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Autore: MaikoxMilo    08/08/2021    9 recensioni
Sulla scia del racconto de "Il Piccolo Principe", la storia dell'evolversi del difficoltoso rapporto tra Camus e Hyoga, maestro e allievo, padre e figlio, tra inciampi vari, incomprensioni, modi di essere così apparentemente distanti eppure così simili. Perché proprio come l'aviatore, anche Camus impara a ritrovare sè stesso solo grazie al bimbetto dai capelli color del grano che, un giorno di febbraio lontano, in Siberia, entra nella sua vita, per lasciarci il segno.
DAL CAPITOLO SECONDO:
“Devi guardare dritto davanti a te, sempre! - rimarcai, rialzandomi in piedi, prendendolo però per mano per aiutarlo a muoversi in mezzo a tutta quella neve – Non dietro, non di fianco, dritto!”
Hyoga sembrò rimuginare su quella frase durante tutto il corso del nostro viaggio per tornare all’isba, il luogo che gli avrebbe fatto da casa da quel momento in avanti… speravo… se il suo fisico avesse retto a tali climi.
“Dritto davanti a sé, però… non si può andare poi così lontano!” mi fece notare al termine della sua riflessione, un poco meno timidamente di prima, guardandomi con quegli occhioni e stringendo la presa sulle mie dita.
Imparai a mie spese che 'dritto davanti a sé' era davvero sin troppo limitato!
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aquarius Camus, Cygnus Hyoga, Kraken Isaac, Nuovo Personaggio
Note: AU, Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Passato... Presente... Futuro!'
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3

 

 

Conobbi a poco a poco la malinconia che quel piccolo, fragile, esserino, si portava dietro. Essa avvenne per intuizione, analogia, tentativi ed errori.

Hyoga era restio a parlarne, ancora di più dopo avermi rivelato, pochi giorni dopo il nostro primo incontro, il motivo per cui desiderava diventare Cavaliere e aver riscontrato, da parte mia, la più concreta disapprovazione.

“Morirai...”

Avevo affermato, secco, senza mezzi termini. Lui si era rizzato, aveva indurito a sua volta l’espressione, guardandomi torvo. E sapevo che aveva capito, era un bambino intelligente, ma che non mi avrebbe mai ascoltato, che per togliergli quell’ossessione avrei dovuto faticare parecchio, premere, scavare a fondo, diventare spietato all’occorrenza, perché le sue erano speranze di morte, non certo di vita e quelle, solo quelle, lo avrebbero distrutto, cancellato, ed io non potevo accettarlo.

Da quel momento si era stabilito un tacito accordo, tra noi, di non rimarcare quel discorso. Nella fattispecie, per Hyoga, quello voleva dire altresì non parlarmi più affatto di sé stesso.

Proprio per quel motivo, era raro che il suo vissuto antecedente trasparisse, se non per mezze frasi o soliloqui tra sé e sé -aveva la buffa abitudine di parlare da solo, forse perché abituato a non avere nessuno su cui contare!- in ogni caso, le mie ulteriori domande, i miei tentativi di farlo aprire, perché desideravo conoscere il mio discepolo, non ottenevano risposta, se non raramente.

Fortunatamente invece il rapporto tra lui e Isaac aveva da subito imbroccato la giusta via. Isaac, del resto, era sempre stato una macchinetta frenetica dispensatrice di parole, asserzioni e discorsi, impossibile non avere argomenti con lui. Già poco dopo il nostro incontro, dopo l’iniziale timidezza, aveva iniziato a parlarmi a raffica, riempiendomi di domande su domande, parlando di sé stesso, della sua vita, a sua volta vessata da un trauma atroce che, tuttavia, al contrario di Hyoga, sembrava sulla buona strada per superare, approcciandosi al futuro, invece che al passato; alla vita, anziché alla morte, come io gli avevo insegnato a fare fin da subito.

I due bambini, pur nella loro diversità, andavano perfettamente d’accordo, si miscelavano in maniera splendida, appianando i loro rispettivi difetti con l’altro, sostenendosi, sempre e comunque, come due fratellini. Io ero davvero felice di quel traguardo, già raggiunto pochi giorni dopo la loro conoscenza.

Isaac, te l’ho già detto, dopo la perdita dei suoi genitori, dopo quella di Lisakki, non aveva avuto altri che me, che tuttavia non ero della sua età. Non poteva quindi esprimersi come voleva, non eravamo sullo stesso piano e lo sapevamo entrambi, sebbene il rapporto tra noi diventasse sempre più profondo di giorno in giorno. Avevo quindi temuto che si potesse sentire solo; da solo con me in Siberia a seguire degli addestramenti che, nonostante la sua straordinaria attitudine, risultavano spossanti per un soldo di cacio di appena 8 anni e pochi giorni.

Ma Hyoga era arrivato da noi, come Aurora Boreale inaspettata, come sole tra le nuvole, come germoglio tra la neve, ed Isaac era entusiasta di quella situazione.

Sapevo bene che ne avrebbe tratto giovamento, che un altro bambino, più riflessivo, lo avrebbe aiutato oltre che sul piano relazionale, anche come sprono a fare di meglio, quindi competitivamente.

Speravo che per Hyoga potesse essere lo stesso, che il fatto di vivere insieme a noi lo aiutasse a superare a sua volta il trauma che lo aveva segnato, ma lui, a differenza di Isaac, non sembrava affatto interessato alla questione, né a fare di meglio, di più. Niente. Aveva accolto una particolare dipendenza verso l’allievo più maturo, il fatto non sembrava pesargli affatto, come se fosse già assodato e non un qualcosa ancora da stabilire: aveva accettato la sua posizione di presunta inferiorità senza protestare, relegandosi ad una posizione di comprimario. Questo invece non mi piaceva per niente.

Non sapevo però come trattare l’argomento con lui, il suo mondo mi era oscuro e misterioso, inaccessibile, metteva quasi in soggezione, proprio me, che mi dicevo maturo abbastanza per capire, nonostante la mia giovane età.

Un giorno di marzo, era trascorso circa un mesetto dall’arrivo di Hyoga, ero affaccendato nelle incombenze domestiche dell’isba, avevo quindi lasciato i miei ragazzi ad allenarsi nella steppa sotto le direttive di Isaac, ritagliandomi così un po’ di tempo tra me e me; tempo che tuttavia persi nel rinchiudermi nei miei pensieri e nel mio vissuto antico -marzo è sempre stato un mese piuttosto malinconico per me, non credo debba spiegarti perché, piccola mia...- reputavo i due bimbi abbastanza attrezzati per passare un paio di ore in solitudine in Siberia, soprattutto avevo fiducia in Isaac, che ben si destreggiava in quell’ambiente. Dovevo assolutamente insegnare a Hyoga, il prima possibile, la dura vita della Siberia, e così del mondo, e contavo così sul mio ometto per farlo.

Così, come ti dicevo, li avevo lasciati senza la mia sorveglianza, raccomandandomi di tornare prima del calare del sole. Io mi sarei occupato della gestione dell’isba, che con due bambini al seguito, e non più uno, si era fatta più disordinata e sporca anche se maggiormente viva. Avevo da poco finito di pulire, stavo giusto ravvivando il fuoco nel camino con il pellets, quando Isaac entrò nella casetta, togliendosi la neve di dosso.

“Certo che si è messo un vento… si sta preparando proprio una bella tempesta, Maestro, esattamente come ci avevate detto!” asserì, a mo’ di saluto, elettrizzato come sempre che le mie previsioni sembravano avverarsi con precisione. Mi ero infatti raccomandato di tornare prima del calare del sole proprio perché sentivo che sarebbe arrivata una brutta bufera, di quella subdole, tipiche della fine dell’inverno.

Alzai quindi lo sguardo verso di lui per contraccambiare il sorriso. Lo guardai. Lui mi guardò. Qualcosa nella mia espressione mutò, il cambio di sguardo gli arrivò istantaneamente dritto al cuore, facendolo sussultare spaventato e, con ogni probabilità, portandolo a domandarsi cosa avesse combinato quella volta.

Un nodo mi si strinse al petto con foga nel constatare che era solo quando non avrebbe dovuto esserlo.

“Isaac, dov’è Hyoga?!” esclamai, lasciando trasparire fin troppo la mia preoccupazione.

“Io… Maestro, lui mi ha detto che sarebbe rincasato prima e… - si guardò febbrilmente intorno, accorgendosi che non c’era da nessuna parte – pensavo fosse già arrivato!”

“Sciocco! - lo sgridai, con un pizzico di brutalità, avvicinandomi impetuosamente a lui, mentre si faceva piccolo piccolo e indietreggiava – E tu lo hai lasciato andare senza opporti?!”

“M-ma mi aveva detto che ricordava la strada di casa d-da solo!”

“Sciocco due volte, allora! Ma ti rendi conto che… CHE!!! - mi sforzai di ricompormi, facendo respiri lunghi e profondi. Mi stavo agitando troppo e lo stavo erroneamente dimostrando, a lui, al mio discepolo che stavo addestrando a mantenere invece la calma in qualunque circostanza. Lasciai che il mio respiro mi gonfiasse, e poi sgonfiasse, il petto in maniera più naturale, recuperando il controllo prima di proseguire – Isaac, devi cercare di capire che lui non si ritrova ancora molto in questo luogo, non è… non riesce ad essere perfettamente stabile, come invece siamo io e te, per questo ti avevo chiesto di darci un occhio in più!”

Isaac mi guardò con gli occhi lucidi e percettivi. Aveva compreso il mio rimprovero, ma più ancora sembrava deluso dal non essere stato all’altezza delle mie aspettative. Tirò su con il naso, ma non pianse, mordendosi il labbro inferiore.

“I-io, l-lo so, Maestro… sigh – gli era comunque sfuggito un singhiozzo, poi celato subito – S-siamo stati insieme per tutto il tempo, ma poi lui ha guardato tristemente il cielo, ci ha visto qualcosa, forse… e mi ha detto che si sarebbe recato qui prima di me. I-io… pensavo sarebbe rincasato subito!”

“Qui non è mai arrivato, Isaac...”

“L-lo so, ma… mi sono fidato! Maestro, io non volevo, ero convinto che...

“Va bene. Ora però sforzarti di ricordare se hai visto qualcosa, nelle sue azioni, nelle sue movenze, o in base alle sue parole, che ci possa aiutare a stabilire dove sia andato. Tra poco farà molto freddo, e lui… lui non è ancora in grado di sopportarlo, dobbiamo sbrigarci!”

Sapevo fosse una domanda difficile, che un bambino, per quanto naturalizzato da più di un anno in Siberia, non potesse avere ancora grandi punti di riferimento, ma lo vidi comunque rimuginarci su, sforzandosi nel rammentare. Improvvisamente si illuminò, aprendo la bocca con fare sorpreso.

“Parlava di voler vedere il tramonto! Io gli ho detto che verso la parete di ghiaccio eterno poteva farlo, lui si è fatto tutto interessato, mi ha chiesto dove fosse, io glielo ho detto, ma poi siamo tornati ad allenarci ancora ed è caduto il discorso”esclamò, sbattendo il pungo destro contro il palmo della mano sinistra.

Dov’è contenuta l’armatura del Cigno…

Realizzai, facendomi ancora più serio. Il piccolo non poteva saperlo che proprio lì vi era racchiusa, eppure, a detta di Isaac, si era recato proprio in quel luogo per… un semplice tramonto?! Ma cosa aveva nel cervello?!?

“Pensi dunque si sia recato laggiù?” chiesi conferma, ancora più serio.

“Sì, senza alcun dubbio!”

Non c’era comunque un istante da perdere. A marzo le giornate, nella Chukotka, sono ancora brevi, brevissime, e spietate. Al primo calare del sole, se non accuratamente attrezzati, si può già morire di ipotermia, e la neve ricopre subito le povere spoglie del defunto.

Anche quello lo avevo scoperto per esperienza diretta...

Mi morsi il labbro inferiore, ricordandomi che presto sarebbe giunta anche una tempesta di neve: dovevo recuperarlo al più presto!

“Isaac, tu...” feci per parlare al bambino, raccomandandomi di stare al sicuro in casa, ma era scomparso, come volatilizzato.

Non ebbi comunque il tempo di chiedermi nient’altro che me lo vidi sbucare dall’ingresso, tutto agghindato con gli scarponi, la giacca al contrario, il cappello alla rinfusa, una torcia tra le mani e una sciarpa che pendeva al suo collo.

“Isaac, ma cosa…?” non trattenni un mormorio divertito, nel vedermelo così, ma lo nascosi dietro alla mia solita espressione composta.

“Vi aiuterò a cercarlo, in due lo ritroveremo prima!” stabilì, pronto, gli occhi luminosi che si imprimevano nei miei.

Mi abbandonai ad un leggero sorriso davanti a quella manifestazione propositiva e sin troppo coraggiosa. Il bagliore nelle iridi di Isaac era sempre stato sacro per me, dalla prima volta che i nostri sguardi si erano soffermati reciprocamente su quelli dell’altro. Il mio ometto era intraprendente sopra ogni dire, persino temerario in certi frangenti, ma non lo avrei coinvolto in problemi miei, non più. Non dopo Lisakki, non dopo aver rischiato di perdere anche lui.

“No, soldo di calcio...” addolcii anche la mia espressione.

“E’ stata colpa mia! Lasciate che vi...”

Ma la mano che gli posai sulla testa, carezzandogli la chioma verde, un poco irsuta, lo bloccò, facendolo arrossire di netto.

“E’ compito mio, questo! Tu occupati di mantenere la casa sufficientemente calda, va bene?”

“Ma io...”

“Conta su di me, intesi? Non… succederà più, non perderai un altro compagno!”

Isaac esitò un attimo, tremò appena, poi, come una mina vagante che trova finalmente il suo obiettivo, si intrufolò tra le mie braccia, in grembo, stringendomi i fianchi in una manifestazione affettuosa che gli avevo consigliato di limitare il più possibile, ma che in quel momento, stante la situazione sempre sul filo del rasoio, aveva urgenza di espletare.

Mi immobilizzai, affatto abituato alle effusioni, il mio cuore però accelerò i suoi battiti.

“Isaac… sai che non dovresti!” bastò il mio tono per rimproverargli l’improvvisa debolezza e farlo allontanare, sebbene la mia espressione fosse ancora addolcita e provassi calore nel petto al suo abbraccio.

“In presenza di Hyoga, sì...” tentò di scusarsi lui, maldestro, grattandosi la testa.

“No, sempre, soldo di cacio, è debolezza e...”

“...E la debolezza mostra la nostra fragilità, permettendo così agli altri di trovare il varco per ferirci, lo so!” ripeté lui, sospirando.

“Sei molto agitato, lo capisco, ma… non sei forse un piccolo guerriero dei ghiacci?” gli sorrisi, chinandomi verso di lui per poi dargli un leggero, leggerissimo, buffetto sulla guancia di sinistra.

Lui alle mie parole si ringalluzzì tutto, fiero, gli occhi sempre più brillanti, la bocca aperta in un sorriso trasognato. Gonfiò trepidante il petto.

“Sì, lo sono!”

“E allora, da guerriero a guerriero, lascia a me questa missione, te lo riporterò vivo e intatto, non permetterò più che si ripeta il fatto Lisakki… riesci a darmi fiducia su questo, Isaac?” gli chiesi, raddrizzandomi, prima di prendere la giacca, e dargli le spalle. Mi girai poi un poco verso di lui, notando la sua espressione sofferente per un breve istante. Ma si riprese subito il mio coraggiosissimo Isaac, si riprendeva sempre, perché era un bambino forte ed io ero orgoglioso di lui.

“Certo, Maestro, io ho fiducia assoluta in voi!”

Gli sorrisi un’ultima volta, poi uscii quasi correndo per la preoccupazione sempre più manifesta in me e che non potevo certo dimostrargli. Sentivo questa strana dissonanza in me, un peso sul cuore, una paura quasi atavica che tentavo in ogni modo di riportare sotto il controllo della ragione.

Mi ero preparato al peggio, la Siberia mi aveva insegnato ben presto che si perde tutto nella vita, fino a restare soli, ma non avrei più permesso, CATEGORICAMENTE, che un altro allievo potesse fare la fine di Svetlan o Lisakki, o degli altri che avevano tentato di arrivare in questa terra inospitale, morendo nel tragitto. Di loro non mi era rimasto nemmeno il nome, solo un corpicino raggrinzito sepolto dal ghiaccio crudele, nebbia bianca che li aveva raggiunti, lambiti, congelandogli il respiro, irrigidendo le loro membra fino a far scomparire la loro parvenza umana.

Così, sempre così… nel mio addestramento per diventare Sciamano, così come in quel momento in cui io stesso ero un maestro. Scacciai quei pensieri, ripetendomi che non avrei più permesso nulla di simile, mai più.

Fortunatamente, in barba alle mie preoccupazioni, trovai subito Hyoga. Lo trovai vivo, sebbene infreddolito, intento inspiegabilmente a tentare di scalare la montagna del ghiaccio eterno.

Mi dava le spalle, incaponendosi testardamente a salire il picco ghiacciato con le sue solo forze, che non gli sarebbero certo bastate, ma lui continuava, determinato. La ragione era un mistero ma, per un istante, ammirai la sua cocciutaggine.

Sospirai, accorgendomi che i muscoli, tutti, si erano notevolmente rilassati nel trovarmelo in buone condizioni. Il mio primo istinto fu comunque quello di suonargliele per bene, ma una tale reazione mal si conciliava con il mio essere insegnante; ero il suo maestro, in effetti, non certo suo padre, la reazione sarebbe stata sproporzionata alla pena, ed era necessario equilibrio. Ma aveva comunque disubbidito a me, che gli avevo dato precise direttive di seguire Isaac, cosa che non aveva puntualmente fatto.

Inarcai un sopracciglio nel vedermelo ripiombare giù, strisciando sul ghiaccio e ferendosi le mani, prima di riprendere dal principio, come se nulla fosse. Decisi di avvicinarmi per interrompere quell’inutile spreco di forze, anche se lodevole.

“Hyoga...”

Il mio tono di voce riuscì nell’intento di incutergli timore, si irrigidì. Mi riconobbe subito, lo capii da come mi guardò, quasi atterrito.

“Maestro Camus!”

“Cosa fai qui, quando hai detto ad Isaac che saresti venuto a casa?!”

“Io...”

“Ti avevo dato precise direttive di seguire le sue parole, non di prendere e andartene per gli affari tuoi!”

“S-sì, ma...”

“Ho facoltà di metterti in punizione, per questo, lo sai?” continuai, quasi lapidario, sempre più incalzante, scrutandolo nel profondo e trovandovi come sempre la malinconia, che avrei dovuto scacciare.

“L-lo so, Maestro...”

Dunque sapeva, e mi aveva disobbedito comunque. Presi un altro profondo respiro

“Lo farò senz’altro, ma ora vieni qui, fammi vedere le mani...”

Hyoga eseguì docile, lasciando momentaneamente i suoi propositi di fare la scimmietta per approcciarsi così a me e mostrarmi le mani, già arrossate e piene di duroni, stante il contatto con il ghiaccio. Ero solito tenere all’isba delle pomate per i più svariati utilizzi e delle fasciature, gli sarebbero servite senz’altro, anche se le sue condizioni non sembravano troppo compromesse; i giusti rimedi, insomma, e sarebbe tornate come nuovo. Più preoccupazione mi dava invece quella brutta tosse che ogni tanto lo scuoteva e dalla quale, dal nostro primo incontro, non era ancora guarito, ma non ci diedi peso in quel frangente. Continuai l’ispezione con accuratezza, pigiando in determinati punti per vedere se avesse ancora tanto male.

Hyoga non mi guardava, tentava anche di non mostrarmi il suo dolore, gli occhi cristallini perpetuamente diretti verso una crepa del suolo. Avrei davvero dovuto metterlo in punizione per quello che aveva combinato, ma in quel momento, così spaurito e remissivo, mi faceva solo tenerezza, pertanto, mettendo momentaneamente da parte il fatto di doverlo anche sgridare, gli tenni stretta, pur con delicatezza, la mano messa meglio con l’intento di riaccompagnarlo all’isba, ma lui scrollando nuovamente la testa e puntellando i piedi, mi fece capire che aveva bisogno di qualcosa.

“Cosa c’è adesso? Sei infreddolito e le tue mani hanno bisogno di cure, prima ti porto al caldo e meglio sarà per...”

“D-dove posso vedere un tramonto?” mi chiese, speranzoso, tornando a guardami.

La domanda era totalmente decontestualizzata. Isaac me lo aveva riferito che, quel giorno, sembrava essersi fissato inspiegabilmente su quell’argomento. Lo osservai, inarcando un sopracciglio.

“Verso ovest!” gli dissi pratico, con ovvietà.

“Q-questo lo so, m-ma da qui sotto… non si vede!” riprese lui, quasi arrabbiato da quella consapevolezza.

“No, certo, la parete di ghiaccio copre esattamente il punto dove il sole dovrebbe tramontare, dovresti quindi arrampicarti come stavi provando a fare, incurante però delle tue dimensioni ridotte. Inoltre in questa stagione è difficile vederlo, perché, come ti sarai accorto tu stesso, è perennemente nuvolo e il cielo è bianco lattiginoso!” gli provai a spiegare, sottintendendo di rassegnarsi e che per il tramonto avrebbe dovuto aspettare ancora un po’.

“Ma si è fatto limpido! Se riuscissi a salire, forse...”

Si è fatto limpido perché la tempesta da Nord-Est sta risucchiando tutte le nuvole in là, tra poco non sarà più così limpido e comincerà a nevicare, e tu saresti stato impreparato. Il gelo ti avrebbe colto, crudele, silenzioso, e saresti morto, Hyoga, ma a te… di morire non importa, è questa la cosa in assoluto più preoccupante.

Pensai, fissando la parete di ghiaccio: dunque voleva salire davvero per un semplice tramonto…

“Sei troppo piccolo per arrampicarti fin lassù, quando sarai Cavaliere forse...”

“Io voglio vedere un tramonto!” ribadì, in tono più alto, cominciando a fare i capricci e strattonarmi per il braccio, non tollerando più la mia stretta sul suo polso.

“Ora non puoi! - ribadii anche io, alzando a mia volta il tono di voce – Aspetta qualche mese e...”

“IO LO VOGLIO VEDERE ADESSO!!!”

A quel punto davvero mi venne da dargli un ceffone, staccai la mano da lui, ma fermai comunque il gesto a metà, rendendomi conto che non potevo, non ne avevo alcun diritto. Mi calmai, passandomi una mano tra i capelli, ma le mie intenzioni non sfuggirono al piccolo, il quale si chiuse ancora di più, dandomi la schiena per poi allontanarsi di qualche passo e sedersi sul permafrost, le ginocchia vicine al petto.

“Non puoi fare quello che vuoi qui, non sei a casa tua!” gli dissi, in tono comunque un poco più soffice.

Subito mi morsi il labbro nell’avere detto una simile frase che cozzava con quanto gli avevo riferito il primo giorno. Ma era troppo tardi.

“Ne sono consapevole! Ma mi credo sempre a casa mia, da quando vi ho conosciuti!” si lasciò sfuggire, asciugandosi in fretta la faccia nel nascondermi le lacrime che, con ogni probabilità, gli avevano lambito il volto.

Passai sopra a quell’ennesima manifestazione di debolezza, accorgendomi che comunque ci stava provando a non piangere. Sempre meglio di niente!

Rimasi in silenzio per una serie di secondi, il tempo sufficiente per riappropriarmi del pieno controllo della mia voce.

“Perché vuoi vedere un tramonto proprio oggi?” gli chiesi, ma lui non mi rispose, continuando a fissare malinconicamente il leggero rossore che permeava il cielo, degno della tempesta che si sarebbe abbattuta. Quella sera ci sarebbe stato per davvero un bellissimo crepuscolo, l’aria era talmente cristallina da sembrare trasparente.

“Hyoga..?” tentai ancora, accennando un altro passo.

Ancora non mi rispose, si rannicchiò ancora di più sulle sue ginocchia, come un cucciolo abbandonato e uggiolante. Lui esigeva il suo crepuscolo, e non poteva averlo, ciò lo frustrava ancora di più.

Non so bene dire cosa scattò in me a quella manifestazione, forse rividi il me stesso bambino che si isolava alla ricerca di un conforto, rifuggendo però tutti e rimanendo racchiuso nella propria intimità; so solo che, istintivamente, lo presi in braccio e raggiunsi in meno di un secondo la cima del Picco Ghiacciato.

Hyoga annaspò appena quando lo riposi dolcemente a terra, osservando adorante prima me e poi il sole morente. Io finsi indifferenza, preferendo concentrarmi su quello spettacolo senza pari piuttosto che dare tante spiegazioni: era davvero uno splendido, pittoresco, tramonto, sarebbe stato davvero uno spettacolo perderlo, anche perché, a giudicare dalla tempesta in avvicinamento, ci avrebbero aspettato giorni assai perturbati.

Mi sedetti sullo sperone di ghiaccio, le gambe accavallate, poco dopo il piccolo Hyoga prese posto accanto a me, osservando sbalordito il tramonto.

“E’ bello, vero?”

“Sì, tanto!” annuì lui, gli occhi celesti che andavano tingendosi di bagliori cremisi.

Tacemmo poi entrambi rimirare il crepuscolo, che diventava sempre più rosso acceso, fino a declinare poi nell’arancione, nel giallo e infine nel rosa, prima di essere ingurgitato da un ammasso di nuvole nere che lasciavano ben poco spazio all’immaginazione su ciò che sarebbe accaduto da lì a breve. Un vento gelido si era nel frattempo alzato, minaccioso, Hyoga rabbrividì conseguentemente per il freddo: era vicino al limite di sopportazione, ma non voleva che me ne accorgessi.

“Perché desideravi vedere così tanto un tramonto?” gli domandai ancora, tentando di acciuffare i suoi occhi sempre sfuggenti. Per quanto ci si sforzasse di trattenerlo, Hyoga svicolava via, sempre.

Mi domandai se Milo, il mio migliore amico, avesse provato la stessa sensazione mia di quel momento, quando, da piccoli, tentava di approcciarsi a me.

“Quando si è molto tristi si amano i tramonti...” biascicò solo il piccolo, appoggiando il mento sulle ginocchia e sospirando impercettibilmente.

“E perché ti senti così tanto triste?” gli chiesi ancora, ma di nuovo non mi rispose, gli occhioni celesti sempre puntati verso l’orizzonte, la luce del tramonto, che si rifletteva in lui, andava scomparendo. Si era chiuso, impossibile raggiungerlo a voce, non in quel frangente. Non avrei ottenuto risposta. Di nuovo.

Istintivamente gli carezzai brevemente i capelli del color del grano, lui si irrigidì ancora, non aspettandoselo, guardandomi sbalordito.

Mi alzai quindi in piedi, scrollandomi i pantaloni bagnati di neve, prima di porgergli nuovamente la mano e convincerlo ad alzarsi a sua volta, cosa che fece senza discutere, pur rimanendo chiuso e corrucciato su sé stesso. Ancora una volta le sue dita si strinsero sulle mie, un poco più intensamente della volta precedente. Mi meravigliai di quanta forza potesse esserci racchiusa dentro quel corpicino apparentemente fragile che nascondeva un animo tempestoso e malinconico.

Tornammo velocemente a casa dove ci attendeva Isaac, il quale, nel desiderio di essere utile, aveva già preparato tavola, ravvivato il fuoco della stufa e preparato coperte pesanti.

Hyoga sorrise, un poco più rasserenato, lo feci di riflesso anche io. La punizione non l’avevo dimenticata, no… ma ci sarebbe stato tempo il giorno dopo per attuarla. Per quella sera, lasciai che i due bambini giocassero un poco tra di loro, finalmente risollevati, e risollevato nell’animo anche io nel preparare la cena.

Decisi che non avrei più spinto il mio piccolo dai capelli biondi a parlarmi del suo passato, non se non avesse voluto. Del resto, il passato doveva essere lasciato tale.

Solo diversi anni dopo scoprii che anche per Hyoga marzo era un mese molto triste, e che quel giorno particolare in cui lui desiderava follemente rimirare un tramonto, era il primo anniversario della perdita di sua madre…

 

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

Ed eccoci qua anche per questo terzo capitoletto (come vedete vanno ad allungarsi, non c’è da meravigliarsi con me, ma state tranquilli, non si arriverà mai ai papiri delle altre storie).

Dunque anche qui non ho molto da aggiungere (il paragrafo degli spiegoni vi attenderà quando riuscirò a pubblicare il nuovo dei 5 pilastri, sappiatelo XD) ma qualcosa vi dico comunque. :)

Si intravede, ancora una volta, la diversità di approccio che Camus ha con Isaac e Hyoga, nonché il profondissimo legame che ha già instaurato con il primo, ma… non vi sembra anche a voi che, come manifestazioni fisiche, diciamo, il nostro Cam sia più propenso verso Hyoga che non lo stesso Isaac?! Questo particolare si vedrà ancora meglio nei prossimi. Camus vede molto di sé stesso nel bambino dai capelli color del grano, gli fa tenerezza, anche se ha tanti, tantissimi, problemi a manifestarlo apertamente, ad esternare tutto il suo mondo. E’ interessante notare come invece nelle altre mie storie della mia serie, ciò gli riesca meglio con le allieve femmine, anche se è un tasto sempre un po’ problematico per lui. Ciò dimostra la sua evoluzione come personaggio.

Il Picco Ghiacciato in cui si reca Hyoga, in soldoni, è quello visto nel terzo episodio della serie classica e nel manga, ovvero dove è tenuta l’armatura del Cigno. Ovviamente lui non lo sa, neanche Isaac, eppure mi sembrava bello mettere questo particolare. :)

Questo capitolo è ispirato, per chi ha presente il libro di riferimento, ai 43 tramonti del Piccolo Principe, alcune frasi, “quando si è molto tristi si amano i tramonti” è presa da lì.

Dovrei aver finito. Spero abbiate apprezzato anche questo capitoletto.

Non so ancora se il prossimo aggiornamento sarà inerente ai “5 Pilastri” o di nuovo qui, di sicuro il format così breve e immediato incentiva molto di più la velocità in questa storia che non nelle altre, ma tempo al tempo aggiornerò tutto.

Grazie ancora una volta e buona domenica a tutti! :)

 

 

  
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