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Autore: Fragolina84    03/08/2021    0 recensioni
Questa fanfiction si inserisce nel contesto da me creato con la serie "I love Avengers".
Il protagonista della storia, nata dopo la visione della miniserie The Falcon and The Winter Soldier (di cui non c'è nessuno spoiler), è James Bucky Barnes.
Sono passati due anni da quando gli Avengers lo hanno ritrovato nella base Hydra in Siberia, ma Bucky non si è ancora abituato alla sua nuova vita. Sarà Rebecca, la giovane proprietaria del Caffè Roma, a prenderlo per mano e ad aiutarlo nel percorso di guarigione.
Le stava dando l'ultima possibilità per tirarsi indietro. Perché lui era guasto. Rovinato, forse per sempre. Probabilmente corrotto fino al midollo senza possibilità di redenzione. E lei non meritava uno come lui.
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: James ’Bucky’ Barnes, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I love Avengers'
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Rebecca e James sono stati vicinissimi
a scambiarsi un bacio.
Ma il Soldato d'Inverno ha mille reticenze.
Eppure, Rebecca ha già fatto breccia nel suo cuore.
Buona lettura!


Era stata una giornata piuttosto estenuante e Rebecca sospirò mentre cercava le chiavi dentro la borsa. 
Appena in casa abbandonò la borsa e le chiavi sul tavolo e si spogliò mentre si dirigeva verso il bagno. Lasciò cadere i vestiti a terra e si appuntò i capelli sulla sommità del capo per non bagnarli. 
Quando uscì, arrossata dall’acqua bollente, si asciugò in fretta e indossò un paio di mutandine e una delle maxi-maglie che usava per dormire. Dopodiché sedette sul divano con le gambe ripiegate sotto di sé e accese la TV. 
Stava facendo zapping quando qualcuno suonò il campanello. Perplessa, guardò l’ora: era quasi l'una. In più, era il campanello della porta e non quello del portoncino. Perplessa, si alzò dal divano e si avvicinò alla porta, avvicinando l’occhio allo spioncino. 
Lì fuori, davanti alla sua porta, c’era l’ultima persona che si sarebbe aspettata. Per un attimo considerò di mettersi un paio di pantaloni, ma alla fine si lanciò un’occhiata nello specchio dell’ingresso, si ravviò i capelli con le mani e fece una smorfia al proprio riflesso. Quindi aprì. 
Qualsiasi cosa avesse in mente di dire, James la dimenticò nel momento in cui vide le sue gambe nude. Un’emozione che credeva morta e sepolta gli agitò il cuore nel petto e uno strano calore gli scorse nelle vene. 
«Non mi aspettavo di vederti qui» fece lei, in tono duro. 
Non aveva tutti i torti, pensò James. Non aveva risposto a nessuna delle chiamate, né ai messaggi che lei gli aveva lasciato sul cellulare. Era sparito, rifugiandosi alla Avengers Tower ed evitando i contatti con chiunque. I suoi amici pensavano che avesse una delle sue solite crisi, ma la verità era un’altra. 
«Lo immagino» replicò. «Mi sono comportato da maleducato. Mi dispiace.» 
Lei posò una mano sullo stipite della porta e James cercò di evitare di abbassare lo sguardo, anche se era consapevole che l’orlo di quel maledetto vestito si era alzato, scoprendo altra pelle. 
«Sei venuto fin qui in piena notte solo per dirmi questo?» 
James sospirò. Evitare di abbassare gli occhi era diventata una vera sfida, dato che l’aria fredda di febbraio rendeva manifesto il fatto che Rebecca non indossava il reggiseno. 
«In realtà, sono venuto per parlare con te. Ma non so se tu abbia voglia di ascoltarmi.» 
Lei rimase in silenzio per un tempo che gli parve lunghissimo, poi si scostò dalla porta e gli fece cenno di entrare. 
«Non credo sia una buona idea» mormorò, ma Rebecca fece un gesto spazientito. 
«Non ho intenzione di restare qui a congelare sulla porta. Quindi, se vuoi parlarmi, dovrai entrare.» 
James si rassegnò e oltrepassò la soglia, mentre Rebecca gli chiudeva la porta alle spalle. Avanzò nell’appartamento che era piccolo, ma molto carino. 
Rebecca lo superò e sedette sul divano, facendogli cenno di accomodarsi. James deglutì e sedette al capo opposto. Era nervoso come non gli era mai capitato, nemmeno sotto il fuoco nemico: quando si accorse di torcersi le mani coperte dai guanti di pelle, smise immediatamente. 
«Ti chiedo scusa se sono piombato qui a quest’ora, ma avevo bisogno di parlarti al più presto.» 
«Strana frase detta da uno che per cinque giorni mi ha completamente ignorata» sbottò lei. 
Non gli avrebbe reso le cose facili, quello era certo. Dopo la cena al Buona Notte era sparito senza una parola e lei c’era rimasta male, anche se aveva cercato di convincere se stessa del contrario. Non aveva risposto al cellulare e non si era nemmeno più presentato al Roma per la colazione. 
«Non è facile per me, ok? Ci sono cose di me che non sai. Cose che non so se potrò mai dirti. Non sono abituato a sentirmi così. Anzi, non mi sono mai sentito in questo modo e avevo bisogno di tempo per capire come gestire ciò che provo.» 
C’era una tale angoscia nel suo tono che la rabbia di Rebecca per il suo comportamento svaporò in un istante. Lui girò lo sguardo su di lei e la malinconia che lesse in quegli occhi azzurri le tolse il fiato. 
«Io non sono ciò che credi, Rebecca» sussurrò, senza staccare gli occhi dai suoi. 
«So chi sei» replicò, prima di poterselo impedire. 
Lui assottigliò lo sguardo e scosse la testa: «No, credimi. Non hai davvero idea di chi io sia. Se ce l’avessi, non mi avresti mai chiesto di uscire». 
«La prima volta che sei venuto nel mio bar, ero convinta di averti già visto da qualche parte» spiegò in tono calmo. «Ma ti ho riconosciuto davvero solo quando sei intervenuto per allontanare Clive e mi hai accompagnata a casa. E allora mi sono ricordata di aver visto una tua vecchia foto allo Smithsonian.» 
James balzò in piedi con uno scatto talmente repentino che non aveva nulla di umano. Rebecca rimase immobile: non aveva paura di lui, quanto di averlo spaventato con le sue rivelazioni. Non voleva che se ne andasse e sparisse di nuovo. 
«Conosco la tua storia, la conoscono tutti da quando sei entrato negli Avengers.» 
Due anni prima, nel corso di un attacco degli Avengers ad una base segreta in Siberia, James era stato ritrovato ibernato in una capsula criogenica. 
Per Steve era stata un’assoluta sorpresa: aveva sempre creduto che il suo migliore amico fosse morto nel 1944. Con l’aiuto delle tecnologie dello SHIELD erano riusciti a risvegliarlo da quel lungo sonno, per accorgersi che non era più Bucky. 
L’Hydra, la terribile organizzazione terroristica, aveva fatto esperimenti su di lui, potenziandolo e rendendolo una letale macchina da guerra. Gli avevano anche fatto il lavaggio del cervello e lo avevano usato per oltre cinquant’anni, togliendolo dall’ibernazione ogni volta che avevano bisogno di lui. Il Soldato d’Inverno, perché era quello il nome che i suoi omicidi gli avevano procurato, aveva al suo attivo dozzine di morti. 
C’era voluta tutta la pazienza di Steve e l’aiuto provvidenziale di Victoria e Wanda per riportarlo alla sua umanità, ma era un percorso che non era ancora concluso, come testimoniavano gli incubi che ancora affollavano le sue notti. 
Rebecca si alzò lentamente e si avvicinò. Con movimenti lenti gli prese la mano sinistra e iniziò a sfilargli il guanto. James si irrigidì ma non si ritrasse. 
«Va tutto bene» sussurrò per tranquillizzarlo. 
Lasciò cadere il guanto a terra e gli accarezzò la mano metallica. Il metallo era strano al tocco: non era freddo come acciaio, bensì caldo come se sotto vi scorresse il sangue. 
«Di ciò che hai fatto in passato non so nulla, se non quanto si dice in giro. Ma per me, restano solo chiacchiere. Non mi importa ciò che eri. Mi importa ciò che sei ora.» 
«Non diresti così, se sapessi. Ho ucciso in modi atroci e…» 
Rebecca gli posò due dita sulle labbra per impedirgli di proseguire. Poi fece scendere la mano e afferrò il cursore della giacca di pelle, prendendo a tirarlo verso il basso. 
La mano destra di James scattò e la fermò. 
«Rebecca, ti prego.» 
Non riusciva a ragionare in maniera lucida con lei così vicina. Il suo profumo era così buono che gli ottundeva i sensi e ogni cellula del suo corpo era perfettamente conscia del fatto che lei non indossasse praticamente nulla sotto il vestito. 
«Non ho paura di te, James.» 
La cerniera riprese a scorrere verso il basso e lui non ebbe la forza di fermarla. 
Rebecca gli infilò le mani sotto la giacca e gliele posò sullo stomaco. Poi risalì in una lenta carezza. Sentiva sotto i palmi la durezza dei muscoli nascosti sotto la maglia. Il petto di James si alzava e si abbassava come un mantice, mentre lui cercava disperatamente di tenere al guinzaglio la bestia che i gesti di Rebecca minacciavano di scatenare. Non sapeva come avrebbe potuto reagire. 
Le dita della ragazza sfiorarono le clavicole. Sentì sotto i polpastrelli la giunzione del braccio meccanico, ma non si fermò: gli fece scivolare la giacca dalle spalle, finché cadde sul pavimento. James indossava una maglia scura a maniche lunghe, perfettamente tesa sul torace muscoloso. 
Rebecca gli posò la destra sul petto, all’altezza del cuore, e percepì il battito frenetico del cuore di James: sembrava un animale in gabbia. 
«Mi importa ciò che sei ora» ripeté, fissandolo negli occhi. 
Con uno scatto del braccio destro, James le cinse la vita e l’attirò a sé, mentre abbassava la testa e si impossessava delle sue labbra. Dio, la sua bocca era così morbida. Era passato un secolo, quasi letteralmente, dall’ultima volta che aveva baciato una donna, e i suoi ricordi dovevano essere molto sbiaditi perché questo bacio gli sembrava la cosa migliore che avesse mai provato. 
Avrebbe voluto fare le cose con calma, ma la fame a lungo covata era difficile da tenere a bada. Rebecca si schiacciò contro di lui che percepì ogni rotondità del suo corpo. Le sfiorò le labbra con la lingua e quando lei le schiuse per lasciarlo entrare, James pensò che il cuore gli avrebbe sfondato il costato. 
Contro ogni buonsenso, la sollevò senza smettere di divorarla con la bocca. Per tutta risposta, Rebecca gli allacciò le caviglie dietro la schiena e quello rischiò davvero di metterlo al tappeto. Il braccio in vibranio si mosse quasi di volontà propria, posizionandosi sotto le natiche della ragazza per sostenerla. 
James si mosse, raggiungendo il divano. Non aveva smesso di baciarla e nemmeno lei sembrava intenzionata a farlo. Si lasciò cadere sui cuscini e Rebecca gli si posò sulle cosce, con le gambe ripiegate ai lati delle sue. 
Senza pensare, sollevò le mani e gliele posò sul volto: era la prima volta, da quando gli avevano impiantato quel braccio cibernetico, che non lo usava per uccidere o ferire. 
Con uno sforzo sovrumano, la scostò appena da sé. Un lieve rossore le si era diffuso sulle guance, gli occhi brillavano e le labbra erano rosse e turgide, infiammate da quel bacio. Non era mai stata più bella. 
«Fermami, Rebecca. Adesso, prima che sia troppo tardi. Prima di pentirti di quello che stai facendo. Perché tutte le voci che hai sentito su di me non sono nulla in confronto alla verità, che è molto peggio di quanto potresti immaginare.» 
Le stava dando l’ultima possibilità per tirarsi indietro. Pronunciare quelle parole gli costò ogni grammo della sua forza, ma doveva farlo. Perché lui era guasto. Rovinato, forse per sempre. Probabilmente corrotto fino al midollo senza possibilità di redenzione. E lei non meritava uno come lui. 
Rebecca non rispose. Gli leggeva dentro tutta la sofferenza che il suo passato gli procurava e tutto il desiderio di venire fuori da quell’incubo. Di una cosa era certa: quello che gli aveva detto poco prima, ossia che non gli importava cosa avesse fatto, era vero. Sì, era stato un assassino, ma aveva agito sotto costrizione. E a Rebecca non serviva sapere che gli Avengers lo avevano reputato degno di aggiungersi alla squadra, per capire quanto fosse cambiato. Lo sapeva dentro di sé, nel profondo. Era qualcosa di inspiegabile, eppure era così. 
Posò i palmi sulle guance coperte di barba e lo baciò di nuovo, stavolta più dolcemente, senza la fame vorace di poco prima. Le mani di James si appoggiarono sulle sue cosce nude: la sinistra era solo leggermente più fresca dell’altra. 
Rebecca fece scendere le mani e gli afferrò il bordo inferiore della maglia. Si tirò un po’ indietro e incrociò il suo sguardo. 
«Posso?» domandò. Non appena gli avesse tolto la maglia, il suo braccio in vibranio si sarebbe rivelato del tutto e doveva essere lui a volerlo. 
James non rispose, ma si raddrizzò e sollevò entrambe le braccia per permetterle di sfilargli l’indumento. Rebecca glielo tolse e lo mise da parte. 
Il corpo dell’uomo era perfetto, così come le era sembrato quando lo aveva percorso con le mani. Solo sulla spalla sinistra, dove era innestato il braccio metallico, una serie di cicatrici gli deturpava la pelle. Rebecca fece per toccarle, ma si fermò. 
«Ti fa male?» chiese. 
Lui scosse la testa: «Non più.» 
Il primo braccio non era esattamente come quello che portava in quel momento. Aveva subìto diversi interventi che gli avevano lasciato quelle cicatrici prima che quelli dell’Hydra si ritenessero soddisfatti. Quando gli Avengers lo avevano trovato in Siberia, l’avevano portato nella loro sede di Malibu e, quando si era ripreso abbastanza, Stark gli aveva costruito quel nuovo braccio in vibranio. 
Rebecca sfiorò con delicatezza quelle ferite rimarginate. Poi chinò la testa e ci posò le labbra. 
Un brivido percorse il petto di James e la donna lo sentì trattenere bruscamente il fiato. Baciò ogni centimetro di quella carne martoriata, odiando gli sconosciuti che l’avevano ridotto in quel modo e struggendosi per il dolore che aveva sopportato e da cui ancora non era libero. 
«Ti stai cacciando in un guaio più grande di te, Rebecca» sussurrò. 
Lei rialzò il capo: «E tu dovresti smettere di preoccuparti. O ti verranno i capelli bianchi e non sarai più così carino.» 
Poi scivolò via dalle sue gambe e si rimise in piedi. Gli tese la mano in un invito silenzioso che gli causò una nuova accelerazione dei battiti. Non sapeva se era pronto per quanto lei gli stava offrendo. Tuttavia, prese la sua mano e la seguì. 
Rebecca lo condusse in una piccola camera da letto quasi interamente occupata da un enorme letto matrimoniale. Accese la lampada sul comodino che diffuse un tenue chiarore e creò un’atmosfera morbida e calda. 
Si girò verso di lui, lo afferrò per la fibbia e lo tirò verso di sé, alzandosi in punta di piedi per baciarlo. Prese a sfilargli la cintura e percepì, di nuovo, che si irrigidiva. Non sarebbe stato per nulla facile: James doveva superare anni di solitudine in cui gli unici contatti che aveva avuto erano per uccidere. Ma Rebecca era determinata a far sì che abbandonasse quelle oscure convinzioni e tornasse a pensare a se stesso come un uomo e non come un assassino. 
Rallentò, lasciando che lui si rilassasse. Ben presto, il suo bacio si fece più profondo: la baciava come un condannato a morte a cui è stato concesso l’ultimo desiderio. La mano sinistra di James risalì la schiena della donna e s’infilò fra i capelli. Le afferrò una ciocca e le tirò indietro la testa: quella mano avrebbe potuto stritolarle il cranio, eppure si muoveva con il tocco delicato di un pianista. 
Rebecca lo guardò e lesse nei suoi occhi lo stesso desiderio. Qualsiasi cosa lui stesse tenendo a bada dentro di sé, era pericolosa: e quella cosa la eccitò da impazzire. Si prese il labbro inferiore tra i denti e James spostò lo sguardo sulla sua bocca. E si avventò su di lei. 
La sollevò di nuovo e Rebecca gli si avvinghiò, circondandolo con le gambe. James scalciò via le scarpe e la coricò sul letto. Risalì la coscia destra con la mano, infilandosi sotto il vestito, passando con delicatezza sul fianco e fermandosi sul seno. Sentì sotto le dita il capezzolo inturgidito, stavolta non per il freddo dato che la pelle di Rebecca sembrava rovente, e lo pizzicò con delicatezza. 
La donna gemette nella sua bocca e quel gemito gli colpì direttamente i lombi. Rebecca si dimenò sotto di lui e quando sentì la sua eccitazione trattenuta dai pantaloni perse quel poco di controllo che le era rimasto. 
«Sono troppo vestita» ansimò, con l’unico desiderio di sentirlo sulla pelle. 
«Posso pensarci io, ma dipende da quanto ci tieni a questo vestito.» 
«Meno di zero.» 
James afferrò lo scollo con entrambe le mani e tirò. La stoffa si strappò per tutta la lunghezza e lei rimase vestita soltanto di un paio di mutandine. Si prese un momento per guardarla, percorrendo il suo corpo con gli occhi, dal seno piccolo e impertinente al ventre piatto, fino alla fossetta incredibilmente erotica dell’ombelico. 
Sul fianco destro aveva un tatuaggio che si estendeva praticamente dall'ascella all'anca. Rappresentava un lupo bianco colto nell'atto di ululare in direzione di una grande luna piena. Era una vera e propria opera d'arte e, dato che il collo del lupo era ornato di piume, non era difficile immaginare che fosse un omaggio alle sue origini Mohawk. 
C’era molto altro comunque che attirava la sua attenzione. Si stese di nuovo su di lei, sentendo il seno sfiorargli il petto nudo ad ogni respiro agitato. Scese a baciarle il collo, sentendo sotto le labbra il battito forsennato del suo cuore attraverso la giugulare. I suoi sensi potenziati percepivano ogni cosa: il calore della sua pelle, il profumo della sua eccitazione, ogni ansito e ogni gemito. 
Carezzò con le labbra la curva del seno e le passò la lingua sul capezzolo. Rebecca si inarcò sotto di lui, rivelandogli in modo chiaro quanto le piacesse. Aveva pensato di essere un po’ arrugginito, ma le reazioni della donna gli dicevano tutt’altro. 
Chiuse la bocca su un seno mentre con la mano le stuzzicava l’altro. Poi scese ancora, lambendole la pelle con la lingua, fino a superare l’ombelico. La baciò attraverso le mutandine, quindi agganciò gli indici ai lati e gliele fece scivolare lungo le gambe fino a che fu completamente nuda. 
Scese dal letto e rimase a guardarla. Per nulla imbarazzata dal suo sguardo, Rebecca portò le braccia sopra la testa e si stiracchiò come una gatta. 
«Sei splendida» le disse. 
«Nemmeno tu sei niente male» replicò e lui sogghignò. 
In piedi in fondo al letto, con quel braccio di metallo brunito, i jeans mezzi aperti e gli occhi scuriti dalla passione, era la creatura più sexy che avesse mai visto. 
Senza staccare gli occhi dai suoi, James si sbottonò del tutto i jeans e se ne liberò, così come dei boxer, restando nudo e mostrando la stessa mancanza di imbarazzo di Rebecca. 
«Eh, non sei male no, Barnes» mormorò, mordendosi il labbro inferiore. 
Lui tornò a stendersi su di lei, sostenendosi con il braccio in vibranio, scivolando sul suo corpo. 
«Dovresti smetterla di morderti, potrei non riuscire a trattenermi» ringhiò. 
«Dal fare cosa?» ansimò, ben consapevole della sua erezione che le premeva sulla coscia. 
«Dal morderti a mia volta» replicò. Poi le chiuse la bocca con la propria e le succhiò il labbro. 
Tutto il loro universo si ridusse a quella stanza, al bisogno di sentire le mani, la bocca, la pelle dell’altro contro la propria. Rebecca si accorse che James non usava mai la sinistra per toccarla. In parte era dovuto al fatto che era destrorso, ma era sicura che non fosse l’unica ragione. 
Ne ebbe conferma quando gliela prese e se la portò al seno. 
«Rebecca, no» sussurrò sulle sue labbra, tentando di ritrarsi, ma lei scosse la testa. 
«Non mi farai del male» replicò, sicura. 
Non aveva timore di farle del male: non l’avrebbe mai fatto. Ma era restio a lasciarsi andare del tutto. Non era semplice abbattere i muri che il suo passato lo aveva costretto ad erigere. Eppure, Rebecca sembrava così a suo agio, così tranquilla rispetto a quello che lui era stato. 
Quel braccio metallico era il suo marchio d’infamia. Chiunque, vedendolo, avrebbe capito che lui era il Soldato d’Inverno, o meglio, lo era stato. E non era qualcosa di cui andare fieri. Per quello lo teneva nascosto e indossava sempre i guanti. 
Tuttavia, quando accarezzò la pelle nuda di Rebecca, gli parve giusto e naturale. Lei sapeva che gli sarebbe bastata una minima pressione e l’avrebbe uccisa, ma si fidava e si stava donando senza alcuna remora. Non era sicuro di meritare tanto. 
Rebecca afferrò la catenella che portava al collo e a cui erano appese le sue vecchie piastrine militari, attirandolo su di sé. Era più che pronta per lui eppure, quando lo sentì spostarsi, si tese e lo guardò negli occhi. 
«È da un bel po’ che non…» 
Aveva mollato Clive tre anni prima e da allora non c’era stato nessuno. E James superava la media anche sotto la cintura. 
James ghignò: «Piccola, non quanto me, puoi starne certa.» 
Tutte le sue esperienze si limitavano al periodo prima della Seconda Guerra Mondiale, quando era del tutto umano. Dopo, non c’era stato spazio per altro oltre a violenza e morte. 
James la penetrò lentamente, scivolando nel suo calore, senza togliere gli occhi dal suo volto. Era perfetta, sembrava fatta apposta per lui: per la prima volta nella sua spregevole esistenza trovò la pace, nell’abbraccio intimo e caldo di quella donna. 
Chiuse le palpebre, appoggiando la fronte a quella di lei. 
Rebecca gli accarezzò i capelli: «Stai bene?» 
James non rispose ma la baciò e cominciò a muoversi. Rebecca lo assecondò: lo cinse con le braccia, artigliandogli la schiena con le dita. Sentiva i muscoli guizzare sottopelle mentre James aumentava il ritmo. Gli circondò la vita con una gamba, e James affondò ancora di più, strappandole un gemito per l’insopportabile piacere che le stava dando. 
Lui arretrò fin quasi ad uscire e spinse di nuovo, prendendo ad alternare spinte veloci ad altre più lente e profonde. Sapeva di essere vicino al culmine, ma stava usando ogni grammo della sua forza per resistere. 
Rebecca invocò il suo nome. Una, due volte. Poi si inarcò sotto di lui che continuò a spingere mentre sentiva i suoi muscoli interni stringerlo come un pugno. Quello mise fine alla lotta che stava portando avanti dentro di sé e, con un gemito rauco, si abbandonò anche lui all’orgasmo. 
Le rimase addosso, sostenendosi con le braccia per non schiacciarla con il proprio peso, mentre riprendeva fiato: si era cimentato in combattimenti meno pesanti. 
«Tutto ok?» le chiese e lei annuì. Era bellissima con le guance rosse e i capelli sparsi disordinatamente sul cuscino. 
Fece per ritrarsi, ma Rebecca gli strinse i fianchi con le ginocchia, impedendogli di scostarsi. James spostò il peso sul braccio sinistro e usò la destra per carezzarle il volto. 
«In teoria, con quello che mi scorre nelle vene dovrei avere un po’ più di resistenza. Sono molto fuori allenamento, temo» mormorò. 
Lei sorrise: «Penso si tratti solo di fare esercizio.» 
Il sogghigno che le rivolse avrebbe dovuto essere dichiarato illegale. Si abbassò su di lei, sfiorandole le labbra con la bocca. 
«Mi piace fare esercizio con te» sussurrò. 
Le catturò la bocca. Era ancora dentro di lei e Rebecca si mosse, spingendosi contro di lui e attirandolo più vicino. Inaspettatamente, il suo corpo reagì. 
La donna lo sentì ridiventare duro e interruppe il bacio per guardarlo negli occhi: «Hai intenzione di recuperare tutto il tempo perso in una notte?» 
«Sono stupito quanto te, credimi» fece lui. Non che avesse una grande esperienza in fatto di sesso, ma era alquanto sorpreso da quel veloce recupero. Forse, dopotutto, essere un super soldato non aveva solo svantaggi. 
Rebecca gli attirò la testa verso il basso e gli avvicinò le labbra all’orecchio: «Non vogliamo sprecare un’occasione come questa, vero?» sussurrò, maliziosa.

 
Il titolo di questo capitolo richiama il nome assunto da Bucky in Wakanda.
Nella mia versione degli Avengers non si fa cenno al regno di Black Panther,
quindi ho dovuto inventarmi qualcosa per giustificare quando, in seguito, Bucky assumerà questo nome di battaglia.
 
  
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