La metafisica del primo incontro
Come you masters of war
You that build the big guns
You that build the death planes
You that build all the bombs
You that hide behind walls
You that hide behind desks
I just want you to know
I can see through your masks
Bob Dylan, Masters
of War
Fra tutte le sensazioni che Reimi Sugimoto e Arnold potevano
aspettarsi di provare nella loro nuova casa non v’era certamente l’impressione
di essere stati catapultati dentro un quadro di De Chirico, e per la precisione
un quadro di De Chirico assai confuso. Non che lo spettro della ragazza si
aspettasse un aldilà movimentato, ma non credeva di dovere fare i conti col
paesaggio desolato di una cittadella praticamente deserta e bagnata dalla luce
rossastra di un tramonto – o alba? – sempiterno. Fatto ancora più curioso, ai
due lati del selciato sul quale lei e l’animale si ritrovarono a camminare si
ergevano costruzioni dagli stili architettonici più disparati: un simil
Partenone ultraterreno con la sua esplosione di colori accanto a un obelisco di
pietra reso di fuoco grazie al rosso perenne del mezzo disco solare che sembrava
voler sfidare la sinagoga piazzata di fronte a lui con le sue tre navate e le
sue cupole che faceva di tutto pur di sminuire la grazia discreta di una
cappella con l’effigie del Cristo risorto posto dirimpetto alla gagliarda
pseudoellittica di un anfiteatro romano che oscurava quasi del tutto una statua
votiva del Buddha sdraiato che osservava sornione un palazzone grigio fumo reso
ancora più brutto dalla bellezza variopinta di una Nike ricostruita che
sollevava la mano destra in direzione di una moschea dorata…
Reimi serrò le palpebre per un attimo e abbassò il capo; quel disordine
immobile la confondeva. L’unica certezza di cui disponeva era il contatto
rassicurante col pelo di Arnold, che sollevò il muso lungo la sua gamba e
scodinzolò piano per comunicarle che, forse, anche lui si sentiva spaesato. Reimi
riaprì gli occhi: i palazzi, i templi e il sole rosso c’erano ancora con tutto
il loro carico di inquietudine, ma a rassicurarla c’era comunque il suo amico a
quattro zampe col suo manto marroncino di sempre e la sua espressione
rassicurante dietro gli occhioni docili di cane paziente.
Si accovacciò per accarezzargli il collo e l’animale rispose come di consueto
schiudendo un poco la bocca, e fu allora che si accorse della mancanza di
qualcosa.
La ferita mortale alla gola era scomparsa.
Immediatamente si toccò la schiena alla ricerca del segno che si portava dietro
da quando era stata uccisa e al suo posto toccò nient’altro che la propria pelle
sana e apparentemente mai offesa.
«Strano, non trovi?» domandò al suo unico interlocutore che non poté fare altro
che continuare a scodinzolare.
«Che ne dici se cerchiamo di scoprire qualcosa su dove siamo finiti?» riprese
la ragazza, per nulla felice della situazione, ma nemmeno spaventata.
Una bizzarra situazione.
«Allora, cosa farebbe qualcuno che conosciamo bene?» disse, stavolta più a sé
stessa che ad Arnold «Scommetto che questo qualcuno non perderebbe tempo e
cercherebbe di capire perché sia finito qui, poi si armerebbe di carta e matita
e inizierebbe a disegnare… Ma cosa inizierebbe a disegnare? Forse quella basilica
giù in fondo? Quella statua di Minerva? Oppure quel tera dalla parte
opposta?».
Era certa che il signor qualcuno avrebbe scelto l’edificio o il tuttotondo più
fuori posto che fosse riuscito a trovare, e fu proprio Arnold a suggerirle di
incamminarsi in direzione di quello che finora meritava il primo premio di opera
architettonica più brutta mai concepita da umano ingegno, almeno secondo i suoi
gusti personali.
Le zampe del cane, quindi, si mossero lentamente verso un immenso blocco di
cemento armato a forma di torrione.
«Sì, è veramente terribile Arnold. Ti faccio i miei complimenti» Reimi attraversò
la strada per avvicinarsi alla sua prima vera destinazione concreta da spirito
dell’aldilà chiedendosi se fosse la scelta più saggia da fare.
Non che importasse molto, alla fine. Se lei e Arnold non erano più materia lo
stesso valeva per il luogo che percepivano come reale intorno a loro, quindi
tanto valeva scoprire cosa riservava per loro la vita eterna.
La porta d’ingresso del mostro grigio, già aperta e pronta, a quanto pareva, ad
accoglierli, era minuscola come le finestrelle che si intervallavano sui
fianchi delle torri, ma non fu difficile individuarla perché dall’interno era
percettibile una luce diversa da quella esterna, una luce artificiale che
richiamava quella rassicurante degli interni di una casa.
Fu straniante constatare la differenza tra i silenzi che si interfacciavano
tramite quel rettangolo di vuoto: se fuori l’immobilità recava una sorta di
timore ancestrale della fine anche per lei che l’aveva vissuta, dentro il
velluto rosso e le lampade appese alle pareti le davano la sensazione che non
avrebbe avuto nulla di cui temere. Guardò ancora il paesaggio esterno, come se
volesse accertarsi della presenza di quel sole anomalo, e infine si decise a
mettere piede nell’antro del mostro.
Reimi e Arnold si ritrovarono a percorrere un corridoio bene illuminato e decorato
di specchi incastonati in cornici riccamente elaborate. Il loro riflesso
restituiva l’immagine ribaltata di una studentessa giapponese e del suo cane
all’apparenza in salute, vivi, con tanti anni quanti erano i chilometri dello
stradone che si erano lasciati alle spalle. Il fantasma sbatté le ciglia: due
occhi a mandorla su un bel volto di adolescente in fiore ripeterono il gesto.
«Andiamo» sussurrò al cane riprendendo a camminare «in fondo c’è qualcosa. Ma…
vuoi vedere che…?».
In fondo si intravedeva uno spazio bianco, qualcosa che assomigliava vagamente
a…
«Un’esposizione d’arte? Arnold, vieni, presto!» Reimi accorciò in fretta la
distanza che la separava dalla sua intuizione e quando venne accolta dai
dipinti le fu spontaneo restituire loro la gioia di averli trovati con un
sorriso a trentadue denti.
Quell’ambiente, che non ricordava per nulla il suo triste involucro esterno,
era incommensurabilmente grande. Qualcosa del genere, se rapportato alla città
di Morio-Cho, equivaleva per ampiezza ad almeno metà della sua città natale, e
ciò era incredibilmente straniante. Ma anche meraviglioso.
«Ah, se solo potessi vedermi» mormorò con un senso di riverenza nei confronti
dei Caravaggio esposti alla sua sinistra «credo impazziresti».
Adesso, però, c’era un problema: quale quadro ammirare per primo? Un dilemma
nel dilemma, pensò guardando Arnold che si appropinquava ad annusare l’olio del
Cristo sul Monte degli Ulivi. Stavolta, però, toccava a lei decidere dove
andare, e di certo avrebbe riservato al Merisi una visita approfondita in
seguito.
I piedi si mossero automaticamente: gli diede le spalle, dato che seguitava a
ispezionare quella sezione del museo, e così come aveva deliberatamente
ignorato la fonte dell’attenzione dell’animale fece lo stesso con tutti gli
altri dipinti. Tanto avrebbe avuto l’eternità a disposizione.
E proprio l’eternità le sentenziò che il suo battesimo del fuoco con la propria
condizione di elemento immutabile sarebbe avvenuto davanti a una pala d’altare
raffigurante l’ascensione della Madonna.
Uno sgabello sempre rivestito in velluto, lungo abbastanza da accogliere fino a
quattro persone, la invitava a mettersi comoda per ammirare l’opera dalla quale
era stata scelta, e così fece.
A essere onesti non trovava chissà quali differenze tra questa e altre
ascensioni della Madonna. Era… una Madonnina velata di blu con l’aureola e lo
sguardo rivolto verso l’alto, circondata da una banda musicale composta da una coppia
di angeli ai due lati e tre putti ai piedi. In basso, radunati attorno al
sepolcro, vi erano cinque apostoli e un’altra donna – forse Maria Maddalena? – i
cui occhi erano direzionati in posizioni differenti: due apostoli e la donna
guardavano la Vergine, altri due tenevano il capo chino mentre ancora altri due
fissavano lo spettatore, e fu proprio questo particolare a rimanerle impresso.
Non aveva idea dell’identità di quei due personaggi, ma era come se fossero
stati messi lì appositamente per giudicare le anime dei morti che finivano per
cadere nella trappola trascendentale della loro dimensione, che non era né
terrena né divina. Giudicavano e basta, o almeno si trattava
dell’interpretazione di Reimi. Certo era che se il suo caro qualcuno
avesse definito quell’opera d’arte soltanto una pala d’altare sarebbe salito su
tutte le furie.
«Oh», esternò a un tratto «diventa vecchio e poi, forse, mi farai la ramanzina.
Diventare vecchio…» Reimi concentrò l’attenzione sul volto in ascesi della
Madonna «Devi diventare vecchio sì, altrimenti che ci sto a fare qua? Vero
Alfred?» si girò per vedere dove fosse finito il cane. Con suo stupore l’amico
a quattro zampe si era fatto un altro amico, anche lui a quattro zampe, ma più
grande e con ampie chiazze nere su tutto il corpo. Assistendo alla scenetta per
nulla sacra di due cani che si annusavano il didietro a vicenda non riuscì a
trattenere un risolino.
«Ahahahah, chiedo perdono… Ahahah» fece ai due apostoli indagatori «stanno solo
facendo conoscenza! E poi se sono qua significa che erano due bravi cani… Non è
vero?» domandò poi alzando la voce di un tono «Arnold, perché non me lo
presenti? Arnold?».
Sentendo il richiamo del proprio nome, il cane raggiunse la padrona seguita dal
gigante chiazzato di nero.
«Sei un alano arlecchino!» Reimi allungò le braccia per accarezzargli il
garrese «Un alano grosso e beneducato! Come ti chiami? Io sono Reimi».
Non aspettandosi una risposta articolata, il cagnolone le porse una zampa
mentre seguitava a ispezionarla con l’olfatto.
Eppure, una risposta le giunse.
«Benvenuta Reimi, lui si chiama Danny».
Una risposta fornita in un giapponese dalla flessione impeccabile.
«Oh» Reimi si alzò per indagare sull’origine della voce maschile che l’aveva
appena salutata: l’ingresso della galleria venne completamente ostruito da un
altro gigante, stavolta bipede, vestito di un tuxedo blu notte e no, non era
nient’affatto giapponese.
A quella visione la ragazza spalancò la bocca e provò un leggero imbarazzo per
il suo vestitino rosa. Che avesse dovuto presentarsi alla mostra in abito da
sera?
«Ti prego, rimani seduta, non volevo disturbarti» riprese l’uomo avvicinandosi
alla pala. Ora che lo osservava più da vicino, Reimi constatò che era piuttosto
giovane per la sua stazza; due occhi dolci del colore del cioccolato la
guardavano con benevolenza da sotto i folti, e ribelli, capelli castani, unica
pennellata turbolenta di un quadro che trasmetteva calma e sicurezza¹.
Il tenutario ideale per una razza nobile come quella di Danny.
«Oh, no, lei, tu, insomma, lei non disturba per niente» si affrettò a dire la
ragazza «anzi, se vuole può sedersi qui, c’è tanto spazio!».
Ma che sto dicendo?
«Ti ringrazio» disse lui accomodandolesi accanto «tra l’altro questo è uno
di quei dipinti che non avevo mai analizzato da vicino… Chissà perché ogni
volta che torno a visitare questa mostra in particolare finisco col fare
conoscenza con un nuovo visitatore… A proposito, io mi chiamo Jonathan»
aggiunse, tendendole la mano.
«Piacere» Reimi la strinse «lei parla molto bene il giapponese»
«Accetto di cuore il ringraziamento, ma è merito di questo posto» spiegò lui
«quando si abbandonano le spoglie mortali cadono anche le barriere
linguistiche, quindi se a te sembra che io stia parlando giapponese a me sembra
che tu stia parlando inglese, e lo stesso vale per le altre anime… Comunque
sia, non essere così formale, non sono cattivo» le disse, sollevando entrambi i
palmi come per schermirsi.
«Comprendo…» Reimi arrossì leggermente «Quindi lei… tu da dove vieni?»
«Ero inglese, ma adesso non ha più molta importanza» Jonathan scrollò
leggermente le spalle e alzò lo sguardo verso il volto della Madonna «quando si
viene qui si perde la propria identità nazionale per diventare parte del non
esistente. Gli edifici che ci sono fuori, compreso questo e tutto ciò che vi è
custodito al loro interno, hanno concluso la loro funzione e di loro rimane
soltanto l’essenza, come io, te e i nostri cani. Ogni cosa che vedrai,
toccherai, annuserai, mangerai… in realtà non esiste, perché eravamo e adesso
non siamo più, ed ecco spiegato il motivo per cui le distanze e le grandezze ci
appaiono finite e infinite allo stesso tempo».
Reimi rimase interdetta da quel discorso che, tanto per restare in tema, aveva
senso e non aveva senso al tempo stesso.
«Mi scusi, anzi scusa, ma noi stiamo parlando, no? Vuol dire che le nostre coscienze
stanno interagendo in qualche modo, o sbaglio?»
«Non sbagli, perché non siamo nemmeno immersi in una illusione. Qualcuno o
qualcosa vuole farci sentire finalmente in pace e di ciò non discuto. Siamo
soltanto… come dire, noi anime che ci autocostruiamo il nostro aldilà».
Anche Reimi aveva ripreso a osservare il dipinto. Arnold e Danny proseguivano
la loro esplorazione in silenzio.
«Quindi… mi stai dicendo che questa Madonna non esiste più?».
Jonathan scosse la testa.
«Questa costruzione era stata voluta da Hitler in persona, serviva a proteggere
quello che vedi. La cosa buffa è che l’incendio della Flaktürme Friedrichshain è scoppiato a conflitto terminato e né i tedeschi né i
russi hanno potuto farci un granché… Quindi, ironia della guerra, dal funesto
maggio 1945 tocca a noi trapassati ammirare questo splendore. Sapessi il viavai
di gente che c’è stato in quel periodo… Qualcosa che non avevo ancora visto
prima di allora».
«Saprei io chi farebbe carte false pur di ammirare questo splendore» Reimi inarcò
le sopracciglia e scoccò un’occhiata al suo interlocutore «non so esattamente
perché io meriti di stare qui, è solo che cercavo di fare bene il mio lavoro di
baby sitter, così ho lasciato che il mio assassino prendesse me piuttosto che
il bambino in custodia con me… Quindi… non saprei, può l’anima di un bambino
valere quindici anni di limbo tra i vivi e i morti alla ricerca di giustizia?»
«Certamente» rispose lui «l’hai fatto perché era la cosa giusta e per
nient’altro, hai combattuto contro il tuo istinto di autoconservazione per
salvare una persona. E… dimmi, questo qualcuno che farebbe carte false è per
caso lo stesso bambino che hai salvato?»
«Già, oggi è un fumettista famoso che ama cacciarsi nei guai. Un tipo
spericolato, ma in fondo è un bravo ragazzo».
Jonathan sorrise a labbra chiuse.
«Vedila così, hai fatto in modo che tante persone si appassionassero alle sue
storie, e mentre lui si gode le opere d’arte terrene tu ti godi le essenze di
quelle perdute col vantaggio di poter tornare qui tutte le volte che vuoi… Sai
che non ho ancora esplorato nemmeno la metà di questa sezione? Non bastano
cento anni terreni per ammirare quattrocentodiciassette dipinti, per non
parlare dei tesori che contengono gli altri musei, e sono tutti nostri. Questa
in particolare» aggiunse, riferendosi alla Madonna «è l’Assunzione della
Vergine di Fra Bartolomeo³, abbastanza raffaelliana come ispirazione. Fatto sta che…»
ad un tratto l’interlocutore si voltò verso la nuova venuta e socchiuse gli
occhi «Sai che c’è? Ti sembrerà strano ma i miei primi incontri sono sempre
avvenuti qua, e quando questo avviene significa che c’è una specie di legame
che ci unisce».
Reimi piegò la testa di lato. Adesso che lo osservava bene, quel gentiluomo ben
piazzato gli ricordava giusto un paio di persone che aveva conosciuto quando
vagava come fantasma nel vicolo di Morio.
«Può darsi… Ma non saprei in che modo i nostri destini possano dirsi collegati…»
«Già, chi lo sa… A proposito, mi raccontavi della tua, per così dire, vita da
fantasma. Davvero sei rimasta laggiù per tanti anni?»
«C’era una città da proteggere e avevo bisogno che qualcuno mi desse una mano»
mentre Reimi riprendeva a raccontare la storia della sua non-vita da spettro,
Arnold tornò da lei e le poggiò il muso sulle ginocchia, mentre Danny si era
sdraiato ai piedi di Jonathan «quindi era mio dovere rimanere. Alle persone
cattive non dovrebbe essere permesso di fare quello che vogliono».
Jonathan sembrava guardare un punto indefinito della pala mentre accarezzava
distrattamente il testone di Danny. I suoi occhi per un attimo divennero
lucidi.
«Anche se non sempre è così non posso darti torto. Forse non ci crederai, ma
anche io ho combattuto una guerra prima di trovare davvero la pace, solo che a
differenza tua non c’era il mio spettro a struggersi per il dolore, ma qualcosa
di più tangibile… Qualcosa che ha fatto tanto male a chi non se lo meritava e
che ha distrutto la mia discendenza. Spesso le persone cattive non possono fare
a meno di odiare perché non riescono a riscattare una vita fatta di miseria
spirituale, e per quanto amore tu possa donargli penseranno sempre che si
tratti di uno scherzo o di un inganno. Ma dimmi, Reimi» disse all’improvviso
«hai una famiglia che ti aspetta?»
«Io?» l’interpellata si drizzò sulla sedia: come aveva potuto dimenticare di
ricongiungersi coi suoi genitori? «Certo che ho una famiglia che mi aspetta, me
n’ero dimenticata perché non sapevo dove andare! Però non capisco come sia
finita a parlare con te! Cioè, non voglio offenderti, ma perché tu sei la prima
persona che incontro?»
«Non ne ho la minima idea, ma è sempre stato così con tutti i miei primi
incontri!» Esclamò Jonathan alzandosi e afferrando la pala da un lato «Una
volta fatta conoscenza con gli altri abitanti del posto, però, ne sono sempre
venuto a capo. Sappi che il viale di Clio rappresenta solo una parte
infinitesimale di questo mondo, sei capitata proprio al confine con quello che
noi chiamiamo laggiù. Se lo percorri per intero rischi di finire negli
inferi o di ripiombare tra i vivi, per cui è un’esperienza che non consiglio a
nessuno di provare» tirò il dipinto come fosse una porta e, sorpresa, dietro la
parete vi era un’apertura che conduceva a…
«Benvenuti a Morio-Cho?» Reimi balzò fuori dalla Flaktürme, seguita a ruota da
Arnold, e aggrottò la fronte dinanzi al cartello piantato in mezzo a un campo
di gigli del ragno rosso «Ma come…?»
«Come ti avevo accennato prima, siamo noi a costruire il nostro aldilà. Un
giorno prima vuoi andare a Londra e quello dopo a Tokyo, ti basta volerlo» fu
la risposta di Jonathan, che era rimasto dentro «seguite i fiori fino a quando
i gigli si diraderanno e sarete arrivati»
«Grazie mille, ma…» Reimi guardò sia il cartello che Jonathan «non ti dispiace
se ti lascio?»
«Non preoccuparti, quando voglio restare solo per un po’ vengo sempre qui,
l’importante è che adesso tu riveda i tuoi cari»
«Grazie ancora, Jonathan» disse lei piegando le ginocchia in un breve inchino
«avremo altre occasioni per incontrarci?»
«Ovvio! Se sei la ragazza coraggiosa che hai raccontato di essere aspettati di
ricevere la visita del temibile Iggy del ciliegio! Qualora ti rubasse qualcosa
e lo portasse in dono a un indovino saprai che i nostri destini sono davvero
intrecciati. Quando avverrà ti farò conoscere un sacco di gente interessante»
«Allora non vedo l’ora di farmi derubare!» Reimi sorrise. Non se lo aspettava
così strano, quel paradiso. «Ciao, e a presto!».
Jonathan ricambiò l’inchino e richiuse il quadro: la costruzione era sparita,
così come il viale e la confusione architettonica di prima. Davanti a lei e ad
Arnold si stagliava un campo di gigli rossi che si congiungeva con il
nontiscordardimé del cielo impreziosito da un sole più allegro, quasi estivo.
Reimi sospirò. Finalmente avrebbe riabbracciato i suoi genitori e rivisto le
anime dei ragazzi che erano volati in cielo.
«Forza, Arnold, i nostri cari ci aspettano».
E così camminò per quel campo infinito che però era anche finito, seguendo una
direzione che conosceva per istinto come di rondine perduta che si riunisce
allo stormo, fino a quando non incontrò un puntino giallo in mezzo a tutto quel
rosso, e poi a seguire un altro, e poi un altro ancora, e un terzo, un quarto,
un quinto, il puntino che diventava una linea e la linea che diventava campo a
sua volta sostituendo i gigli.
«Sono adonidi, e quelle laggiù sono abitazioni di samurai!».
Una voglia irrefrenabile di gioire si impossessò di lei: seguita dal fedele
segugio, Reimi si lanciò in una corsa sfrenata nel tentativo di raggiungere il
prima possibile quelle dimore, dimentica della rabbia che l’aveva costretta a
rimandare il suo viaggio e noncurante del boston terrier che le era sfrecciato in
diagonale con il suo ultimo bottino tra i denti.
«Mamma, papà! Siamo a casa!» urlò con tutto il fiato che aveva in corpo.
Presto anche lei avrebbe avuto a che fare con Iggy.
***
²Non avendo idea alcuna di come si presentasse la Flaktürme Friedrichshain al suo interno, ho dovuto giocare di fantasia. Se volete saperne di più, Wikipedia è qui per voi.
³Si tratta di uno dei dipinti andati perduti nell'incendio. L'ho scelto per la rassomiglianza con l'ascensione in cielo di Reimi alla fine di Diamond Is Unbreakable. Cliccare qui per approfondire.
Jojo in Musica: Masters of War è una riscrittura della canzone popolare Nottamun Town (qui interpretata da Jean Ritchie) contenuta nell'album The Freewheelin' Bob Dylan del 1963 e uno degli inni pacifisti più famosi in assoluto. La canzone è una condanna di Dylan nei confronti dei signori della guerra che mai meriteranno il perdono per i crimini commessi.
Retroscena: In questo racconto ho voluto parlare un po' del grande assente di questa temibile dozzina di storiacce: Rohan Kishibe. Non che lo odi, per carità, il suo stand è il mio preferito in assoluto e la sua lust for knowledge faustiana lo rende un personaggio interessante. Tuttavia, considerata la natura della raccolta e il suo carattere particolarmente frizzante, non sono riuscita a ficcarlo decentemente da qualche parte, quindi pazienza, immaginatevelo felice e gaudente anche dopo il reset di Made in Heaven. La scelta musicale è infatti un omaggio sia a Rohan che a Reimi, la quale, a sua insaputa si è letteralmente ritrovata a combattere una guerra senza fronte e senza soldati.
Per quanto riguarda l'altro protagonista della storia, ho voluto che i due personaggi "ponte" tra il mondo dei morti e quello dei vivi si incontrassero per condividere un destino tutto sommato simile: se Reimi ha abbandonato il corpo per vagare come spirito alla ricerca di giustizia, Jonathan si è interfacciato con un destino complementare, spirito in cielo e corpo nel regno dei vivi.
Come sempre, grazie per aver letto, recensito, preferito e seguito.
Alla prossima.