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Autore: Parmandil    30/07/2021    0 recensioni
Sauron il Maia fu corrotto da Melkor nel principio dei giorni. Divenne il più potente dei suoi servitori, nonché il più pericoloso, in quanto poteva assumere molte forme e ingannare chiunque, tranne i più avveduti. Così dice il Silmarillion. Ma come andarono esattamente le cose? Quali sono le origini del secondo Signore Oscuro? Quali i suoi segreti, gelosamente custoditi?
Preparatevi a un viaggio epico che inizia nella Primavera di Arda, quando le terre emerse giacciono nel giorno perenne di Illuin e Ormal, i Lumi dei Valar, e le Potenze si aggirano visibili nel mondo. È in quest’epoca di sogno che Mairon l’Ammirevole viene traviato da Melkor, imboccando quel cammino di tradimento e distruzione che lo trasformerà in Sauron l’Aborrito. La sua scelta sancirà la rovina del mondo antico e spezzerà il cuore agli altri Maiar, che dovranno affrontarlo in battaglia. Dal cataclisma dei Lumi alla Guerra dei Poteri, dal suggestivo Risveglio degli Uomini fino all’apocalittica Guerra d’Ira, ecco a voi la storia di Mairon/Sauron, di Ëonwë l’araldo, di Ilmarë la lucente, di Thuringwethil la vampira e di molti altri spiriti, coinvolti nell’eterna lotta tra Luce e Ombra.
Genere: Drammatico, Fantasy, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ancalagon, Melkor, Sauron, Thuringwethil, Valar
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo, Violenza
Capitoli:
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-Capitolo I: La Festa della Primavera

 

   Quando Manwë, Signore dell’Aria e Re degli Ainur, annunciò una grande festa per celebrare la riuscita edificazione di Arda, tutte le schiere degli Immortali si misero in agitazione. Un mormorio emozionato corse tra i Maiar, gli spiriti minori, e anche i grandi Valar sorrisero compiaciuti. Per eoni avevano lavorato incessantemente al difficile compito di domare i tumulti primordiali del mondo, rendendolo una dimora accogliente per se stessi e per i Figli d’Ilúvatar. Le loro fatiche erano state accresciute dalla ribellione di Melkor, che avrebbe dovuto essere la loro guida e si era invece rivelato il più implacabile nemico. Molti Ainur avevano disperato di poter realizzare quanto avevano cantato nella Musica primordiale, e poi osservato in visione. Ma ora, finalmente, era tempo di cogliere i frutti delle loro fatiche; di dedicarsi alle feste e al riposo.

   «C’è un altro lieto annuncio che ho il piacere di darvi» disse Manwë, la cui voce stentorea risuonava per tutta Almaren. «Il nostro grande amico Tulkas, difensore di Arda, ha chiesto la mano di dama Nessa, ed ella ha accettato. Pertanto in questa Festa della Primavera si celebrerà anche il loro sposalizio!».

   Tulkas si fece avanti gongolando, sotto scroscianti applausi. Era biondo di capelli e roseo d’incarnato, come un gran bambinone, ma nessuno dimenticava che era stata la sua gran forza a mettere in fuga Melkor. Anche nel carattere Tulkas era fanciullesco: si curava poco del passato o del futuro, e a volte si lasciava trascinare dalle emozioni, ma era un amico leale. Nessa si fiondò tra le sue braccia, rapida come una freccia, e quasi lo avvolse in una nube di capelli scuri. Anche lei era gaia e spensierata: molte delle creature più agili e variopinte di Arda erano opera sua.

   Quando si baciarono, Eönwë soffiò in una tromba d’oro e anche Oromë, fratello di Nessa, fece udire Valaróma, il suo corno da caccia. Il popolo dei Maiar diede in esclamazioni festanti, e non solo quelli radunati sui prati di Almaren: dal Grande Lago emersero infatti gli spiriti delle acque. Lo stesso Ulmo s’innalzò torreggiante fra loro, con l’elmo crestato di schiuma e la cotta rilucente di squame. Portò alla bocca il suo gran corno, Ulumúri, ricavato da una conchiglia bianca, e vi soffiò con forza. Il suono profondo e misterioso era però impregnato di un’insondabile malinconia.

   Ora che Tulkas si sposava con Nessa, Ulmo sarebbe rimasto uno dei pochissimi Valar ancora senza una compagna. La maggior parte delle Potenze aveva formato coppie già dalle ere arcaiche dei tumulti di Arda e della guerra con Melkor. Manwë stava con Varda, Aulë con Yavanna, Irmo con Estë, Oromë con Vána. Persino il fosco Námo si era trovato una sposa, Vairë la Tessitrice. Ormai di tutte le Valier ne restava una sola nubile, ma ben difficilmente si sarebbe mai impegnata con chicchessia. Si trattava infatti di Nienna la Piangente, ben riconoscibile in mezzo alla folla variopinta: era l’unica vestita a lutto, che singhiozzava nel fazzoletto. Nienna era uno spirito molto sensibile. All’inizio dei tempi, quando Melkor aveva guastato la Musica, ne aveva sofferto tanto che il suo canto si era mutato in lamento assai prima che terminasse. Questo pianto era stato intrecciato nei temi del Mondo prima che avesse inizio e perciò l’avrebbe permeato per tutta la sua durata.

   «Suvvia, non pensi di poter alleggerire un po’ il tuo cuore?» le chiese suo fratello Irmo. «Ormai le ferite che Melkor ha inferto al mondo sono state sanate. E poi, Tulkas e Nessa si sposano... non succede tutti i giorni che due Potenze intreccino i loro destini per l’eternità» aggiunse, lanciando un’occhiata furtiva e dubbiosa a Ulmo. No, proprio non ce lo vedeva, a invaghirsi di sua sorella.

   «M-ma io n-non sto – sigh! – piangendo di dolore!» singhiozzò Nienna. Il suo viso fece brevemente capolino dal fazzoletto. Era di un pallore estremo, enfatizzato dal contrasto con i capelli corvini. Gli occhi a mandorla, neri come giaietto, grondavano lacrime.

   «No? Ehm, sarebbe la prima volta... di che piangi, allora?» chiese Irmo, sorpreso e un po’ imbarazzato.

   «Ma di gioia, no? Adoro i lieti fini... sono così... commoventi! Buaaahhh!» singhiozzò Nienna, tornando a seppellire il volto nel fazzoletto fradicio. Irmo alzò gli occhi al cielo, chiedendosi da quale parte della mente d’Ilúvatar fosse scaturita sua sorella.

 

   Poco distante, nella folla dei Maiar, c’era un altro viso rabbuiato: quello di Mairon, il braccio destro di Aulë. Era uno dei Maiar maggiori, assieme ad Eönwë. Aveva l’aspetto di un uomo imponente; alto e magro, ma con le spalle larghe, lunghi capelli color fiamma e acutissimi occhi grigi. Essendo legato al fuoco, alle rocce e ai metalli, Mairon aveva lavorato incessantemente con il suo maestro Aulë per plasmare le forme di Arda, erigere le dimore degli Ainur e fabbricare un’infinità di oggetti utili. Non c’era segreto, nella scienza dei fabbri, che Aulë non avesse trasmesso al suo talentuoso aiutante; e spesso diceva che senza di lui non sarebbe riuscito a sopperire all’assenza di Melkor. A Mairon questi complimenti facevano molto piacere; ma riteneva che i suoi lunghi e leali sforzi fossero stati sottovalutati dagli altri Ainur.

   Ora, però, era un’altra questione a pungerlo; qualcosa di ancor più personale. Guardò verso Manwë e Varda, che si erano riseduti sui loro troni all’aperto, e la vide: Ilmarë, ancella di Varda, la più bella Maia mai scaturita dalla mente d’Ilúvatar. A vederla pareva una sorella più giovane della Regina delle Stelle, tale era la sua bellezza. Ma invece di avere i capelli corvini, come Varda, li aveva di una sfumatura argentea così chiara che sembravano bianchi. Bianca era la sua veste, argentea la cintura; fra le chiome aveva fili di perle intrecciate. E il volto... Mairon distolse lo sguardo, perché Ilmarë si era accorta d’essere fissata. Ma continuò a figurarsela nella mente.

   Come tutti gli Ainur incarnati, Ilmarë aveva scelto un aspetto confacente al suo spirito, che lo rispecchiasse il più possibile. Mentre i Valar – e anche gran parte dei Maiar – avevano sembianze imponenti e maestose, Ilmarë era piccola ed esile, quasi come una ragazzina. Ma al pari degli altri, la sua memoria risaliva a prima della creazione di Arda e la sua saggezza era quella di chi ha parlato con Ilúvatar.

   Mairon lanciò un’altra occhiata furtiva a Ilmarë e la vide congedarsi rispettosamente da Varda, per unirsi alla folla dei Maiar. Terminate le acclamazioni, questi si dedicavano ormai a musiche e canti, oppure si dividevano in piccoli gruppi e si allontanavano conversando. Mairon sentì il cuore sobbalzargli: Ilmarë veniva sorridendo verso di lui! Era raro che lo facesse. Quando lui le aveva confessato il suo amore, tanto tempo prima, lei si era detta lusingata e confusa dai troppi complimenti, prima di pronunciare la temuta risposta: «Perché non restiamo amici?». Da allora, Mairon aveva la sensazione che Ilmarë cercasse d’evitarlo, per non dover affrontare di nuovo l’argomento. Però adesso gli veniva incontro così radiosa! Come reagire, cosa dirle? Mairon aveva la bocca secca. Per uno come lui, che trascorreva gran parte del tempo sottoterra a disquisire di leghe e metalli con gli altri fabbri, non era semplice avere una conversazione brillante con una dama.

   «Eccoti, mio diletto! Dov’eri finito ultimamente?» esclamò Ilmarë, spalancando le braccia.

   Mairon si bloccò, sbigottito; poi pensò di ricambiare l’abbraccio, inaspettato quanto gradito. Ma in quella Eönwë, che gli stava dietro, lo superò e strinse Ilmarë tra le forti braccia. Era verso di lui che l’ancella si dirigeva così raggiante, si disse Mairon, allontanandosi umiliato. Ma fatti pochi passi si fermò, cercando d’ascoltare la loro conversazione.

   «Stavo solo pattugliando i confini delle Grandi Terre, mia adorata» disse Eönwë, con voce calda e rassicurante. «Ultimamente gli animali stanno diventando troppo aggressivi. Molti dei grandi rettili sono diventati mostri, grevi di corna e zanne, che tingono la terra di sangue ben oltre il dovuto. E anche le creature più piccole stanno diventando moleste. Sei stata in qualche stagno, di recente? Sono diventati paludi fetide, ostruite da erbacce e limo, vivai di mosche...» si lamentò.

   «Cosa vedo, il grande Eönwë spaventato da qualche mosca!» ridacchiò Mairon, inserendosi nella conversazione. «Cos’è, temi di spettinarti i riccioli? O d’infangarti i calzari?» chiese in tono leggermente beffardo. Ora che erano vicini, il contrasto anche fisico fra i due non avrebbe potuto essere più evidente. Entrambi avevano i capelli biondi, ma quelli di Mairon erano lunghi e lisci, mentre Eönwë li aveva corti e riccioluti. Se il primo era pallido, per il tempo trascorso nelle fucine sotterranee, il secondo era abbronzato dai raggi del sole, cui si esponeva mentre transitava per le regioni più lontane di Arda, non sottoposte alla notte perenne.

   «Sei il solito buontempone» rispose Eönwë, bonario. I suoi occhi azzurro cielo incontrarono quelli grigi di Mairon, ma se ne distolsero subito. «Io, però, parlavo sul serio. C’è qualcosa di cattivo all’opera. Se venissi con me, te lo farei vedere...» disse, agitando le ali come per spiccare il volo. Essendo l’araldo e il messaggero di Manwë, Eönwë si era incarnato in una forma leggermente diversa dagli altri Ainur. Dalla schiena gli fuoriuscivano due maestose ali, dalle grandi penne marrone/dorate. Durante la Visione di Arda, prima che Ilúvatar creasse il Mondo, aveva visto creature con ali del genere levarsi a volo e non le aveva più dimenticate; ma solo di recente i Valar avevano favorito l’evolversi dei primi uccelli.

   «Ehi, piano!» protestò Mairon, schermandosi con le braccia, per impedire che le grandi penne lo colpissero. «Non hai bisogno di trascinarmi in uno dei tuoi viaggi, ti credo sulla parola. Ma che intendi con qualcosa di cattivo? Cioè, intendi dire cattivello o proprio cattivo-cattivo?».

   «Intendo perfido» rispose Eönwë con decisione. «Non percepivo tanta malvagità, nelle creature, da quando Moru la Tessitenebra generò la stirpe dei ragni» aggiunse, abbassando la voce e assumendo un’aria da cospiratore. Evidentemente non voleva che i suoi interlocutori riferissero ad altri la notizia.

   «Ma è terribile!» esclamò Ilmarë, portandosi una mano alla bocca. «Devi avvertire immediatamente Manwë, e Oromë, e Tulkas... insomma, tutti!» squittì spaventata.

   «E guastare la festa? Non so... fatichiamo da così tanto tempo che ci serve una pausa ristoratrice, prima di metterci in caccia» obiettò Eönwë. «Inoltre non vorrei rovinare le nozze di Tulkas e Nessa. Anche loro si sono dati tanto da fare, e ora che sono così felici, beh, non vorrei fare il guastafeste» disse un po’ a disagio.

   «Ma se le cose sono gravi come dici...» insisté Ilmarë.

   «A proposito, che idea ti sei fatto sulle possibili cause?» chiese Mairon.

   «Uhm, non sono sicuro. Potrebbe essere qualche Maia, di quelli che si schierarono con Melkor nella Guerra» rispose Eönwë cautamente. «Se ricordate, al termine del conflitto molti di loro non seguirono Melkor nella Tenebra Esterna. Devono annidarsi ancora da qualche parte, nei territori più esterni, dove la luce dei Lumi non giunge... cioè proprio dove si concentrano i mostri...».

   «Ma quali Maiar? Pensi a qualcuno in particolare?» chiese Mairon.

   «Difficile a dirsi. È passato così tanto tempo, dall’ultima volta che li ho visti, che mi sono praticamente dimenticato di loro» sospirò Eönwë.

   «C’erano i fratelli di Arien... i Valaraukar, gli Spiriti del Fuoco» ricordò Mairon.

   «E c’era Moru, come hai detto poco fa» aggiunse Ilmarë. «Ricordo che verso la fine della Guerra si faceva chiamare Ungwë Liantë, la Tessitrice di Tenebre. Si ribellò persino a Melkor, perché non voleva altro padrone che se stessa, e scomparve al Sud. Lei era oscura abbastanza!» rabbrividì.

   Eönwë non sembrava convinto. «Non so... i Valaraukar e Ungwë Liantë sono pericolosi, ma sono anche primitivi nei loro comportamenti, direi quasi bestiali. Possono fare i mostri, uccidere gli animali, ma non ce li vedo a trasformarli in quel modo. Quello è un lavoro per menti più raffinate».

   «C’erano molti altri Maiar corrotti: Fankil, Langon, Ulbandi...» ricordò Mairon, contando sulle dita. «Questi pasticci con le creature potrebbero essere opera d’ognuno di loro, o anche di tutti loro assieme. Ehi, forse è proprio così... si sono accordati per rovinare la Primavera di Arda!» esclamò, colto dall’intuizione. «Immaginate: visto che il loro padrone è fuori gioco, si sono riuniti da qualche parte e hanno concertato come rovinarci la festa. Così si sono spartiti il territorio; ognuno di loro si è trovato una tana da qualche parte, lontano dai Lumi, e ha allestito la sua piccola fucina degli orrori. Se così fosse, sarebbe un lavoraccio stanarli e sconfiggerli tutti, uno per uno».

   «Diabolico! Potresti proprio aver ragione» disse Eönwë, impressionato. «Come ti è venuto in mente?».

   «Beh, è quello che farei io, se fossi nemico della Luce... cosa che non avverrà mai» disse Mairon, arrossendo leggermente. Si era accorto che negli occhioni blu di Ilmarë c’era una certa ammirazione per le sue abilità deduttive. «Sapete, non è difficile prevedere le azioni dei malvagi» continuò, in tono falsamente modesto. «Loro agiscono sempre col metro delle loro brame e ciò li rende prevedibili. Noi, invece, seguiamo logiche altruistiche... che loro non capiranno mai» concluse.

   «Sì, sì» tagliò corto Eönwë. «Mi hai dato da pensare, adesso cercherò di scoprire se è davvero così. Consulterò qualche Maia esperto in animali... non so, Melian oppure Aiwendil... e vedremo di scoprire da dove sbucano».

   «Lascia stare Aiwendil; è uno sciocco, quello» raccomandò Mairon. «Da quando Irmo ha inventato i papaveri, non fa che fumarseli».

   «Allora andrò da Melian. Anche lei s’interessa delle terre lontane da Almaren, tanto che a volte l’ho incrociata nei miei viaggi» disse Eönwë.

   «Fate attenzione, molti di quei Maiar erano pericolosissimi» raccomandò Ilmarë. «Potreste portare con voi qualche altro guerriero... magari Tilion» suggerì. Tilion, il cacciatore dall’arco d’argento, era il principale aiutante di Oromë e uno degli Ainur più votati al combattimento, il che si era rivelato utilissimo ai tempi della Guerra.

   «Buona idea... ma oltre a Melian e Tilion non porterò altri, perché la nostra dev’essere una compagnia piccola e rapida» disse Eönwë. «Inoltre non voglio che chi festeggia qui ad Almaren si preoccupi, vedendo molti di noi andarsene. A presto, amore... divertiti alla Festa!» concluse, baciando Ilmarë. Poi diede un’occhiata obliqua a Mairon, come a dire: «Non soffiarmi la ragazza mentre sono via», e con due potenti battiti d’ala s’innalzò nel cielo terso.

   Fra Mairon e Ilmarë scese un silenzio imbarazzato. «E così, uhm, voi due state insieme» disse infine il fabbro.

   «Sì, da un po’ di tempo» annuì Ilmarë, fissando il suolo. Al posto della ghiaia, c’erano diamanti e altre pietre preziose o semipreziose. «Ti dispiace?» sussurrò la Maia.

   «I miei sentimenti per te non sono cambiati. Anzi, i tuoi tentativi d’evitarmi li hanno acuiti» confessò Mairon. Di norma era un tipo riservato; parlare in questo modo dei suoi sentimenti era insolito per lui, e molto imbarazzante.

   «Mi spiace... non volevo farti soffrire, dico davvero» disse Ilmarë. «Siamo sempre stati amici, fin da quando i nostri spiriti hanno cominciato a esistere nel Vuoto. Sei come un fratello, per me... non vorrei mai che questo stato di cose cambiasse» disse, mordicchiandosi nervosamente il labbro inferiore.

   Termini come “fratello” e “sorella”, beninteso, erano imprecisi, trattandosi di Ainur. Erano tutti scaturiti dalla mente d’Ilúvatar, quindi in un certo senso erano tutti fratelli e sorelle. Ma alcuni di loro erano stati creati nello stesso istante e con poteri affini, perciò usavano questi termini per definire la loro vicinanza spirituale. Così Melkor e Manwë, gli Ainur più antichi e potenti, erano considerati fratelli. Námo, Irmo e Nienna erano anch’essi della stessa “famiglia”, quella dei Fëanturi, i Signori di Spiriti. Yavanna e Vána erano considerate sorelle e anche Melian era loro congiunta. Nessa era la sorella di Oromë. I Valaraukar, spiriti del fuoco volti al male, erano anticamente fratelli di Arien. Di simili esempi ce n’erano a bizzeffe. Questa peculiare vicinanza “fraterna” impediva agli Ainur di formare coppie, infatti tutti gli sposalizi erano sempre avvenuti fra Valar o Maiar che non fossero “apparentati”.

   «Noi non siamo fratelli» disse Mairon. «Non siamo stati creati assieme, né i nostri poteri sono simili. Guardami: io sono un umile fabbro, mentre tu danzi fra le stelle...» mormorò, cercando di abbracciarla.

   «M-ma io, per quanto ti abbia caro, non ti amo in quel modo... ora scusami, credo che la mia signora Varda mi stia chiamando col pensiero» disse Ilmarë, divincolandosi. Se ne andò di corsa, fuggì letteralmente dall’abbraccio di Mairon, verso il podio di Manwë e Varda... che di certo non l’avevano chiamata, nemmeno col pensiero. Era una scusa, Mairon lo sapeva. Restò solo in mezzo alla piazza che andava svuotandosi, in preda all’amarezza e alla vergogna. Si chiese dove aveva sbagliato.

 

   Meditabondo, Mairon prese a passeggiare per le vie scintillanti di Almaren, pensando alla prossima mossa. Era tentato di approfittare dell’assenza di Eönwë per attirare l’interesse di Ilmarë, ma si rendeva conto che non era un atteggiamento nobile; inoltre la Maia era già stata chiara.

   «Salute, Mairon! Perché sei così corrucciato? Non hai udito l’annuncio di Manwë?» chiese una voce familiare.

   Mairon alzò lo sguardo e vide Curumo, un Maia di ordine inferiore. Represse un moto di fastidio. Curumo non si era mai distinto per le sue azioni, né in tempo di pace, né durante la guerra con Melkor. Lo si poteva definire un attendista. Però era abile a lusingare tutti e a farsi confidare i segreti. Passava per saggio, ma quel poco di saggezza che aveva non era farina del suo sacco. Spesso ronzava intorno alla fucina di Aulë, fingendo d’essere utile e cercando di carpire qualche segreto; ma il fabbro divino non gli aveva mai confidato nulla d’importante.

   «Ho udito eccome; e ne sono lieto» disse Mairon. «Ma dopo aver tanto lavorato per il benessere altrui, mi chiedo se non abbia trascurato il mio».

   «Cosa ti turba? A me puoi dirlo, senza timore che si sappia in giro. E chissà che io non sappia consigliarti» si offrì Curumo. Al solito, i suoi modi erano aristocratici e un tantino leziosi. All’inizio dei tempi, quando aveva scelto in che forma incarnarsi, si era molto impegnato per trovarne una che gli paresse all’altezza: alla fine aveva un po’ copiato da Mairon. Era quindi alto e pallido, con lineamenti nobili e lunghe chiome (scure, anziché bionde). Il suo abbigliamento era sempre impeccabile: lunghe vesti bianche, senza un granello di polvere.

   «Apprezzo la disponibilità, ma... un’altra volta, magari. Quali che siano i miei grattacapi, li posso gestire» rispose Mairon, cercando d’essere diplomatico.

   «Certo, non l’ho mai messo in dubbio!» sorrise Curumo, dandogli una pacca sulla spalla. «In fondo tu sei Mairon l’Ammirevole, che rivaleggia con gli stessi Valar per conoscenze e poteri! A proposito, metteresti una buona parola per me con Aulë? Sai che smanio di lavorare nella sua – nella vostra – fucina. Ho tante belle idee e progetti che potrebbero interessarvi, se aveste la pazienza d’esaminarli. Per esempio, mi sono sempre chiesto: perché usare i vulcani come altiforni, quando si possono costruire tante belle fornaci e impianti meccanizzati, che fanno un lavoro più preciso in metà del tempo? Ho progettato parecchi ingranaggi e penso che potrei passare alla fase sperimentale...».

   Curumo parlò per un bel pezzo, senza che Mairon gli prestasse grande attenzione. Finalmente arrivò la salvezza, sotto forma di un altro Maia di basso rango: Olórin. Era simile a Curumo, ma aveva i capelli argentei e occhi più gentili. I suoi abiti grigi erano assai meno eleganti (a tratti persino consunti), perché era uno spirito giramondo. Mentre la maggior parte dei Maiar restava presso il proprio signore, infatti, Olórin era sempre in giro per le vaste distese di Arda. In teoria era direttamente al servizio di Manwë e Varda, ma in pratica trascorreva molto tempo coi Fëanturi: era consigliere di Irmo, il Maestro delle Visioni e dei Sogni. Era anche uno dei pochi che andassero a trovare Nienna nella sua dimora solitaria. Cosa ci trovasse d’interessante, Mairon proprio non lo immaginava.

   «Mio caro amico, ti stavo cercando» esordì Olórin, rivolto a Curumo. «Irmo ha convocato me, te e Aiwendil per aiutarlo a sistemare i suoi giardini, in previsione della cerimonia nuziale e del banchetto».

   «Non sia mai che Dama Nessa posi i suoi piedini su prati men che lucidati!» rispose Curumo, infastidito per essere stato interrotto nel suo monologo, e ancor più dalla noiosa incombenza che gli toccava. «E Tulkas di che abbisogna? Dobbiamo portargli il pranzo?».

   «Quello verrà per ultimo, dopo gli altri preparativi» rispose Olórin. «Ma non disprezzare il cibo, amico mio. Se Eru ha voluto che incarnandoci dovessimo mangiare e bere, c’è un buon motivo. Banchettare assieme crea legami e rinsalda le amicizie».

   Mairon, che ascoltava distrattamente, aspettando il momento buono per defilarsi, si chiese se non fosse il caso di prendere Ilmarë per la gola. Chissà che le piaceva, esile com’era? Buffo, lui non aveva mai considerato il cibo importante, ma sembrava che per gli altri lo fosse. «Quindi... che ci sarà in tavola?» chiese, meravigliandosi di fare una domanda così frivola.

   Olórin sorrise enigmatico. «Molti amano sapere prima che cosa verrà in tavola; ma coloro che si sono affaticati nei preparativi desiderano mantenere il segreto, perché la sorpresa ingrandisca la lode» disse.

   «Oh». Mairon fece per andarsene, ma poi ristette. «Dimmi... tu che vai molto in giro, hai l’impressione che ultimamente gli animali si siano fatti troppo aggressivi?» chiese.

   «In effetti sì; l’hai notato anche tu?» rispose Olórin, un po’ meravigliato. Non si aspettava che Mairon, il quale usciva raramente dalla fucina, avesse una conoscenza aggiornata delle terre lontane da Almaren.

   «Sì... quale pensi che sia la causa?» chiese Mairon, in tono volutamente più leggero rispetto ai suoi timori. Voleva sentire il parere di Olórin, che era considerato uno dei Maiar più saggi, ma non voleva nemmeno dare l’idea di pendere dalle sue labbra. In fondo, Olórin e Curumo erano spiriti di rango inferiore...

   «Ne discutevo giusto ieri con Nienna» rispose Olórin, meditabondo. «Lei dice che quando Melkor guastò la Musica, col suo motivo discordante, creò uno squilibrio che non può più essere corretto finché il Mondo vive. La violenza di certe creature potrebbe esserne la conseguenza. Io, però, mi chiedo se non ci sia qualche oscuro intento all’opera...».

   Mairon l’interruppe, non volendo ripetere la conversazione già avuta con Eönwë e Ilmarë. Gli bastava sapere che Olórin la pensava come lui. «Passi molto tempo con la Signora del Pianto» disse, resistendo alla tentazione di chiamarla “la vecchia zitella”. «Mi sono sempre chiesto cosa ti attiri laggiù. Voglio dire... non è la persona più allegra del mondo».

   «Molti non vedono oltre le sue lacrime e per questo l’accusano di essere la meno utile fra i Valar» rispose Olórin, comprensivo. «Ma ella non piange per sé; e coloro che la odono apprendono la pietà, e a perseverare nella speranza. Se mai qualcosa dovesse angustiarti, va’ da lei: ti arrecherà forza di spirito e trasformerà il tuo dolore in saggezza».

   Colpito, Mairon ringraziò per il consiglio e si congedò. Mentre Curumo seguiva a malincuore Olórin, per occuparsi dei noiosi preparativi, Mairon continuò la sua passeggiata. E quasi controvoglia, i piedi lo portarono verso la casa di Nienna.

 

   Nienna dimorava in un angolino di Almaren, lontano dagli svettanti palazzi degli altri Valar e dalle ridenti abitazioni dei Maiar. Vista dall’esterno, la sua casa era una pagoda a sette piani, ciascuno provvisto di un tetto con gli angoli curiosamente arricciati all’insù. Ma gran parte della dimora era sotterranea. Mairon non ne sapeva molto, perché non aveva collaborato a scavarla.

   «Avanti, discepolo di Aulë» disse una voce dall’interno, prima che Mairon toccasse il pesante batacchio dell’ingresso. Il portone si aprì da solo e senza un cigolio davanti al visitatore.

   «Ehm... i miei rispetti, Dama Nienna» disse Mairon, che davanti a sé vedeva una stanza austera e in penombra. Fece un respiro profondo ed entrò. La porta si richiuse alle sue spalle, sempre da sola e in silenzio.

   Mairon avanzò, incerto. I pochi mobili erano molto bassi, compreso il tavolo, e non c’erano sedie. Evidentemente ci si doveva accomodare sul pavimento, che era coperto di stuoie. Alcuni divisori in carta, abbelliti da disegni stilizzati, separavano la stanza in ambienti più piccoli. A lato, una scala portava ai piani superiori. Ma la voce di Nienna veniva dai sotterranei: «Scendi pure, Mairon».

   Il Maia aggirò circospetto una bacinella d’argento colma d’acqua (in realtà di lacrime) e trovò la scala che conduceva sottoterra. La scese di buon passo, ma servì parecchio prima che arrivasse in fondo. Alcune fioche lanterne, poste a intervalli regolari, gli rischiararono la via. Sbucò infine in un salone sotterraneo, la cui vastità lo riempì di meraviglia. La casa di Nienna sorgeva presso la spiaggia: un ambiente così sterminato doveva allungarsi per un buon tratto sotto il fondale del Grande Lago.

   Era un’aula fosca, colma d’oscurità e di echi, tutta scolpita nel basalto nero. Molti pilastri squadrati reggevano il soffitto a volte, decorato da un motivo ad ali di pipistrello. Il pavimento era rivestito di giaietto; quando Mairon vi mise piede, i suoi passi risuonarono amplificati. Il Maia si guardò attorno, cercando Nienna. Difficile dire dove fosse, perché la luce era fioca: veniva da un braciere di ferro nero, in cui baluginavano poche gocce della luce liquida d’Illuin. Qua e là tra le colonne pendevano drappi neri, così impalpabili da sembrare null’altro che vapori.

   «Benvenuto nelle aule di Fui» disse Nienna, sbucando alle spalle di Mairon da dietro un pilastro. Il Maia sobbalzò e si girò di scatto, trovandosi la Valië a pochi passi. Come al solito, Nienna era vestita a lutto e priva d’ornamenti. Aveva uno scialle semitrasparente, che si era parzialmente arrotolata attorno alle braccia, così che quando le sollevò parve dispiegare due grandi ali scure.

   «Questo silenzio dev’essere molto diverso dal trambusto della tua fucina» proseguì la Piangente. «Spero tu possa apprezzarlo. Io adoro la quiete e la solitudine; sono balsami per il mio spirito. Ma queste aule, e quelle adiacenti di Mandos, non resteranno per sempre vuote come le vedi ora. Qui verranno i Figli d’Ilúvatar, quando la morte li coglierà».

   «La morte?» chiese Mairon, perplesso. «Gli animali e le piante muoiono, ma noi siamo immortali. Eru ci ha voluti così. Stai dicendo che questi suoi... figli, per i quali ci siamo affaticati, saranno più simili agli animali che a noi?».

   «Gli saranno cari proprio per la loro fragilità» corresse Nienna. «Sai, il valore delle creature non si misura con la loro longevità. Ma i Figli Maggiori saranno simili a noi sotto molti aspetti. Vecchiaia e malattie non li toccheranno, sebbene essi saranno fatti della carne del mondo, e potranno quindi perire di morte violenta. In tal caso, i loro spiriti verranno alle aule di Mandos» spiegò, riferendosi al dominio del fratello.

   «E i Figli Minori, invece, verranno qui da te?» chiese Mairon, ancora turbato dalla cupezza del luogo.

   Nienna annuì. «Sì, i figli degli Uomini verranno qui a udire il proprio destino, condotti dalla moltitudine di sciagure che la dissonanza di Melkor ha creato nel Mondo. Saranno condotti da fame e malattie, da stragi e colpi assestati nell’oscurità, dagli incendi e dal freddo pungente, da innumerevoli disgrazie, dall’angoscia o dalla propria follia. I pochi fortunati che scamperanno a tutto questo, alla fine verranno ugualmente a me, vinti dal lento sfacelo del tempo. Questa sarà la loro sorte, invero molto dura e amara. Noi Valar lo sappiamo da tempo, ma pochi tra voi Maiar ne sono consapevoli. Olórin lo è; lui è uno dei pochi a farmi visita. È stato Olórin a consigliarti di venire, non è così?» chiese la Valië.

   «S-sì, ha detto che se mai avessi un’angoscia, potrei confidartela e ricevere i tuoi consigli» rispose Mairon. «Ma i miei guai impallidiscono, se penso al fato dei Figli d’Ilúvatar. Proprio non ci sarà scampo per loro, una volta scesi in queste aule?».

   «Ci sono misteri che Uno solo conosce» rispose Nienna. «Il nostro sapere è incompleto, persino se ci riuniamo a concilio per sommare le nostre conoscenze. Ma Námo ha sussurrato che ad alcuni Primogeniti sarà concesso di reincarnarsi. Il loro spirito sarà infatti strettamente legato ad Arda; la separazione dal corpo non sarà naturale per la loro stirpe».

   «E i Secondogeniti, invece?» chiese Mairon.

   «La loro natura sarà diversa; il loro spirito non sarà fatto per risiedere a lungo in Arda» rispose Nienna. «Ecco perché nemmeno io potrò trattenerli a lungo. Dopo averli radunati qui, dovrò lasciarli andare».

   «Andare... dove?» chiese Mairon, sempre più meravigliato.

   «Oltre. Fuori» rispose Nienna, enigmatica. S’incamminò lungo la navata principale, seguita dall’ospite. I due procedettero muti per un lungo tratto; il silenzio era rotto solo dal suono dei loro passi. Giunsero infine alla parete di fondo, in cui si aprivano tre imponenti finestre ad arco, velate da sottili tendaggi neri. Mairon avvertì una leggera brezza e un sibilo: era l’aria che filtrava da Fui verso... l’esterno.

   «Cosa c’è fuori?» sussurrò il fabbro, sentendo un brivido in tutta la persona, come se una mano gelida gli afferrasse la spina dorsale.

   «Tu lo sai» rispose Nienna. «È da lì che provieni. È da lì che veniamo tutti noi. Prega Eru di tornarci con onore, quando sarà il momento».

   Lentamente, come se fosse sott’acqua, Mairon sollevò un lembo della tenda e sbirciò. Chiunque non fosse stato della stirpe divina degli Ainur sarebbe morto all’istante. Mairon era un Maia dei più possenti, quindi non morì; ma non si sentì nemmeno vivo. Perché le tre finestre davano sul Nulla. Non c’era luce dall’altra parte. Non c’era materia né energia. Alto e basso, caldo e freddo non avevano il minimo significato. Non era qualcosa che si potesse definire in termini terrestri, se non procedendo per negazione.

   «Avevo dimenticato... cosa fosse il Vuoto» rantolò Mairon, indietreggiando. Il velo nero ricadde, chiudendo la finestra.

   Kúma, il Vuoto Atemporale, esisteva prima della Creazione di Arda, prima della Grande Musica, prima della nascita degli Ainur. Un tempo, Ilúvatar vi dimorava solo. Cosa vi accadesse prima di allora (posto che prima avesse un significato), nemmeno la saggezza dei Valar poteva dirlo. Era quello l’approdo finale degli Uomini; e se i virtuosi fossero ammessi nelle magioni d’Ilúvatar, era un segreto celato a chiunque dimorasse entro i confini di Arda.

 

   «Allora, a cosa devo la tua visita?» chiese Nienna, quando ebbero lasciato Fui. Erano risaliti nella casa della Valië, e per quanto l’arredamento fosse austero, a Mairon parve una reggia dopo ciò che aveva visto sottoterra.

   «Ecco... vi sembrerà una faccenda di poco conto, mia signora, a paragone delle grandi questioni di Arda che voi amministrate con le altre Potenze. Ma per me, è qualcosa che non mi dà pace...» cominciò Mairon, esitante.

   «Parlane liberamente, secondo ciò che ti dice il cuore» lo invitò Nienna. «Ma intanto siediti, così che possa offrirti qualcosa».

   «Mia signora, non è il caso. Voi siete una Valië, io solo un Maia; dovrei essere io a servirvi» disse subito Mairon.

   «Sei anche mio ospite. Prego, siediti» insisté Nienna.

   Mairon si arrese e sedette a gambe incrociate davanti al basso tavolino, mentre Nienna preparava una bevanda calda. «Tutta Almaren è in festa per le nozze di Tulkas e Nienna» cominciò il Maia. «Tuttavia ci sono Ainur che non sembrano avere un’anima gemella... e altri che, pur ritenendo d’averla trovata, sono da questa respinti. Io non capisco... la prima cosa che Eru ci disse, dopo averci creati, era che ci amava. Eppure alcuni di noi sembrano condannati alla solitudine...».

   «Alcuni di noi non abbisognano di un compagno, per trovare la loro completezza» rispose Nienna. «Così è per me, per Ulmo... e anche per Melkor» aggiunse.

   «Ricordo che, all’alba dei tempi, Melkor si rivolse a Varda... e lei lo scacciò, percependone la malvagità» obiettò Mairon. «Credo che, da allora, egli la odi e la tema più di quant’altri Eru abbia creato. Però mi domando: perché alcuni di noi amano – nel modo più sincero e onesto – qualcuno, e ne sono respinti? So che l’amore non può essere a senso unico, ma mi domando... perché deve far soffrire tanto?! Sto forse sbagliando qualcosa?» chiese, sempre più disperato. Aveva perfino smesso di parlare al plurale, ammettendo che parlava di sé.

   Nienna si asciugò una lacrima (non smetteva mai di versarne) e offrì al Maia una bevanda calda e fumante, versandola dal bricco in una tazza. «Assaggiala, viene da una pianta che Yavanna ha appena inventato» disse, ignorando le concitate domande che il Maia le aveva appena rivolto. «Si chiama tè. L’ho offerto a Olórin, nella sua ultima visita, e lui ha gradito molto. Spero ti piaccia allo stesso modo».

   La Valië riempì la tazza fino all’orlo. Mairon stava per prenderla, ma Nienna continuò a versare il tè. Con la massima calma, lasciò che si spargesse sulla tovaglia candida, sotto lo sguardo sempre più meravigliato del fabbro.

   «Mia signora... non vedete che la tazza è già colma? Non può contenere altro tè!» le fece notare.

   «Anche tu sei colmo... di te» rispose gentilmente Nienna, sollevando le sopracciglia nerissime, che spiccavano sul volto cereo. «Forse devi svuotarti un po’, prima di capire le esigenze e le motivazioni della dama che ti respinge». Smise di versare la bevanda e si accomodò sul pavimento, dall’altra parte del tavolino.

   «Conosco già le sue motivazioni!» ribatté Mairon, irritato. «Lei ama un altro. Uno che lavora molto meno di me, ma si dà più arie da bellimbusto. Non so come farle aprire gli occhi; deve capire che non è il suo tipo!» aggiunse con veemenza. Batté i pugni sul tavolino, facendo scricchiolare le corte gambe; altro tè macchiò la tovaglia.

   «Se colei che ami ha fatto la propria scelta, devi rispettarla. Se rispetti la persona, rispetti anche le sue decisioni; così c’insegnano le rette leggi di Eru» disse Nienna, facendosi severa.

   «Ma perché, in tutta Almaren, io devo essere il solo a cui è negata la felicità?!» insistette Mairon, ormai disperato.

   «Se vuoi lezioni di corteggiamento, è ad altri che devi rivolgerti» disse Nienna. «Ma se desideri conoscere le cause profonde dell’infelicità e dell’ingiustizia, sappi che questa è pur sempre Arda Corrotta. La Musica concepita da Eru è stata contaminata da Melkor, col suo tema discordante. E le disarmonie rimbalzano tra loro, rinforzandosi a vicenda, accrescendosi in modo caotico».

   «Non posso credere che Melkor sia così potente da avvelenare i nostri rapporti, specialmente ora che è bandito da Arda» rispose Mairon. «Se lo fosse, allora i Lumi e tutta Arda sono costruiti sulla sabbia».

   «C’è anche un’altra spiegazione al rifiuto della tua dama» rispose Nienna.

   «E sarebbe?» chiese Mairon, piegandosi in avanti tutto ansioso.

   «Il libero arbitrio che Eru ha concesso a tutte le sue creature: Valar, Maiar e i Figli non ancora nati» rispose la Piangente. «Senza l’arbitrio, saremmo tutti dei burattini. Invece abbiamo una volontà nostra. Possiamo persino rinnegare il Padre, come ha fatto Melkor. Ma non possiamo annullare l’arbitrio altrui, nemmeno quando ci fa soffrire. Quando Eru ci creò, eravamo tutti uguali ai Suoi occhi; e l’incertezza del nostro destino è Sua volontà».

   Mairon avrebbe voluto rispondere che, dopo quanto aveva sentito sulle sciagure degli Uomini, questo decantato arbitrio gli sembrava fin troppo condizionato. Ma era inutile continuare su questo tono, perché si trattava di discorsi generali che non lo aiutavano granché nel suo problema specifico con Ilmarë. E malgrado le esortazioni di Nienna, lui non era ancora disposto ad arrendersi. Vuotò la tazza con poche sorsate.

   «Vi ringrazio dei consigli e dell’ospitalità, dama Nienna. E grazie anche per il tè... dite a Yavanna che stavolta si è superata» disse rispettosamente, per poi congedarsi. Aveva cento pensieri per la testa e non riusciva a sbrogliarli. Decise che gli serviva un luogo isolato e tranquillo in cui riflettere. Un posto in cui non giungesse il trambusto dei preparativi della Festa. Uscendo dalla pagoda di Nienna, vide Illuin che splendeva lontano al Nord, e seppe dove andare.

 

 

-Commento:

   Dopo le lunghe fatiche dei Valar, Manwë annuncia la Festa della Primavera di Arda. Nella stessa occasione, Tulkas sposa Nessa: è l’ultima coppia Vala a formarsi. I Valar ancora single (Ulmo, Nienna e il rinnegato Melkor) resteranno tali in eterno.

   In quest’epoca arcaica, i popoli di Arda non esistono ancora. Gli unici esseri senzienti in circolazione sono gli Ainur. Sopra di loro c’è Ilúvatar, che però risiede «oltre le Sfere del Mondo». Abbiamo così tre livelli ontologici: Ilúvatar, i Valar e i Maiar. Ma per simpatizzare con i protagonisti di una storia, il lettore deve potersi riconoscere in loro. Ora, non è facile identificarsi con degli esseri immortali, più antichi del Mondo, immensamente saggi e benevoli. Già all’epoca del teatro greco, il pubblico si appassionava più alle vicende degli eroi (che soffrivano come tutti i mortali), piuttosto che a quelle degli dèi. Dove c’è l’immortalità, non può esserci vera tragedia.

   La mia soluzione è stata scegliere come protagonisti i Maiar, cioè gli spiriti di rango inferiore. Nel Signore degli Anelli i pochi Maiar presenti (Sauron, Saruman, Gandalf, il Balrog) sono pur sempre assai più potenti degli altri popoli, persino degli Elfi. Ma nella Primavera di Arda, quando i Valar camminano visibili nel Mondo e anche la presenza d’Ilúvatar è più percepibile, ecco che i Maiar sono “l’ultima ruota del carro”. Ho enfatizzato il fatto che siano spesso chiamati a eseguire compiti ingrati e che, essendo dopotutto i meno saggi fra gli spiriti “angelici”, abbiano un comportamento più simile al nostro (compresi sotterfugi e gelosie).

   I Maiar che compaiono in questo racconto sono tratti dal Valaquenta, la seconda parte del Silmarillion. Va detto che la maggior parte dei Maiar lì citati ha un ruolo del tutto marginale nei capitoli seguenti. Ilmarë in particolare non compare affatto nel resto dell’opera. Ciò si deve al carattere di “collage” e incompiutezza del Silmarillion: a volte certi personaggi erano più approfonditi nei Racconti Ritrovati, ma con caratteristiche incompatibili rispetto alle successive riscritture. Per esempio, quelli che nel Silmarillion sono i Maiar nei Racconti Ritrovati erano spesso i figli dei Valar. Quando Tolkien modificò i Valar, rendendoli meno “dèi pagani” e più “angeli”, abbandonò l’idea che avessero figli.

   Nel mio racconto ho assegnato ai Maiar i nomi in forma “alto-elfica” (Quenya), che è la più antica conosciuta. Ma nel Signore degli Anelli sono noti con altri nomi, attribuiti loro successivamente. Ecco le corrispondenze, tenendo conto che i personaggi più giramondo hanno molti nomi, collezionati nel corso delle Ere:

-          Mairon » Sauron (chiamato anche Gorthaur e Annatar)

-          Curumo » Curunír » Saruman

-          Olórin » Mithrandir » Gandalf

-          Aiwendil » Radagast

-          Valaraukar » Balrog

-          Moru » Ungwë Liantë » Ungoliant

   Il protagonista del mio racconto è proprio Mairon/Sauron. Nel Signore degli Anelli è il Signore Oscuro, la massima incarnazione del Male. Ma nel Silmarillion scopriamo che fu corrotto dal primo Oscuro Signore, Melkor/Morgoth, assai più potente di lui. Sfortunatamente non viene mai spiegato quando e come Melkor tiri Sauron dalla sua, sebbene si tratti di un fatto decisivo per il destino di Arda e dei suoi popoli. La prima volta che Sauron è citato nel Silmarillion, è già il braccio destro di Melkor e governa la sua roccaforte di Angband. Più avanti leggiamo che Sauron mantenne a lungo la capacità di mutare aspetto, apparendo all’occorrenza bello e nobile, tanto da ingannare chiunque eccetto i più accorti. È solo con la Caduta di Númenor che Sauron perde questa capacità: la sua nuova spoglia è «un’immagine di malvagità e odio resi visibili». Dopo la perdita dell’Unico Anello, Sauron perde anche questa forma e rimane uno spirito senza corpo.

   Il progressivo abbruttimento di Sauron dipende dal fatto che mentre gli Ainur buoni hanno ancora accesso alla Fiamma Imperitura con cui Ilúvatar li ha creati, e possono quindi “ricaricarsi”, ciò è negato ai malvagi, che hanno quindi una “scorta limitata” di poteri. Più li consumano, legandosi alla materia, più s’indeboliscono. Ecco perché Gandalf risorge dopo lo scontro col Balrog, mentre il demone non ci riesce (e più avanti nemmeno Saruman può farlo).

   Tuttavia la capacità mimetica di Sauron è notevole se confrontata non solo con quella degli altri demoni, ma perfino con quella del suo padrone. L’ultima volta che Morgoth riesce a fingersi bello e buono è durante il Meriggio di Valinor. Dopo aver distrutto gli Alberi diviene un «buio Signore, alto e spaventevole. In tale forma poi sempre rimase». Addirittura, tutte le volte che in seguito Morgoth viene ferito, non riesce a guarirsi (per esempio resta zoppicante dopo il duello con Fingolfin). La spiegazione è che Morgoth si era precocemente legato alla materia di Arda e aveva disperso il suo potere nelle creature malefiche che aveva creato. Sauron evita a lungo di “disperdersi” così, ma poi riversa gran parte dei suoi poteri nell’Unico Anello: sarà la sua rovina.

   Nella mia storia ho dato anche un’altra spiegazione alla “longevità” di Sauron. Ho ipotizzato che Melkor lo corrompa non all’inizio dei tempi – come aveva fatto con gli altri Maiar – ma solo più avanti, quando il mondo ha già una certa età (sebbene Elfi e Uomini non siano ancora apparsi). Questo spiega come mai Sauron si ritrovi con più “autonomia di carburante” rispetto al suo padrone. Ovviamente devo anche spiegare come faccia Sauron, “ultimo arrivato”, a diventare subito il più fidato servo di Melkor: questo lo si vedrà nel prossimo capitolo.

 

   
 
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