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Autore: Vavi_14    07/08/2021    3 recensioni
[...]«Notte sbagliata per contare le stelle, Kaz».
Aveva alzato il volto senza nemmeno rendersene conto, forse alla ricerca di qualcosa che rischiarasse quel buio e ora ce l’aveva proprio davanti: nonostante gli abiti scuri e le lunghe ciglia che tentavano di nasconderli, Kaz vide gli occhi di Inej illuminarsi e la luna, nascosta da qualche parte, uscire per riflettersi nel suo sorriso.
«Che cosa inutile» mormorò in risposta. Era inutile anche contare i segni sulla pelle, eppure Kaz sapeva che c’erano tre nei sul volto di Inej, uno sul collo e cinque distribuiti tra braccio sinistro e destro. Ve n’era poi uno anche sul ventre.
Il dolore che gli attraversò le ossa quando fece leva sul bastone per alzarsi non sembrò rassicurante. Rimase in attesa finché lei non gli fu vicina, fin quando le iridi si abituarono a scorgere la sua pelle ambrata anche nell’oscurità, riuscendo a distinguere i contorni del volto sotto la protezione del cappuccio.
«Dovresti provarci, invece».
«Un’usanza Suli per comprendere l’infinità dell’universo?»
Inej rise. «Per conciliare il sonno».[...]
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Prompt condiviso con un'amica | post "Il Regno Corrotto"| Kanej
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Inej Ghafa, Kaz Brekker
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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IT'S POINTLESS TO COUNT THE STARS





𝒦𝒶𝓏


 
 
L’umore di Kaz, quella sera, era incerto come le nuvole che solcavano il cielo di Ketterdam. L’odore acre della pioggia in arrivo e l’atmosfera densa di umidità gli procuravano delle fitte insistenti alla gamba. Quand’era così, nemmeno sedendosi riusciva a placare il dolore. Era appostato su una banchina, l’odore salmastro a consolarlo nell’attesa. Si sentiva nervoso e la consapevolezza aumentava il nervosismo. Non era mai stato bravo a dare un nome alle emozioni, ma avrebbe giurato che in quel ticchettare silente sulla testa di corvo del suo bastone vi fossero anche impazienza, e timore. Lei avrebbe riso, se glielo avesse confessato. O forse no, perché in fondo per nessuno dei due era mai stato facile. Aveva dunque paura? Di cosa, poi. Di sentirsi dire che là fuori c’era il mondo. Che il mondo le piaceva, più di qualunque altra cosa, e che non sarebbe più tornata a Ketterdam. Per quale motivo avrebbe dovuto farlo? Inej era nata per volare, la libertà ce l’aveva ai piedi e ad ogni passo Kaz la vedeva brillare, ogni passo lontano da lui. Là fuori poteva smettere di essere solo un’ombra – la sua ombra, pensò avidamente, lo Spettro di Kaz Brekker. Lei non era mai stata sua. I suoi coltelli forse, le sue abilità - il suo contratto d’assunzione - ma non Inej. A volte si era illuso di poter avere anche solo uno spicchio di lei, l’aveva desiderata in modi di cui ancora non riusciva a capacitarsi. Si era sentito stupido ed egoista a pensare che lei potesse rinunciare a tutto pur di sgretolarsi accanto a lui e ai suoi demoni. Ogni tanto diceva a sé stesso che ci aveva provato, come a volersi perdonare, ma lo faceva quand’era solo, l’immagine di Inej sfocata nei pensieri, l’ebano dei suoi capelli lontano dalla sua vista. Guardò le proprie mani, ancora avvolte nel nero tessuto dei guanti, la sua garanzia nei confronti del mondo. Lo strato più superficiale di un’armatura permanente. “Io ti avrò senza corazza, Kaz Brekker. O non ti avrò per niente.” Parlargliene non avrebbe cambiato le cose, di questo ne era convinto. Inej conosceva il dolore, l’avrebbe compreso; pensare che potesse compatirlo era stato sciocco da parte sua. Eppure la cupola del suo passato era ancora lì, stretta attorno a lui e a lui soltanto come una maledizione, eretta a proteggerlo dagli altri. Eretta a condannarlo, a torturarlo, senza che potesse disfarsene, abbatterla con la forza dei suoi pugni.
«Notte sbagliata per contare le stelle, Kaz».
Aveva alzato il volto senza nemmeno rendersene conto, forse alla ricerca di qualcosa che rischiarasse quel buio e ora ce l’aveva proprio davanti: nonostante gli abiti scuri e le lunghe ciglia che tentavano di nasconderli, Kaz vide gli occhi di Inej illuminarsi e la luna, nascosta da qualche parte, uscire per riflettersi nel suo sorriso.
«
Che cosa inutile» mormorò in risposta. Era inutile anche contare i segni sulla pelle, eppure Kaz sapeva che c’erano tre nei sul volto di Inej, uno sul collo e cinque distribuiti tra braccio sinistro e destro. Ve n’era poi uno anche sul ventre.
Il dolore che gli attraversò le ossa quando fece leva sul bastone per alzarsi non sembrò rassicurante. Rimase in attesa finché lei non gli fu vicina, fin quando le iridi si abituarono a scorgere la sua pelle ambrata anche nell’oscurità, riuscendo a distinguere i contorni del volto sotto la protezione del cappuccio.

«Dovresti provarci, invece».
«Un’usanza Suli per comprendere l’infinità dell’universo?»
Inej rise. «Per conciliare il sonno».
Kaz esitò, ingoiando saliva a vuoto. Avrebbe dovuto fare qualcosa, qualsiasi cosa gli impedisse di continuare a guardarla così intensamente e percepire il rimbombo del proprio cuore nella cassa toracica battere ad un ritmo imbarazzante. Ma le sinapsi del suo cervello non sembrarono inviare impulsi adeguati al grido che dentro il petto gli suggeriva di prendere le distanze. Alzò il braccio che non poggiava sul bastone con estrema lentezza, afferrando tra le dita guantate un lembo del tessuto che le proteggeva il capo per poi lasciarlo cadere alle sue spalle. Pessima, pessima scelta Kaz. Quel gesto espose completamente il volto piccolo e levigato di Inej, le labbra piene e definite come i suoi sogni spesso gliele proponevano. I capelli erano intrecciati in modo strano, non si trattava della solita coda di cavallo. Kaz si chiese se quel gioco di incastri era opera di Inej o qualcuno lo avesse fatto per lei. Quest’ultima possibilità non gli piacque per niente. Lei sorrise di nuovo, stavolta in modo lieve, un sospiro incastrato tra i denti. Avrebbe voluto baciarla. Il terrore arrivò assieme all’intenzione.

«Perchè sei tornata?»
Aveva trascorso giornate intere a sperare che si lasciasse Ketterdam alle spalle – a sperare che non si fosse ancora arresa con lui. La speranza poteva essere pericolosa, lo sapeva meglio di chiunque altro.
Negli occhi di lei scorse un guizzo di incertezza, forse malinconia. Era stato troppo diretto, nel porle quella domanda? Ma un istante dopo gli fu chiaro il perché dell’esitazione. Prima che potesse accorgersene, una mano di Inej premeva delicatamente sul suo petto, il capo di lei chino a pochi centimetri da lui, quasi fosse in raccoglimento, a riparo dal vento rigido della sera. Li divideva un respiro. Kaz sentì il proprio mozzarsi e l’aria attorno a sé divenire più fredda del normale. Percepiva il contatto del palmo di Inej, attutito dalla stoffa della camicia e del gilet. Poteva indovinare il ritmo in cui il petto di lei si alzava e abbassava assieme al proprio.

«Hai investito migliaia di kruge in un attracco al porto per la mia nave, Kaz. Sembrava scortese non usufruirne».
Quel posto strabordava di ricordi, troppi, per entrambi. Li aveva accolti e un attimo dopo condannati. Ma Inej ora aveva uno scopo, la sua famiglia – non c’era più niente a trattenerla. Kaz era legato a Kettederdam da un patto di sangue chiamato Vendetta.
Inej si scostò da lui e si sedette sulla panchina in legno alle loro spalle. Kaz la seguì controvoglia, sebbene la gamba lo stesse ringraziando.

«E poi, anche tu dovevi fare la tua parte».
«Mi stai controllando?»
Lei non si scompose. «Sto tenendo fede alla mia promessa. Per mare e per terra».
Kaz guardò in lontananza, usando il bastone come appoggio per stendere le braccia.
«Hai dato per scontato che volessi essere coinvolto».
«Non ti sei opposto, quando te ne ho parlato» proseguì decisa.
«Inej. Puoi credere che vi sia un margine d’unione tra i nostri scopi, ma l’epilogo è differente. Io sono destinato a distruggere questa città e forse ad affondare con lei nel tentativo».
«Salpa con me».
Doveva lasciarla andare, lo aveva sempre saputo. Bramava che quell’attracco rimanesse vuoto tanto quanto pregava silenziosamente i Santi in cui non credeva di poterla rivedere, almeno una volta. Ed ora Inej era lì, davanti a lui: cosa avrebbe potuto offrirle di diverso? Aveva già le sue attenzioni, i suoi deliri onirici. E il cuore, sempre ammesso che quello di Kaz riuscisse ancora a provare affetto. I loro palmi nudi si erano sfiorati, tempo addietro, in un tacito giuramento: potevano non essere capaci di amarsi l’un l’altro come due persone qualunque, ma c’era qualcosa a tenere uniti i loro animi, un magnete che li imbrigliava come un’unica realtà. Kaz era certo che se quel filo si fosse spezzato definitivamente, lui sarebbe andato in mille pezzi. Ma Inej? Lei non aveva bisogno del Bastardo del Barile per essere completa. Lei bastava per tutti e due.

«Sbarazzati di quest’inferno e poi salpa con me».
C’era impazienza nelle sue parole, quasi rabbia. Quanti tentativi aveva fatto con lui e nessuno con esito positivo. Kaz ebbe l’impressione che un altro no l’avrebbe incrinata. Ma come poteva dirle di sì se a mala pena era certo di arrivare vivo al giorno dopo. Qualcosa dentro di lui spinse con forza per uscire: una conferma, un labile spiraglio di luce. La prospettiva di un finale diverso per entrambi. Kaz Brekker a girovagare per mare, gli venne quasi da ridere. Lui voleva affondare portandosi dietro i palazzi scrostati e la miseria, tornare lì dove anni addietro era scampato per miracolo e lei voleva salvarlo, issandolo sulla sua nave.
Non stava forse sfidando il destino un’altra volta?
Di nuovo agì senza dare ascolto alle reazioni fisiologiche del suo corpo. Succedeva troppe volte quando c’era lei intorno. Posò il bastone in bilico sul bordo della panchina in pietra e si sfilò prima un guanto, poi l’altro. Percepì lo sguardo di Inej bruciare sulle proprie mani e un impercettibile tremolio scuoterle dall’interno. Fu dura ignorarlo, ma era necessario. Si sentiva patetico, eppure le iridi color nocciola di Inej non lo stavano giudicando: aspettavano frementi che lui continuasse. Con un pollice sfiorò la pelle bronzea di Inej, all’altezza della guancia. Voleva toccarla. Lei rimase immobile, come in quella stanza d’albergo, il respiro ridotto a un soffio. Al solo ricordo, Kaz si sentiva girare la testa. Poi però, qualcosa cambiò: Inej si mosse delicatamente ma in modo deciso, guidando la mano di Kaz con le proprie fino a poterla finalmente sentire su di sé.
Lui la vide chiudere gli occhi senza mai lasciare la presa. Lo teneva con forza e sensibilità disarmanti. Una parte di lui lottava per liberarsi, l’altra voleva circondarle il volto con entrambe le mani fino ad averla abbastanza vicino da poter sentire le sue labbra.

«Tu vuoi una risposta che non posso darti».
Temeva che il gelo lo pietrificasse, che l’acqua lo annegasse da un momento all’altro, ma non accadde perché Inej parlò.

«Abbi almeno il coraggio di darmene una, Kaz».
La voce era incrinata, le palpebre ancora serrate. Quella stessa ragazza possedeva quattordici coltelli, abilmente infilati nei vestiti, e lottava ogni giorno a testa alta per i suoi obiettivi, con le spalle dritte e le piante dei piedi che a stento toccavano terra. Quella stessa ragazza aveva messo a repentaglio la propria vita per Kaz un centinaio di volte, ucciso e mutilato per suo conto altrettante, combattendo per conciliare i suoi crimini con l’impiegabile fede alla quale era devota. Non gli piaceva il modo in cui si stava mostrando fragile ai suoi occhi. Detestava l’effetto che lui le procurava, odiava vederla incerta, odiava quelle lacrime che le stavano riempiendo gli occhi.
Ma la sua risata, oh, quella la adorava.
Ritirò la mano, sfuggendo alla presa di Inej.

«Lasciami affondare».
«Sai che non lo farò».
Kaz si alzò di scatto, per quanto la gamba glielo permise. I guanti neri giacevano abbandonati sulla panchina.
«Dovrei dunque aspettare il momento in cui ti stuferai di provarci?»
Sembrò che Inej si irrigidisse a quelle parole. Lo affiancò, ma era molto più lontana da lui ora, sebbene i loro corpi fossero distanti pochi centimetri. Da quando era arrivata, Kaz aveva avuto solo parole dure per lei. Inej lo conosceva, ma non poteva ancora leggere i suoi pensieri.
«Anche se lo volessi» azzardò allora, esitante. «Con tutto me stesso, io-»
«Lo vuoi, Kaz?»
La guardò. Voleva che Inej vivesse una vita degna di lei, col sorriso sempre acceso, lontano da quel disastro che era lui. Voleva che non l’abbandonasse, che ci fosse a tendergli la mano una volta ancora. «Non sono sicuro che basti volerlo, Inej».
«È un inizio».
Benedì e maledisse in egual modo quell’ottimismo. Suo malgrado lui avrebbe continuato ad aspettarla, davanti al porto. E se un giorno non l’avesse più vista fare ritorno, avrebbe capito. Se ne sarebbe fatto una ragione. O almeno, ci avrebbe provato.

«Non puoi scappare» aggiunse lei, il timbro di voce addolcito. «Non ora che conosci i miei genitori».
«Un motivo in più, invece» borbottò Kaz. «Come stanno?»
Inej si chiuse nelle spalle. «Sono un po' preoccupati per me. Vorrebbero che rimanessi con loro, sulla terraferma. Ma comprendono». Attese. «Devono ancora abituarsi al fatto che vada in giro con una collezione di pugnali».
«Tuo padre ne avrebbe volentieri usato uno per infilzarmi, quando mi ha visto».
«Il fatto che tu ti sia preso cura di me in questi anni è stato un buon deterrente».
Kaz scosse la testa. «Io non mi sono preso cura di nessuno
».
«Hai protetto il tuo migliore investimento» si corresse Inej, con un sospiro.
I loro occhi si trovarono, poi lei distolse lo sguardo, cercando il profilo della sua imbarcazione.
«Il mio equipaggio può restare, per questa notte? Basteranno anche dei tavoli, per riposarsi e bere qualcosa».
Naturalmente, Kaz ci aveva già pensato.
«La Stecca è a tua disposizione» mormorò con voce ruvida e ferma, osservando la Spettro oscillare debolmente sulla superficie dell’acqua. Si era premurato affinché il locale fosse completamente vuoto per il loro arrivo.
«Grazie» rispose lei, sinceramente. «Mia madre vorrebbe che fossi dei nostri per l’equinozio di primavera» aggiunse dopo a bruciapelo, facendolo sussultare.
Lui alzò un sopracciglio, incapace di trattenersi.
«Festa tradizionale?»
«Solo un pranzo, credo».
Kaz si voltò nella sua direzione.
«Pensi davvero sia opportuno che io venga?» Se non infilzato, magari l’avrebbero avvelenato. E Kaz non li avrebbe biasimati.
Inej gli riservò un’occhiata lungimirante.
«Penso sia peggio comunicare un tuo rifiuto».
«Allora ci sarò».
Lei rise. Sembrava una risata stanca, ma sincera.
«Vedi di non morire fino ad allora» gli rimbeccò, come se stesse elargendo una raccomandazione qualunque.
Il cielo era sereno, le nubi sciolte come zucchero lasciavano trapelare il bagliore degli astri, la brezza ora era più limpida, fresca, quasi sgombra dall’umidità. La gamba gli faceva meno male.
Guardò Inej con l’angolo sinistro delle labbra piegato in un impercettibile sorriso, prima che spiccasse il volo verso la Spettro per recuperare il resto della ciurma.
Mancava solo un mese. Poteva anche farcela.
 

 
 
 
 
 
 
  
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