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Autore: edoardo811    08/08/2021    6 recensioni
Naito è un mezzosangue che ha trascorso la propria vita in fuga, senza un posto dove stare, una casa che lo accogliesse, una famiglia che lo accettasse. Questo perché non è un mezzosangue come gli altri, non è un semidio: è il figlio di un demone e di una mortale.
Rimasto da solo, consumato dal rimorso e pentito per gli errori commessi, comincerà un viaggio tra le montagne del Giappone alla ricerca dell'Elisir di lunga vita: qualcosa che mai nessuno prima è riuscito a trovare. Insieme a una vecchia conoscenza cercherà di riabilitare il suo nome e quello di tutti i mezzosangue come lui. Soli, abbandonati e spaventati. Come un tempo anche lui era.
«Chi sono i tuoi genitori?»
«Mia madre si chiamava Akane Itomi.»
«E tuo padre?»
«Non lo so… non mi ha mai parlato di lui.»

[Mitologia giapponese]
Genere: Angst, Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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Le sette virtù

 

 

Il bastone colpì Naito sulla guancia, scaraventandolo a terra.

«Ancora.»

Naito ricacciò le lacrime. Afferrò il bastone che gli era caduto dalle mani e si rialzò sulle gambe tremolanti, di fronte all’Uomo Pallido. Riuscì a malapena a mettersi in posizione che quello si era già mosso di nuovo, così veloce che non riuscì nemmeno a vederlo. Questa volta lo colpì al fianco, mozzandogli il respiro e facendolo finire in ginocchio. 

«Ancora.»

Con un gemito, Naito tentò di raddrizzarsi, ma l’Uomo Pallido gli sferrò una randellata sull’altro ginocchio, tenendolo immobilizzato. Gridò e cadde carponi, il bastone che gli scivolava di nuovo dalle mani. 

«Ancora.»

Il bambino singhiozzò, affondando le dita nella terra. Gattonò verso il bastone, ma prima che potesse prenderlo l’Uomo Pallido gli sferrò un calcio allo stomaco, facendolo ruzzolare via. La vista gli si appannò, mentre il dolore ricopriva ogni cosa. 

«Ancora.»

Lo colpì. Ancora, ancora e ancora, sempre più forte. Le ginocchia di Naito si riempirono di abrasioni, così come il suo volto. Cominciò a sanguinare dalle guance, dalla bocca e dalla fronte. 

Si ritrovò a terra, ancora. Puntini neri apparvero nei suoi occhi mentre osservava il cielo striato di arancione. Provò a rialzarsi, ma le forze gli mancarono. Gli occhi rossi dell’Uomo Pallido apparvero all’improvviso sopra di lui, squadrandolo truci dall’alto. Affondò le unghie nel suo collo e lo sollevò come un fuscello, portandolo all’altezza del suo volto. I suoi denti aguzzi si incrinarono. «Non hai sentito, Naito? Ho detto “ANCORA!”»

Lo scagliò a terra. Il mondo si capovolse mentre rotolava sulle pietre della riva del fiume e si apriva altri squarci sulla pelle e sui vestiti ormai logori. Si raddrizzò sui gomiti tremanti come foglie, le lacrime che cadevano copiose dai suoi occhi. 

Sentì la voce dura dell’Uomo Pallido provenire da qualche parte indistinta dietro di lui. «Stai forse piangendo, Naito?» 

Naito sussultò. Tentò di nuovo di rialzarsi, ma le gambe gli cedettero. Udì un verso di disappunto provenire dall’uomo. «Come speri di difenderti dai mortali se a malapena riesci a reggerti in piedi? Pensi che ci andranno piano con te solo perché sei un poppante? Alzati, Naito! ALZATI!»

Il bambino strinse i denti e si rialzò sulle ginocchia doloranti. Un calcio al fianco lo costrinse a rimanere a terra. Gli mozzò il respiro. Giacque sulla ghiaia, incapace di respirare, emettendo soltanto dei gemiti. 

«Sono stanco di ripetertelo, Naito» disse ancora l’Uomo Pallido. Sentì a malapena la sua voce a causa del forte fischio nelle sue orecchie. «Non sei più con tua madre. Lei potrà anche averti abituato ad una vita di ozio, ma io non sono così. Non sono una debole mortale che vuole convincerti di essere qualcosa che non sei.»

Naito lo guardò dal basso, gli occhi rigati dalle lacrime. Nonostante il dolore, riuscì a dire: «L-Lascia stare mia madre…»

L’uomo sogghignò. Un sorriso cattivo, come quelli delle persone che avevano ucciso la mamma. «Perché dovrei? È colpa sua se sei così patetico. È colpa sua se ora sei qui a piangere.» 

«S-Smettila…»

«Sono contento che sia morta. Era solo una schifosa puttana.»

Il dolore svanì all’improvviso dal corpo di Naito. Un urlo furioso uscì dalla sua bocca e si rialzò in piedi di scatto, animato da un’energia del tutto nuova. Non gli avrebbe mai permesso di parlare in quel modo della mamma. Si avventò su di lui senza nemmeno il bastone, non desiderando altro che di cancellare quell’odioso sorriso dal suo volto. Per un secondo, la pelle dell’Uomo Pallido sembrò tingersi di rosso.

Sferrò un pugno con tutta la forza che aveva verso la sua vita. La mano dell’Uomo Pallido si chiuse attorno al suo polso, immobilizzandolo. Naito spalancò gli occhi. Tentò di dimenarsi, ma senza successo. Sollevò lo sguardo e vide ancora una volta gli occhi cremisi dell’Uomo Pallido, che lo scrutavano dall’alto come due fari spettrali che potevano leggergli nell’anima. Il colore della sua pelle era tornato normale. 

«Sì, Naito. Vedo che cominci a capire.» Gli sorrise di nuovo, ma questa volta non era più quel ghigno cattivo. Era un sorriso soddisfatto. «La senti, Naito? La senti la rabbia che scorre nelle tue vene? Pensa a quello che i mortali hanno fatto a tua madre. Non ti fa arrabbiare? Non ti fa infuriare?»

Naito assottigliò le labbra e annuì. Sì, lo faceva arrabbiare. Lo faceva infuriare. Quei mostri non avrebbero mai dovuto ucciderla. Lei non aveva fatto niente di male. 

«E allora usala, Naito. Usa la tua rabbia! Usala per tirare fuori la tua vera forza!» L’Uomo Pallido si accovacciò di fronte a lui e l’afferrò per le spalle. «I mortali non avranno nessuna pietà di te, Naito. E io non ho alcuna intenzione di difenderti per sempre. Dovrai imparare ad essere indipendente. Dovrai imparare a sfruttare la tua rabbia, dovrai imparare a sfruttare il lato di te che tua madre ha cercato di assopire. Solo così sarai abbastanza forte da poterla vendicare.»

«Quale… quale lato di me?» domandò il bambino, non comprendendo il suo discorso. 

Il sorriso dell’Uomo Pallido si distese. «Il lato che ti rende come me, Naito.»

Naito schiuse le labbra, confuso. Avrebbe voluto fare altre domande, ma udì uno spostamento d’aria. Subito dopo, il suo mento fu colpito in pieno da un pugno dell’Uomo Pallido. Non sentì più la bocca. Il mondo si capovolse e si schiantò con il volto sulle pietre, sbattendo sulle corna. La sua fronte pulso terribilmente, uno sbuffo d’aria uscì dalla sua bocca erosa dal sudore e le ferite. Venne di nuovo afferrato per il collo e sollevato fino a ritrovarsi di fronte al volto dell’Uomo Pallido, che sogghignò di nuovo. «E adesso, Naito, ancora.»

Lo lasciò andare, facendolo cadere scomposto a terra. 

«Andremo avanti fino alla sera» stabilì l’Uomo Pallido. Recuperò i bastoni e gettò a Naito il suo, poi alzò lo sguardo verso il cielo tinto di rosso. «Abbiamo ancora un’ora, circa. E sarà meglio che tu non pianga più, o ti lascerò qui a marcire. Ci siamo capiti?»

Naito strinse i pugni e annuì. Chiuse le mani attorno al bastone e si rialzò. Pensò alle sue parole, pensò alla rabbia che provava nel suo corpo ogni volta che gli tornava in mente ciò che i mortali avevano fatto alla mamma, e sentì i polmoni bruciare. E poi osservò l’Uomo Pallido, che continuava a fissarlo dall’alto con quel sorriso spietato.

Un giorno, promise a sé stesso, sarebbe riuscito a colpirlo durante quegli allenamenti. E lo avrebbe colpito così forte da restituirgli ogni livido, ogni taglio e ogni cicatrice che gli aveva inferto. 

Un giorno, lo avrebbe colpito così forte che sarebbe stato l’Uomo Pallido a piangere e non più lui. 

 

***

 

Si svegliò di soprassalto quando qualcuno gli versò qualcosa nella bocca. Si mise a sedere, tossendo e sputacchiando un liquame con un saporaccio terribile.

«Yatta! Vedo che il mio infuso fa miracoli!»

Naito si voltò verso il volto sorridente del vecchio Ishii. Stava per urlargli di non provare mai più a fargli uno scherzo del genere, poi realizzò che si trovava di nuovo nella sua cucina. Erano accanto al tavolino, mentre la teiera sbuffava sopra la stufa a legna. Si massaggiò tra le corna.

«Cosa… cos’è successo?» domandò, con voce impastata.

«Sei svenuto dopo che quella vipera ti ha avvelenato» rispose Minoru con un’alzata di spalle. «Per fortuna non sei davvero umano, altrimenti quel veleno avrebbe potuto ucciderti.»

Quando udì quelle parole, Naito si ricordò quello che era successo. Le kunoichi, Meishu… veleno. Ma certo. Doveva averlo cosparso sulle neko-te. Che ingenuo, avrebbe dovuto ricordare che la tattica prediletta delle kunoichi era avvelenare gli avversari. Ma per fortuna, era svenuto quando loro erano già andate via. L’immagine del vecchio Ishii che attaccava quelle donne balenò nella sua mente. L’aveva salvato. Quel vecchio incartapecorito in calzamaglia e pantofole da notte l’aveva salvato. Poi, realizzò tutto quello che gli aveva appena detto e spalancò l’occhio. «Un momento… tu sai che non sono umano?!»

Il vecchio Ishii prese un sorso di quell’infuso che piaceva solo a lui. «Sarò vecchio e non ci vedrò molto bene, Naosuke, ma penso di saperli ancora riconoscere i versi a tavola di qualcuno di umano e di qualcuno che non lo è.»

Le guance di Naito bruciarono, ma non per il veleno. Abbassò la testa. «Mi… mi dispiace di averle mentito…» mormorò. «E mi dispiace di essere rimasto. L’ho solo coinvolta in questa faccenda.»

«Su, su, non ti abbattere Naosuke.» Minoru gli sorrise di nuovo accomodante. «La tua compagnia è riuscita a far battere di nuovo questo cuore vecchio e stanco. Forse non sarai un umano nell’aspetto, ma lo sei nell’animo, e questo tanto mi basta.»

Un timido sorriso nacque sul volto di Naito. «Non… non ha paura di me, quindi?»

Questa volta Minoru ridacchiò. «Figliolo, ti posso assicurare che nella mia vita ne ho viste di ogni, non mi impressiono più come un tempo.»

Per un istante, il ragazzo lo osservò confuso. Poi si ricordò quello che aveva detto Meishu con voce sconvolta. «Come… come ha detto di chiamarsi realmente?»

Il vecchio Ishii avvicinò la pipa dalla bocca. «Il mio vero nome è Miyamoto Musashi.»

«Davvero… davvero ha più di quattrocento anni?» domandò Naito, incredulo, e anche realizzando con una sorta di strano sollievo che non era stato l’unico a mentire quando si erano conosciuti.

Altre rughe sembrarono comparire dal nulla sul volto di Miyamoto. «Temo di sì, figliolo.»

«Ma… ma com’è possibile?» rispose il ragazzo, ignorando il tono quasi triste del vecchio. «È… è forse un dio, o…»

Un’altra risatina tiepida. «Un dio, addirittura? No, figliolo, niente del genere. Sono solo… come posso dire? Sono solo una leggenda che è diventata realtà.»

«Una… una leggenda?»

«Non hai mai sentito parlare di me? Miyamoto Musashi?»

Con un po’ di imbarazzo, Naito denegò con la testa. Per tutta risposta il vecchio gli sbuffò addosso del fumo, che lui scacciò via stizzito. Non capì se l’avesse fatto apposta oppure no.

«Vedi, Naosuke, ai miei tempi ero… uno spadaccino conosciuto in tutto il Giappone. Ovunque io andassi, le voci delle mie gesta, dei miei duelli e degli avversari che avevo sconfitto mi seguivano, rendendomi quasi una divinità per le persone comuni. La gente ha eretto santuari e templi dedicati a me, nominato scuole in mio onore. La mia storia è diventata oggetto di studio, di venerazione perfino, alcuni mi hanno davvero considerato un dio. Ho vissuto una vita lunga e piena e poi, ormai vecchio e malato, sono deceduto. Ma non sono mai svanito per davvero.»

Nonostante la storia incredibile che stava raccontando, il vecchio Musashi sembrava triste. Bevve un altro sorso di infuso, per poi sospirare. «La mia storia è rimasta intatta, così come i miei libri, i miei insegnamenti, la mia arte, ogni cosa è stata preservata dai miei figli e dai miei allievi. La gente ha continuato a venerarmi, a tenermi vivo nei loro ricordi, e tutto questo, in qualche modo, ha fatto sì che io non me ne andassi mai veramente. Forse… forse Miyamoto Musashi è morto davvero quel giorno, nel lontano diciassettesimo secolo. Ma… qualcosa di lui è rimasto comunque. Non sarei qui, altrimenti.»

Naito schiuse le labbra. Ecco che cosa intendeva dire. Musashi Miyamoto era stato un uomo qualsiasi, che tuttavia si era distinto così tanto tra le folle da diventare quasi una divinità per loro, da diventare così famoso che, dopo quattrocento anni, la sua leggenda ancora viveva. In tutti i sensi.

In un certo senso, la sua storia era molto simile a quella degli yōkai, o perfino degli dei. Personaggi di fantasia, quasi, ma così ramificati nelle menti delle persone da essere diventati reali. Naito non sapeva se fosse nato prima il mito e poi l’uomo, o viceversa, o se fosse una bizzarra combinazione di un po’ tutte quelle cose, tuttavia sapeva che c’era un motivo se mostri come Orochi, o gli dei stessi, avevano bisogno di essere ricordati e di essere venerati.

Se non ci fosse stato nessuno a farlo, non sarebbero esistiti.

In un certo senso anche lui, un han’yō, esisteva grazie ad una leggenda. Forse Miyamoto non aveva mentito quando aveva detto che si trattava “solo” di leggende. «Quindi… lei sa che le storie che mi ha raccontato, in realtà, sono tutte vere?»

«Le storie sugli dei, dici?» Il vecchio Musashi si strinse nelle spalle. «Suppongo che se la mia leggenda è diventata reale, allora anche molte altre lo siano. Dei, yōkai, altre figure di spicco della storia del nostro paese… immagino che esistano anche loro, o che siano ancora vivi, come me. Tu stesso non sei umano, del resto. Ma… una parte di me, nel profondo, ha sempre desiderato che in realtà fossero tutte menzogne. Ho deciso di diventare Minoru Ishii e di ritirarmi qui, tra le montagne, sperando di poter svanire davvero.» Un altro sorriso amaro apparve sul suo volto. «Prima ho detto che il mondo mi ha dimenticato, ma non è del tutto vero. Sembra che in fin dei conti non voglia lasciare che questo povero vecchio scompaia una volta per tutte.»

«Ma… perché vorrebbe svanire?» domandò Naito, stupito. «Non è forse il sogno di molti poter vivere per sempre?»

Miyamoto distese quel sorriso amaro. «Ho visto tutti i miei cari morire prima di me, Naosuke. I miei figli adottivi, i miei allievi, sono stato al funerale di tutti loro, dal primo all’ultimo. Loro non sapevano che fossi io, ma io sapevo fossero loro. E tutti i miei studi non sono bastati per trovare il modo di riportarli indietro. La morte non si può curare, Naosuke. Si può solo… prevenire. Non mi rimane più nessuno, e non posso nemmeno legarmi a qualcuno, o la storia si ripeterebbe. Non ho più ragioni per vivere.»

La tristezza nei suoi occhi e in quel sorriso fecero stringere il petto di Naito, che distolse lo sguardo contagiato da quella sensazione. Anche lui sapeva cosa si provava a perdere qualcuno di caro. Non faticò affatto a comprendere il desiderio del vecchio Musashi dopo quelle parole.

«Chi erano quelle donne Naosuke? Perché ti davano la caccia?»

Quella domanda lo fece irrigidire. Sapeva che prima o poi gliel’avrebbe fatta, dopo tutto quello che era successo era il minimo. Tuttavia, l’idea di rispondergli non lo allettava affatto. Non voleva che scoprisse chi fosse realmente, specie dopo il modo gentile in cui l’aveva trattato.

Sapeva anche, però, che non poteva nascondergli la verità. Gli aveva portato cinque kunoichi in casa, in fin dei conti, era ovvio che si aspettasse una risposta piuttosto esaustiva e soprattutto vera. 

Naito spostò lo sguardo verso la finestra, dove la notte ancora regnava sovrana. Non poteva più restare lì. Ormai lo avevano trovato, era solo questione di tempo prima che tornassero perfino più numerose. Quel pensiero lo aiutò ad accettare il fatto che, dopo aver sentito la sua storia, Miyamoto avrebbe potuto cacciarlo di casa a colpi di bokken.

«È… è una storia lunga» buttò fuori, dopo aver preso una grossa boccata d’aria.

«Mi pare di aver messo in chiaro che il tempo per me non è un problema» ribatté il vecchio Musashi, di nuovo con un sorriso gentile.

Anche Naito riuscì a sorridere di nuovo. «Sì, direi che l’ha fatto.»

Cominciò a raccontare. Parlò del Clan Tsubaki, di quel poco che sapeva di loro, almeno. Spiegò che erano un gruppo di kunoichi addestrate per vedere, combattere e uccidere yōkai. Qualsiasi tipo di yōkai, inclusi i mezzosangue come lui.

Disse anche che avevano più di un motivo di odiarlo, visto che era anche stato parte dell’esercito di Orochi. Si aspettò che il vecchio Musashi reagisse sorpreso quando gli disse di aver conosciuto un personaggio delle leggende che gli aveva raccontato, invece rimase impassibile. Naito non seppe se sentirsi sollevato o deluso dalla cosa.

Raccontò della sua militanza nell’esercito di Orochi, spiegando i motivi per cui aveva scelto di unirsi a lui. Parlò del suo viaggio in occidente, del tentativo di Orochi di mettere le mani su Ama no Murakumo e della disfatta che tutta quella storia era stata.

Si domandò se ci fossero altri sopravvissuti dell’esercito da qualche parte. Aveva visto Hikaru precipitare contro una parete, ma era una kitsune, non poteva essere morta per quello. Forse era scappata. Di tutti gli altri non gli importava granché, a dire il vero. Gli tornò in mente quello che Meishu gli aveva detto. Una “monca” le aveva lasciato quella cicatrice sulla guancia.

Che… che si tratti di lei?

Espirò. No, non poteva essere così. Forse aveva capito male.

Proseguì con il racconto e spiegò che dopo il viaggio in America era tornato in Giappone, dove aveva trascorso qualche mese prima di incontrare il vecchio Musashi, all’epoca Ishii.  

«Non… non vado fiero di quello che ho fatto» concluse, con la testa bassa. Al pensiero delle persone che aveva ferito, sentì lo stomaco stringersi di nuovo. Al pensiero di una ragazza in particolare sentì anche un altro subbuglio, molto diverso da quello dovuto ai rimorsi, ma si sforzò di ignorarlo.

Un lungo mugugno pensieroso provenne dalle labbra sigillate del vecchio Musashi, mentre si accarezzava la barba. «Immagino che ora tu sia alla ricerca della tua redenzione.»

«Redenzione?» domandò Naito, confuso sia dall’affermazione che dalla reazione così pacata di Miyamoto. Non gli aveva fatto mentito dicendogli che non era facile impressionarlo.

«Scusa, è il mio lato di spadaccino a parlare» rispose l’uomo, con un altro sorriso accomodante. «Intendo dire che adesso stai cercando di voltare pagina e di staccarti da quei fatti.»

Naito si strinse nelle spalle. «Sì, suppongo di sì.» 

«In tal caso, ho qualcosa che potrebbe fare al caso tuo.» Miyamoto posò la pipa sul tavolo e si alzò in piedi, aiutandosi con il fodero del bokken. Barcollò verso una credenza e cominciò a rovistare in un cassetto. Borbottò tra sé e sé finché non tirò fuori un libro sottile e coperto di polvere, foderato di nero. Ci soffiò sopra e gli diede alcuni colpetti, per poi portarglielo soddisfatto. «Ecco qua.»

Naito prese il libro e lo osservò incuriosito. Al centro della copertina di pelle erano raffigurati tre kanji color oro.  

 

 

 

 

«Che cos’è?»

«Quello è il Bushido, figliolo. Un codice di condotta morale che è stato adottato da tutti i più grandi spadaccini, samurai e militari del nostro paese. Se sei alla ricerca della tua redenzione, allora ti consiglio di studiare tutte e sette le virtù del Bushido e di imparare a vivere seguendole ogni giorno. Se lo farai, il tuo cammino sarà molto meno tortuoso.»

Naito accarezzò i kanji sul libro, meravigliato. Aveva sentito parlare del Bushido, ricordava alcuni soldati di Orochi che si vantavano di rispettarne i valori, anche se lui era sicuro che gli unici valori che quei tardi avessero mai posseduto davvero, fossero quelli del sakè nel loro sangue.   

«Davvero vuole farmi questo dono?» domandò, sorpreso dalla grandezza che quel gesto avesse.

«Terzo principio del Bushido, Jin, Compassione: un samurai coglie ogni opportunità per essere di aiuto ai propri simili.» 

Miyamoto distese il suo sorriso mentre Naito spostava lo sguardo su di lui, incredulo. «Io… non ho parole per ringraziarla.»

Il vecchio Musashi cominciò a scuotere una mano. «Su, su, non serve che mi ringrazi. Sono io a dover ringraziare te. Non mi interessa ciò che quelle donne hanno detto, Naosuke. Il pericoloso criminale che cercavano non ha nulla a che vedere con la persona che mi ha fatto compagnia in queste settimane.»

Naito strinse con forza il Bushido.

Durante gli anni trascorsi con Orochi, aveva imparato a disprezzare tutti i mortali, senza fare distinzioni. Ma poi, ne aveva conosciuti alcuni che gli avevano fatto capire che in realtà non erano tutti uguali.

Alcuni di loro… erano stati gentili con lui. 

Si alzò in piedi. «Grazie ancora per l’ospitalità.» 

«Uhm… questa frase ha l’aria di essere un saluto» borbottò Miyamoto, corrucciato. O forse lo sembrava per via delle rughe.

Naito si imbarazzò, sentendosi anche un po’ dispiaciuto. «Sì, io… non posso più rimanere qui. Il Clan Tsubaki mi ha trovato, è solo questione di tempo prima che tornino. Mi danno la caccia da tempo, non si arrenderanno tanto facilmente, soprattutto non dopo essere state umiliate in quel modo.»

Un sorrisetto divertito scappò dalle labbra del vecchio Musashi. «Su, su, sono sicuro che se tornassero potremmo risolvere la questione in maniera civile. Potrei offrire loro un po’ di infuso di alghe, per esempio.»

«Non… non credo funzionerebbe» si oppose Naito, ricacciando indietro una smorfia disgustata.

«Dici di no? Beh, vorrà dire che lo offrirò a te quando tornerai!»

Il ragazzo spalancò l’occhio. «Ehm…»

«Primo valore del Bushido, Naosuke: Gi, Onestà. Un samurai è sempre scrupolosamente onesto nei rapporti con gli altri. Se pensi che il mio infuso sia rivoltante, non devi esitare a dirmelo.»

«È la cosa più rivoltante che abbia mai bevuto» ammise allora Naito di getto. «E di cose rivoltanti, mi creda, ne ho mangiate e bevute parecchie.»

Miyamoto rovesciò la testa all’indietro, prorompendo una roca risata. «Esatto, vedo che inizi ad imparare!»

Anche Naito cominciò a ridere. Gli fece male la gola, tanto era passato dall’ultima volta che aveva riso in maniera sincera come quella. Non appena se ne rese conto, però, si interruppe subito. Il suo buonumore venne ben presto rimpiazzato di nuovo da quel dolore al petto che non voleva saperne di dargli tregua.

«Mi mancherai, Naosuke» concluse Miyamoto, che per fortuna non si era accorto del suo cambio di umore.

Naito cercò di scassare la tensione con un altro sorriso. «Tornerò a trovarla, glielo prometto.»

«Quinto valore del Bushido, Makoto, Completa Sincerità: quando un samurai esprime l’intento di compiere un’azione, essa è già da considerarsi compiuta. Se davvero intendi tornare, Naosuke, allora non devi promettere. Parlare e agire sono la stessa cosa.»

Naosuke chinò la testa, grato a quell’uomo per tutto quello che aveva fatto per lui. Gli sarebbe mancato, doveva ammetterlo. Era stata la cosa più simile ad un amico che avesse incontrato dopo così tanto tempo. Proprio per questo doveva andarsene, se il Clan Tsubaki fosse tornato per lui, avrebbe potuto metterlo di nuovo in pericolo.

Anche se forse, dopo l’umiliazione subita, sarebbero potute tornare comunque. A quel pensiero, le sue labbra si contrassero. «Miyamoto, se quelle donne dovessero tornare che cosa farà?»

Lo vide stringersi nelle spalle, senza mostrare particolare sconforto nel volto. «La cosa non mi preoccupa molto, in realtà. L’idea di combattere non mi spaventa. Anzi, suppongo che se mi uccidessero mi farebbero soltanto un favore. Se solo avessi saputo prima che le leggende erano reali… forse avrei potuto cercarlo e darlo a loro…» borbottò tra sé e sé, prima di alzare lo sguardo e sorridere di nuovo accomodante. «Scusa, stavo confabulando. Parti adesso?»

«Temo di sì. Mi sono trattenuto anche troppo» rispose Naosuke con un moto di angoscia, dovuto alle parole del vecchio Musashi. Il fatto che desiderasse di scomparire, di morire perfino, gli fece capire quanto stesse soffrendo davvero.

«In tal caso, Naosuke.» Il vecchio Musashi si chinò. «Buona fortuna.»

Naosuke ricambiò l’inchino. «Dōmo arigatō.»

Poco dopo, gli stivali di Naito calpestarono l’erba della radura di fronte alla casa del vecchio Musashi. Sollevò lo sguardo verso il cielo stellato e strinse con forza la bisaccia con dentro il Bushido e alcune provviste che aveva a tracolla, accanto al fodero della wakizashi. La katana, invece, era di nuovo dietro la sua schiena, e anche le placche di armatura erano tornate. 

Inspirò profondamente l’aria pungente della notte e si voltò ancora una volta verso l’uomo che aveva conosciuto come Minoru Ishii, divenuto poi Miyamoto Musashi, e gli rivolse un ultimo saluto. 

Sull’uscio di casa, Miyamoto lo ricambiò, per poi accorgersi del kunai rimasto piantato nella porta dallo scontro precedente e sradicarlo con espressione confusa. 

O forse… erano le rughe a farlo sembrare così. 

Naito sollevò il cappuccio sopra i capelli, poi cominciò a camminare. 

Il viaggio riprendeva.

   
 
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