Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: Green Star 90    25/07/2021    2 recensioni
[...] «quando uno dei capitoli più belli ma anche dolorosi della mia esistenza si è concluso, per almeno un anno non mi sono permesso di andare a trovare mia sorella al cimitero. C’era una sorta di rifiuto che non avevo ancora metabolizzato, era come se assieme a lei andassi a trovare anche le persone care che avevo perduto in Nordafrica e non mi sentivo pronto a farlo, non volevo dirgli veramente addio. Un bel giorno ho riaperto il mio zaino e ci ho trovato dentro la sciarpa dell’amico che mi aveva aiutato a vendicarla e… ho pianto come un deficiente!».
Fugo aveva sbruffato nell’immaginare un tipo flemmatico come lui lasciarsi andare a tal guisa.
«Scusami, è che non riesco a farmi un’idea mentale della scena»
«Non è un problema, rimarresti sconcertato se ti venissero a raccontare di com’ero a vent’anni».
***
Dodici racconti sulla vita, la morte e l'oltre vita.
Buona lettura.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Sorpresa
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Jojo in Heaven'
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8- La metafisica del primo incontro

La metafisica del primo incontro

 

Come you masters of war
You that build the big guns
You that build the death planes
You that build all the bombs
You that hide behind walls
You that hide behind desks
I just want you to know
I can see through your masks

Bob Dylan, Masters of War

Un racconto sul non-esistente

 

Fra tutte le sensazioni che Reimi Sugimoto e Arnold potevano aspettarsi di provare nella loro nuova casa non v’era certamente l’impressione di essere stati catapultati dentro un quadro di De Chirico, e per la precisione un quadro di De Chirico assai confuso. Non che lo spettro della ragazza si aspettasse un aldilà movimentato, ma non credeva di dovere fare i conti col paesaggio desolato di una cittadella praticamente deserta e bagnata dalla luce rossastra di un tramonto – o alba? – sempiterno. Fatto ancora più curioso, ai due lati del selciato sul quale lei e l’animale si ritrovarono a camminare si ergevano costruzioni dagli stili architettonici più disparati: un simil Partenone ultraterreno con la sua esplosione di colori accanto a un obelisco di pietra reso di fuoco grazie al rosso perenne del mezzo disco solare che sembrava voler sfidare la sinagoga piazzata di fronte a lui con le sue tre navate e le sue cupole che faceva di tutto pur di sminuire la grazia discreta di una cappella con l’effigie del Cristo risorto posto dirimpetto alla gagliarda pseudoellittica di un anfiteatro romano che oscurava quasi del tutto una statua votiva del Buddha sdraiato che osservava sornione un palazzone grigio fumo reso ancora più brutto dalla bellezza variopinta di una Nike ricostruita che sollevava la mano destra in direzione di una moschea dorata…
Reimi serrò le palpebre per un attimo e abbassò il capo; quel disordine immobile la confondeva. L’unica certezza di cui disponeva era il contatto rassicurante col pelo di Arnold, che sollevò il muso lungo la sua gamba e scodinzolò piano per comunicarle che, forse, anche lui si sentiva spaesato. Reimi riaprì gli occhi: i palazzi, i templi e il sole rosso c’erano ancora con tutto il loro carico di inquietudine, ma a rassicurarla c’era comunque il suo amico a quattro zampe col suo manto marroncino di sempre e la sua espressione rassicurante dietro gli occhioni docili di cane paziente.
Si accovacciò per accarezzargli il collo e l’animale rispose come di consueto schiudendo un poco la bocca, e fu allora che si accorse della mancanza di qualcosa.
La ferita mortale alla gola era scomparsa.
Immediatamente si toccò la schiena alla ricerca del segno che si portava dietro da quando era stata uccisa e al suo posto toccò nient’altro che la propria pelle sana e apparentemente mai offesa.
«Strano, non trovi?» domandò al suo unico interlocutore che non poté fare altro che continuare a scodinzolare.
«Che ne dici se cerchiamo di scoprire qualcosa su dove siamo finiti?» riprese la ragazza, per nulla felice della situazione, ma nemmeno spaventata.
Una bizzarra situazione.
«Allora, cosa farebbe qualcuno che conosciamo bene?» disse, stavolta più a sé stessa che ad Arnold «Scommetto che questo qualcuno non perderebbe tempo e cercherebbe di capire perché sia finito qui, poi si armerebbe di carta e matita e inizierebbe a disegnare… Ma cosa inizierebbe a disegnare? Forse quella basilica giù in fondo? Quella statua di Minerva? Oppure quel tera dalla parte opposta?».
Era certa che il signor qualcuno avrebbe scelto l’edificio o il tuttotondo più fuori posto che fosse riuscito a trovare, e fu proprio Arnold a suggerirle di incamminarsi in direzione di quello che finora meritava il primo premio di opera architettonica più brutta mai concepita da umano ingegno, almeno secondo i suoi gusti personali.
Le zampe del cane, quindi, si mossero lentamente verso un immenso blocco di cemento armato a forma di torrione.
«Sì, è veramente terribile Arnold. Ti faccio i miei complimenti» Reimi attraversò la strada per avvicinarsi alla sua prima vera destinazione concreta da spirito dell’aldilà chiedendosi se fosse la scelta più saggia da fare.
Non che importasse molto, alla fine. Se lei e Arnold non erano più materia lo stesso valeva per il luogo che percepivano come reale intorno a loro, quindi tanto valeva scoprire cosa riservava per loro la vita eterna.
La porta d’ingresso del mostro grigio, già aperta e pronta, a quanto pareva, ad accoglierli, era minuscola come le finestrelle che si intervallavano sui fianchi delle torri, ma non fu difficile individuarla perché dall’interno era percettibile una luce diversa da quella esterna, una luce artificiale che richiamava quella rassicurante degli interni di una casa.
Fu straniante constatare la differenza tra i silenzi che si interfacciavano tramite quel rettangolo di vuoto: se fuori l’immobilità recava una sorta di timore ancestrale della fine anche per lei che l’aveva vissuta, dentro il velluto rosso e le lampade appese alle pareti le davano la sensazione che non avrebbe avuto nulla di cui temere. Guardò ancora il paesaggio esterno, come se volesse accertarsi della presenza di quel sole anomalo, e infine si decise a mettere piede nell’antro del mostro.
Reimi e Arnold si ritrovarono a percorrere un corridoio bene illuminato e decorato di specchi incastonati in cornici riccamente elaborate. Il loro riflesso restituiva l’immagine ribaltata di una studentessa giapponese e del suo cane all’apparenza in salute, vivi, con tanti anni quanti erano i chilometri dello stradone che si erano lasciati alle spalle. Il fantasma sbatté le ciglia: due occhi a mandorla su un bel volto di adolescente in fiore ripeterono il gesto.
«Andiamo» sussurrò al cane riprendendo a camminare «in fondo c’è qualcosa. Ma… vuoi vedere che…?».
In fondo si intravedeva uno spazio bianco, qualcosa che assomigliava vagamente a…
«Un’esposizione d’arte? Arnold, vieni, presto!» Reimi accorciò in fretta la distanza che la separava dalla sua intuizione e quando venne accolta dai dipinti le fu spontaneo restituire loro la gioia di averli trovati con un sorriso a trentadue denti.
Quell’ambiente, che non ricordava per nulla il suo triste involucro esterno, era incommensurabilmente grande. Qualcosa del genere, se rapportato alla città di Morio-Cho, equivaleva per ampiezza ad almeno metà della sua città natale, e ciò era incredibilmente straniante. Ma anche meraviglioso.
«Ah, se solo potessi vedermi» mormorò con un senso di riverenza nei confronti dei Caravaggio esposti alla sua sinistra «credo impazziresti».
Adesso, però, c’era un problema: quale quadro ammirare per primo? Un dilemma nel dilemma, pensò guardando Arnold che si appropinquava ad annusare l’olio del Cristo sul Monte degli Ulivi. Stavolta, però, toccava a lei decidere dove andare, e di certo avrebbe riservato al Merisi una visita approfondita in seguito.
I piedi si mossero automaticamente: gli diede le spalle, dato che seguitava a ispezionare quella sezione del museo, e così come aveva deliberatamente ignorato la fonte dell’attenzione dell’animale fece lo stesso con tutti gli altri dipinti. Tanto avrebbe avuto l’eternità a disposizione.
E proprio l’eternità le sentenziò che il suo battesimo del fuoco con la propria condizione di elemento immutabile sarebbe avvenuto davanti a una pala d’altare raffigurante l’ascensione della Madonna.
Uno sgabello sempre rivestito in velluto, lungo abbastanza da accogliere fino a quattro persone, la invitava a mettersi comoda per ammirare l’opera dalla quale era stata scelta, e così fece.
A essere onesti non trovava chissà quali differenze tra questa e altre ascensioni della Madonna. Era… una Madonnina velata di blu con l’aureola e lo sguardo rivolto verso l’alto, circondata da una banda musicale composta da una coppia di angeli ai due lati e tre putti ai piedi. In basso, radunati attorno al sepolcro, vi erano cinque apostoli e un’altra donna – forse Maria Maddalena? – i cui occhi erano direzionati in posizioni differenti: due apostoli e la donna guardavano la Vergine, altri due tenevano il capo chino mentre ancora altri due fissavano lo spettatore, e fu proprio questo particolare a rimanerle impresso. Non aveva idea dell’identità di quei due personaggi, ma era come se fossero stati messi lì appositamente per giudicare le anime dei morti che finivano per cadere nella trappola trascendentale della loro dimensione, che non era né terrena né divina. Giudicavano e basta, o almeno si trattava dell’interpretazione di Reimi. Certo era che se il suo caro qualcuno avesse definito quell’opera d’arte soltanto una pala d’altare sarebbe salito su tutte le furie.
«Oh», esternò a un tratto «diventa vecchio e poi, forse, mi farai la ramanzina. Diventare vecchio…» Reimi concentrò l’attenzione sul volto in ascesi della Madonna «Devi diventare vecchio sì, altrimenti che ci sto a fare qua? Vero Alfred?» si girò per vedere dove fosse finito il cane. Con suo stupore l’amico a quattro zampe si era fatto un altro amico, anche lui a quattro zampe, ma più grande e con ampie chiazze nere su tutto il corpo. Assistendo alla scenetta per nulla sacra di due cani che si annusavano il didietro a vicenda non riuscì a trattenere un risolino.
«Ahahahah, chiedo perdono… Ahahah» fece ai due apostoli indagatori «stanno solo facendo conoscenza! E poi se sono qua significa che erano due bravi cani… Non è vero?» domandò poi alzando la voce di un tono «Arnold, perché non me lo presenti? Arnold?».
Sentendo il richiamo del proprio nome, il cane raggiunse la padrona seguita dal gigante chiazzato di nero.
«Sei un alano arlecchino!» Reimi allungò le braccia per accarezzargli il garrese «Un alano grosso e beneducato! Come ti chiami? Io sono Reimi».
Non aspettandosi una risposta articolata, il cagnolone le porse una zampa mentre seguitava a ispezionarla con l’olfatto.
Eppure, una risposta le giunse.
«Benvenuta Reimi, lui si chiama Danny».
Una risposta fornita in un giapponese dalla flessione impeccabile.
«Oh» Reimi si alzò per indagare sull’origine della voce maschile che l’aveva appena salutata: l’ingresso della galleria venne completamente ostruito da un altro gigante, stavolta bipede, vestito di un tuxedo blu notte e no, non era nient’affatto giapponese.
A quella visione la ragazza spalancò la bocca e provò un leggero imbarazzo per il suo vestitino rosa. Che avesse dovuto presentarsi alla mostra in abito da sera?
«Ti prego, rimani seduta, non volevo disturbarti» riprese l’uomo avvicinandosi alla pala. Ora che lo osservava più da vicino, Reimi constatò che era piuttosto giovane per la sua stazza; due occhi dolci del colore del cioccolato la guardavano con benevolenza da sotto i folti, e ribelli, capelli castani, unica pennellata turbolenta di un quadro che trasmetteva calma e sicurezza¹. Il tenutario ideale per una razza nobile come quella di Danny.
«Oh, no, lei, tu, insomma, lei non disturba per niente» si affrettò a dire la ragazza «anzi, se vuole può sedersi qui, c’è tanto spazio!».
Ma che sto dicendo?
«Ti ringrazio» disse lui accomodandolesi accanto «tra l’altro questo è uno di quei dipinti che non avevo mai analizzato da vicino… Chissà perché ogni volta che torno a visitare questa mostra in particolare finisco col fare conoscenza con un nuovo visitatore… A proposito, io mi chiamo Jonathan» aggiunse, tendendole la mano.
«Piacere» Reimi la strinse «lei parla molto bene il giapponese»
«Accetto di cuore il ringraziamento, ma è merito di questo posto» spiegò lui «quando si abbandonano le spoglie mortali cadono anche le barriere linguistiche, quindi se a te sembra che io stia parlando giapponese a me sembra che tu stia parlando inglese, e lo stesso vale per le altre anime… Comunque sia, non essere così formale, non sono cattivo» le disse, sollevando entrambi i palmi come per schermirsi.
«Comprendo…» Reimi arrossì leggermente «Quindi lei… tu da dove vieni?»
«Ero inglese, ma adesso non ha più molta importanza» Jonathan scrollò leggermente le spalle e alzò lo sguardo verso il volto della Madonna «quando si viene qui si perde la propria identità nazionale per diventare parte del non esistente. Gli edifici che ci sono fuori, compreso questo e tutto ciò che vi è custodito al loro interno, hanno concluso la loro funzione e di loro rimane soltanto l’essenza, come io, te e i nostri cani. Ogni cosa che vedrai, toccherai, annuserai, mangerai… in realtà non esiste, perché eravamo e adesso non siamo più, ed ecco spiegato il motivo per cui le distanze e le grandezze ci appaiono finite e infinite allo stesso tempo».
Reimi rimase interdetta da quel discorso che, tanto per restare in tema, aveva senso e non aveva senso al tempo stesso.
«Mi scusi, anzi scusa, ma noi stiamo parlando, no? Vuol dire che le nostre coscienze stanno interagendo in qualche modo, o sbaglio?»
«Non sbagli, perché non siamo nemmeno immersi in una illusione. Qualcuno o qualcosa vuole farci sentire finalmente in pace e di ciò non discuto. Siamo soltanto… come dire, noi anime che ci autocostruiamo il nostro aldilà».
Anche Reimi aveva ripreso a osservare il dipinto. Arnold e Danny proseguivano la loro esplorazione in silenzio.
«Quindi… mi stai dicendo che questa Madonna non esiste più?».
Jonathan scosse la testa.
«Questa costruzione era stata voluta da Hitler in persona, serviva a proteggere quello che vedi. La cosa buffa è che l’incendio della Flaktürme Friedrichshain è scoppiato a conflitto terminato e né i tedeschi né i russi hanno potuto farci un granché… Quindi, ironia della guerra, dal funesto maggio 1945 tocca a noi trapassati ammirare questo splendore. Sapessi il viavai di gente che c’è stato in quel periodo… Qualcosa che non avevo ancora visto prima di allora».
«Saprei io chi farebbe carte false pur di ammirare questo splendore» Reimi inarcò le sopracciglia e scoccò un’occhiata al suo interlocutore «non so esattamente perché io meriti di stare qui, è solo che cercavo di fare bene il mio lavoro di baby sitter, così ho lasciato che il mio assassino prendesse me piuttosto che il bambino in custodia con me… Quindi… non saprei, può l’anima di un bambino valere quindici anni di limbo tra i vivi e i morti alla ricerca di giustizia?»
«Certamente» rispose lui «l’hai fatto perché era la cosa giusta e per nient’altro, hai combattuto contro il tuo istinto di autoconservazione per salvare una persona. E… dimmi, questo qualcuno che farebbe carte false è per caso lo stesso bambino che hai salvato?»
«Già, oggi è un fumettista famoso che ama cacciarsi nei guai. Un tipo spericolato, ma in fondo è un bravo ragazzo».
Jonathan sorrise a labbra chiuse.
«Vedila così, hai fatto in modo che tante persone si appassionassero alle sue storie, e mentre lui si gode le opere d’arte terrene tu ti godi le essenze di quelle perdute col vantaggio di poter tornare qui tutte le volte che vuoi… Sai che non ho ancora esplorato nemmeno la metà di questa sezione? Non bastano cento anni terreni per ammirare quattrocentodiciassette dipinti, per non parlare dei tesori che contengono gli altri musei, e sono tutti nostri. Questa in particolare» aggiunse, riferendosi alla Madonna «è l’Assunzione della Vergine di Fra Bartolomeo³, abbastanza raffaelliana come ispirazione. Fatto sta che…» ad un tratto l’interlocutore si voltò verso la nuova venuta e socchiuse gli occhi «Sai che c’è? Ti sembrerà strano ma i miei primi incontri sono sempre avvenuti qua, e quando questo avviene significa che c’è una specie di legame che ci unisce».
Reimi piegò la testa di lato. Adesso che lo osservava bene, quel gentiluomo ben piazzato gli ricordava giusto un paio di persone che aveva conosciuto quando vagava come fantasma nel vicolo di Morio.
«Può darsi… Ma non saprei in che modo i nostri destini possano dirsi collegati…»
«Già, chi lo sa… A proposito, mi raccontavi della tua, per così dire, vita da fantasma. Davvero sei rimasta laggiù per tanti anni?»
«C’era una città da proteggere e avevo bisogno che qualcuno mi desse una mano» mentre Reimi riprendeva a raccontare la storia della sua non-vita da spettro, Arnold tornò da lei e le poggiò il muso sulle ginocchia, mentre Danny si era sdraiato ai piedi di Jonathan «quindi era mio dovere rimanere. Alle persone cattive non dovrebbe essere permesso di fare quello che vogliono».
Jonathan sembrava guardare un punto indefinito della pala mentre accarezzava distrattamente il testone di Danny. I suoi occhi per un attimo divennero lucidi.
«Anche se non sempre è così non posso darti torto. Forse non ci crederai, ma anche io ho combattuto una guerra prima di trovare davvero la pace, solo che a differenza tua non c’era il mio spettro a struggersi per il dolore, ma qualcosa di più tangibile… Qualcosa che ha fatto tanto male a chi non se lo meritava e che ha distrutto la mia discendenza. Spesso le persone cattive non possono fare a meno di odiare perché non riescono a riscattare una vita fatta di miseria spirituale, e per quanto amore tu possa donargli penseranno sempre che si tratti di uno scherzo o di un inganno. Ma dimmi, Reimi» disse all’improvviso «hai una famiglia che ti aspetta?»
«Io?» l’interpellata si drizzò sulla sedia: come aveva potuto dimenticare di ricongiungersi coi suoi genitori? «Certo che ho una famiglia che mi aspetta, me n’ero dimenticata perché non sapevo dove andare! Però non capisco come sia finita a parlare con te! Cioè, non voglio offenderti, ma perché tu sei la prima persona che incontro?»
«Non ne ho la minima idea, ma è sempre stato così con tutti i miei primi incontri!» Esclamò Jonathan alzandosi e afferrando la pala da un lato «Una volta fatta conoscenza con gli altri abitanti del posto, però, ne sono sempre venuto a capo. Sappi che il viale di Clio rappresenta solo una parte infinitesimale di questo mondo, sei capitata proprio al confine con quello che noi chiamiamo laggiù. Se lo percorri per intero rischi di finire negli inferi o di ripiombare tra i vivi, per cui è un’esperienza che non consiglio a nessuno di provare» tirò il dipinto come fosse una porta e, sorpresa, dietro la parete vi era un’apertura che conduceva a…
«Benvenuti a Morio-Cho?» Reimi balzò fuori dalla Flaktürme, seguita a ruota da Arnold, e aggrottò la fronte dinanzi al cartello piantato in mezzo a un campo di gigli del ragno rosso «Ma come…?»
«Come ti avevo accennato prima, siamo noi a costruire il nostro aldilà. Un giorno prima vuoi andare a Londra e quello dopo a Tokyo, ti basta volerlo» fu la risposta di Jonathan, che era rimasto dentro «seguite i fiori fino a quando i gigli si diraderanno e sarete arrivati»
«Grazie mille, ma…» Reimi guardò sia il cartello che Jonathan «non ti dispiace se ti lascio?»
«Non preoccuparti, quando voglio restare solo per un po’ vengo sempre qui, l’importante è che adesso tu riveda i tuoi cari»
«Grazie ancora, Jonathan» disse lei piegando le ginocchia in un breve inchino «avremo altre occasioni per incontrarci?»
«Ovvio! Se sei la ragazza coraggiosa che hai raccontato di essere aspettati di ricevere la visita del temibile Iggy del ciliegio! Qualora ti rubasse qualcosa e lo portasse in dono a un indovino saprai che i nostri destini sono davvero intrecciati. Quando avverrà ti farò conoscere un sacco di gente interessante»
«Allora non vedo l’ora di farmi derubare!» Reimi sorrise. Non se lo aspettava così strano, quel paradiso. «Ciao, e a presto!».
Jonathan ricambiò l’inchino e richiuse il quadro: la costruzione era sparita, così come il viale e la confusione architettonica di prima. Davanti a lei e ad Arnold si stagliava un campo di gigli rossi che si congiungeva con il nontiscordardimé del cielo impreziosito da un sole più allegro, quasi estivo.
Reimi sospirò. Finalmente avrebbe riabbracciato i suoi genitori e rivisto le anime dei ragazzi che erano volati in cielo.
«Forza, Arnold, i nostri cari ci aspettano».
E così camminò per quel campo infinito che però era anche finito, seguendo una direzione che conosceva per istinto come di rondine perduta che si riunisce allo stormo, fino a quando non incontrò un puntino giallo in mezzo a tutto quel rosso, e poi a seguire un altro, e poi un altro ancora, e un terzo, un quarto, un quinto, il puntino che diventava una linea e la linea che diventava campo a sua volta sostituendo i gigli.
«Sono adonidi, e quelle laggiù sono abitazioni di samurai!».
Una voglia irrefrenabile di gioire si impossessò di lei: seguita dal fedele segugio, Reimi si lanciò in una corsa sfrenata nel tentativo di raggiungere il prima possibile quelle dimore, dimentica della rabbia che l’aveva costretta a rimandare il suo viaggio e noncurante del boston terrier che le era sfrecciato in diagonale con il suo ultimo bottino tra i denti.
«Mamma, papà! Siamo a casa!» urlò con tutto il fiato che aveva in corpo.
Presto anche lei avrebbe avuto a che fare con Iggy.  


***


¹Come ormai si sarà intuito, ho deciso, laddove necessario, di rendere ai personaggi che ne hanno bisogno una palette colori naturale. In questo caso ho attinto dalle prime illustrazioni di Phantom Blood, dove si vede Jonathan con occhi e capelli castani.
²Non avendo idea alcuna di come si presentasse la Flaktürme Friedrichshain al suo interno, ho dovuto giocare di fantasia. Se volete saperne di più, Wikipedia è qui per voi.
³Si tratta di uno dei dipinti andati perduti nell'incendio. L'ho scelto per la rassomiglianza con l'ascensione in cielo di Reimi alla fine di Diamond Is Unbreakable. Cliccare qui per approfondire.

Jojo in Musica: Masters of War è una riscrittura della canzone popolare Nottamun Town (qui interpretata da Jean Ritchie) contenuta nell'album The Freewheelin' Bob Dylan del 1963 e uno degli inni pacifisti più famosi in assoluto. La canzone è una condanna di Dylan nei confronti dei signori della guerra che mai meriteranno il perdono per i crimini commessi.

Retroscena: In questo racconto ho voluto parlare un po' del grande assente di questa temibile dozzina di storiacce: Rohan Kishibe. Non che lo odi, per carità, il suo stand è il mio preferito in assoluto e la sua lust for knowledge faustiana lo rende un personaggio interessante. Tuttavia, considerata la natura della raccolta e il suo carattere particolarmente frizzante, non sono riuscita a ficcarlo decentemente da qualche parte, quindi pazienza, immaginatevelo felice e gaudente anche dopo il reset di Made in Heaven. La scelta musicale è infatti un omaggio sia a Rohan che a Reimi, la quale, a sua insaputa si è letteralmente ritrovata a combattere una guerra senza fronte e senza soldati.
Per quanto riguarda l'altro protagonista della storia, ho voluto che i due personaggi "ponte" tra il mondo dei morti e quello dei vivi si incontrassero per condividere un destino tutto sommato simile: se Reimi ha abbandonato il corpo per vagare come spirito alla ricerca di giustizia, Jonathan si è interfacciato con un destino complementare, spirito in cielo e corpo nel regno dei vivi.

Come sempre, grazie per aver letto, recensito, preferito e seguito.

Alla prossima. 
 
   
 
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