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Autore: vero_bonnie    21/07/2021    2 recensioni
È la primavera del 1975. Il giovane meccanico Dean Winchester è tornato dal Vietnam, a pezzi non solo per una brutta ferita di guerra ma anche e soprattutto per l’incapacità di lasciarsi amare. Il giorno in cui finisce la guerra, Dean incontra casualmente Castiel Novak, il chirurgo che gli ha salvato la vita. Nel frattempo, suo fratello Sam si prepara a fare un annuncio importante che sconvolgerà la vita dei fratelli Winchester e segnerà, forse, il loro definitivo distacco.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Bobby, Castiel, Dean Winchester, Jessica Moore, Sam Winchester
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessuna stagione
Capitoli:
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Capitolo 2
Mercoledì 30 aprile 1975
 
 
La sveglia suonò alle sette del mattino seguente, ma Dean aveva già gli occhi aperti, aggrovigliato nelle lenzuola fradicie di sudore. Quella merda di sonnifero non è servita a un cazzo. Dovevo aprire un’altra bottiglia di brandy.
Con uno scatto d’ira calò una manata sulla sveglia, che si spense, poi si tirò su dal letto, scalciò via i pantaloni della tuta con cui aveva dormito e si diresse verso il bagno. Lasciò scorrere per un attimo l’acqua della doccia, per aspettare che si scaldasse ma soprattutto per farsi coraggio. Serrò con forza la mascella, chiuse gli occhi e con un respiro profondo fece un passo avanti sotto il getto. E, come ogni volta, l’acqua che scorreva sulla sua pelle gli parve quella rossa di sangue – suo o altrui non avrebbe saputo dirlo – delle risaie del Vietnam, e per un attimo gli parve di essere di nuovo immerso fino alle cosce in quell’acqua viscosa, accucciato tra i cadaveri degli altri soldati. I movimenti frettolosi delle mani insaponate si lasciavano dietro una scia di brividi che lo spronavano a porre fine a quella sofferenza. Dean trattenne il fiato mentre sciacquava via il sapone e il sudore della notte insonne e riprese a respirare solo quando chiuse l’acqua e uscì dalla doccia. Mentre si asciugava bruscamente il corpo, ansimava come se fosse rimasto in apnea per chissà quanto tempo. Le mani tremanti lasciarono cadere un paio di volte i jeans prima di riuscire a indossarli, e ogni volta un flebile dai cazzo esalava dalle sue labbra. Quando il suo sguardo cadde sullo specchio che aveva rotto la sera prima, e per un attimo i suoi occhi riflessi tra le crepe gli parvero blu come quelli di Castiel Novak, Dean sbottò ad alta voce: “Cazzo!”
Lasciò lo specchio così come stava, infilò una maglietta nera e una camicia a quadri e se ne andò in cucina. Dopo un paio di uova spinte in fretta dentro uno stomaco ostinatamente chiuso, Dean uscì e scese in strada. Il sole illuminava di una vivace luce calda la via dove, durante la notte, i manifestanti si erano dispersi. Erano rimaste bottiglie vuote sul marciapiede, un paio di cartelloni abbandonati, mozziconi di sigaretta e spinelli negli angoli. Dean tirò dritto verso il fondo della via, dove aveva parcheggiato l’Impala, quasi marciando.
Guidò lentamente fino al garage, parcheggiò e si presentò al lavoro. Bobby lo accolse con il solito cenno del capo, che celava in realtà un profondo dolore nel vedere ridotto così il figlio del suo migliore amico. Ma, solo un paio d’ore dopo, Bobby venne da lui e gli chiese di andarsene.
“Bobby, ho bisogno di quei cazzo di soldi, lo sai”, protestò Dean.
“Lo so, figliolo, e ti pagherò”, rispose Bobby, calzandosi meglio il cappellino da baseball in testa. “Ma so anche che oggi non sei in grado di lavorare.”
“Come sarebbe a dire?”
Bobby lo osservò in silenzio, poi spostò lo sguardo sulla chiave inglese che Dean teneva in mano. “Che ci stai facendo, con quella?”
Dean esitò. Si rese conto che non sapeva come rispondere.
 “Quel che voglio dire, Dean, è che lavori troppo. Ti stai ammazzando, qua dentro. Fino a che ora sei rimasto, ieri?”
Dean non ne aveva la minima idea. Il concetto di tempo era molto confuso, da quand’era tornato. “Non lo so”, ammise.
Bobby sospirò. “Facciamo così. Finisci di cambiare l’olio a quella Mustang, poi vattene a casa. E domani è il primo maggio, ci rivediamo venerdì. D’accordo?”
Dean deglutì, arricciando le labbra in quel modo tutto suo che faceva comparire due fossette proprio sopra il labbro superiore. Fece una tenerezza immensa a Bobby, che per un attimo rivide in lui il bimbo che aveva appena perso la madre.
“No.”
“Dean”, lo ammonì Bobby, con sguardo torvo.
“Andrò via prima”, concesse lui, “ma lasciami lavorare ancora un po’. Ne ho bisogno.”
Bobby sospirò, conscio che Dean non stava più parlando di soldi, ma della sua testa. “Alle quattro voglio che porti il culo fuori da qua.”
“Sissignore”, replicò Dean, lo sguardo fisso oltre la spalla di Bobby.
“E piantala di chiamarmi così”, sbottò Bobby, tornando dietro il bancone. “Non sono quel pazzo di tuo padre, né uno dei tuoi superiori in quella fogna di musi gialli dove ti hanno spedito. Sono solo un vecchio scorbutico che si è stancato di vederti in queste condizioni.”
Dean lasciò andare le mani, che non si ricordava di aver stretto spasmodicamente intorno alla chiave inglese, e si voltò proprio mentre nell’officina risuonava il tocco, gentile ma deciso, di una mano che bussava sul portone aperto.
“Ciao, Dean.”
Castiel Novak stava sulla soglia, i capelli neri spettinati e un impermeabile che gli fasciava il corpo, minuto e sottile solo in apparenza. Dean scacciò dalla mente le immagini del corpo nudo di Castiel sotto di lui e di quei muscoli pieni e sodi che avevano popolato i suoi sogni per tanto tempo.
Bobby squadrò Dean e Castiel, a metà tra il perplesso e il sospettoso, ma subito tornò a dedicarsi alle vecchie fatture che stava mettendo in ordine.
Dean rimase immobile di fianco alla Ford Mustang su cui stava lavorando, mentre Castiel muoveva qualche passo verso di lui ed entrava nel cono di luce gettato dai neon. “Volevo vederti”, spiegò Castiel, fermandosi davanti a lui.
Dean l’osservò in silenzio per un istante, poi chiese: “Perché?”
L’accenno di sorriso sulle labbra di Castiel sembrò vacillare appena. “Non vuoi accettare la visita di un vecchio amico?”
Dean lo scrutò, serio, ma non trovò traccia di nient’altro, in quegli occhioni azzurri, che non fossero, semplicemente, buone intenzioni. Lo disgustò. E subito dopo, gli solleticò il cuore. Dean s’inumidì appena le labbra e finalmente si risolse a sussurrare un grazie, stringendo la mano affusolata che Castiel gli porgeva.
“Dean”, chiamò Castiel con voce sommessa. Al sentire il proprio nome, Dean s’irrigidì, ma sollevò lo sguardo nel suo. “So che stai lavorando, e mi dispiace piombare qui così, ma pensavo… Se ti va, magari potremmo mangiare qualcosa insieme, stasera. Sono in ferie fino a lunedì.” Sembrò riflettere, poi aggiunse: “È un po’ che non ci vediamo.”
Dean era sul punto di replicare, acido, qualcosa del tipo ci siamo visti ieri, ma si morse la lingua. Un panino e una birra. Un jukebox. Castiel seduto davanti a lui sui divanetti della tavola calda. Mi piacerebbe.
L’osservò in silenzio. Poi mormorò: “Mi piacerebbe.”
Castiel sorrise, e fu come se agli occhi di Dean i colori si fossero fatti improvvisamente più intensi. “Passi a prendermi alle sette?”
Dean annuì.
 
Alle sette meno cinque, Dean parcheggiò l’Impala esattamente davanti al vialetto della casa di Castiel. Era una villetta a due piani in una bella zona residenziale. Dean ricontrollò l’indirizzo che Castiel gli aveva scritto su un biglietto e, quando fu sicuro di essere nel posto giusto, spense il motore e si abbandonò contro il sedile. Non appena le sue dita girarono la chiave nel cruscotto, presero a tremare più violentemente del solito. Dean strinse i pugni e li ficcò nelle tasche della giacca, ma non servì a niente. Quando iniziò anche a mancargli il respiro, decise che ne aveva avuto abbastanza. Si allungò oltre l’abitacolo e dal vano del cruscotto estrasse un barattolino di pastiglie. Ne mandò giù una a secco e si affrettò a mettere via la confezione per non rischiare di farsi prendere la mano e finirla tutta. Non che sarebbe stata la prima volta. Si sforzò di respirare profondamente ad occhi chiusi, e proprio quando li riaprì vide che Castiel si stava affacciando alla finestra. Gli fece segno di entrare, poi sparì di nuovo. Dean sospirò e con uno sforzo che lo lasciò quasi senza fiato si impose di uscire dalla macchina. Subito si strinse nella giacca: non si era reso conto che aveva iniziato a tirare un forte vento, stranamente freddo per la stagione. Lanciò un’occhiata al cielo e vide che continuavano ad addensarsi grosse nuvole scure. Grigie. Come il Vietnam.
Dean si riscosse con stizza e si avviò lungo il vialetto. Arrivato sotto il portico, bussò appena con le nocche e Castiel aprì la porta. “Scusami, non ho fatto in tempo a prepararmi.”
“Che è successo?”, chiese Dean, entrando in casa.
“Ho fatto tardi al lavoro”, rispose Castiel, chiudendo la porta alle sue spalle e facendogli segno di sedersi sul divano.
“Credevo fossi in ferie”, disse Dean, rimanendo in piedi a osservare la casa. Mobili di qualità, una bella radio, una grande televisione – un modello appena uscito, a colori, Dean l’aveva visto su una rivista. Lo stipendio da chirurgo non aveva niente a che vedere con quello da meccanico, per quanto gonfiato dai sussidi statali per veterani.
“C’è stata un’emergenza”, spiegò Castiel, sparendo in un’altra stanza per andare a cambiarsi.
“Mmm”, fece Dean, lanciando un’occhiata fuori dalla finestra. Proprio allora il fragore di un tuono esplose pochi isolati più in là, subito scavalcato dal ricordo dei bombardamenti, e Dean sussultò violentemente. Sbatté il lato del pugno contro il muro, incazzato per quanto si sentiva debole. E per fortuna che ho appena preso un tranquillante, pensò con ironia amara.
“Rimaniamo a casa, se preferisci.”
Dean si voltò. Castiel lo guardava, vagamente preoccupato, appoggiato allo stipite in fondo alla stanza. Dean capì che aveva visto la scena.
“No.”
Fece per avviarsi verso la porta d’ingresso, ma le gambe gli cedettero e per poco non perse l’equilibrio. Si aggrappò al davanzale della finestra, ma di nuovo le ginocchia lo tradirono e lui si lasciò cadere sul divano. Un altro tuono, ancora più vicino, fece sì che Dean artigliasse il bracciolo con tutte le sue forze come per non lasciarsi trascinare via dai ricordi.
Riaprì gli occhi. Non era consapevole di averli chiusi. Castiel l’osservò ancora un istante, poi girò sui tacchi e sparì in cucina. “Metto su la cena”, annunciò.
“No, davvero, ce la faccio”, insistette Dean, alzandosi finalmente in piedi, ma Castiel non rispose. Dean lo raggiunse controvoglia e, proprio mentre entrava in cucina, iniziò a piovere. E, subito dopo, a diluviare.
Castiel gli lanciò un’occhiata. “Visto? È meglio se stiamo a casa”, sentenziò, aprendo il frigorifero. Dean l’osservò in silenzio mentre cercava qualcosa con cui raffazzonare una cena per due. “Non ho granché”, si scusò Castiel, armeggiando nel frigo. Dean lo vide improvvisamente in difficoltà. “Forse posso mettere su un…?”
“Faccio io”, lo interruppe Dean, e solo quando Castiel si fece da parte per lasciargli il suo posto davanti al frigo, si chiese perché si fosse offerto. Non cucinava più da quand’era stato arruolato, non come prima almeno. Analizzò comunque il contenuto del frigo e – porca puttana, mi tocca farlo sul serio – si rese conto che c’erano tutti gli ingredienti per riprodurre il timballo di sua madre.
Poco dopo, la casseruola era in forno. Era ancora presto, avrebbero comunque mangiato a un’ora decente. Castiel aveva appoggiato i gomiti al bancone della cucina e osservava la cena al di là del vetro del forno.
“Wow”, disse. Dean finì di lavarsi le mani nel lavandino e lanciò un’occhiata interrogativa a Castiel mentre afferrava uno straccio per asciugarsi.
“Sono proprio un disastro, a cucinare”, constatò Castiel. “Non ho idea di come tu abbia fatto a preparare quella cosa. Che roba hai detto che è?”
“Timballo di maccheroni”, rispose Dean, gettando lo straccio da parte. Andò a sedersi a tavola. “Tu hai apparecchiato”, offrì come consolazione.
Castiel rise brevemente. “Già”, fece, andando a sedersi di fronte a Dean. “Come sai la ricetta a memoria?”
Dean abbassò lo sguardo. “È una ricetta di mia madre. La preferita di Sammy. L’avrò fatta un centinaio di volte.” Castiel sembrò voler chiedere qualcosa, ma Dean lo precedette. “Mia madre è morta quando eravamo piccoli. Sam aveva solo sei mesi, io quattro anni. E mio padre, diciamo che era come se non ci fosse. Ho dovuto imparare a cucinare e occuparmi di Sam.”
Ci fu un attimo di silenzio, e Dean distese le labbra in una smorfia. Perché gli racconto i cazzi nostri? Ma era Castiel, non uno sconosciuto.
“Mi dispiace”, disse Castiel. Dean non rispose e Castiel pensò che fosse meglio deviare il discorso. “Come sta Sam?”
Gli occhi di Dean sembrarono riacquistare un po’ di luce. “Sam è un cazzo di secchione”, dichiarò, e Castiel rise. Si sollevò leggermente anche l’estremità delle labbra di Dean. “È entrato a Stanford con una borsa di studio che copre tutte le spese. Giurisprudenza.”
“Siete molto legati, non è vero?”, chiese Castiel, ammirato. “Me lo ricordo, testardo come un mulo. Non siamo mai riusciti a sbatterlo fuori dall’ospedale, è rimasto con te ogni notte quand’eri ricoverato.”
Dean s’irrigidì impercettibilmente. “Sì, siamo molto legati”, disse dopo un attimo di esitazione, ma poi si zittì di nuovo, in un continuo andirivieni di indecisione riguardo a se e cosa raccontare. Gli occhi di Castiel erano luminosi e sinceri e Dean tornò a respirare più facilmente, ma decise comunque che per il momento era abbastanza. Si alzò e accese la televisione.
Ha una televisione in soggiorno e una in cucina e io è già tanto se posso permettermi di tenere la macchina di papà. Wow. Almeno questa televisione è in bianco e nero.
Castiel non protestò all’evidente tentativo di Dean di cambiare argomento. Accettò il corso della conversazione e osservò Dean che cambiava canale un paio di volte, finché non si bloccò sul telegiornale.
Il presidente sudvietnamita Dương Văn Minh, detto Big Minh, in carica da soli due giorni, ha annunciato la resa incondizionata.
Dean si accasciò sulla sedia.
   
 
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