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Autore: FreddyOllow    30/07/2021    0 recensioni
Una raccolta di racconti horror, che spaziano tra l'antico e il moderno. Mostri, presenze, ombre, entità demoniache e pazzi psicopatici infesteranno queste pagine. Le storie sono scritte in prima o in terza persona, al presente o al passato.
Genere: Dark, Horror, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1


Un vecchio siede in veranda. Osserva i pini dell'Arizona cingere la casa di legno, i fasci del sole filtrare tra le fronde smosse da un leggero venticello. Arrivato alla veneranda età di ottantun'anni, i suoi ricordi vacillano. Anzi, non ricorda nemmeno come sia stata la sua vita prima dello strano evento che lo ossessiona da anni. L'interrogatorio di Monica Portman. Mentre ci pensa, si versa un bicchiere di whisky e lo sorseggia con calma. Lancia un'occhiata ai documenti sul tavolo e, prima di prenderli, tentenna un momento. Poi li afferra con la mano tremante, ossuta e puntellata di macchie scure e li legge.


Trascrizione di Albert James, agente scelto della polizia dello stato dell'Arizona. Questa è una trascrizione dell'interrogatorio tra il Detective Edgar Monroe e Monica Portman, accusata di omicidio plurimo. Trascriverò solo la parte finale dell'interrogatorio. Il resto del materiale è in mano all'F.B.I. ed è classificato.


Cinquantasette anni prima, Albert James viene stato sostituito all'ultimo minuto dal Detective Edgar Monroe. Il capo della polizia John Moon, crede che quest'ultimo sia più qualificato negli interrogatori. Albert è risentito, ma accetta quella decisione. Insieme a due agenti, si chiude nella stanza dove si trova lo specchio unidirezionale. Osserva una donna sui cinquanta, viso ovale, occhi verdi e naso aquilino. È proprio bella, si dice. Non sembra una psicopatica, ma una donna fin troppo puritana.
Nella stanza entra il Detective Edgar Monroe. È frustrato. Ha interrogato la signora Portman per più di mezz'ora, ottenendo solo un silenzio snervante. Ma è deciso, non vuole arrendersi.
"Signora Portman." Ripete per la decima volta il Detective Edgar Monroe. "Perché hai ucciso ventiquattro persone?
La signora Portman non gli risponde, si limita a guardare il nulla.
"Allora?"
La donna fa un lungo sospiro.
"Sono qui per aiutarla."
La signora Portman fissa il Detective con uno sguardo carico d'odio. Non risponde.
Il Detective Monroe le siede di fronte, poggia le mani sul tavolo. "Possiamo aiutarla. Deve solo dirci cosa è successo."
"Nessuno può aiutarmi..." Risponde piano la donna.
"Cosa vuole dire?"
"Siamo tutti condannati. Tutti!"
"Chi? Di chi parla?"
La signora Portman allunga le mani sul tavolo, i palmi rivolti verso il Detective Monroe, che nota profonde bruciature all'interno.
"Prima... Prima non c'erano!" Dice il Detective Monroe, scioccato. "Come ve le siete procurate?"
"Sono stati loro." Risponde Portman con sguardo vacuo. "Loro... Sì, loro me l'hanno fatto." Fa un profondo sospiro. "I miei peccati. Dovevo espiarli. Dovevo!"
Il Detective Monroe la fissa, turbato. "Chi sono queste persone?"
"Oh, non sono persone." Dice la donna con un mezzo sorriso inquietante. "Sono ombre... Sì, sono ombre. Loro... Loro sanno la verità." Distoglie gli occhi dall'uomo e scruta il muro con stupore, come se ci vedesse qualcosa di meraviglioso.
Il Detective Monroe aggrotta la fronte, pensieroso. "Continua."
D'un tratto la signora Portman si porta le mani nei capelli, lancia un urlo tremendo e inizia a strapparseli.
Il Detective Monroe scatta in piedi e le torce i polsi dietro la schiena. La sbatte di faccia contro il muro. La donna grida isterica, rabbiosa, cerca di divincolarsi dalla presa.
Albert James e due agenti si precipitano nella stanza per aiutare il collega a tenerla ferma.
La signora Portman smette di gridare, abbassa la testa. Il viso le è diventato cadaverico, gli occhi cerchiati sono stanchi.
"Lasciateci!" Dice il Detective Monroe agli agenti.
"Ne è sciuro?" Domanda Albert James.
"Andate."
I tre agenti lasciano la stanza.
La donna guarda il soffitto con le dita incrociate, le labbra schiuse, gli occhi rovesciati all'indietro. "Tu mettevi il sigillo alla perfezione, eri pieno di saggezza, di una bellezza perfetta... Eri un cherubino dalle ali distese, un protettore. Ti avevo stabilito... tu fosti perfetto nelle tue vie dal giorno che fosti creato."
Sorpreso, il Detective Monroe allenta la presa dai suoi polsi e indietreggia un poco, senza distogliere lo sguardo da lei.
Gli occhi della donna tornano in avanti, il suo sguardo si riempie di stupore e urla. "Come mai sei caduto dal cielo, astro mattutino, figlio dell'aurora? Come mai sei atterrato, tu che calpestavi le nazioni? Tu dicevi in cuor tuo: Io salirò in cielo, innalzerò il mio trono al di sopra delle stelle di Dio; mi siederò sul monte dell'assemblea... salirò sulle sommità delle nubi, sarò simile all'Altissimo."
La lampada al centro della stanza inizia a lampeggiare, a fremere. Il tavolo viene catapultato in aria, le due sedie si schiantano contro il muro. Terrorizzato, il Detective Monroe raggiunge un angolo, il cuore che gli martella nel petto, le mani tremanti.
La signora Portman si eleva a venti centimetri dal suolo, allarga le braccia, dilata gli occhi, mentre i capelli neri le fluttuano attorno al capo. "E ci fu una battaglia nel cielo: Michele e i suoi angeli combatterono contro il dragone. Il dragone e i suoi angeli combatterono, ma non vinsero, e per loro non ci fu più posto nel cielo..." Rimane in silenzio per un attimo. Poi la sua voce cambia tonalità, diventa potente, gutturale, metallica, da uomo. "Il gran dragone, il serpente antico, che è chiamato diavolo e Satana, il seduttore di tutto il mondo, fu gettato giù; fu gettato sulla Terra, e con lui furono gettati anche i suoi angeli."
Un intenso bagliore bianco appare di fronte alla signora Portman. Alle sue spalle, un'oscurità impenetrabile.
Il Detective Monroe corre alla porta, gira la maniglia, ma è chiusa. Disperato, la colpisce ripetutamente con i pugni. Un vento gelido gli penetra le carni. Un'entità invisibile lo tocca, lo afferra, lo spinge, lo strattona.
"Siete stati ingannati." Urla la signora Portman. "Le ombre sanno... Si manifestano davanti a chi è stato ingannato. A chi crede nella menzogna della Bibbia. La Bibbia mente! Mente. Mente. Mente! È scritta dagli uomini, non da Dio! Lucifero è diverso... Lui è riconosciuto come nemico, ma in realtà è vittima. Vittima!" Tace per un lungo momento, mentre il Detective Monroe viene sballottato ripetutamente contro la porta. "Voleva essere libero. Voleva essere padrone di sé stesso. Voleva vivere! Vivere! Dio non ha voluto. Non ha voluto... Lo ha marchiato come nemico. Come mostro! Ma non è vero! NO! La Chiesa. Quell'entità malefica. È lei l'artefice di tutto ciò. Ha reso lucifero un mostro. Loro nascondono la verità. Si nascondano dietro falsa bontà. Loro sono il nemico! Il nemico! Hanno cambiato faccia, mutato i comportamenti... Secoli fa ambivano al potere, alla ricchezza. Ora non possono... La gente vede. Vede! Ma altri sono ciechi. Io sono cieca. Le ombre si manifestano davanti ai ciechi. Vogliono avvertirli! Vogliono che i vivi sappiano dell'inganno! Siamo stati tutti ingannati! Ingannati! Dio ha donato l'inferno a Lucifero, poiché è il solo in grado di gestirlo!"
"Fatemi uscire!" Il detective Monroe cerca di gridare per chiedere aiuto, scoprendo di non avere più una voce. L'entità invisibile svanisce, e la lampada smette di lampeggiare. Si volta, guarda la signora Portman fluttuare al centro della stanza. Poi fissa qualcosa alla sua sinistra. "Papà..." mormora. "Io... Io non sapevo..." Crolla in ginocchio e comincia a piangere come un bambino.
La stanza si oscura per un mezzo secondo e, quando la luce si riaccende, il Detective Monroe giace morto di schiena alla porta, gli occhi sbarrati di stupore.
La signora Portman cade sul pavimento, si lancia contro il muro. Ci picchia la testa ancora, ancora e ancora, finché crolla sul pavimento.
Albert James e i due agenti riescono finalmente ad aprire la porta, mentre il corpo del Detective Monroe scivola su un lato. Varcata la soglia, l'oscurità inghiotte il bagliore bianco e svanisce, rilasciando un'onda d'urto che travolge Albert James e i due agenti.





 

2


Albert riprende i sensi in un letto d'ospedale. La testa e la schiena gli fanno male. Ha ancora davanti agli occhi l'immagine della signora Portman. La vede fluttuare nella stanza, urlare con una voce che non le appartiene.
"Ehi, sei sveglio." Dice Victor Dale, un uomo sulla cinquantina, viso tondo, rossiccio, capelli grigi arruffati, e una pancia gonfia da bevitore di birre. "Come ti senti?"
Albert arriccia il muso.
"Stai bene?"
"Sì, sto bene."
"Ti ricordi cosa è successo?"
Albert non risponde. Osserva dalla finestra le luci notturne della città, sente i veicoli sfrecciare fuori dall'ospedale.
Due uomini in camicia bianca e completo nero entrano nella stanza senza bussare. I loro austeri sguardi si posano dapprima su Victor, poi su Albert.
"Agente FBI Mark Northwich." Mostra il distintivo. "È lui è l'agente Fred Coleman."
"Che volete da Albert?" Domanda Victor.
Quello di nome Fred ignora la domanda. "Dobbiamo parlare col signor James in privato."
"Ehi, io non vado da nessuno parte. Siete voi a dover andare via. Il mio amico si è appena ripreso, e voi venite qui come avvoltoi a fare domande. Non avete un minimo di rispetto, cristo santo. Lasciatelo in pace."
Mark lo fissa, torvo. "Va bene," dice lento "ma ritorneremo domani."
Victor e Albert li guardano andare via.
"Grazie, Vic."
Victor gli posa una mano sull'avambraccio. "Di nulla." Fa una pausa. "C'è qualcosa di strano, però. Voglio dire, se ne sono andati senza rompermi le palle."
"E quindi?"
"I federali sono dei trita coglioni, lo sai. Credono di poter fare quello che vogliono. Pensavo... Sai, che ti avrebbero assillato di domande, che... Insomma, che ti avrebbero rotto le palle, come fanno di solito. Quelli non guardano in faccia nessuno."
"Ah, sì... Hai ragione, Vic." Dice Albert, senza aver capito molto.
"Va bene, allora. Ti lascio riposare. Se hai bisogno, io sono qua fuori."

Verso le due di notte, Albert si sveglia di colpo. Sente delle voci, un sussurrare continuo. Una tetra melodia suona fuori dalla stanza, appena dietro la porta semichiusa. Sembra un carillon per bambini. Albert fissa la porta, spaventato. Pensa a un incubo. Deve essere un incubo, se ne convince. Poi il carillon smette di suonare, le voci svaniscono.
Una figura nera appare dietro la stretta finestra verticale nella porta. Albert lo guarda per un attimo, poi, preso dal panico, si sfilaccia i tubi della flebo. Appena mette i piedi sul pavimento, le gambe cedono e crolla a terra. Un lancinante dolore alla schiena gli fa stringere i denti, la testa gli pulsa dolorante. Alza lo sguardo, la figura è ancora dietro la porta.
Il carillon suona nuovamente la stessa melodia tetra, malinconica. Un mormorio di voci riempie la stanza. Albert si aggrappa al materasso, si alza. Fa il giro del letto, senza distogliere lo sguardo da quella cosa. Poi sente le risate di due bambine fuori dalla stanza. Gli si gela il sangue.
La porta si apre. Albert afferra una padella infermieristica dal comodino e la lancia verso l'ingresso.
"Oh, ehi, signor James." Dice il dottore, schivandolo all'ultimo secondo. "È impazzito? Cosa sta facendo?"
Albert spalanca gli occhi, stravolto. Non capisce. È confuso. Dov'è quella figura nera? Dov'è andata?
"Sta bene?"
"Io..." Albert si siede sul letto. L'immagine di quella cosa gli tormenta la mente. Non fa che fissare la porta. Suda freddo, le mani tremano.
Il dottore gli posa due dita sulla fronte. "Scotta, Signor James. Si sdrai. Sì, così. Bravo. Forse è la febbre che la fa delirare."
"Ho... Ho visto quella cosa... Era..."
Il dottore socchiuse gli occhi, interessato. "Cosa ha visto, signor James?"
"Qualcosa... Io... Non lo so. Era lì. Era dietro quella porta."
"Le darò qualcosa per farla rilassare, ok?"
"No, io sto bene. Sono lucido. Ho visto... Era lì. Mi dovete credere."
"La credo, signor James." Risponde il dottore con un sorriso di circostanza. "Ma ora dovete riposare. Ha un avuto un brutto trauma cranico, e stare in piedi non le è da aiuto."

Al mattino, dopo aver dormito con un occhio aperto verso la porta, Albert scende dal letto.
"Andiamo a prenderci un caffè di sotto." Dice Victor, aiutandolo a sedersi sulla sedia a rotelle. "Beh, come hai dormito?"
"Bene."
Victor lo conduce fuori dalla stanza e proseguono nel corridoio affollato di medici, tirocinanti e pazienti. "I due federali sono qui." Dice, risentito. "Stanno parlando con Carl e Marcus."
Albert si ricorda in quel momento dei due agenti presenti all'interrogatorio. "Come stanno? Stanno bene?"
Victor gli posa una mano sulla spalla. "Meglio di te, sicuro. Se la sono cavata con qualche graffio. Sei tu quello messo male."
Rimangono in silenzio per un momento. Svoltano l'angolo e seguono un corto corridoio. Poi Victor pigia il pulsante dell'ascensore.
"I federali hanno invaso la centrale." Dice Victor. "Non lasciano avvicinare nessuno alla sala degli interrogatori. Sono arrivati anche altre persone, sai."
"Chi?" Domanda Albert, incuriosito.
"Non lo so. Sono andati dritti in quella stanza con strani aggeggi. Altri indossavano tute hazmat." Fa un sorriso divertito, ma preoccupato. "Roba da non crederci. Come se lì dentro fosse esploso un focolaio di lebbra o chissà cosa. Forse sono scienziati? Chi lo sa."
Albert medita su chi possano essere queste persone, ma non trova nessuna risposta.
DIIIN. Le porte dell'ascensore si aprono, la gente fluisce fuori. Victor spinge la sedia a rotelle all'interno e pigia il bottone del pianterreno. Le porte si chiudono.
"Non volevo dirtelo," dice Victor, imbarazzato "e se vuoi puoi non rispondermi, ma sono troppo curioso. Cosa è successo in quella stanza?"
Albert non risponde. Perché non lo sa? Pensa.
"C'entra quella donna, vero? Tutti in centrale l'abbiamo sentita urlare."
Albert non parla. Non vuole farlo. Non vuole ricordare.
"Va bene. Non ti chiederò nient'altro su questa storia."
DIIIN. Le porte dell'ascensore si aprono.




 

3


Albert avvista Fred che parla col suo dottore nella saletta dei distributori.
"Ehi, guarda." Dice Albert, accennandolo con la testa.
"Merda, meglio che ti porti via." Victor lo spinge in un corridoio parallelo.
"Primo o poi mi interrogheranno." Risponde Albert con un sorriso. "È inutile portarmi via."
"Lo so, ma è meglio dopo, che ora."
"Se lo dici tu."
Escono fuori dall'ospedale e proseguono in mezzo a un giardino coronato di arbusti, fiori e alberelli. Molte panchine sono occupate dai pazienti e i loro familiari. La gente passeggia nel vialetto sotto un cielo limpido. Il profumo di fiori aleggia nell'aria.
Victor spinge la sedia a rotelle fino a un parapetto di ferro che si affaccia sulla città sottostante.
"Hai una sigaretta?" Chiede Albert.
Victor ne prende una dal pacchetto, gliela porge e l'accende.
Albert fa un lungo tiro. "Ci voleva proprio." Dice, mentre il fumo gli fuoriesce dalla bocca e dalle narici.
"Non avevi detto di voler smettere?"
Albert lo guarda con un mezzo sorriso. "Sì, lo farò... Lo farò."
Victor scuote la testa, sorridendo. Si accende anche lui una sigaretta.
Rimangono assorti per lunghi istanti a osservare lo skyline della città.
"Non dovrei dirtelo, Albert," dice Victor "ma stamane ho visto il Vescovo Auster parlare con il capo. Sembrava piuttosto incazzato."
Albert aggrotta la fronte. "Hai sentito cosa hanno detto?"
"No, ma il fatto che il Vescovo Auster si disturbi a venire in centrale... Non so, mi sembra molto strano. E poi cosa è venuto a fare?"
"Forse è per ciò che è successo."
"Dici?" Aggiunge Victor, dubbioso. "Ma anche se fosse cosa c'entra il Vescovo?"
Albert non risponde. È consapevole di aver vissuto un terrificante incubo. Qualcosa di impossibile da descrivere. Se gli dicesse la verità, Victor non gli crederebbe, lo prenderebbe per pazzo. "Cosa credono sia successo?" Chiede.
Victor fa un tiro alla sigaretta e appoggia i gomiti sul parapetto di ferro, dandogli le spalle. "Non so molto, Albert. Il capo vuole che questa brutta storia resti confinata in centrale. Non so perché, ma è stato molto serio su questa cosa."
"Non mi hai risposto."
Victor si gira, lo guarda. "La versione ufficiale è che il detective Edgar Monroe ha ucciso Monica Portman per legittima difesa."
Albert sbuffa con un sorriso divertito. "Una donna gracile che..."
"Non serve che scendi nei dettagli." Lo interrompe Victor, buttando la cica a terra. "Credo sia opera dei federali. Vogliono insabbiare la verità, qualunque essa sia. Ecco perché è meglio che non parli con quei due. Non mi piace questa storia. Quando oggi sono venuto a trovarti, ho avuto l'impressione di essere seguito."
"È il tuo famoso intuito che te lo suggerisce?" Dice Albert con un sorriso.
"Diciamo di sì." Risponde Victor, serio. "Ho una brutta sensazione, al riguardo. Spero di sbagliarmi. Lo spero davvero."

Albert ritorna da solo nella camera da letto. Quando fa per sdraiarsi, sobbalza nello scorgere i due federali seduti a qualche metro dal suo letto. Lo fissano con fare austero, apatico.
"Mi avete spaventato." Dice Albert, mettendosi a sedere sul letto.
"Non era nostra intenzione." Risponde Mark Northwich.
"Beh, fatemi queste dannate domande. Così mi toglierò il pensiero."
Gli agenti del Bureau si alzano e lo raggiungono.
"Signor James..." Dice Mark.
"Chiamami Albert."
"Lei era insieme agli agenti Carl Winter e Marcus Owen quando è avvenuto il fatto, giusto?"
"Sì, ero con loro nella stanza adiacente a quella degli interrogatori."
"Quindi ha visto tutto?"
Albert non risponde subito. Guarda i due per un momento. "Sì."
Fred pesca da un taschino un piccolo registratore audio, che Albert guarda con sospetto.
Mark se ne accorge. "Vorremmo registrarla, se lei è d'accordo."
Albert ci riflette un momento. Non sa se mentire o dire la verità. Possono prenderlo per un pazzo, ma qualcosa negli sguardi glaciali di quei due gli suggerisce di non farlo. "Va bene. Quello che vi dirò potrà sembrarvi surreale, ma non è così. È tutto vero. Cosa volete sapere?"
"Parta dall'inizio."
Albert racconta tutto nei minimi dettagli. I due federali, irrigiditi sulle poltrone, lo fissano fino alla fine senza far trasparire alcuna emozione.
"È questo è tutto." Dice Albert, turbato dalla mancanza di reazione dei due agente dell'FBI. Non sembravano per nulla scossi.
Fred pigia un tasto e ferma la registrazione.
"È stato di grande aiuto, Signor James." Aggiunge Mark, alzandosi dalla sedia insieme al collega.
"Albert. Mi chiami solo Albert."
"Sì... Albert." Gli allunga una mano.
Albert gliela stringe, poi stringe anche quella di Fred.
I due federali vanno via.
Albert è confuso. Credeva che lo avrebbero preso per pazzo invece gli avevano creduto. Non l'avevano mai interrotto, non avevano mai espresso dubbi. Com'era possibile? Nessuno sano di mente lo avrebbe preso sul serio.

Il mattino seguente, un agente lo informa che Victor Dale è morto in un incidente stradale mentre tornava a casa.
Albert è sconvolto. Non riesce a crederci. "Come... come è successo?"
"Un camion gli è andato addosso. Il camionista aveva bevuto e si è addormentato alla guida. È morto sul colpo."
Albert abbassa gli occhi lucidi, delle lacrime gli solcano il viso.
"Mi dispiace tanto, Al." Dice l'agente, poggiandogli una mano sulla spalla. "So che era il tuo partner."
"Per undici anni." Albert trattiene le lacrime. "Undici lunghissimi anni." La testa gli pulsa, cerca di ignorare il dolore. "L'uomo alla guida è sopravvissuto?"
"Sì, sta bene."
Una vampata di rabbia gli sale lungo il corpo. Il viso gli diventa paonazzo, la testa gli formicola, le mani gli tremano.
L'agente lo saluta con un accenno della testa e lascia la stanza.
Albert crolla a piangere, le spalle che fanno su e giù per il singhiozzo.




 

4


Cinque giorni dopo, Albert partecipa ai funerali. Siede davanti alla bara attorniata dai poliziotti in divisa e fuori servizio. La moglie e le due figlie di Victor gli sono accanto, insieme ai parenti. Le bambine sono tristi, i visi corrucciati. La moglie nasconde gli occhi arrossati per il pianto dietro a degli occhiali scuri.
In piedi, dalla parte opposta, il capo della polizia John Moon, affiancato dagli agenti federali Mark Northwich e Fred Coleman.
Mentre il prete è nel pieno dell'omelia funebre, Albert scorge Nicolas, il fratello di Victor. Se ne sta appoggiato di lato contro un albero lontano dagli altri, le braccia conserte, le sopracciglia aggrottate per la rabbia.
Quando il prete finisce di parlare, un uomo agghindato si avvicina ai cinque uomini in divisa.
"Puntare!" Urla.
I cinque uomini puntano i fucili al cielo.
"Sparare!"
I colpi echeggiano nell'aria.
"Sparare!"
"Sparare!"
La moglie piange, i bambini le si stringono vicini. Nicolas si volta e si allontana.
Due agenti in divisa coprono la bara con la bandiera americana e la calano giù con delicatezza. La gente si mette in fila per fare le condoglianze alla vedova.

Albert raggiunge Nicolas, che cammina triste e irato tra le lapidi.
"Nicolas." Dice Albert. "Fermati."
Il fratello di Victor è sui quarant'anni, occhi neri, capelli castano scuro tirati all'indietro e un viso squadrato, solcato da un'ispida barba.
"Che vuoi, Albert?"
"Come stai?"
Spalanca le braccia, sorpreso. "Mio fratello è morto in un incidente stradale. Come vuoi che stia?"
"Io... Non volevo mancarti di rispetto, Nicky."
Nicolas lo fissa, torvo. "Non chiamarmi Nicky. Non farlo! Solo mio fratello mi poteva chiamare così."
Albert solleva le mani in segno di resa. "Va bene... Non lo farò."
Restano in silenzio per un lungo momento.
Nicolas si è calmato, guarda il cielo sporcato da qualche nuvola. "Hai da accendere?"
Albert gli porge una sigaretta.
Nicolas se l'accende e fa un lungo tiro.
"Devi scusarmi, Albert." Dice Nicolas, mentre agita la sigaretta nella mano. "Tu sei l'ultima persona con cui mi incazzerei. Davvero."
"Lo so, non preoccuparti." Risponde Albert, accendendosi una sigaretta.
"Mio fratello è stato ucciso."
Albert non parlò subito. "Lo credo anche io."
"Allora non sono l'unico a pensarlo. Mi aveva detto che lo stavano seguendo, ma non sapeva chi. Prima di morire, qualcuno ha messo sotto sopra l'ufficio di casa. Non hanno portato via niente, ma tutte queste coincidenze sono strane, non trovi?"
"Forse cercavano qualcosa." Disse Albert. "Delle prove o..."
"Credo sia per quello che è successo alla centrale," lo interruppe Nicolas. "Sì, lo so. Mio fratello me ne ha parlato. Mi ha detto di non dirlo a nessuno."
"E l'hai fatto?"
"Certo che no."
Albert fa un tiro. "Il capo non vuole che la storia esca dal dipartimento. Victor credeva che i federali volessero insabbiare l'accaduto. Ora lo credo anch'io."
"Quindi l'FBI ha ucciso mio fratello solo perché me ne ha parlato?" Aggiunge Nicolas, turbato. "E come l'avevano saputo?" Fa una pausa. "Immagino... Immagino che io sia il prossimo."
"Non dire così." Risponde Albert. "Per ora è meglio non parlare con nessuno di ciò che ci siamo detti, ok?"
Nicolas annuisce e getta la cicca della sigaretta. "Quei bastardi la pagheranno. Fosse l'ultima cosa che faccio al mondo."

Albert da le condoglianze alla moglie di Victor e guida verso la sua abitazione, tenendo d'occhio la strada alle sue spalle dallo specchietto retrovisore interno. Ma sembra che nessuno lo stia seguendo, o forse sono troppo bravi per farsi scoprire.
Vive al terzo piano di un condominio malandato. Anche se da fuori il palazzo esige un'enorme manutenzione, l'appartamento di Albert è tenuto bene. Non ci sono crepe, perdite d'acqua o muffa.
Una volta entrato, Albert va a stapparsi una birra dal frigo e si lascia cadere sulla poltrona. Fissa il suo riflesso nello schermo nero della televisione e sorseggia la birra. Da fuori sente il rombo dei motori delle auto, il vociare delle persone.
Rimane seduto fino a quando si ritrova in mano la bottiglia vuota. Poi si alza, la getta nel lavabo ed esce sul balcone. Il cielo rosso arancio manda gli ultimi sprazzi di luce nel cielo prima del tramonto.
Albert guarda in strada i veicoli parcheggiati. Forse ora stanno seguendo anche lui? Forse lo uccideranno come è successo con Victor? Anche lui morirà in un incidente stradale? Di overdose? Suicida?
Rientra dentro e chiude le doppie porte di vetro.

Verso le nove del giorno seguente, raggiunge il dipartimento di polizia. I colleghi gli stringono la mano e si dicono felici che stia bene. Ma nei loro volti traspare un miscuglio di tristezza e rabbia. Hanno perso due colleghi in poche ore, e i federali hanno preso il controllo delle indagini e del posto.
Mentre Albert si fa una caffè nero alla macchinetta, John Moon lo raggiunge alle spalle.
"Ehi, Al. Come stai?" Domanda il capo della polizia con un finto sorriso.
"Bene." Risponde Albert.
"Ottimo. Vorrei parlarti. Tra cinque minuti nel mio ufficio." E va via.
Albert afferra il bicchierino di caffè fumante e ne beve un sorso.
Sale al piano superiore, dove scorge Mark Northwich e Fred Coleman indaffarati alla scrivania di Victor. Ci passa vicino, e quelli si limitano a guardarlo e salutarlo con un cenno della testa.
Due federali di guardia si trovano a lato della porta degli interrogatori. Dalla finestra nella porta, nota tre persone con addosso tute hazmat. Due di loro scrivono qualcosa sui loro taccuini, mentre il terzo tiene alzato uno strano aggeggio simile a un telecomando e cammina nella stanza.
Albert prosegue tra le scrivanie, finché si ferma alla sua. Hanno rovistato nei cassetti, tra le pile di documenti, ma gli sembra che ci sia tutto.
"James!" Grida il capo della polizia sull'uscio del suo ufficio. "Vieni dentro."
Mentre Albert si dirige verso l'ufficio del capo, i colleghi lo guardano di sottecchi.
"Chiudi la porta." Dice John. "Siediti."
"Perché ci sono federali con addosso tute hazmat?" Domanda Albert.
"Sono io a fare le domande qui. Ed è meglio per te se eviti di andare a ficcare il naso in giro, le indagini sono passate al Bureau. Intesi? Bene, ora dimmi cosa è successo quel giorno."
Albert è confuso. "L'ho già detto ai due federali. Non ti hanno detto niente?"
John lo fissa per un momento. "Voglio sentirlo dire da te."
"Non mi hai risposto."
"Dimmi cosa cazzo è successo, Detective James!"
Albert corruga la fronte, turbato.
"Allora?"
"Perché vuole saperlo?"
"Perché?" Sorride falsamente. "Perché sono il tuo cazzo di superiore. Esigo che tu mi dica cosa è successo. Ed ora non farmi perdere altro tempo e raccontami tutto."
Lo fa, ma il capo della polizia non sembra credergli. Anzi, lo ferma più volte, minacciandolo di incatenarlo per sempre a una scrivania. Ma alla fine capisce che Albert gli sta dicendo la verità, in quanto gli altri due agenti feriti avevano detto la stessa cosa.
Venti minuti dopo, Albert esce dall'ufficio di John Moon. Mentre ritorna alla sua scrivania, i colleghi lo guardano nuovamente di sottecchi.




 

5


Torna nel suo appartamento verso le nove e mezzo di sera. È stanco, abbattuto, e non vede l'ora di dormire. Si fa una doccia, mangia due fette biscottate spalmate di marmellata all'albicocca, tracanna una birra e si getta sul letto. Mentre ascolta il rumore della lancetta dell'orologio appeso alla parete, si addormenta.
Si ritrova in un parco abbandonato. Una pallida luna svetta nel cielo senza stelle, illuminando alberi scheletrici, arbusti rinsecchiti e ciuffi d'erba. Segue un vialetto che lo conduce davanti a un bungalow. Un macchina bifamiliare è parcheggiata davanti al garage, e dietro le finestre brilla una luce blu. Nel giardino davanti c'è una statua di marmo. Un'alta figura senza volto che tiene per mano due bambine.
Albert sbarra gli occhi, spaventato. È la stessa figura che ha visto nell'ospedale. Comincia a girarle attorno, si sofferma a guardarla. Vuole toccarla, ne sente il bisogno. Ma appena si avvicina, subito indietreggia. Qualcosa gli dice di non farlo.
D'un tratto la porta della casa si apre lentamente. Un fascio blu ne esce fuori e illumina la statua. Subito comincia a liquefarsi come fosse cera. Quando non rimane più nulla, il fascio blu scompare, le finestre si oscurano, la luna svanisce.
Albert non riesce a vedere niente. Cammina a tentoni verso la casa, tiene una mano sulla parete, striscia fino all'entrata. Cerca frettolosamente l'interruttore della luce, ma non riesce a trovarlo.
Poi viene catapultato su una spiaggia. Sente le onde infrangersi sugli scogli, un vento gelido accarezzargli il viso. La pallida luna è di nuovo nel cielo. Si guarda intorno, confuso. Dove si trova?
Poi le risate divertite delle due bambine echeggiano attorno. Si gira, ma non li vede. Un bagliore bluastro compare sulla sommità di una piccola duna rocciosa puntellata dall'erba, dove si delinea un'alta figura nera. Alle sue spalle, la luce della luna ne viene divorata.
Albert lo fissa, non riesce a distogliere lo sguardo. Le risate delle due bambine si avvicinano, gli girano intorno.
Poi il bagliore bluastro scompare, e qualcosa di freddo gli stringe la mano.

Albert si sveglia di colpo, la fronte impregnata di sudore. Un fascio solare filtra tra la tenda semichiusa della finestra. Rimane seduto sul letto, poi si alza e va in bagno.
Verso le nove, lascia il suo appartamento e si dirige alla chiesa. Rimane sulla soglia, indeciso. Quando le cose non andavano bene, era solito andare a parlare con padre Martin. Ma questa è una situazione insolita, surreale. Padre Martin non lo avrebbe capito, ma non gli importa. Deve dirlo a qualcuno.
Entrato in chiesa, percorre la navata e bussa alla porta dell'ufficio di padre Martin. Non gli risponde nessuno.
Busso ancora, ma niente. Allora gira la maniglia ed entra.
Padre Martin è seduto dietro la scrivania e dà le spalle alla porta.
"Padre Martin." Dice Albert, avvicinandosi. "Sono Albert James. Chiedo scusa se la sto disturbando, ma..." Si pietrificò.
Padre Martin era morto. Gli occhi incavati, la lingua a penzoloni, i lati della bocca tagliati come a formare un tetro sorriso. Una lama gli aveva inciso nel collo una croce capovolta.
Albert indietreggia, inorridito. D'un tratto la porta si spalanca. Una folata di vento gelido entra nella stanza, gli sferza il viso, fa volare i fogli, aprire le finestre e svolazzare le tende.
L'alta figura nera è sotto la soglia e tiene per mano le due bambine. I loro sguardi apatici, lo fissano con occhi vitrei. Poi una si stacca e gli corre incontro. Albert non riesce a muoversi, avverte un nodo in gola. La bambina gli stringe la mano, un tocco gelido che gli fa perdere i sensi.

Si sveglia in un capanno. I raggi del sole filtrano tra le strette fessure di legno nel soffitto, e un'imposta aperta sbatte ripetutamente contro il muro. Albert si alza, si guarda intorno. Le erbacce dimorano incontrastate in quell'ambiente malandato. Un tavolo privo di due gambe è inclinato sul pavimento. Piante rampicati corrono lungo le pareti e sui ripiani della cucina.
Quando si dirige alla porta, sente un rumore alle sue spalle. Un suono acuto, come di un metallo che raschia contro la pietra. Si gira, ma non vede nessuno. Si guarda intorno spaventato. Poi gira la maniglia e viene accecato dal sole. Si copre gli occhi con un mano, solo per sentire una fitta dolorosissima allo stomaco. Mentre si piega per il dolore, le gambe cedono e cade in ginocchio.
"Egli è verità." Dice una voce gutturale, deforme che gli echeggia nella mente. "Eppure Egli dimora in sparuti cuori. Sovente cerca l'amore, ma è l'odio che semina. Vuol nutrirsi del buono, ma è della presunzione che si ciba. Chi è colui che possiede il cielo e il mare, il vento e la terra? Chi è colui che si illude di sapere, quando non sa? Chi è colui che tace, ma porta guizzi di saggezza nel mondo? Chi è colui che ricerca e si crogiola nelle tenebre, nell'oscurità, quando in realtà è disperso nella sua stessa mente, nel suo stesso ego? Chi possiede la verità, se tutti se ne proclamano gli araldi?"
Albert si vede dinanzi un'alta figura, le due bambine gli sono affianco. Mentre massici nuvoloni neri si stagliano minacciosi nel cielo, un enorme e terrificante occhio simile a un tornado si forma nel mezzo. È terrorizzato.
L'alta figura gli protende quella che sembra una mano vibrante. Le bambine si avvicinano ad Albert, gli prendono le mani, lo fanno alzare. Il loro tocco è caldo, rassicurante. Un'improvvisa pace gli acquieta l'anima. Non ha più paura. Desidera solo stringere la mano dell'alta figura, lasciarsi alle spalle tutto il male del mondo. Appena sta per farlo, viene catapultato su una seggiola.
È in un portico. Si sente stanco, invecchiato, solo. È come se tutta la sua vita gli fosse passata davanti in un battito di ciglia. Non ricorda nulla del suo passato, eccettuo quello strano caso su Monica Portman. Su un tavolino, accanto a un bicchierino di vetro e una bottiglia di whisky, una cartella di documenti. L'afferra, la sfoglia.

Trascrizione di Albert James, agente scelto della polizia dello stato dell'Arizona. Questa è una trascrizione dell'interrogatorio tra il Detective Edgar Monroe e Monica Portman, accusata di omicidio plurimo. Trascriverò solo la parte finale dell'interrogatorio. Il resto del materiale è in mano all'F.B.I. ed è classificato.
   
 
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