, rivolgendogli un sorriso. Le piaceva il contatto con i clienti abituali, ma questo ragazzo restava un mistero: non sapeva nemmeno come si chiamava. «Prendi il solito?» 
«Buongiorno». La sua voce era decisamente adatta al personaggio, bassa e profonda. «Sì, prendo il solito.» 
«Arriva.» 
Rebecca passò l'ordine alla cucina: lui prendeva sempre waffle ai mirtilli e caffè americano con un piccolo bricco di panna. 
«Perché dovrebbe venire in una caffetteria italiana per prendere un americano e dei waffle?» rincarò Sarah. «Potrebbe trovarli ovunque. Mi sembra quantomeno evidente che venga per te.» 
A Rebecca sarebbe piaciuto crederlo. Era single da quasi tre anni ormai, dopo che aveva scoperto che il suo fidanzato Clive intratteneva almeno due relazioni con altrettante signorine che erano del tutto all’oscuro della sua esistenza. Quando le aveva rintracciate e contattate si erano dimostrate determinate a vendicarsi e ne aveva pagato le conseguenze la preziosa auto sportiva di Clive, che l’aveva ritrovata con la vernice metallizzata profondamente sfregiata da un cacciavite. Lei non l’avrebbe mai fatto – trovava puerili quelle manifestazioni – ma non aveva certo pianto, anzi. 
Da allora non c’era più stato nessuno. Era uscita con un paio di ragazzi, ma nessuno di loro aveva solleticato il suo interesse. Interesse che era decisamente solleticato dal giovane con gli occhi azzurri amante dei waffle, ma Rebecca non era una a cui piacesse fare la prima mossa. 
«Nuova regola: mi trattengo cinque dollari per ogni frase inopportuna» minacciò Rebecca e Sarah rise e alzò le mani in segno di resa. 
Quando l’ordinazione fu pronta la portò al suo tavolo. Lui le dedicò un mezzo sorriso sghembo, che era la massima manifestazione di emozione che gli avesse visto esprimere. Rebecca lo lasciò alla sua colazione e si dedicò agli altri clienti, almeno finché Sarah non richiamò di nuovo la sua attenzione. Ma stavolta non era per segnalare qualcosa di piacevole e le toccò reprimere un moto di rabbia quando vide chi era appena entrato. 
Fece cenno a Sarah di occuparsi dell’ordinazione che stava prendendo lei e si diresse risoluta ad affrontare l’ultima persona che avrebbe voluto vedere. 
«Clive, che diavolo ci fai qui?» 
Lui la squadrò da capo a piedi. Rebecca aveva sempre avuto un debole per i ragazzi con gli occhi chiari anche se quelli di Clive non erano della stessa tonalità di quelli di… no, non era proprio il momento. 
Clive si passò una mano fra i capelli biondi, scostandosi il ciuffo dalla fronte. In passato l’aveva considerato un bel ragazzo ma ora, dopo quello che le aveva fatto, non riusciva a vederlo se non come il traditore che si era rivelato essere. 
«Sono qui per fare colazione» fece lui. 
Non lo vedeva da almeno un anno e mezzo, ovvero da quando era venuto nel locale di sera con una combriccola di amici. Le erano sembrati subito alticci e che ci avessero dato dentro con gli alcolici era stato chiaro quando era stata costretta a chiamare la polizia per farli sloggiare. Nell’occasione, Rebecca gli aveva giurato che non l’avrebbe più fatto entrare nel proprio locale. Clive non si era più presentato, fino a quella mattina. 
«Ci sono decine di bar a New York, puoi sceglierne uno qualsiasi» replicò seccata. «Questo non fa per te, lo sai.» 
«Oh, andiamo. Non fare la cattiva». Sollevò una mano, come a volerle accarezzare la guancia, ma Rebecca si scostò. 
«Non toccarmi» sibilò. «Esci di qui, Clive. Non obbligarmi a chiamare la polizia.» 
Parlava a bassa voce, per evitare che i suoi clienti si accorgessero di quanto stava succedendo. Ma i più vicini dovevano aver sentito perché li stavano fissando. Per fortuna, Clive non aveva voglia di sfidarla. Con un’ultima occhiata sprezzante e la promessa sussurrata di tornare, girò sui tacchi e se ne andò. 
Rebecca prese un lungo respiro per calmarsi e si voltò. Lui era lì, davanti alla cassa, e distolse lo sguardo non appena incrociò i suoi occhi. Ma la donna era certa che avesse sentito tutto. 
Girò attorno al bancone e si scusò per l’attesa. Lui pagò la propria consumazione e le lasciò la solita mancia. Rebecca ebbe l’impressione che volesse dirle qualcosa, ma alla fine richiuse la bocca e se ne andò. 
Il resto della giornata trascorse senza problemi, anche se l’incontro con Clive l’aveva scossa più di quanto avesse dato a vedere e, quando venne finalmente l’ora di chiudere, era esausta. Sua madre le diceva sempre che passava troppe ore lì dentro e forse aveva ragione. 
Rimasta sola, fece i conti della giornata e poi recuperò la giacca e la borsa. Stava per uscire dal retro quando si accorse che le ragazze della cucina si erano dimenticate di buttare la spazzatura. Con un sospiro posò la borsa sul piano della cucina e afferrò i sacchi, trascinandoli fuori. Quindi aprì il cassonetto nel vicolo e li gettò all’interno. 
Si girò e una figura incappucciata si staccò dalle ombre e la spinse contro il cassonetto. La paura le attanagliò le viscere mentre si rendeva conto che l’uomo era alto e grosso e la teneva ferma senza sforzo. 
«Contenta di vedermi, bambolina?» 
Riconobbe all’istante la voce, se non il soprannome con cui era solito chiamarla Clive. Si divincolò con violenza, ma lui era alto un metro e novanta e la superava decisamente in altezza e in forza. Si abbassò per baciarla e Rebecca sentì che puzzava di alcol. Scostò la testa e lui ringhiò qualcosa, mentre abbassava una mano per strizzarle un seno attraverso i vestiti. 
Quello raddoppiò gli sforzi di Rebecca. Sollevò di scatto il ginocchio tentando di colpirlo all’inguine, ma Clive non era così stupido: mosse la gamba, ricevendo il colpo sulla coscia. 
«Oh, ma come siamo focose stasera» borbottò, spingendola con il corpo e costringendola contro il cassonetto. Usò un ginocchio per allargarle le gambe mentre con la mano cercava di insinuarsi all’interno dei suoi pantaloni. 
Poi, improvvisa come era cominciata, la pressione del suo corpo cessò e Rebecca barcollò, libera dalla presa di Clive. Nella penombra del vicolo vide che Clive era rotolato per terra, a qualche distanza da lei. Fra loro, il ragazzo dei waffle. 
«E tu chi cazzo sei?» sbottò Clive, rimettendosi in piedi. Era più alto e più massiccio dell’altro che tuttavia lo fronteggiava con atteggiamento calmo e rilassato. «Non è stata una grande idea intromettersi tra me e la mia ragazza» aggiunse, facendo scrocchiare il collo. 
«Spiacente, ma da quello che ho visto lei non è d’accordo ad essere la tua ragazza.» 
Con un grido incoerente, Clive lo attaccò. Caricò il destro con tutto il proprio peso: Rebecca sapeva che frequentava la palestra tutti i giorni ed era forte, molto forte. Ma il pugno non arrivò mai a segno: il tizio senza nome si limitò ad alzare la sinistra e lo bloccò senza sforzo apparente. Poi lo colpì allo stomaco con il destro, ributtandolo indietro a gambe all’aria. 
Ma Clive era tutt’altro che vinto. Si rimise nuovamente in piedi, furioso per l’umiliazione, e attaccò di nuovo. Agli occhi atterriti di Rebecca sembrò enorme, decisamente più grosso dell’altro che però non si scompose. Si mosse invece con una velocità che ingannò l’occhio e Clive fu di nuovo a terra. 
Gridò di dolore, portandosi le mani al volto, mentre il sangue gli colava dal naso rotto. Mentre Rebecca osservava la scena chiedendosi a cosa stesse assistendo, l’altro si abbassò su Clive, lo afferrò per il bavero e lo sollevò, avvicinando il volto al suo. 
«Ringrazia il cielo che lei è qui, perché è l’unico motivo che mi impedisce di ucciderti in questo preciso istante» sibilò con voce terribile. A giudicare dalla decisione con cui pronunciò quelle parole, non si trattava certo di una sbruffonata. 
Lo spinse via e Clive riuscì a stento a mantenere l’equilibrio. Poi, sempre tenendosi il naso ferito, fuggì. 
Il ragazzo tornò velocemente da lei che, sconvolta, era ancora addossata al cassonetto. 
«Stai bene?» le chiese con dolcezza. 
L’enormità del pericolo scampato le piombò addosso all’improvviso e cominciò a tremare. E, prima di pensare a ciò che stava facendo, si gettò contro il suo petto. Lui sembrò sorpreso, ma fu solo un istante: poi la circondò con le braccia e la strinse a sé. 
«Va tutto bene» sussurrò. «È finita.» 
Le accarezzava i capelli con delicatezza mentre Rebecca si rendeva conto che non si era mai sentita tanto protetta e al sicuro come fra le braccia di quello che era praticamente uno sconosciuto. 
Lui la condusse verso la porta posteriore della caffetteria e la fece sedere sugli scalini, continuando a cingerla con il braccio. 
«Come hai fatto a…?» gli chiese con voce spezzata. 
«Abito qui vicino» replicò. «Stavo tornando a casa e ho sentito del trambusto, così sono venuto a controllare.» 
Rebecca rabbrividì al pensiero di come sarebbero andate le cose se lui non fosse stato nei paraggi. Rimase in silenzio, mentre pian piano il tremore si acquietava e il calore del corpo a cui era stretta la pervadeva. 
«Dai, ti accompagno a casa» disse lui dopo un po’. Rebecca non ebbe la forza per rifiutare l’offerta. 
Prese la borsa e chiuse la porta posteriore, avviandosi poi verso casa, spingendo la bici a mano. Rimasero in silenzio per tutto il tragitto, lei persa nei suoi pensieri e lui con le mani affondate nelle tasche dei jeans, ma entrambi acutamente consapevoli della presenza dell’altro. 
Quando arrivarono davanti al palazzo di Rebecca, la ragazza estrasse le chiavi dalla borsa. 
«Grazie. Per tutto» mormorò. 
«Non c’è di che. Spero solo che quell’idiota non ti importuni ancora». Rebecca ebbe l’impressione che volesse dirle qualcos’altro, ma lui stirò le labbra in quel solito mezzo sorriso e indietreggiò di un passo. «Beh, è meglio che ora io torni a casa.» 
«Aspetta!» lo fermò. «Non so nemmeno come ti chiami.» 
«James» replicò. «Gli amici mi chiamano Bucky.» 
In quell’istante la luce del lampione cadde sul suo viso in un certo modo e Rebecca si ricordò di dove l’aveva visto. E capì anche come aveva fatto a stendere Clive con tanta facilità. 
«Io sono Rebecca, anche se sospetto che tu già lo sappia. Ma gli amici mi chiamano Becks.» 
Lui sorrise, ma stavolta era un sorriso vero che gli scoprì i denti bianchi e perfetti e gli illuminò gli occhi. 
«Buonanotte, Rebecca» mormorò. 
«Buonanotte, James» replicò. 
  
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