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Autore: vero_bonnie    21/07/2021    2 recensioni
È la primavera del 1975. Il giovane meccanico Dean Winchester è tornato dal Vietnam, a pezzi non solo per una brutta ferita di guerra ma anche e soprattutto per l’incapacità di lasciarsi amare. Il giorno in cui finisce la guerra, Dean incontra casualmente Castiel Novak, il chirurgo che gli ha salvato la vita. Nel frattempo, suo fratello Sam si prepara a fare un annuncio importante che sconvolgerà la vita dei fratelli Winchester e segnerà, forse, il loro definitivo distacco.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Bobby, Castiel, Dean Winchester, Jessica Moore, Sam Winchester
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessuna stagione
Capitoli:
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Capitolo 4
Giovedì 1 maggio 1975
 
 
Dean spalancò gli occhi, ansimante, fradicio di sudore, e si ritrovò steso scompostamente a terra. Un improvviso fascio di luce lo accecò.
“Ma che…?!”
“Ti ho preparato il caffè”, lo informò Castiel, mentre apriva le tende di entrambe le finestre del soggiorno. “Ti farà bene.”
“Oh, buongiorno anche a te, bellezza”, mugugnò Dean, acido, guardando Castiel in cagnesco.
“Ehi, avevi bisogno di svegliarti. Stavi urlando in un modo atroce.”
Dean cambiò subito espressione, si alzò in piedi e iniziò a rivestirsi, frenetico. “Non volevo neanche restarci, qua. Tu e il tuo cazzo di divano minuscolo, non ci sto nemmeno, devo essere caduto nel sonno”, borbottò mentre le dita tremanti si incastravano nei bottoni della camicia. “Adesso tolgo il disturbo, comunque.”
“Dean”, fece Castiel con un sospiro, bloccandolo mentre afferrava la giacca per andarsene. “Rimani. Bevi il caffè con me”, disse, guardandolo dritto negli occhi. E aggiunse subito: “Scusami.”
Dean sbuffò, derisorio. Patetico. L’ho appena trattato di merda ed è lui che chiede scusa a me. Davvero patetico. Subito dopo si rese conto dell’assurdità di quel pensiero e scosse la testa. “No, scusami tu. Il caffè lo bevo volentieri.”
Ma proprio mentre pronunciava quella frase, lo colse un conato e Dean si ritrovò piegato in due, le gambe che lo reggevano a malapena. Castiel accorse e lo cinse con le braccia attorno alla vita per trascinarlo, quasi di peso, fino al bagno. Gli sorresse la testa finché i conati cessarono, poi rimase con lui mentre si sciacquava il viso e gli diede uno spazzolino che teneva di riserva.
“Hai macchiato la maglietta”, gli fece notare con un ghigno quando Dean ebbe finito di lavarsi i denti. “Ma sono abbastanza sicuro che sia dentifricio.”
“Merda”, sbottò lui a bassa voce.
“Mi dispiace non averti nemmeno prestato un pigiama”, disse Castiel, dirigendosi verso la cucina. Dean lo seguì e lo guardò posare sul tavolo due tazze di caffè e due piatti di uova e pancetta. “Ma ieri sera sei crollato e non volevo svegliarti.”
Ieri sera. D’un tratto la serata riemerse, vivida, nei ricordi di Dean e il panico iniziò a montare. Avevano davvero…? Merda. Merda merda merda. Non è possibile, come cazzo è possibile…
“Ehi.” Gli occhi di Dean si sollevarono di scatto a incrociare quelli di Castiel. “Va tutto bene. È stato bello.”
“Non ho… fatto qualcosa di male?”, chiese lui. “Non ti ho fatto male?”
Castiel spalancò gli occhioni blu, incredulo. “Cosa? No. No, certo che no. Che cosa stai dicendo?”
Dean deglutì, incapace di fare altro. “È che… Okay. Bene.”
“Non ti ricordi?”, chiese Castiel, e a Dean parve che il tono fosse vagamente triste.
Dean scosse la testa. “Poco. Molto poco.”
Castiel abbassò lo sguardo e le sue spalle sembrarono calarsi un po’. Subito si voltò e disse: “Vieni a mangiare”, mentre si sedeva a tavola. Dean lanciò uno sguardo alla colazione e sentì lo stomaco ribellarsi, ma si sedette lo stesso. Poi Castiel sorrise, e lo stomaco di Dean tornò al suo posto.
Ma non durò a lungo.
“Cazzo!”, gridò, alzandosi in piedi. “È domani!”
Castiel lo guardò incredulo mentre Dean aggirava il bancone della cucina per andare a controllare il calendario appeso al muro. “Cosa, è domani?”
Dean sospirò appena ebbe verificato la data e si accasciò contro il frigorifero. “Il compleanno di Sam.”
Castiel si alzò e lo raggiunse con i suoi passi leggeri. “E quindi? Hai dimenticato di prendergli un regalo?”, chiese, inclinando la testa con quel suo fare perplesso.
“Magari”, sbuffò Dean. “Potrebbe essere una scusa per non andarci.”
Castiel aggrottò le sopracciglia. “Dean, tu adori tuo fratello. Che cosa c’è che non va con il suo compleanno?”
Dean sospirò. “Non mi va di parlarne”, sbottò poi, aggirando Castiel per tornare verso la tavola.
“Dean”, fece Castiel con tono dolce, seguendolo. “Andiamo. A me puoi dirlo.”
“Perché dev’esserci qualcosa da dire?!”, esplose Dean, girandosi a guardarlo. “Perché devi sempre psicanalizzarmi? Eh? Mi hai guarito quella volta, adesso non è più compito tuo occuparti di me. Lasciami in pace.”
Castiel lo guardava impassibile mentre Dean camminava avanti e indietro sulla soglia della cucina. Aspettò che si fermasse. “Che hai da guardare?”, ruggì Dean.
“Hai finito?”, chiese Castiel, per niente impressionato. Dean non rispose, sorpreso. “Bene, allora parlo io”, fece Castiel, e si alzò per raggiungere Dean. “Voglio sapere degli incubi: che cosa sogni, da quanto tempo va avanti. Voglio sapere delle pillole. Voglio sapere di tuo fratello. Voglio sapere tutto e voglio che tu sappia che puoi dirmi tutto. Ma non ti forzerò, se non vuoi. Sarò qui ad aspettare che tu voglia aprirti. E se non succederà mai, pazienza. Sarò comunque qui. Solo, non respingermi in questo modo, perché non vado da nessuna parte. E perché una volta avevi buone maniere, Dean Winchester. Non deludermi.”
“Ho già deluso tutti, Cas.” Castiel l’osservò, in attesa che continuasse, ma Dean chiese invece: “E comunque, perché t’importa tanto?”
“Perché sei venuto a letto con me, stanotte?”
Dean si bloccò, senza fiato. “Cosa?”
Castiel aveva parlato con tono piatto, senza lasciar trasparire alcuna emozione, e a Dean pareva di morire. “Mi hai sentito.”
Messo alle strette, Dean sbottò: “Perché ce l’avevo duro – non lo so, Cas, che razza di domanda è?”
Castiel annuì. Fece un sospiro profondo, poi si sedette e iniziò a mangiare, senza staccare gli occhi dal piatto.
Dean sgranò gli occhi. “Cas?”
Castiel sollevò lo sguardo su di lui, senza smettere di masticare. “Mmm?”
Dean lo guardava sconvolto. “Che stai facendo?”
“Colazione”, rispose Castiel a bocca piena. “Tu che stai facendo?”
Dean aprì la bocca per ribattere, ma non gli venne in mente niente, così la richiuse. Poi la riaprì e la richiuse di nuovo.
Castiel venne in suo aiuto mentre continuava a mangiare, imperturbabile. “Dico, cosa ci fai ancora qui. Se volevi solo scopare, puoi anche andartene, adesso.”
Per un attimo Dean non si mosse. Castiel sapeva che in quell’attimo Dean stava cercando di combattere l’istinto di scappare, salire in macchina e sparire senza farsi più vedere. Per cui gli lasciò un paio di secondi. Poi, senza staccare gli occhi dal caffè, parlò di nuovo: “Ma se scegli di restare, a me fa piacere.”
 
Dean insistette per lavare i piatti, anche quelli della sera prima. Castiel accettò di buon grado e lo aiutò, asciugando e riponendo ogni cosa al suo posto quando Dean ebbe finito. L’intimità della scena era un dolore costante nel petto di Dean, ma lui fece del suo meglio per ignorare la sensazione. Ogni volta che gli pareva di non farcela, lanciava un’occhiata fuori dalla finestra: durante la notte aveva smesso di piovere e ora il sole primaverile era riapparso in tutto il suo vigore. Alla fine Dean percepì di nuovo dentro sé quella smania di estate e si sentì soffocare.
“Usciamo di qui”, disse, tirando fuori le chiavi della macchina dalla tasca. Castiel le riconobbe e, ricordandosi la venerazione di Dean per l’Impala, venerazione che non era sicuro di capire appieno, ridacchiò e lo seguì fuori.
Quando imboccò l’autostrada, la Bayshore Freeway appena fuori Palo Alto, Dean sentì che Castiel stava per chiedergli spiegazioni. “Voglio vedere il mare”, lo anticipò.
Castiel si rilassò impercettibilmente. “Half Moon Beach?”, chiese.
Dean scosse la testa. “Miramar Beach.”
Meno di un’ora dopo erano arrivati. Non avevano parlato molto durante il viaggio, ma quelle poche parole che si erano scambiati erano state piacevoli per entrambi. Il resto lo aveva fatto Bob Seger, con il suo album Beautiful loser. Dean era corso in negozio a comprare la cassetta appena era uscito, pochi mesi prima, e l’aveva già consumata a furia di ascoltarla. Anche lui si sentiva un beautiful loser.
Si sistemarono direttamente sulla sabbia, incuranti del fatto che non avevano né costumi, né asciugamani, né sedie sdraio. Non importava. C’era il sole e faceva caldo come fosse agosto, nessuna traccia del temporale della sera prima. C’era una leggera brezza salmastra. L’oceano. La spiaggia piena di gente, venuta a passare in compagnia il giorno festivo. E c’erano loro due.
“Dean”, fece Castiel. “Perché siamo qui?”
“Volevo vedere il mare”, ripeté Dean.
“Lo so, me l’hai detto. Intendo, perché proprio qui? Half Moon Beach è molto più vicina. È lì che vanno tutti, da Palo Alto.”
Dean annuì e per qualche istante non disse nulla. Proprio quando Castiel credeva che avrebbe lasciato cadere il discorso, Dean parlò. “I miei genitori ci hanno raccontato di questa spiaggia. Ma non l’avevo mai vista e ho voluto venirci con te.”
Castiel accennò un sorriso, ma non intervenne. Dean continuò: “La mia famiglia è del Kansas. Anche Sam e io siamo nati a Lawrence, poi Sam si è trasferito qui quando è entrato a Stanford e io l’ho raggiunto al ritorno dal Vietnam. Ma tanti anni fa i miei erano in vacanza a San Francisco e decisero di esplorare la California in macchina. Un giorno finirono qui e, dopo aver passato la giornata in spiaggia, andarono a cena fuori in uno di questi ristoranti sul lungomare – non so quale, ma magari non esiste nemmeno più. C’era una terrazza, mangiarono fuori. Lo so perché mia madre mi raccontò di aver visto il riflesso della luna nel diamante dell’anello, prima di capire che cosa stesse succedendo. Mio padre le chiese di sposarlo proprio qui, guardando questo oceano. Mia madre diceva sempre che questo era il suo posto preferito al mondo.”
Castiel sorrise. “È splendido”, convenne, senza distogliere lo sguardo dal viso di Dean. Dean non colse il sottinteso.
Rimasero in silenzio per qualche minuto, poi Dean prese di nuovo la parola. “Gli incubi sono iniziati quando sono rimasto ferito. Ma non sogno il Vietnam. O almeno, non solo. Sogno l’incendio in cui è morta mia madre. E a volte si confonde con l’incendio in Vietnam.” Dean esitò, si fece coraggio e riprese. “Mia madre è morta nell’incendio che ha distrutto la nostra casa il 2 novembre 1953. Io avevo quattro anni, Sam sei mesi esatti. Mio padre tornò dentro a prendere la mamma… Ma per lei non c’era niente da fare e anche mio padre non è mai più stato lo stesso. Iniziò a bere, a sparire per giorni interi. E a metterci le mani addosso quelle rare volte che era a casa. Sam l’ho praticamente cresciuto io. Da quella notte, quando mio padre mi disse di prendere mio fratello e portarlo fuori dalla casa in fiamme, è sempre stato il mio compito occuparmi di lui. Papà continuò a lavorare all’officina, Bobby glielo permetteva solo perché erano amici. Finché, nel ’65, mio padre non ce la fece più: si arruolò in Marina e si fece spedire in Vietnam, immagino per soddisfare un inconscio istinto suicida. È morto il 18 dicembre di dieci anni fa, durante l’operazione Harvest Moon insieme ad altri 44 disperati. E quando sono stato mobilitato io, sapevo di essere l’ennesimo pezzo del puzzle della nostra famiglia ad abbandonare Sam… L’ultimo pezzo. E non me lo sono mai perdonato.” Dean si fermò un istante per prendere fiato, gli occhi al cielo, e fu grato a Castiel perché non parlò. “Quindi se ho gli incubi e gli attacchi di panico”, riprese, la voce rotta, “se bevo e prendo quelle maledette pastiglie, se basta un tuono a farmi frignare come un bambino – e se sono così stronzo, e se non riesco a parlarti come vorrei, e come meriti – ecco, non sono sicuro che sia dovuto solo alla guerra.”
Castiel osservò per qualche istante Dean che fissava il mare e tamburellava le dita sulla coscia – giusto per tenere le mani occupate e concentrarsi su qualcosa che non fosse Sam, nella speranza vana che Castiel facesse lo stesso. Invece Castiel gli posò una mano sulla sua per fermare il tic nervoso. Dean si voltò di scatto e ritrasse la mano come un animale ferito, ma subito si riprese e posò la sua mano su quella di Castiel. “Scusa”, mormorò. “Non lo faccio apposta.”
“Lo so.”
Questo scatto aveva ricordato a entrambi la sfuriata di quella mattina, riguardo al discorso su Sam che adesso aleggiava tra loro, tanto pesante da oscurare un po’ il sole. Eppure la mano di Castiel era così sottile e delicata sulla sua pelle che Dean, per la prima volta, era sul punto di cedere e abbandonarsi completamente al tocco confortante di quelle dita che gli avevano salvato la vita. Per un istante si cullò nell'idea di aprire le gabbie e lasciar liberi i propri demoni, di mostrare a Castiel gli angoli più bui della propria anima, certo che non sarebbe stato accusato, certo che sarebbe stato al sicuro da ogni cosa – persino da se stesso. Ma subito si riscosse e il suo viso si indurì. Che cazzo dici, Winchester. È solo un dottore che ti sei scopato un paio di volte. Piantala di fare la femminuccia. I ricordi della loro prima notte insieme, appena Dean era stato dimesso dall’ospedale pochi anni prima, riemersero e lo travolsero come un fiume in piena, mozzandogli il respiro. D’un tratto sentiva caldo e divenne consapevole del sudore che gli incollava i capelli sulla fronte. Una stretta al petto gli impediva di respirare. E all’improvviso ecco che tutto ciò che riusciva a vedere era un blu intenso e infinito.
“Respira”, sussurrò Castiel, piano ma con voce ferma e decisa.
Dean si rese conto che il blu che l’aveva inghiottito era il colore degli occhi di Castiel, che gli si era seduto di fronte e che ora gli stringeva forte le ginocchia con le mani, senza togliergli gli occhi di dosso. Dean sbatté le palpebre un paio di volte e si sforzò di far combaciare il proprio respiro con quello di Castiel. Gli sembrava che lo stesse strappando via dall’inferno per la seconda volta.
Non appena riacquistò un minimo di lucidità, i pensieri ritornarono e con loro anche il bisogno di scappare o respingere Castiel. Eppure non riusciva ad alzarsi e non riusciva a formulare le parole non voglio più vederti – non nella sua testa, né tantomeno ad alta voce. Perché non era vero. Le mani di Castiel erano forti ma delicate sulle sue gambe e dicevano sono qui per te, ma non c’è bisogno di mettere in piedi sceneggiate e in qualche modo Dean sentiva che era davvero così, che con lui non aveva bisogno delle mura e delle barriere che usava per tenere lontane le persone per proteggersi e per proteggerle.
“Mi dispiace per com’è finita, quella volta.”
Ora fu il turno di Castiel di trasalire e irrigidirsi, preso alla sprovvista e punto sul vivo. Ma non disse nulla e si limitò a guardare Dean con un pizzico di sospetto negli occhi.
“Ero a pezzi. Lo sono ancora, ma allora… Era la prima volta che mi sentivo così. Così come mi fai sentire tu. E non sapevo che cosa farmene, di quei sentimenti, perché era tutto nuovo. Quindi sono scappato, che è quello che faccio sempre, sono sparito. Ma con te stavo bene. Con te sto bene come credevo che non sarei mai più stato. Con te sto bene come nei miei primissimi ricordi, quando la sera prima di dormire chiedevo a mia madre di raccontarmi la storia dell’anello scintillante sulla spiaggia in California. E l'unica persona al mondo con cui mi ero sentito così, finché non ti ho conosciuto, era Sam.”
Castiel era immobile, ma non gli toglieva gli occhi di dosso.
“Domani è il compleanno di Sam”, riprese Dean. “Dà una festa a casa sua e non voglio andarci. È vero. Ma non chiedere. Ci sto male.”
Castiel alzò una mano in segno di resa – l’altra stringeva ancora le dita di Dean. Decise che già quel ci sto male era un passo avanti. “Potrei venire con te”, propose, d’istinto. “Voglio dire, se può aiutare.”
Dean si voltò verso di lui e nel farlo gli cadde l’occhio sulle loro mani intrecciate. Ecco di nuovo il bisogno di scappare, nonostante tutto ciò che aveva appena detto.
Voleva dire che non gli serviva un tutore perché era perfettamente in grado di gestire suo fratello. Voleva dire che Castiel avrebbe fatto meglio ad andarsene finché era in tempo, perché Dean non sapeva che cosa stesse succedendo nella sua stessa vita ed era da anni ormai che aveva perso il controllo. Voleva dirgli di lasciarlo in pace, perché non aveva bisogno della sua pietà e Castiel non aveva bisogno dei suoi problemi. Ma voleva anche dirgli che gli piacerebbe. Andare al compleanno di Sam con Castiel. Gli piacerebbe un sacco.
Deglutì. Tornò a guardare Castiel e gli si strinse il cuore. “Se per te non è un disturbo”, riuscì a dire a fatica, evitando il suo sguardo.
Castiel sorrise, perfettamente conscio del divario tra l’intensità di ciò che Dean provava e ciò che invece aveva deciso di dire. “È un piacere.”
   
 
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